Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Fides et ratio” - Promosso dalla Pontificia Università Lateranense - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì mattina da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel decimo anniversario dell’Enciclica "Fides et ratio".
2) Contro la fame, misure coraggiose a favore della dignità umana - Il Papa nel messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2008 - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Egoismi nazionali, speculazioni sfrenate, corruzione, corse al consumismo e agli armamenti, in una parola la falsa percezione dei valori che regolano i rapporti internazionali. Sono queste, secondo Benedetto XV, le radici della fame nel mondo.
3) Giovanni Paolo II “ci ha guidato sulla strada della sofferenza” - Messa del Cardinale Dziwisz per i 30 anni dall'elezione di Papa Wojtyla - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II "ci ha guidato sulla strada della sofferenza”. E' quanto ha detto questo giovedì il Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia e per 39 anni Segretario particolare di Giovanni Paolo II, nel presiedere nella Basilica di San Pietro una Messa commemorativa per il Papa polacco.
4) Il valore della dottrina sociale di fronte alle sfide dei tempi - ROMA, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito, per la rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune, il contributo di Luca Antonimi, Vice Presidente di Fondazione per la sussidiarietà, avvocato e professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova. - Antonimi è un componente dell’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e fa parte del Comitato scientifico del World Political Forum. E’ inoltre presidente dell’International Center for Subsidiarity and Development.
5) L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin
6) L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2008
7) Che cosa serve all’università per un rinnovamento ispirato a un vero riformismo - Redazione - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) GIOVANNI PAOLO II/ Le ragioni e la forza del suo «Non abbiate paura» - Pigi Colognesi - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ Di fronte alla crisi del sistema formativo occorre un'autonomia basata su alleanze educative - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) 194: L’ORDINANZA SULLE « LINEE » LOMBARDE - Se la scienza salva la vita ma il giudice s’intromette - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 17 ottobre 2008
Il Papa ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Fides et ratio” - Promosso dalla Pontificia Università Lateranense - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì mattina da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel decimo anniversario dell’Enciclica "Fides et ratio".
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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Gentili Signore, Illustri Signori!
Sono lieto di incontrarvi in occasione del Congresso opportunamente promosso nel decimo anniversario dell’Enciclica Fides et ratio. Ringrazio innanzitutto Mons. Rino Fisichella per le cordiali parole che mi ha rivolto introducendo l’odierno incontro. Mi rallegro che le giornate di studio del vostro Congresso vedano la fattiva collaborazione tra l'Università Lateranense, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Conferenza Mondiale delle Istituzioni Universitarie Cattoliche di Filosofia. Una simile collaborazione è sempre auspicabile, soprattutto quando si è chiamati a dare ragione della propria fede dinanzi alle sempre più complesse sfide che coinvolgono i credenti nel mondo contemporaneo.
A dieci anni di distanza, uno sguardo attento all’Enciclica Fides et ratio permette di coglierne con ammirazione la perdurante attualità: si rivela in essa la lungimirante profondità dell’indimenticabile mio Predecessore. L’Enciclica, in effetti, si caratterizza per la sua grande apertura nei confronti della ragione, soprattutto in un periodo in cui ne viene teorizzata la debolezza. Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un'esigenza emergente nell'attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (cfr Fides et ratio, 13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nelle capacità della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: "È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione" (n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere. Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno recato allo sviluppo dell’autoconsapevolezza dell’uomo e al progresso delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quanto è sostenuta dall'amore per la verità. Ha scritto Agostino: "Ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, ma nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente" (De diversis quaestionibus 35,2).
Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l'evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: "Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera" (XII, 2.4).
Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio all'uomo.
La lezione di sant’Agostino è sempre carica di significato anche nell'attuale contesto: "A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente" (De vera religione, 39,72). Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. L'intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. "Il ragionamento non crea queste verità - continua nella sua riflessione sant'Agostino - ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano" (Ibid., 39,73). La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha già raggiunto e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendole così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero stesso. La verità rivelata, nella "pienezza dei tempi" (Gal 4,4), ha assunto il volto di una persona, Gesù di Nazareth, che porta la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo. La verità di Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la ragione può trovare. E' intorno al mistero, pertanto, che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune.
In questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Come non vedere la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso. La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell'uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità.
Mentre auguro a ciascuno di avvertire sempre in sé questa passione per la verità, e di fare quanto è in suo potere per soddisfarne le richieste, desidero assicurarvi che seguo con apprezzamento e simpatia il vostro impegno, accompagnando la vostra ricerca anche con la mia preghiera. A conferma di questi sentimenti imparto volentieri a voi qui presenti ed ai vostri cari l’Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Contro la fame, misure coraggiose a favore della dignità umana - Il Papa nel messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2008 - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Egoismi nazionali, speculazioni sfrenate, corruzione, corse al consumismo e agli armamenti, in una parola la falsa percezione dei valori che regolano i rapporti internazionali. Sono queste, secondo Benedetto XV, le radici della fame nel mondo.
E' quanto scrive il Papa in un messaggio al Direttore generale della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), Jacques Diouf, per l’odierna Giornata Mondiale dell’Alimentazione, che quest’anno ha come “La sicurezza alimentare mondiale: le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia”.
“I mezzi e le risorse di cui il mondo dispone oggi – constata Benedetto XVI – possono fornire cibo a sufficienza per soddisfare le necessità crescenti di ognuno”.
“Allora – si chiede il Papa – perché non è possibile evitare che tante persone soffrano la fame sino alle conseguenze più estreme?”.
Molte le ragioni addotte dal Pontefice tra cui “la corsa inarrestabile al consumo” e “la mancanza di volontà” a “frenare gli egoismi degli Stati e dei gruppi dei Paesi”.
Alle parole del Papa, lette questo giovedì, 16 ottobre, in Aula plenaria dall’Osservatore Permanente della Santa Sede presso la FAO, monsignor Renato Volante, ha fatto eco Jacques Diouf, il quale ha lanciato un forte appello a tutti i Paesi a rispettare gli impegni presi nonostante la crisi finanziaria globale.
Nel suo intervento, il Direttore generale della FAO ha ricordato il Vertice tenutosi a Roma agli inizi di giugno e a cui parteciparono oltre 40 tra Capi di Stato e di governo e 181 rappresentanze nazionali per discutere della crisi causata dall’aumento dei prezzi dei beni alimentari.
In quell’occasione furono presi impegni economici per un ammontare complessivo di 22 miliardi di dollari, di cui solamente un 10 per cento è stato effettivamente versato, e che è servito alla FAO per avviare progetti in 76 Paesi.
"La crisi alimentare - ha proseguito Diouf - esiste ancora e se nel 2007 il numero degli affamati è salito in un solo anno di 75 milioni di persone, arrivando a quota 923 milioni, nel 2008 questo numero rischia di salire ancora".
Da parte sua, il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, in un messaggio indirizzato ai leader mondiali in occasione della Giornata Mondiale per l’Alimentazione, ha ricordato che sono a rischio gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, sottoscritti 8 anni fa e che si prefiggono di dimezzare il numero di persone che nel mondo soffrono la fame entro il 2015.
Nel messaggio, il Pontefice chiede inoltre di mettere fine alla “speculazione sfrenata che incide sui meccanismi dei prezzi e dei consumi”.
Ancora, si legge nel messaggio, giocano un ruolo nella crisi alimentare “l’assenza di un’amministrazione corretta delle risorse alimentari causata dalla corruzione nella vita pubblica e gli investimenti crescenti nelle armi e nelle tecnologie militari sofisticate a discapito delle necessità primarie delle persone”.
Alla base di tutto, osserva, c'è una falsa percezione dei valori diffusa nella cultura contemporanea che “privilegia solamente la corsa ai beni materiali, dimenticando la vera natura della persona umana e le sue aspirazioni più profonde”, e che nutre scarsa attenzione verso i bisogni dei poveri.
Una campagna efficace contro la fame, esorta dunque il Papa, “richiede più di un semplice studio scientifico per far fronte ai cambiamenti climatici e per destinare l’agricoltura in primo luogo all’uso alimentare”.
Bisogna perciò riscoprire il valore della persona umana, “nella dimensione individuale e comunitaria”.
Benedetto XVI chiede poi di impegnarsi a “promuovere una giustizia sociale effettiva nelle relazioni tra i popoli”: improntata alla condivisione dei beni, a un loro utilizzo durevole e alla giusta ripartizione dei benefici che ne derivano.
Ricordando poi il momento difficile per la produzione alimentare mondiale nel mondo, il Papa ha appello alla FAO affinché “possa rispondere in termini di solidarietà con azioni libere da ogni condizionamento e davvero al servizio del bene comune”.
Rivolgendo infine un pensiero alle comunità indigene, il Papa chiede di garantire loro “l’accesso alla terra” per favorire così i lavoratori agricoli.
Giovanni Paolo II “ci ha guidato sulla strada della sofferenza” - Messa del Cardinale Dziwisz per i 30 anni dall'elezione di Papa Wojtyla - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II "ci ha guidato sulla strada della sofferenza”. E' quanto ha detto questo giovedì il Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia e per 39 anni Segretario particolare di Giovanni Paolo II, nel presiedere nella Basilica di San Pietro una Messa commemorativa per il Papa polacco.
Giovanni Paolo II, ha detto il porporato nel 30° anniversario della elezione di Karol Wojtyla al Soglio Pontificio, “ha mostrato negli ultimi anni il valore della sofferenza nella vita dell'uomo, annunciando il Vangelo anche nel letto del dolore”.
“Sulla sua Via Crucis ha avuto da Dio la forza di mostrarci che la sofferenza ha un grande valore salvifico”, ha continuato.
