giovedì 16 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: la Chiesa non è una categoria sociologica - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La Chiesa non è un'“associazione umana” interpretabile alla luce della sociologia, ma il Corpo mistico di Cristo, il segno della presenza amorevole di Dio, ha detto questo mercoledì Benedetto XVI.
2) All'udienza generale il Papa ricorda che tutti gli uomini sono chiamati a far parte dell'unico popolo di Dio - Il primo teologo della Chiesa - La Chiesa non è solo una "somma" di comunità locali diverse, né un'"associazione umana" nata dalla condivisione di idee o di interessi. All'udienza generale di mercoledì 15 ottobre, in piazza San Pietro, il Papa - proseguendo la catechesi dedicata a san Paolo - ha invitato ad andare "oltre l'immagine sociologica" della realtà ecclesiale per coglierne "la vera essenza profonda, cioè l'unità di tutti i battezzati in Cristo". – L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2008
3) “Nessuna sofferenza può prevalere sulla forza della vita” - Il messaggio dei Vescovi italiani per la Giornata per la Vita - ROMA, mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La vita umana è sempre e comunque un “bene inviolabile e indisponibile”. E' quanto ribadiscono i Vescovi italiani nel loro messaggio per la Giornata Nazionale per la Vita dal titolo “La forza della vita nella sofferenza”, che verrà celebrata il primo febbraio del 2009.
4) 15/10/2008 13:44 – PAKISTAN - Lahore, Conferenza degli Ulema: gli attacchi suicidi sono “non-islamici” di Qaiser Felix - Eminenti studiosi islamici del Paese ricordano che solo lo Stato può proclamare il jihad e non anche gruppi estremisti. Lanciata una fatwa contro gli attentati che insanguinano il Paese. Arcivescovo di Lahore: “nessuna religione approva il terrorismo”.
5) 16 novembre 1943 deportazione degli Ebrei di Roma - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 ottobre 2008
Per non dimenticare l’Olocausto e dare a Pio XII ciò che gli è dovuto - Lettera aperta
6) Gli occhi del cuore - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 ottobre 2008
7) Uno strumento per risolvere la crisi economica, e non solo... - Roberto Fontolan - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Le classi di inserimento per gli stranieri non sono ghetti, ma un’occasione di integrazione - Renato Farina - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) POVERTÀ/ 15 milioni gli italiani a rischio. Ecco tre proposte per fermare l'emergenza - Luca Pesenti - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) Insegnare NON stanca - La scuola illuminata: lo scopo della sfida educativa - Associazione Diesse - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) A trent'anni dall'elezione di Giovanni Paolo II - Il Papa che per dialogare - ripropose sempre la verità - Il cardinale Stanislaw Dziwisz racconta la sera del 16 ottobre 1978 - La Chiesa del silenzio cominciava a parlare - di Giampaolo Mattei – L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2008
12) A colloquio con Andrzej Maria Deskur, il porporato legatissimo a Wojtyla - Il mio amico Karol - di Wlodzimierz Redzioch – L’Osservatore Romano 16 ottobre 2008
13) QUEL PRIMO GIORNO DEL «PAPA POLACCO» - LA STORIA SI MISE A CORRERE MA IN UNA DIREZIONE INATTESA - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 16 ottobre 2008
14) Formigoni: scandalosi quei fondi per Roma - DA ROMA - ANGELO PICARIELLO – Avvenire, 16 ottobre 2008
15) Quanti inganni nella «pillola del giorno dopo» - di Filippo Boscia* - C ome da indicazioni terapeutiche della Gazzetta Ufficiale, il Norlevo viene definito come prodotto «contraccettivo d’emergenza». In realtà la sua azione chimica è quella di alterare l’equilibrio ormonale rendendo la mucosa uterina inadatta all’impianto embrionario o, in fase più avanzata, favorendo l’espulsione dell’embrione impiantato di recente. L’effetto è di indurre una sorta di mestruazione anticipata. Avvenire, 16 ottobre 2008
16) L’enciclica sulla verità - IDEE. A dieci anni dalla pubblicazione, un grande convegno fa il punto sulla «Fides et ratio» e sul suo influsso sulla cultura contemporanea - DI VITTORIO POSSENTI – Avvenire, 16 ottobre 2008


Il Papa: la Chiesa non è una categoria sociologica - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La Chiesa non è un'“associazione umana” interpretabile alla luce della sociologia, ma il Corpo mistico di Cristo, il segno della presenza amorevole di Dio, ha detto questo mercoledì Benedetto XVI.
E' quanto ha detto questo mercoledì Benedetto XVI durante l'Udienza generale in Piazza San Pietro, alla presena di circa 30 mila pellegrini, dedicata al concetto di Chiesa nel pensiero di San Paolo.
Continuando il ciclo di catechesi dedicato alla figura dell'Apostolo delle Genti, il Papa ha spiegato all'inizio che il vocabolo greco ekklēsía fa la sua apparizione nella prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo, il primo scritto in assoluto di un cristiano, databile attorno al 50/51 (a circa 20 anni dalla morte di Cristo).
Benedetto XVI ha poi ricordato che la stessa etimologia del vocabolo implica l'idea di una chiamata e non di un semplice riunirsi insieme.
“I credenti - ha spiegato - sono chiamati da Dio, il quale li raccoglie in una comunità”
La Chiesa è “la nuova comunità di credenti in Cristo che si sentono assemblea di Dio”; un'unica Chiesa di Dio che "non è solo una somma di diverse Chiese locali".
“Non è una associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di Dio – ha continuato –. Egli l’ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni. L’unità di Dio crea l’unità della Chiesa in tutti i luoghi dove si trova”.