Parlando alle centinaia di fedeli presenti, soprattutto polacchi, il porporato ha ricordato Giovanni Paolo II come il Papa che "ha aperto la strada della Divina Misericordia" perché "il mondo più diventa divino, più diventa umano".
Wojtyla, ha aggiunto, è stato “il Papa che ha dato fiducia ai giovani, ottenendo da loro altrettanta fiducia”; è stato “un grande educatore dei giovani” e “nei giovani ha visto non soltanto i costruttori di un futuro migliore, ma prima di tutto una forza capace di difendere tanti valori fondamentali”.
“Il Papa – ha proseguito Dziwisz – si è impegnato nella edificazione di una civilità della vita e dell'amore, in risposta ai progetti di un mondo che si basa sulla civiltà della paura, della morte e dell’odio”.
L'Arcivescovo di Cracovia ha poi ricordato il suo impegno sempre “dalla parte dei sofferenti e dei deboli”.
“L'incontro del Papa morente ha liberato molte persone dalla paura della morte – ha concluso – . Non dobbiamo nutrire ammirazione in lui, ma dobbiamo trarre esempio dal suo modo di amare Cristo”.
Il valore della dottrina sociale di fronte alle sfide dei tempi - ROMA, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito, per la rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune, il contributo di Luca Antonimi, Vice Presidente di Fondazione per la sussidiarietà, avvocato e professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova. - Antonimi è un componente dell’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e fa parte del Comitato scientifico del World Political Forum. E’ inoltre presidente dell’International Center for Subsidiarity and Development.
Il commento in questione è stato pubblicato anche sul quotidiano online www.ilsussidiario.net.
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I fatti di questi giorni, con la crisi derivante dal fenomeno dei muti subprime, sono una drammatica ma decisiva dimostrazione di come la dottrina sociale della Chiesa cattolica debba essere rivalutata in tutta la sua potenzialità. Il recente volume di Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, 2008, dà conto in modo decisamente efficace dei limiti dell’ideologia mercatista. Il mercatismo viene definito l'ultimo discendente, astuto e calcolatore, commerciale dell'illuminismo: “il combinato disposto tra una nuova ingegneria sociale e una illusione demenziale”.
Nel volume si denuncia come il mercato abbia ottenuto il quasi totale monopolio culturale e materiale dell’esistente e si precisa come in balia dell'ideologia mercatista l'Europa non possa che declinare, in una forma di declino economico e demografico. Per cambiare – si afferma - serve una leva che deve avere un punto di appoggio; questo punto può essere uno solo: quello delle radici giudaico cristiane dell'Europa. E’ anche a partire da questa affermazione che può essere riscoperto il valore della dottrina sociale della Chiesa cattolica, lasciando da parte quei ridicoli complessi di inferiorità che tante volte hanno portato i cattolici a non comprendere il valore dell’insegnamento del Magistero, irriducibile alle visioni contrapposte, ma in fondo antropologicamente accumunate da una stessa riduzione della persona, dello statalismo o del liberismo selvaggio.
Si tratta della contrapposizione moderna (hobbesiana) fra pubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus), dove “pubblico” veniva poi spesso assiomaticamente associato a “morale” e “privato” a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali: poiché della socialità della persona umana non ci si può fidare, si limita il pluralismo sociale e la rilevanza delle formazioni sociali intermedie. E’ un dato che si riflette in modo decisamente negativo sulla sostanza della democrazia. Si tratta peraltro di una impostazione che continua a condizionare il dibattito: mentre si è disposti a teorizzare ad oltranza la libertà di scelta nell’ambito privatistico delle preferenze individuali (libertà sessuale, libertà di morire, libertà di abortire, ecc.), riguardo all’ambito pubblicistico delle preferenze sociali (libertà di scelta tra servizio pubblico e privato) permangono forti resistenze.
Tuttavia è proprio a questo livello che si apre oggi la duplice sfida per rianimare la democrazia: la sfida del passaggio dalla “libertà mediante lo Stato” (paradigma dei primi diritti sociali) a quella della “libertà mediante la società” (paradigma dei nuovi diritti sociali); ed insieme quella del passaggio dal mercatismo all’economia sociale di mercato. Siamo in una fase di transizione, che origina dalla crisi dei presupposti. Si affaccia quindi all’orizzonte una soluzione alternativa all’antropologia negativa di tipo hobbesiano, dove l’uomo è un lupo e la gabbia statale consente la convivenza civile o dove il mercato inteso in modo puramente darwiniano consente il progresso della società.
La crisi della sovranità statale e la crisi del mercato obbligano al realismo e impongono il recupero di un’altra visione dell’uomo, dei suoi desideri originali, dei suoi diritti. Partire dalla considerazione che l’uomo “sia un essere ferito e debole, ma intrinsecamente capace di comportamenti altruistici, solidali o almeno non auto-interessati, ovvero di scambi umani” (Donati), permette di identificare e recuperare, dopo un’epoca di affossamento ideologico, l’eredità di un’antica tradizione che ha caratterizzato lo sviluppo della società europea e di riscoprirla nella prospettiva della post modernità.
Il contributo della dottrina sociale, da questo punto di vista, diventa decisivo per riconsiderare, alla luce dell’esperienza, il monopolio che statalismo e mercatismo hanno avuto nel dibattito culturale degli ultimi decenni.
L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2008
"Gli attacchi contro i cristiani in India rischiano di trasformarsi in una persecuzione generalizzata se i Governi non interverranno in tempo a fermare l'azione dei gruppi estremisti indù. Dall'Orissa, dove la situazione è più grave, l'ondata di intolleranza può dilagare in altri Stati "più tranquilli" della nazione, oramai entrata, come altre nel mondo, nel vortice oscuro del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione delle società".
L'allarme è stato lanciato in un'intervista al nostro giornale dal vescovo di Tiruchirapalli, Antony Devotta, che in questi giorni partecipa ai lavori del Sinodo.
Il presule osserva che l'India è sempre stata una terra tollerante, dove la reciproca comprensione tra etnie diverse ha caratterizzato la società. Tuttavia, ha aggiunto, "come è accaduto in altri Paesi la perdita dei valori e la secolarizzazione hanno innescato una reazione di rivolta da parte di alcuni gruppi religiosi che vogliono tornare alle antiche tradizioni, usando sistemi brutali quali le conversioni forzate".
Monsignor Devotta parlando dei fondamentalisti fa riferimento anche a piccoli gruppi di cristiani, in particolare "i pentecostali, che suscitano irritazione tra gli indù per il loro modo di proclamare la Parola divina". Il vescovo specifica: "Intimidiscono gli abitanti dei villaggi dicendo loro che se non si convertono al cristianesimo andranno all'inferno". A causa di tale agire, precisa il vescovo, si sta arrecando un danno all'intera comunità cristiana, in quanto molti indù non fanno distinzioni, per esempio tra i cattolici e i pentecostali, e così la contrastano con attacchi continui.
Anche i fondamentalisti indù, racconta ancora monsignor Devotta, "operano in piccoli gruppi, ma il loro potere sta notevolmente crescendo soprattutto in quegli Stati dell'India dove a governare sono partiti estremisti, come per esempio il Bharatiya Janata party (Bjp), che supportano le organizzazioni che promuovono l'ideologia della "Hindutva" per raccoglierne voti".
Nel Tamil Nadu, dove si trova la diocesi di Tiruchirapalli, la situazione, per ora non appare grave come in Orissa, ma, senza interventi di prevenzione da parte dei Governi, ha ribadito il vescovo, "la situazione appare destinata a deteriorarsi in fretta fino a produrre una persecuzione generalizzata". Monsignor Devotta osserva peraltro che "il fondamentalismo religioso sta dilagando oramai in ogni parte del mondo ed è un segno dei tempi"
I cristiani rappresentano soltanto il due per cento dell'intera popolazione indiana che conta, tra gli altri, circa un miliardo di indù; mentre il diciasette per cento è costituito da musulmani. Il presule sottolinea che i cristiani sono, in generale, conosciuti come amanti della pace e, per tale motivo, rispettati dalla maggioranza della popolazione.
Anche i Governi dei vari Stati tutelano la comunità cristiana, così come quelle delle altre minoranze ma - evidenzia - "per fini utilitaristici a livello politico, spesso "chiudono un occhio" sulle violenze degli estremisti indù perché non vogliono la perdita dei voti in occasione delle elezioni".
E aggiunge: "Infatti, là dove, come in Orissa, al potere vi è un partito fondamentalista, la violenza è oramai ai massimi livelli. Coloro che praticano l'ideologia della "Hindutva" vogliono la trasformazione dell'India in uno Stato teocratico e qualsiasi mezzo per raggiungere tale obiettivo è utilizzabile".
Alcuni gruppi indù - conferma monsignor Devotta - "non sono neppure controllati dalle stesse organizzazioni politiche di appartenenza e agiscono indisturbati, in particolare, nelle aree rurali dove vivono dalit e tribali, che vengono minacciati per evitarne la conversione alla fede cristiana".
Il tradizionale sistema delle caste che vige nel Paese pone i tribali ai livelli più bassi; mentre i dalit ne sono addirittura esclusi, in quanto non considerati degni di appartenervi. I fondamentalisti temono che, tramite l'educazione scolastica e la conversione al cristianesimo, questi possano emanciparsi fino al punto da non poter essere più soggiogati a scopi politici e trattati come schiavi per le loro condizioni economiche.
Il vescovo conclude che "soltanto i Governi possono a questo punto agire per fermare la spirale di violenza contro la comunità cristiana e per conservare quei valori di democrazia e tolleranza che per secoli hanno reso l'India un modello di dialogo tra culture e religioni diverse".