San Paolo, ha proseguito il Papa, dopo la conversione ebbe subito chiaro “il valore fondamentale e fondante di Cristo e della 'parola' che Lo annunciava”.
“Paolo sapeva che non solo non si diventa cristiani per coercizione, ma che nella configurazione interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente legata alla 'parola' viva, all'annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a tutti i popoli e li unisce in un unico Popolo di Dio".

“Un popolo – ha proseguito – è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni”.
“Opportunamente l'Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni: profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni giorno la carità, tutti necessari per costruire l’unità vivente di questo organismo spirituale”.

La Chiesa, ha quindi aggiunto il Papa, “non è solo un organismo, ma diventa realmente Corpo di Cristo nel sacramento dell'Eucaristia”.

“Così la realtà va molto oltre l’immagine sociologica, esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l'unità di tutti i battezzati in Cristo, considerati dall'Apostolo 'uno' in Cristo, conformati al sacramento del Corpo”.

In Paolo il concetto di Chiesa si carica di una dimensione nuova: “Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di Dio – ha infatti aggiunto il Pontefice – , adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il luogo della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti”.

"Come famiglia e casa di Dio - ha detto il Papa - dobbiamo realizzare nel mondo la carità di Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua presenza”.

“Preghiamo il Signore affinché ci conceda di essere sempre più la sua Chiesa, il suo Corpo, il luogo della presenza della sua carità in questo nostro mondo e nella nostra storia”, ha poi concluso.
Al termine della catechesi, il Papa ha quindi rivolto dei saluti ai diversi gruppi di pellegrini presenti esortandoli a dedicare il mese di ottobre alla preghiera del Rosario.

In particolare, rivolgendosi ai fedeli polacchi alla vigilia del 30° anniversario dell’elezione di Giovanni Paolo II, ha detto di essere unito a loro nella preghiera.
Un incoraggiamento “a proseguire nell'impegno di cristiana solidarietà verso il prossimo” è quindi andato alle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana, che ricordano il primo centenario di fondazione della loro Associazione,
Infine, nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di Santa Teresa d’Avila, il pensiero del Papa è andato ai giovani e ai malati e agli sposi novelli: “questa grande Santa – ha affermato – testimonia [...] che l’amore autentico non può essere scisso dalla verità; mostra [...] che la croce di Cristo è mistero di amore redentore [...] ed è modello di fedeltà a Dio”.