(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2008)
Che cosa serve all’università per un rinnovamento ispirato a un vero riformismo - Redazione - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ci risiamo. Con l’autunno si riaccendono le proteste in università, secondo un copione ampiamente conosciuto. L’occasione è costituita dalle misure contenute nel decreto n. 112 (ormai convertito nella Legge n. 133) che impone, tra l’altro, pesanti tagli al fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università. Da parte di una piccola minoranza, in alcuni atenei, sono in atto tentativi, che finiscono per essere inevitabilmente violenti, di sospendere l’attività didattica. La situazione potrebbe anche degenerare, soprattutto se sostenuta dal tam tam delle agenzie di stampa.
Resta il fatto, invece, che tra quanti quotidianamente lavorano in università sono palpabili un profondo disagio e una sincera preoccupazione sul futuro. Cerchiamo allora di capire i motivi di tale preoccupazione e di quali prospettive abbiamo bisogno.
Tra gli articoli del decreto n. 112 che interessano il settore universitario due, in particolare, meritano un’attenta valutazione: l’art. 16 e l’art. 66.
Quest’ultimo impone un taglio del FFO dal 2009 al 2013 per circa un miliardo e mezzo di euro. Direttamente collegata a tale misura è la limitazione dell’assunzione di personale a tempo indeterminato da parte delle Università: per il triennio 2009-2011 nuove assunzioni saranno possibili entro un limite di spesa pari al 20% di quella relativa al personale cessato nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità di personale da assumere non può eccedere, per ciascun anno, il 20% delle unità cessate nell’anno precedente. Per il 2012 il limite è del 50%. I risparmi derivanti dal turn over restano nelle casse dello Stato.
L’unico scopo esplicito ricavabile dal provvedimento è quello di fare cassa giacché i tagli sono fatti a pioggia invece che – come auspicato anche dal Prof. Checchi – in modo selettivo.
Secondo alcune stime queste misure comporteranno (al netto della riduzione dei costi derivata dal blocco del turn over e dal rallentamento della dinamica retributiva di docenti e non docenti) un taglio del FFO complessivo a partire dal 2010 intorno al 10%. Se questo dato fosse anche solo verosimile il collasso del sistema, da più parti denunciato, non sarebbe improbabile.
Per evitare il tracollo – almeno così sembra – l’art. 16 dà facoltà alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. La legge, cioè, autorizza (ma non obbliga) gli atenei a dismettere gli abiti dell’ente pubblico e a vestire quelli di un soggetto privato. Sembra essere una via d’uscita, finalmente di stampo riformista, in direzione di una liberalizzazione del sistema. È così? No. La disposizione è talmente parziale e generica su molti punti, da rendere pressoché impossibile, al momento, la sua applicazione.
Già la legittimità della norma che attribuisce ai senati accademici il potere di deliberare a maggioranza assoluta la trasformazione in fondazione appare dubbia. Certa è, invece, la sua ambiguità circa il futuro regime dei finanziamenti statali.
Il comma 9, infatti, a riguardo stabilisce che «resta fermo il sistema di finanziamento pubblico», ma subito dopo si precisa che «a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi, l'entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione».
In che misura (e sulla base di quali parametri) verrà stabilita l’entità dei finanziamenti pubblici alle università ormai trasformate in fondazioni? Da un’interpretazione letterale del testo si evince che le università-fondazioni che avranno attirato meno finanziamenti privati avranno diritto ad un maggior finanziamento statale. Come dire: i migliori saranno ancora una volta penalizzati.
E in ogni caso siamo certi di trovarci davanti ad una vera “privatizzazione”? Non saremo di fronte ad un ente formalmente privato, ma nella sostanza regolato dal diritto amministrativo?
Come recita infatti, il comma 14: «Alle fondazioni universitarie continuano ad applicarsi tutte le disposizioni vigenti per le Università statali in quanto compatibili con il presente articolo e con la natura privatistica delle fondazioni medesime».
Inoltre bisognerebbe stabilire i rapporti tra l’attuale stato della governance e la veste privatistica.
La possibilità di trasformazione degli atenei in fondazioni, insomma, si rivela, alla luce del dettato normativo, come una goccia liberista in un sistema intriso di centralismo. Si tratta di una misura che, varata in tutta fretta, rischia in concreto di non essere applicabile. Molto meglio sarebbe stato, invece, riprendere il ben più ponderato disegno di legge proposto nella XIV Legislatura dall’on. Nicola Rossi; disegno di legge in cui i problemi sopra accennati erano tenuti in considerazione.
In definitiva, la politica dei tagli indifferenziati e la mancanza, sino ad ora, di un serio e meditato progetto di sviluppo del sistema tradiscono una concezione ancora statalista. A breve il Ministro Gelmini illustrerà al CUN le sue linee guida per l’Università. C’è da augurarsi che sia l’inizio di un processo di rinnovamento del sistema ispirato ad un vero riformismo. Questo è ciò di cui l’università ha bisogno.
Alfredo Marra, Ricercatore di Diritto amministrativo (Università degli Studi, Milano Bicocca)
GIOVANNI PAOLO II/ Le ragioni e la forza del suo «Non abbiate paura» - Pigi Colognesi - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Forse è stata la curiosità per il nuovo Papa venuto dalla lontana Polonia. Forse la simpatia destata dalla sua giovane età, dall’italiano ancora approssimativo, da quel suo scardinare usi consolidati (è stato il primo pontefice a tenere un breve discorso dalla loggia di San Pietro subito dopo l’elezione). Forse è stato il desiderio non ben consapevole di qualcosa di nuovo. Sta di fatto che c’era molta attesa, trent’anni fa, per il discorso con cui Giovanni Paolo II avrebbe inaugurato il suo pontificato. Ed effettivamente quel discorso è rimasto a lungo nella memoria di molti. Soprattutto per quella frase quasi gridata: «Non abbiate paura».
Come mai il vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica universale parlava di paura? Paura di che? Un primo livello di lettura ci riporta alla situazione geopolitica di allora. I due blocchi delle superpotenze continuavano ad affrontarsi, nonostante tiepidi tentativi di riavvicinamento, in una sempre aggiornata versione di guerra «fredda»; la corsa agli armamenti proseguiva forsennata e la minaccia di un conflitto nucleare, piuttosto che allontanarsi, pareva incombere sempre più vicina. E negli anni successivi, per quel poco che si può a tutt’oggi sapere dell’ultimo periodo agonico dell’URSS, sembra sia stata ad un soffio dal realizzarsi quando, a metà degli anni Ottanta, l’Unione Sovietica, ormai sfiancata economicamente, ha pensato di risolvere la contesa con gli Stati Uniti sferrando il «primo colpo».
Il conflitto atomico era, dunque, una ipotesi spaventosa, ma reale. Faceva paura. Se il primo e il secondo mondo continuavano ad affrontarsi sull’orlo del baratro di un conflitto aperto, quello che ancora si chiamava «terzo» mondo (e non «paesi in via di sviluppo» come si userà in seguito) era schiacciato dalla paura della fame, del sottosviluppo (l’Africa abbandonata a se stessa da una decolonizzazione scriteriata, l’Asia ricca di popolazione e povera di pane) o dell’assenza di democrazia (gran parte dell’America Latina).
Ma il punto di vista di papa Wojtyla non era principalmente socio-politico. Ben altre paure incombevano sull’umanità. Prima tra tutte la paura per il destino stesso della civiltà umana. Come Giovanni Paolo II avrà modo di chiarire nel suo lungo pontificato, l’uomo contemporaneo ha paura del prodotto stesso del suo ingegno, della sua ricerca. La devastazione della natura, la messa in moto di dinamiche sociali che non si possono più controllare, la possibilità di intervenire con la scienza e la tecnica nei gangli più sacri della vita (la nascita e la morte), la potenzialità devastante della comunicazione di massa sono tutti fenomeni che incutono paura. Non perché in sé siano malvagi, ma perché inevitabilmente si portano dietro possibilità distruttive, possono innescare processi disumanizzanti.
È, in fondo, la domanda sul senso del progresso umano che non può essere accettato solo perché possibile. Se non si tiene presente la domanda sul senso (cioè la direzione) di quel processo e quindi non lo si sottopone alla verifica della sua positività, cioè il bene dell’uomo, di ogni singolo uomo, proprio quel progresso si trasforma in una minaccia. Oscuramente ma sensibilmente percepita come sorgente di paura.
Con quel suo grido a non avere paura Giovanni Paolo II toccava anche un altro, più profondo, livello. La paura di Dio e di Dio diventato uomo. Aggiungeva infatti: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». Quando Cristo fa paura? Quando sembra contraddire l’esigenza umana di compimento e di felicità. Ma il cristianesimo, ricordava con forza vibrante il nuovo Papa, non è contro l’uomo. Anzi solo in Cristo l’uomo trova se stesso (come dice un passaggio del documento conciliare Gaudium et Spes che Giovanni Paolo II amava citare, anche perché probabilmente ne è stato uno degli estensori) ed è quindi in grado di affrontare tutte le paure destate dalla situazione circostante.
Quel richiamo non era ovvio e scontato. Da molti infatti si pensava che il cristianesimo avrebbe potuto continuare ad avere corso nella storia se avesse in qualche modo messo da parte la propria pretesa di «salvare l’uomo» (quindi liberarlo dalla paura), per sciogliersi nel comune cammino umano. E infatti i primi mesi e anni del pontificato di Giovanni Paolo II videro un impressionante serie di attacchi al suo magistero. Non c’era pronunciamento pontificio che non venisse giudicato reazionario, repressivo, antimoderno, integralista. Una aggressione di cui forse oggi molti si dimenticano.
All’invito a non avere paura Giovanni Paolo II ispirò tutti gli atti del suo magistero. La sua prima enciclica Redemptor hominis è una risposta a chi sente Cristo come una minaccia, mentre Egli è la possibilità stessa del compimento umano. Un compimento che nessuna situazione esterna può impedire; come testimonia la stessa vicenda personale del Papa che ha dovuto lavorare per dedicarsi agli studi teologici e lottare strenuamente contro il potere marxista e ateo nella sua Polonia.
Nei suoi interminabili viaggi in tutti gli angoli del mondo, nessuna sfumatura dei pericoli incombenti sul cammino umano è stata da lui tralasciata. La forza della «verità sull’uomo portata dal cristianesimo» (quella stessa che gli veniva contestata dagli intellettuali progressisti, anche nella Chiesa, di tutto il mondo) si faceva in quei suoi pellegrinaggi giudizio pertinente sui mali e le storture in cui si imbatteva e, nel contempo e inestricabilmente, annuncio di speranza, invito a non cedere alla paura, indicazione di strade percorribili. Nessuno, poi, si nasconde il ruolo centrale che il Papa venuto dall’Est ha avuto nello scardinare il monolite sovietico e quindi ridisegnare i tratti stessi del conflitto tra i due blocchi.
Non è difficile constatare che, a trent’anni di distanza, la paura non sia venuta meno. Non più tardi di qualche settimana fa a Roma si è svolto un importante convegno incentrato proprio su questo fenomeno, che appare anzi sempre più invasivo. Certamente i dati dello scenario sono cambiati. A livello geopolitico, ad esempio, ci troviamo di fronte al fenomeno islamistico, che trent’anni fa era inimmaginabile, o a quello dell’immigrazione, che aveva dimensioni decisamente più ridotte. La paura delle conseguenze del progresso è invece ormai consapevolezza diffusa: le discussioni sulla bioetica, piuttosto che sull’invasività di internet (anch’essi fenomeni del tutto nuovi) lo sta a dimostrare.
Probabilmente questi trent’anni ci hanno resi più consapevoli che ci sono molte ragioni per temere. Ma, oggi come allora, la proposta contro la paura di Giovanni Paolo II resta identica: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». E, oggi come allora, è facile verificare l’efficacia di questa proposta: la paura è vinta dalla speranza.
SCUOLA/ Di fronte alla crisi del sistema formativo occorre un'autonomia basata su alleanze educative - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La seria crisi del nostro sistema formativo esige interventi culturalmente coraggiosi, chiaramente orientati a “liberarsi dall’arretramento normativo, dai pregiudizi e dai corporativismi che tendono alla conservazione dell’esistente”. Così sostenevamo alla fine del convegno di Roma nel novembre 2007. Così molte voci si sono levate a chiedere, fino alle recenti più autorevoli. Il manifesto conclusivo di quel convegno ribadiva le proposte presentate alla politica nel primo convegno del 1992 dal nucleo di presidi che nel 2001 fonderà DiSAL.
La chiave di volta di quelle proposte è solo ed innanzitutto la piena attuazione dell’autonomia scolastica, dato costituzionale da sempre inattuato. Oggi comprendiamo che non esisterà mai scuola autonoma se non radicata nel proprio territorio, intessuta di serie alleanze educative. Si tratta di “riconoscere che la bontà di una scuola non la realizza nessuno individualmente” (don Luigi Giussani, Il rischio educativo).
Gli elementi dell’autonomia sono semplici: veri organi di governo delle scuole; assegnazione diretta agli istituti per quota capitaria di tutte le risorse necessarie; reclutamento diretto dei professionisti e del personale; dirigenti scolastici messi in grado di rispondere dei risultati.
Il resto dei cambiamenti necessari, che proponiamo da tempo, ne costituiscono solo lo sviluppo: drastica riduzione di norme; livelli essenziali di apprendimento terminali; carriere per i professionisti della scuola con valutazione professionale legate al merito ed alle prestazioni; valutazione esterna delle scuole come miglioramento delle istituzioni; trasferimento della contrattazione al livello solo regionale e nazionale.
Oggi questo quadro di cambiamenti si deve misurare con l’esigenza di maggior rigore economico nella spesa pubblica, che tuttavia non può diventare pretesto per impoverire la scuola. Chi taglia deve avere un disegno adeguato alle prioritarie necessità formative.
Condividiamo pienamente quanto sostenuto dal Presidente della Repubblica: “Per quel che riguarda la scuola l'obiettivo di una minore spesa non può prevalere su tutti gli altri e va formulato con grande attenzione ai contenuti e ai tempi, in un clima di dialogo”.
La scuola travalica i governi ed ha bisogno di radici nelle comunità, in una concreta trama di soggetti educativi.
Le scuole, le famiglie, le comunità locali, le imprese, il mondo del volontariato sociale vanno messi in grado di affrontare i tanti problemi legati all’istruzione e formazione, uscendo dagli schemi dello scontro ideologico e della conservazione corporativa. Solo questa trama attiva di nuove alleanze permetterà all’impresa non più solitaria della scuola di riuscire.
Autonomia e competizione non in direzione di 10.000 isole in concorrenza fra loro, ma verso 10.000 piante radicate nel loro terreno sociale, tese ciascuna a promuovere alleanze. Per tutto questo occorrono nuove competenze anche nella direzione di scuola: saper lavorare in rete, governare alleanze territoriali, curare la creazione di valore aggiunto da parte della scuola e saperlo valutare. Occorre che la direzione di istituto sappia proporre una visione di sviluppo della scuola.
Lo scorso anno abbiamo sostenuto il forte nesso tra miglioramento dei risultati scolastici e direzione di qualità nelle scuole statali e non statali, tesa ad introdurre nei processi e nelle scelte il loro scopo, il vitale significato.
Se il dirigere è favorire esperienze educative indispensabili per l’imparare, le condizioni fondamentale saranno una concordia tra adulti e un realismo nel metodo. Dunque una forma di scuola che tenga al centro non un destinatario di contenuti, o un apprendista da adattare al mercato, ma la persona, mistero irriducibile: quei giovani sui quali la società tutta è chiamata ad investire tempo, energie e risorse.
194: L’ORDINANZA SULLE « LINEE » LOMBARDE - Se la scienza salva la vita ma il giudice s’intromette - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 17 ottobre 2008
I criteri di applicazione di una legge, ritenuti legittimi e già operanti da alcuni anni in diverse strutture sanitarie, non si possono estendere all’intero territorio regionale: questo il succo dell’ordinanza con cui nei giorni scorsi il Consiglio di Stato, respingendo il ricorso della Regione Lombardia contro una precedente sentenza del Tar, ha di fatto bocciato le linee guida regionali della 194, la legge che regolamenta l’aborto in Italia.
Le linee guida della Lombardia non erano prescrittive, ma estendevano semplicemente all’intera regione le migliori pratiche cliniche già esistenti, individuate dagli operatori sanitari di alcuni fra i principali ospedali lombardi: evidentemente per la Cgil, che aveva presentato il ricorso, e per i giudici che l’hanno avallato, tutto questo non significa una buona politica sanitaria.
Ci aspettiamo quindi la stessa severità e solerzia, da parte di giudici e sindacati, nei confronti del recente Piano sanitario della Regione Puglia, laddove questo dice che rispetto all’aborto «le Uu.Oo.(unità operative in ciascuna Asl; ndr)
individuate devono poter offrire tutte le possibili soluzioni terapeutiche, ivi compresa l’adozione delle metodiche non chirurgiche». Perché allora è doveroso estendere a tutto il territorio pugliese la pratica dell’aborto farmacologico, effettuata solo da alcune strutture sanitarie? Facciamo sommessamente notare, tra l’altro, che questo tipo di aborto prevede l’uso della pillola Ru486, che ancora non è commercializzata in Italia.
Il punto di maggiore contrasto delle linee guida lombarde è nel limite oltre il quale non è possibile effettuare aborti tardivi: 22 settimane e tre giorni, secondo i principali ospedali dove si effettuano questi aborti. La legge 194 al riguardo è estremamente chiara (e non ha «norme lasciate volutamente indeterminate dal legislatore», come invece recita il testo dell’ordinanza): secondo gli articoli 6 e 7, dopo i primi 90 giorni la donna può chiedere di abortire solamente se in grave pericolo di vita (non di salute), ma se c’è la possibilità di vita autonoma del feto l’aborto è vietato. In altre parole, se la donna continuando la gravidanza rischia di morire e però il feto ha la possibilità di sopravvivere, il medico non può effettuare l’aborto ma può indurre un parto precoce per cercare di salvare la vita a madre e figlio.
Saggiamente il legislatore non ha quantificato il periodo della gravidanza in cui il feto ha possibilità di vita autonoma: trent’anni fa le possibilità di sopravvivenza erano molto diverse da adesso. Nelle principali cliniche lombarde hanno verificato che sono sopravvissuti bambini nati dopo ventidue settimane e tre giorni di gestazione, e quindi hanno dedotto che per applicare correttamente la legge non si devono praticare aborti oltre quella data.
Secondo l’ordinanza del Consiglio di Stato, invece, questo criterio, seguito tra le altre dalla Clinica Mangiagalli di Milano, non solo non si può estendere a tutto il territorio regionale ma, al contrario, dipende solamente dalle valutazioni della donna e del medico, e non dagli articoli della legge e dalle conoscenze scientifiche consolidate. Un orientamento che crea un pericoloso precedente, rendendo arbitrari e inconsistenti i limiti imposti dalla 194.
Nel frattempo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella ha posto un quesito al Consiglio Superiore di Sanità, chiedendo di «formulare autorevole parere sulla definizione del concetto di vita autonoma del feto, nonché sull’epoca gestazionale che può essere assunta a riferimento per la comparsa della stessa», per poter dare poi indicazioni valide all’intero territorio nazionale.
Aspettiamo quindi il parere scientifico del Consiglio per chiarire i criteri di attuazione di questa parte della legge, che comunque ci sembrano già abbastanza espliciti.
1) Il Papa ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Fides et ratio” - Promosso dalla Pontificia Università Lateranense - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì mattina da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel decimo anniversario dell’Enciclica "Fides et ratio".
2) Contro la fame, misure coraggiose a favore della dignità umana - Il Papa nel messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2008 - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Egoismi nazionali, speculazioni sfrenate, corruzione, corse al consumismo e agli armamenti, in una parola la falsa percezione dei valori che regolano i rapporti internazionali. Sono queste, secondo Benedetto XV, le radici della fame nel mondo.
3) Giovanni Paolo II “ci ha guidato sulla strada della sofferenza” - Messa del Cardinale Dziwisz per i 30 anni dall'elezione di Papa Wojtyla - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II "ci ha guidato sulla strada della sofferenza”. E' quanto ha detto questo giovedì il Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia e per 39 anni Segretario particolare di Giovanni Paolo II, nel presiedere nella Basilica di San Pietro una Messa commemorativa per il Papa polacco.
4) Il valore della dottrina sociale di fronte alle sfide dei tempi - ROMA, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito, per la rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune, il contributo di Luca Antonimi, Vice Presidente di Fondazione per la sussidiarietà, avvocato e professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova. - Antonimi è un componente dell’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e fa parte del Comitato scientifico del World Political Forum. E’ inoltre presidente dell’International Center for Subsidiarity and Development.
5) L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin
6) L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2008
7) Che cosa serve all’università per un rinnovamento ispirato a un vero riformismo - Redazione - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) GIOVANNI PAOLO II/ Le ragioni e la forza del suo «Non abbiate paura» - Pigi Colognesi - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ Di fronte alla crisi del sistema formativo occorre un'autonomia basata su alleanze educative - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) 194: L’ORDINANZA SULLE « LINEE » LOMBARDE - Se la scienza salva la vita ma il giudice s’intromette - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 17 ottobre 2008
Il Papa ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Fides et ratio” - Promosso dalla Pontificia Università Lateranense - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì mattina da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel decimo anniversario dell’Enciclica "Fides et ratio".
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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Gentili Signore, Illustri Signori!
Sono lieto di incontrarvi in occasione del Congresso opportunamente promosso nel decimo anniversario dell’Enciclica Fides et ratio. Ringrazio innanzitutto Mons. Rino Fisichella per le cordiali parole che mi ha rivolto introducendo l’odierno incontro. Mi rallegro che le giornate di studio del vostro Congresso vedano la fattiva collaborazione tra l'Università Lateranense, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Conferenza Mondiale delle Istituzioni Universitarie Cattoliche di Filosofia. Una simile collaborazione è sempre auspicabile, soprattutto quando si è chiamati a dare ragione della propria fede dinanzi alle sempre più complesse sfide che coinvolgono i credenti nel mondo contemporaneo.
A dieci anni di distanza, uno sguardo attento all’Enciclica Fides et ratio permette di coglierne con ammirazione la perdurante attualità: si rivela in essa la lungimirante profondità dell’indimenticabile mio Predecessore. L’Enciclica, in effetti, si caratterizza per la sua grande apertura nei confronti della ragione, soprattutto in un periodo in cui ne viene teorizzata la debolezza. Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un'esigenza emergente nell'attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (cfr Fides et ratio, 13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nelle capacità della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: "È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione" (n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere. Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno recato allo sviluppo dell’autoconsapevolezza dell’uomo e al progresso delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quanto è sostenuta dall'amore per la verità. Ha scritto Agostino: "Ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, ma nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente" (De diversis quaestionibus 35,2).
Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l'evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: "Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera" (XII, 2.4).
Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio all'uomo.
La lezione di sant’Agostino è sempre carica di significato anche nell'attuale contesto: "A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente" (De vera religione, 39,72). Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. L'intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. "Il ragionamento non crea queste verità - continua nella sua riflessione sant'Agostino - ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano" (Ibid., 39,73). La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha già raggiunto e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendole così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero stesso. La verità rivelata, nella "pienezza dei tempi" (Gal 4,4), ha assunto il volto di una persona, Gesù di Nazareth, che porta la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo. La verità di Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la ragione può trovare. E' intorno al mistero, pertanto, che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune.
In questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Come non vedere la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso. La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell'uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità.
Mentre auguro a ciascuno di avvertire sempre in sé questa passione per la verità, e di fare quanto è in suo potere per soddisfarne le richieste, desidero assicurarvi che seguo con apprezzamento e simpatia il vostro impegno, accompagnando la vostra ricerca anche con la mia preghiera. A conferma di questi sentimenti imparto volentieri a voi qui presenti ed ai vostri cari l’Apostolica Benedizione.
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Contro la fame, misure coraggiose a favore della dignità umana - Il Papa nel messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2008 - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Egoismi nazionali, speculazioni sfrenate, corruzione, corse al consumismo e agli armamenti, in una parola la falsa percezione dei valori che regolano i rapporti internazionali. Sono queste, secondo Benedetto XV, le radici della fame nel mondo.
E' quanto scrive il Papa in un messaggio al Direttore generale della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), Jacques Diouf, per l’odierna Giornata Mondiale dell’Alimentazione, che quest’anno ha come “La sicurezza alimentare mondiale: le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia”.
“I mezzi e le risorse di cui il mondo dispone oggi – constata Benedetto XVI – possono fornire cibo a sufficienza per soddisfare le necessità crescenti di ognuno”.
“Allora – si chiede il Papa – perché non è possibile evitare che tante persone soffrano la fame sino alle conseguenze più estreme?”.
Molte le ragioni addotte dal Pontefice tra cui “la corsa inarrestabile al consumo” e “la mancanza di volontà” a “frenare gli egoismi degli Stati e dei gruppi dei Paesi”.
Alle parole del Papa, lette questo giovedì, 16 ottobre, in Aula plenaria dall’Osservatore Permanente della Santa Sede presso la FAO, monsignor Renato Volante, ha fatto eco Jacques Diouf, il quale ha lanciato un forte appello a tutti i Paesi a rispettare gli impegni presi nonostante la crisi finanziaria globale.
Nel suo intervento, il Direttore generale della FAO ha ricordato il Vertice tenutosi a Roma agli inizi di giugno e a cui parteciparono oltre 40 tra Capi di Stato e di governo e 181 rappresentanze nazionali per discutere della crisi causata dall’aumento dei prezzi dei beni alimentari.
In quell’occasione furono presi impegni economici per un ammontare complessivo di 22 miliardi di dollari, di cui solamente un 10 per cento è stato effettivamente versato, e che è servito alla FAO per avviare progetti in 76 Paesi.
"La crisi alimentare - ha proseguito Diouf - esiste ancora e se nel 2007 il numero degli affamati è salito in un solo anno di 75 milioni di persone, arrivando a quota 923 milioni, nel 2008 questo numero rischia di salire ancora".
Da parte sua, il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, in un messaggio indirizzato ai leader mondiali in occasione della Giornata Mondiale per l’Alimentazione, ha ricordato che sono a rischio gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, sottoscritti 8 anni fa e che si prefiggono di dimezzare il numero di persone che nel mondo soffrono la fame entro il 2015.
Nel messaggio, il Pontefice chiede inoltre di mettere fine alla “speculazione sfrenata che incide sui meccanismi dei prezzi e dei consumi”.
Ancora, si legge nel messaggio, giocano un ruolo nella crisi alimentare “l’assenza di un’amministrazione corretta delle risorse alimentari causata dalla corruzione nella vita pubblica e gli investimenti crescenti nelle armi e nelle tecnologie militari sofisticate a discapito delle necessità primarie delle persone”.
Alla base di tutto, osserva, c'è una falsa percezione dei valori diffusa nella cultura contemporanea che “privilegia solamente la corsa ai beni materiali, dimenticando la vera natura della persona umana e le sue aspirazioni più profonde”, e che nutre scarsa attenzione verso i bisogni dei poveri.
Una campagna efficace contro la fame, esorta dunque il Papa, “richiede più di un semplice studio scientifico per far fronte ai cambiamenti climatici e per destinare l’agricoltura in primo luogo all’uso alimentare”.
Bisogna perciò riscoprire il valore della persona umana, “nella dimensione individuale e comunitaria”.
Benedetto XVI chiede poi di impegnarsi a “promuovere una giustizia sociale effettiva nelle relazioni tra i popoli”: improntata alla condivisione dei beni, a un loro utilizzo durevole e alla giusta ripartizione dei benefici che ne derivano.
Ricordando poi il momento difficile per la produzione alimentare mondiale nel mondo, il Papa ha appello alla FAO affinché “possa rispondere in termini di solidarietà con azioni libere da ogni condizionamento e davvero al servizio del bene comune”.
Rivolgendo infine un pensiero alle comunità indigene, il Papa chiede di garantire loro “l’accesso alla terra” per favorire così i lavoratori agricoli.
Giovanni Paolo II “ci ha guidato sulla strada della sofferenza” - Messa del Cardinale Dziwisz per i 30 anni dall'elezione di Papa Wojtyla - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II "ci ha guidato sulla strada della sofferenza”. E' quanto ha detto questo giovedì il Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia e per 39 anni Segretario particolare di Giovanni Paolo II, nel presiedere nella Basilica di San Pietro una Messa commemorativa per il Papa polacco.
Giovanni Paolo II, ha detto il porporato nel 30° anniversario della elezione di Karol Wojtyla al Soglio Pontificio, “ha mostrato negli ultimi anni il valore della sofferenza nella vita dell'uomo, annunciando il Vangelo anche nel letto del dolore”.
“Sulla sua Via Crucis ha avuto da Dio la forza di mostrarci che la sofferenza ha un grande valore salvifico”, ha continuato.
Parlando alle centinaia di fedeli presenti, soprattutto polacchi, il porporato ha ricordato Giovanni Paolo II come il Papa che "ha aperto la strada della Divina Misericordia" perché "il mondo più diventa divino, più diventa umano".
Wojtyla, ha aggiunto, è stato “il Papa che ha dato fiducia ai giovani, ottenendo da loro altrettanta fiducia”; è stato “un grande educatore dei giovani” e “nei giovani ha visto non soltanto i costruttori di un futuro migliore, ma prima di tutto una forza capace di difendere tanti valori fondamentali”.
“Il Papa – ha proseguito Dziwisz – si è impegnato nella edificazione di una civilità della vita e dell'amore, in risposta ai progetti di un mondo che si basa sulla civiltà della paura, della morte e dell’odio”.
L'Arcivescovo di Cracovia ha poi ricordato il suo impegno sempre “dalla parte dei sofferenti e dei deboli”.
“L'incontro del Papa morente ha liberato molte persone dalla paura della morte – ha concluso – . Non dobbiamo nutrire ammirazione in lui, ma dobbiamo trarre esempio dal suo modo di amare Cristo”.
Il valore della dottrina sociale di fronte alle sfide dei tempi - ROMA, giovedì, 16 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito, per la rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune, il contributo di Luca Antonimi, Vice Presidente di Fondazione per la sussidiarietà, avvocato e professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova. - Antonimi è un componente dell’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e fa parte del Comitato scientifico del World Political Forum. E’ inoltre presidente dell’International Center for Subsidiarity and Development.
Il commento in questione è stato pubblicato anche sul quotidiano online www.ilsussidiario.net.
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I fatti di questi giorni, con la crisi derivante dal fenomeno dei muti subprime, sono una drammatica ma decisiva dimostrazione di come la dottrina sociale della Chiesa cattolica debba essere rivalutata in tutta la sua potenzialità. Il recente volume di Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, 2008, dà conto in modo decisamente efficace dei limiti dell’ideologia mercatista. Il mercatismo viene definito l'ultimo discendente, astuto e calcolatore, commerciale dell'illuminismo: “il combinato disposto tra una nuova ingegneria sociale e una illusione demenziale”.
Nel volume si denuncia come il mercato abbia ottenuto il quasi totale monopolio culturale e materiale dell’esistente e si precisa come in balia dell'ideologia mercatista l'Europa non possa che declinare, in una forma di declino economico e demografico. Per cambiare – si afferma - serve una leva che deve avere un punto di appoggio; questo punto può essere uno solo: quello delle radici giudaico cristiane dell'Europa. E’ anche a partire da questa affermazione che può essere riscoperto il valore della dottrina sociale della Chiesa cattolica, lasciando da parte quei ridicoli complessi di inferiorità che tante volte hanno portato i cattolici a non comprendere il valore dell’insegnamento del Magistero, irriducibile alle visioni contrapposte, ma in fondo antropologicamente accumunate da una stessa riduzione della persona, dello statalismo o del liberismo selvaggio.
Si tratta della contrapposizione moderna (hobbesiana) fra pubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus), dove “pubblico” veniva poi spesso assiomaticamente associato a “morale” e “privato” a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali: poiché della socialità della persona umana non ci si può fidare, si limita il pluralismo sociale e la rilevanza delle formazioni sociali intermedie. E’ un dato che si riflette in modo decisamente negativo sulla sostanza della democrazia. Si tratta peraltro di una impostazione che continua a condizionare il dibattito: mentre si è disposti a teorizzare ad oltranza la libertà di scelta nell’ambito privatistico delle preferenze individuali (libertà sessuale, libertà di morire, libertà di abortire, ecc.), riguardo all’ambito pubblicistico delle preferenze sociali (libertà di scelta tra servizio pubblico e privato) permangono forti resistenze.
Tuttavia è proprio a questo livello che si apre oggi la duplice sfida per rianimare la democrazia: la sfida del passaggio dalla “libertà mediante lo Stato” (paradigma dei primi diritti sociali) a quella della “libertà mediante la società” (paradigma dei nuovi diritti sociali); ed insieme quella del passaggio dal mercatismo all’economia sociale di mercato. Siamo in una fase di transizione, che origina dalla crisi dei presupposti. Si affaccia quindi all’orizzonte una soluzione alternativa all’antropologia negativa di tipo hobbesiano, dove l’uomo è un lupo e la gabbia statale consente la convivenza civile o dove il mercato inteso in modo puramente darwiniano consente il progresso della società.
La crisi della sovranità statale e la crisi del mercato obbligano al realismo e impongono il recupero di un’altra visione dell’uomo, dei suoi desideri originali, dei suoi diritti. Partire dalla considerazione che l’uomo “sia un essere ferito e debole, ma intrinsecamente capace di comportamenti altruistici, solidali o almeno non auto-interessati, ovvero di scambi umani” (Donati), permette di identificare e recuperare, dopo un’epoca di affossamento ideologico, l’eredità di un’antica tradizione che ha caratterizzato lo sviluppo della società europea e di riscoprirla nella prospettiva della post modernità.
Il contributo della dottrina sociale, da questo punto di vista, diventa decisivo per riconsiderare, alla luce dell’esperienza, il monopolio che statalismo e mercatismo hanno avuto nel dibattito culturale degli ultimi decenni.
L'allarme lanciato dal vescovo di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu Antony Devotta - Si teme l'estensione delle persecuzioni - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2008
"Gli attacchi contro i cristiani in India rischiano di trasformarsi in una persecuzione generalizzata se i Governi non interverranno in tempo a fermare l'azione dei gruppi estremisti indù. Dall'Orissa, dove la situazione è più grave, l'ondata di intolleranza può dilagare in altri Stati "più tranquilli" della nazione, oramai entrata, come altre nel mondo, nel vortice oscuro del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione delle società".
L'allarme è stato lanciato in un'intervista al nostro giornale dal vescovo di Tiruchirapalli, Antony Devotta, che in questi giorni partecipa ai lavori del Sinodo.
Il presule osserva che l'India è sempre stata una terra tollerante, dove la reciproca comprensione tra etnie diverse ha caratterizzato la società. Tuttavia, ha aggiunto, "come è accaduto in altri Paesi la perdita dei valori e la secolarizzazione hanno innescato una reazione di rivolta da parte di alcuni gruppi religiosi che vogliono tornare alle antiche tradizioni, usando sistemi brutali quali le conversioni forzate".
Monsignor Devotta parlando dei fondamentalisti fa riferimento anche a piccoli gruppi di cristiani, in particolare "i pentecostali, che suscitano irritazione tra gli indù per il loro modo di proclamare la Parola divina". Il vescovo specifica: "Intimidiscono gli abitanti dei villaggi dicendo loro che se non si convertono al cristianesimo andranno all'inferno". A causa di tale agire, precisa il vescovo, si sta arrecando un danno all'intera comunità cristiana, in quanto molti indù non fanno distinzioni, per esempio tra i cattolici e i pentecostali, e così la contrastano con attacchi continui.
Anche i fondamentalisti indù, racconta ancora monsignor Devotta, "operano in piccoli gruppi, ma il loro potere sta notevolmente crescendo soprattutto in quegli Stati dell'India dove a governare sono partiti estremisti, come per esempio il Bharatiya Janata party (Bjp), che supportano le organizzazioni che promuovono l'ideologia della "Hindutva" per raccoglierne voti".
Nel Tamil Nadu, dove si trova la diocesi di Tiruchirapalli, la situazione, per ora non appare grave come in Orissa, ma, senza interventi di prevenzione da parte dei Governi, ha ribadito il vescovo, "la situazione appare destinata a deteriorarsi in fretta fino a produrre una persecuzione generalizzata". Monsignor Devotta osserva peraltro che "il fondamentalismo religioso sta dilagando oramai in ogni parte del mondo ed è un segno dei tempi"
I cristiani rappresentano soltanto il due per cento dell'intera popolazione indiana che conta, tra gli altri, circa un miliardo di indù; mentre il diciasette per cento è costituito da musulmani. Il presule sottolinea che i cristiani sono, in generale, conosciuti come amanti della pace e, per tale motivo, rispettati dalla maggioranza della popolazione.
Anche i Governi dei vari Stati tutelano la comunità cristiana, così come quelle delle altre minoranze ma - evidenzia - "per fini utilitaristici a livello politico, spesso "chiudono un occhio" sulle violenze degli estremisti indù perché non vogliono la perdita dei voti in occasione delle elezioni".
E aggiunge: "Infatti, là dove, come in Orissa, al potere vi è un partito fondamentalista, la violenza è oramai ai massimi livelli. Coloro che praticano l'ideologia della "Hindutva" vogliono la trasformazione dell'India in uno Stato teocratico e qualsiasi mezzo per raggiungere tale obiettivo è utilizzabile".
Alcuni gruppi indù - conferma monsignor Devotta - "non sono neppure controllati dalle stesse organizzazioni politiche di appartenenza e agiscono indisturbati, in particolare, nelle aree rurali dove vivono dalit e tribali, che vengono minacciati per evitarne la conversione alla fede cristiana".
Il tradizionale sistema delle caste che vige nel Paese pone i tribali ai livelli più bassi; mentre i dalit ne sono addirittura esclusi, in quanto non considerati degni di appartenervi. I fondamentalisti temono che, tramite l'educazione scolastica e la conversione al cristianesimo, questi possano emanciparsi fino al punto da non poter essere più soggiogati a scopi politici e trattati come schiavi per le loro condizioni economiche.
Il vescovo conclude che "soltanto i Governi possono a questo punto agire per fermare la spirale di violenza contro la comunità cristiana e per conservare quei valori di democrazia e tolleranza che per secoli hanno reso l'India un modello di dialogo tra culture e religioni diverse".
(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2008)
Che cosa serve all’università per un rinnovamento ispirato a un vero riformismo - Redazione - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ci risiamo. Con l’autunno si riaccendono le proteste in università, secondo un copione ampiamente conosciuto. L’occasione è costituita dalle misure contenute nel decreto n. 112 (ormai convertito nella Legge n. 133) che impone, tra l’altro, pesanti tagli al fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università. Da parte di una piccola minoranza, in alcuni atenei, sono in atto tentativi, che finiscono per essere inevitabilmente violenti, di sospendere l’attività didattica. La situazione potrebbe anche degenerare, soprattutto se sostenuta dal tam tam delle agenzie di stampa.
Resta il fatto, invece, che tra quanti quotidianamente lavorano in università sono palpabili un profondo disagio e una sincera preoccupazione sul futuro. Cerchiamo allora di capire i motivi di tale preoccupazione e di quali prospettive abbiamo bisogno.
Tra gli articoli del decreto n. 112 che interessano il settore universitario due, in particolare, meritano un’attenta valutazione: l’art. 16 e l’art. 66.
Quest’ultimo impone un taglio del FFO dal 2009 al 2013 per circa un miliardo e mezzo di euro. Direttamente collegata a tale misura è la limitazione dell’assunzione di personale a tempo indeterminato da parte delle Università: per il triennio 2009-2011 nuove assunzioni saranno possibili entro un limite di spesa pari al 20% di quella relativa al personale cessato nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità di personale da assumere non può eccedere, per ciascun anno, il 20% delle unità cessate nell’anno precedente. Per il 2012 il limite è del 50%. I risparmi derivanti dal turn over restano nelle casse dello Stato.
L’unico scopo esplicito ricavabile dal provvedimento è quello di fare cassa giacché i tagli sono fatti a pioggia invece che – come auspicato anche dal Prof. Checchi – in modo selettivo.
Secondo alcune stime queste misure comporteranno (al netto della riduzione dei costi derivata dal blocco del turn over e dal rallentamento della dinamica retributiva di docenti e non docenti) un taglio del FFO complessivo a partire dal 2010 intorno al 10%. Se questo dato fosse anche solo verosimile il collasso del sistema, da più parti denunciato, non sarebbe improbabile.
Per evitare il tracollo – almeno così sembra – l’art. 16 dà facoltà alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. La legge, cioè, autorizza (ma non obbliga) gli atenei a dismettere gli abiti dell’ente pubblico e a vestire quelli di un soggetto privato. Sembra essere una via d’uscita, finalmente di stampo riformista, in direzione di una liberalizzazione del sistema. È così? No. La disposizione è talmente parziale e generica su molti punti, da rendere pressoché impossibile, al momento, la sua applicazione.
Già la legittimità della norma che attribuisce ai senati accademici il potere di deliberare a maggioranza assoluta la trasformazione in fondazione appare dubbia. Certa è, invece, la sua ambiguità circa il futuro regime dei finanziamenti statali.
Il comma 9, infatti, a riguardo stabilisce che «resta fermo il sistema di finanziamento pubblico», ma subito dopo si precisa che «a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi, l'entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione».
In che misura (e sulla base di quali parametri) verrà stabilita l’entità dei finanziamenti pubblici alle università ormai trasformate in fondazioni? Da un’interpretazione letterale del testo si evince che le università-fondazioni che avranno attirato meno finanziamenti privati avranno diritto ad un maggior finanziamento statale. Come dire: i migliori saranno ancora una volta penalizzati.
E in ogni caso siamo certi di trovarci davanti ad una vera “privatizzazione”? Non saremo di fronte ad un ente formalmente privato, ma nella sostanza regolato dal diritto amministrativo?
Come recita infatti, il comma 14: «Alle fondazioni universitarie continuano ad applicarsi tutte le disposizioni vigenti per le Università statali in quanto compatibili con il presente articolo e con la natura privatistica delle fondazioni medesime».
Inoltre bisognerebbe stabilire i rapporti tra l’attuale stato della governance e la veste privatistica.
La possibilità di trasformazione degli atenei in fondazioni, insomma, si rivela, alla luce del dettato normativo, come una goccia liberista in un sistema intriso di centralismo. Si tratta di una misura che, varata in tutta fretta, rischia in concreto di non essere applicabile. Molto meglio sarebbe stato, invece, riprendere il ben più ponderato disegno di legge proposto nella XIV Legislatura dall’on. Nicola Rossi; disegno di legge in cui i problemi sopra accennati erano tenuti in considerazione.
In definitiva, la politica dei tagli indifferenziati e la mancanza, sino ad ora, di un serio e meditato progetto di sviluppo del sistema tradiscono una concezione ancora statalista. A breve il Ministro Gelmini illustrerà al CUN le sue linee guida per l’Università. C’è da augurarsi che sia l’inizio di un processo di rinnovamento del sistema ispirato ad un vero riformismo. Questo è ciò di cui l’università ha bisogno.
Alfredo Marra, Ricercatore di Diritto amministrativo (Università degli Studi, Milano Bicocca)
GIOVANNI PAOLO II/ Le ragioni e la forza del suo «Non abbiate paura» - Pigi Colognesi - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Forse è stata la curiosità per il nuovo Papa venuto dalla lontana Polonia. Forse la simpatia destata dalla sua giovane età, dall’italiano ancora approssimativo, da quel suo scardinare usi consolidati (è stato il primo pontefice a tenere un breve discorso dalla loggia di San Pietro subito dopo l’elezione). Forse è stato il desiderio non ben consapevole di qualcosa di nuovo. Sta di fatto che c’era molta attesa, trent’anni fa, per il discorso con cui Giovanni Paolo II avrebbe inaugurato il suo pontificato. Ed effettivamente quel discorso è rimasto a lungo nella memoria di molti. Soprattutto per quella frase quasi gridata: «Non abbiate paura».
Come mai il vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica universale parlava di paura? Paura di che? Un primo livello di lettura ci riporta alla situazione geopolitica di allora. I due blocchi delle superpotenze continuavano ad affrontarsi, nonostante tiepidi tentativi di riavvicinamento, in una sempre aggiornata versione di guerra «fredda»; la corsa agli armamenti proseguiva forsennata e la minaccia di un conflitto nucleare, piuttosto che allontanarsi, pareva incombere sempre più vicina. E negli anni successivi, per quel poco che si può a tutt’oggi sapere dell’ultimo periodo agonico dell’URSS, sembra sia stata ad un soffio dal realizzarsi quando, a metà degli anni Ottanta, l’Unione Sovietica, ormai sfiancata economicamente, ha pensato di risolvere la contesa con gli Stati Uniti sferrando il «primo colpo».
Il conflitto atomico era, dunque, una ipotesi spaventosa, ma reale. Faceva paura. Se il primo e il secondo mondo continuavano ad affrontarsi sull’orlo del baratro di un conflitto aperto, quello che ancora si chiamava «terzo» mondo (e non «paesi in via di sviluppo» come si userà in seguito) era schiacciato dalla paura della fame, del sottosviluppo (l’Africa abbandonata a se stessa da una decolonizzazione scriteriata, l’Asia ricca di popolazione e povera di pane) o dell’assenza di democrazia (gran parte dell’America Latina).
Ma il punto di vista di papa Wojtyla non era principalmente socio-politico. Ben altre paure incombevano sull’umanità. Prima tra tutte la paura per il destino stesso della civiltà umana. Come Giovanni Paolo II avrà modo di chiarire nel suo lungo pontificato, l’uomo contemporaneo ha paura del prodotto stesso del suo ingegno, della sua ricerca. La devastazione della natura, la messa in moto di dinamiche sociali che non si possono più controllare, la possibilità di intervenire con la scienza e la tecnica nei gangli più sacri della vita (la nascita e la morte), la potenzialità devastante della comunicazione di massa sono tutti fenomeni che incutono paura. Non perché in sé siano malvagi, ma perché inevitabilmente si portano dietro possibilità distruttive, possono innescare processi disumanizzanti.
È, in fondo, la domanda sul senso del progresso umano che non può essere accettato solo perché possibile. Se non si tiene presente la domanda sul senso (cioè la direzione) di quel processo e quindi non lo si sottopone alla verifica della sua positività, cioè il bene dell’uomo, di ogni singolo uomo, proprio quel progresso si trasforma in una minaccia. Oscuramente ma sensibilmente percepita come sorgente di paura.
Con quel suo grido a non avere paura Giovanni Paolo II toccava anche un altro, più profondo, livello. La paura di Dio e di Dio diventato uomo. Aggiungeva infatti: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». Quando Cristo fa paura? Quando sembra contraddire l’esigenza umana di compimento e di felicità. Ma il cristianesimo, ricordava con forza vibrante il nuovo Papa, non è contro l’uomo. Anzi solo in Cristo l’uomo trova se stesso (come dice un passaggio del documento conciliare Gaudium et Spes che Giovanni Paolo II amava citare, anche perché probabilmente ne è stato uno degli estensori) ed è quindi in grado di affrontare tutte le paure destate dalla situazione circostante.
Quel richiamo non era ovvio e scontato. Da molti infatti si pensava che il cristianesimo avrebbe potuto continuare ad avere corso nella storia se avesse in qualche modo messo da parte la propria pretesa di «salvare l’uomo» (quindi liberarlo dalla paura), per sciogliersi nel comune cammino umano. E infatti i primi mesi e anni del pontificato di Giovanni Paolo II videro un impressionante serie di attacchi al suo magistero. Non c’era pronunciamento pontificio che non venisse giudicato reazionario, repressivo, antimoderno, integralista. Una aggressione di cui forse oggi molti si dimenticano.
All’invito a non avere paura Giovanni Paolo II ispirò tutti gli atti del suo magistero. La sua prima enciclica Redemptor hominis è una risposta a chi sente Cristo come una minaccia, mentre Egli è la possibilità stessa del compimento umano. Un compimento che nessuna situazione esterna può impedire; come testimonia la stessa vicenda personale del Papa che ha dovuto lavorare per dedicarsi agli studi teologici e lottare strenuamente contro il potere marxista e ateo nella sua Polonia.
Nei suoi interminabili viaggi in tutti gli angoli del mondo, nessuna sfumatura dei pericoli incombenti sul cammino umano è stata da lui tralasciata. La forza della «verità sull’uomo portata dal cristianesimo» (quella stessa che gli veniva contestata dagli intellettuali progressisti, anche nella Chiesa, di tutto il mondo) si faceva in quei suoi pellegrinaggi giudizio pertinente sui mali e le storture in cui si imbatteva e, nel contempo e inestricabilmente, annuncio di speranza, invito a non cedere alla paura, indicazione di strade percorribili. Nessuno, poi, si nasconde il ruolo centrale che il Papa venuto dall’Est ha avuto nello scardinare il monolite sovietico e quindi ridisegnare i tratti stessi del conflitto tra i due blocchi.
Non è difficile constatare che, a trent’anni di distanza, la paura non sia venuta meno. Non più tardi di qualche settimana fa a Roma si è svolto un importante convegno incentrato proprio su questo fenomeno, che appare anzi sempre più invasivo. Certamente i dati dello scenario sono cambiati. A livello geopolitico, ad esempio, ci troviamo di fronte al fenomeno islamistico, che trent’anni fa era inimmaginabile, o a quello dell’immigrazione, che aveva dimensioni decisamente più ridotte. La paura delle conseguenze del progresso è invece ormai consapevolezza diffusa: le discussioni sulla bioetica, piuttosto che sull’invasività di internet (anch’essi fenomeni del tutto nuovi) lo sta a dimostrare.
Probabilmente questi trent’anni ci hanno resi più consapevoli che ci sono molte ragioni per temere. Ma, oggi come allora, la proposta contro la paura di Giovanni Paolo II resta identica: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». E, oggi come allora, è facile verificare l’efficacia di questa proposta: la paura è vinta dalla speranza.
SCUOLA/ Di fronte alla crisi del sistema formativo occorre un'autonomia basata su alleanze educative - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 17 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La seria crisi del nostro sistema formativo esige interventi culturalmente coraggiosi, chiaramente orientati a “liberarsi dall’arretramento normativo, dai pregiudizi e dai corporativismi che tendono alla conservazione dell’esistente”. Così sostenevamo alla fine del convegno di Roma nel novembre 2007. Così molte voci si sono levate a chiedere, fino alle recenti più autorevoli. Il manifesto conclusivo di quel convegno ribadiva le proposte presentate alla politica nel primo convegno del 1992 dal nucleo di presidi che nel 2001 fonderà DiSAL.
La chiave di volta di quelle proposte è solo ed innanzitutto la piena attuazione dell’autonomia scolastica, dato costituzionale da sempre inattuato. Oggi comprendiamo che non esisterà mai scuola autonoma se non radicata nel proprio territorio, intessuta di serie alleanze educative. Si tratta di “riconoscere che la bontà di una scuola non la realizza nessuno individualmente” (don Luigi Giussani, Il rischio educativo).
Gli elementi dell’autonomia sono semplici: veri organi di governo delle scuole; assegnazione diretta agli istituti per quota capitaria di tutte le risorse necessarie; reclutamento diretto dei professionisti e del personale; dirigenti scolastici messi in grado di rispondere dei risultati.
Il resto dei cambiamenti necessari, che proponiamo da tempo, ne costituiscono solo lo sviluppo: drastica riduzione di norme; livelli essenziali di apprendimento terminali; carriere per i professionisti della scuola con valutazione professionale legate al merito ed alle prestazioni; valutazione esterna delle scuole come miglioramento delle istituzioni; trasferimento della contrattazione al livello solo regionale e nazionale.
Oggi questo quadro di cambiamenti si deve misurare con l’esigenza di maggior rigore economico nella spesa pubblica, che tuttavia non può diventare pretesto per impoverire la scuola. Chi taglia deve avere un disegno adeguato alle prioritarie necessità formative.
Condividiamo pienamente quanto sostenuto dal Presidente della Repubblica: “Per quel che riguarda la scuola l'obiettivo di una minore spesa non può prevalere su tutti gli altri e va formulato con grande attenzione ai contenuti e ai tempi, in un clima di dialogo”.
La scuola travalica i governi ed ha bisogno di radici nelle comunità, in una concreta trama di soggetti educativi.
Le scuole, le famiglie, le comunità locali, le imprese, il mondo del volontariato sociale vanno messi in grado di affrontare i tanti problemi legati all’istruzione e formazione, uscendo dagli schemi dello scontro ideologico e della conservazione corporativa. Solo questa trama attiva di nuove alleanze permetterà all’impresa non più solitaria della scuola di riuscire.
Autonomia e competizione non in direzione di 10.000 isole in concorrenza fra loro, ma verso 10.000 piante radicate nel loro terreno sociale, tese ciascuna a promuovere alleanze. Per tutto questo occorrono nuove competenze anche nella direzione di scuola: saper lavorare in rete, governare alleanze territoriali, curare la creazione di valore aggiunto da parte della scuola e saperlo valutare. Occorre che la direzione di istituto sappia proporre una visione di sviluppo della scuola.
Lo scorso anno abbiamo sostenuto il forte nesso tra miglioramento dei risultati scolastici e direzione di qualità nelle scuole statali e non statali, tesa ad introdurre nei processi e nelle scelte il loro scopo, il vitale significato.
Se il dirigere è favorire esperienze educative indispensabili per l’imparare, le condizioni fondamentale saranno una concordia tra adulti e un realismo nel metodo. Dunque una forma di scuola che tenga al centro non un destinatario di contenuti, o un apprendista da adattare al mercato, ma la persona, mistero irriducibile: quei giovani sui quali la società tutta è chiamata ad investire tempo, energie e risorse.
194: L’ORDINANZA SULLE « LINEE » LOMBARDE - Se la scienza salva la vita ma il giudice s’intromette - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 17 ottobre 2008
I criteri di applicazione di una legge, ritenuti legittimi e già operanti da alcuni anni in diverse strutture sanitarie, non si possono estendere all’intero territorio regionale: questo il succo dell’ordinanza con cui nei giorni scorsi il Consiglio di Stato, respingendo il ricorso della Regione Lombardia contro una precedente sentenza del Tar, ha di fatto bocciato le linee guida regionali della 194, la legge che regolamenta l’aborto in Italia.
Le linee guida della Lombardia non erano prescrittive, ma estendevano semplicemente all’intera regione le migliori pratiche cliniche già esistenti, individuate dagli operatori sanitari di alcuni fra i principali ospedali lombardi: evidentemente per la Cgil, che aveva presentato il ricorso, e per i giudici che l’hanno avallato, tutto questo non significa una buona politica sanitaria.
Ci aspettiamo quindi la stessa severità e solerzia, da parte di giudici e sindacati, nei confronti del recente Piano sanitario della Regione Puglia, laddove questo dice che rispetto all’aborto «le Uu.Oo.(unità operative in ciascuna Asl; ndr)
individuate devono poter offrire tutte le possibili soluzioni terapeutiche, ivi compresa l’adozione delle metodiche non chirurgiche». Perché allora è doveroso estendere a tutto il territorio pugliese la pratica dell’aborto farmacologico, effettuata solo da alcune strutture sanitarie? Facciamo sommessamente notare, tra l’altro, che questo tipo di aborto prevede l’uso della pillola Ru486, che ancora non è commercializzata in Italia.
Il punto di maggiore contrasto delle linee guida lombarde è nel limite oltre il quale non è possibile effettuare aborti tardivi: 22 settimane e tre giorni, secondo i principali ospedali dove si effettuano questi aborti. La legge 194 al riguardo è estremamente chiara (e non ha «norme lasciate volutamente indeterminate dal legislatore», come invece recita il testo dell’ordinanza): secondo gli articoli 6 e 7, dopo i primi 90 giorni la donna può chiedere di abortire solamente se in grave pericolo di vita (non di salute), ma se c’è la possibilità di vita autonoma del feto l’aborto è vietato. In altre parole, se la donna continuando la gravidanza rischia di morire e però il feto ha la possibilità di sopravvivere, il medico non può effettuare l’aborto ma può indurre un parto precoce per cercare di salvare la vita a madre e figlio.
Saggiamente il legislatore non ha quantificato il periodo della gravidanza in cui il feto ha possibilità di vita autonoma: trent’anni fa le possibilità di sopravvivenza erano molto diverse da adesso. Nelle principali cliniche lombarde hanno verificato che sono sopravvissuti bambini nati dopo ventidue settimane e tre giorni di gestazione, e quindi hanno dedotto che per applicare correttamente la legge non si devono praticare aborti oltre quella data.
Secondo l’ordinanza del Consiglio di Stato, invece, questo criterio, seguito tra le altre dalla Clinica Mangiagalli di Milano, non solo non si può estendere a tutto il territorio regionale ma, al contrario, dipende solamente dalle valutazioni della donna e del medico, e non dagli articoli della legge e dalle conoscenze scientifiche consolidate. Un orientamento che crea un pericoloso precedente, rendendo arbitrari e inconsistenti i limiti imposti dalla 194.
Nel frattempo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella ha posto un quesito al Consiglio Superiore di Sanità, chiedendo di «formulare autorevole parere sulla definizione del concetto di vita autonoma del feto, nonché sull’epoca gestazionale che può essere assunta a riferimento per la comparsa della stessa», per poter dare poi indicazioni valide all’intero territorio nazionale.
Aspettiamo quindi il parere scientifico del Consiglio per chiarire i criteri di attuazione di questa parte della legge, che comunque ci sembrano già abbastanza espliciti.