All'udienza generale il Papa ricorda che tutti gli uomini sono chiamati a far parte dell'unico popolo di Dio - Il primo teologo della Chiesa - La Chiesa non è solo una "somma" di comunità locali diverse, né un'"associazione umana" nata dalla condivisione di idee o di interessi. All'udienza generale di mercoledì 15 ottobre, in piazza San Pietro, il Papa - proseguendo la catechesi dedicata a san Paolo - ha invitato ad andare "oltre l'immagine sociologica" della realtà ecclesiale per coglierne "la vera essenza profonda, cioè l'unità di tutti i battezzati in Cristo". – L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2008
Cari fratelli e sorelle,
ella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della relazione di Paolo con il Gesù pre-pasquale nella sua vita terrena. La questione era: "Che cosa ha saputo Paolo della vita di Gesù, delle sue parole, della sua passione?". Oggi vorrei parlare dell'insegnamento di san Paolo sulla Chiesa. Dobbiamo cominciare dalla costatazione che questa parola "Chiesa" nell'italiano - come nel francese "Église" e nello spagnolo "Iglesia" - essa è presa dal greco "ekklesía"! Essa viene dall'Antico Testamento e significa l'assemblea del popolo di Israele, convocata da Dio, particolarmente l'assemblea esemplare ai piedi del Sinai. Con questa parola è ora significata la nuova comunità dei credenti in Cristo che si sentono assemblea di Dio, la nuova convocazione di tutti i popoli da parte di Dio e davanti a Lui. Il vocabolo ekklesía fa la sua apparizione solo sotto la penna di Paolo, che è il primo autore di uno scritto cristiano. Ciò avviene nell'incipit della prima Lettera ai Tessalonicesi, dove Paolo si rivolge testualmente "alla Chiesa dei Tessalonicesi" (cfr poi anche "la Chiesa dei Laodicesi" in Col 4, 16). In altre Lettere egli parla della Chiesa di Dio che è in Corinto (1 Cor 1, 2; 2 Cor 1, 1), che è in Galazia (Gal 1, 2 ecc.) - Chiese particolari, dunque - ma dice anche di avere perseguitato "la Chiesa di Dio": non una determinata comunità locale, ma "la Chiesa di Dio". Così vediamo che questa parola "Chiesa" ha un significato pluridimensionale: indica da una parte le assemblee di Dio in determinati luoghi (una città, un paese, una casa), ma significa anche tutta la Chiesa nel suo insieme. E così vediamo che "la Chiesa di Dio" non è solo una somma di diverse Chiese locali, ma che le diverse Chiese locali sono a loro volta realizzazione dell'unica Chiesa di Dio. Tutte insieme sono "la Chiesa di Dio", che precede le singole Chiese locali e si esprime, si realizza in esse.
È importante osservare che quasi sempre la parola "Chiesa" appare con l'aggiunta della qualificazione "di Dio": non è una associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di Dio. Egli l'ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni. L'unità di Dio crea l'unità della Chiesa in tutti i luoghi dove essa si trova. Più tardi, nella Lettera agli Efesini, Paolo elaborerà abbondantemente il concetto di unità della Chiesa, in continuità col concetto di Popolo di Dio, Israele, considerato dai profeti come "sposa di Dio", chiamata a vivere una relazione sponsale con Lui. Paolo presenta l'unica Chiesa di Dio come "sposa di Cristo" nell'amore, un solo corpo e un solo spirito con Cristo stesso. È noto che il giovane Paolo era stato accanito avversario del nuovo movimento costituito dalla Chiesa di Cristo. Ne era stato avversario, perché aveva visto minacciata in questo nuovo movimento la fedeltà alla tradizione del popolo di Dio, animato dalla fede nel Dio unico. Tale fedeltà si esprimeva soprattutto nella circoncisione, nell'osservanza delle regole della purezza cultuale, dell'astensione da certi cibi, del rispetto del sabato. Questa fedeltà gli Israeliti avevano pagato col sangue dei martiri, nel periodo dei Maccabei, quando il regime ellenista voleva obbligare tutti i popoli a conformarsi all'unica cultura ellenistica. Molti israeliti avevano difeso col sangue la vocazione propria di Israele. I martiri avevano pagato con la vita l'identità del loro popolo, che si esprimeva mediante questi elementi. Dopo l'incontro con il Cristo risorto, Paolo capì che i cristiani non erano traditori; al contrario, nella nuova situazione, il Dio di Israele, mediante Cristo, aveva allargato la sua chiamata a tutte le genti, divenendo il Dio di tutti i popoli. In questo modo si realizzava la fedeltà all'unico Dio; non erano più necessari segni distintivi costituiti da norme e osservanze particolari, perché tutti erano chiamati, nella loro varietà, a far parte dell'unico popolo di Dio della "Chiesa di Dio" in Cristo.
Una cosa fu per Paolo subito chiara nella nuova situazione: il valore fondamentale e fondante di Cristo e della "parola" che Lo annunciava. Paolo sapeva che non solo non si diventa cristiani per coercizione, ma che nella configurazione interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente legata alla "parola" viva, all'annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a tutti i popoli e li unisce in un unico popolo di Dio. È sintomatico che Luca negli Atti degli Apostoli impieghi più volte, anche a proposito di Paolo, il sintagma "annunciare la parola" (At 4, 29.31; 8, 25; 11, 19; 13, 46; 14, 25; 16, 6.32), con l'evidente intenzione di evidenziare al massimo la portata decisiva della "parola" dell'annuncio. In concreto, tale parola è costituita dalla croce e dalla risurrezione di Cristo, in cui hanno trovato realizzazione le Scritture. Il Mistero pasquale, che ha provocato la svolta della sua vita sulla strada di Damasco, sta ovviamente al centro della predicazione dell'Apostolo (cfr 1 Cor 2, 2; 15, 14). Questo Mistero, annunciato nella parola, si realizza nei sacramenti del Battesimo e dell'Eucaristia e diventa poi realtà nella carità cristiana. L'opera evangelizzatrice di Paolo non è finalizzata ad altro che ad impiantare la comunità dei credenti in Cristo. Questa idea è insita nella etimologia stessa del vocabolo ekklesía, che Paolo, e con lui l'intero cristianesimo, ha preferito all'altro termine di "sinagoga": non solo perché originariamente il primo è più "laico" (derivando dalla prassi greca dell'assemblea politica e non propriamente religiosa), ma anche perché esso implica direttamente l'idea più teologica di una chiamata ab extra, non quindi di un semplice riunirsi insieme; i credenti sono chiamati da Dio, il quale li raccoglie in una comunità, la sua Chiesa.

In questa linea possiamo intendere anche l'originale concetto, esclusivamente paolino, della Chiesa come "Corpo di Cristo". Al riguardo, occorre avere presente le due dimensioni di questo concetto. Una è di carattere sociologico, secondo cui il corpo è costituito dai suoi componenti e non esisterebbe senza di essi. Questa interpretazione appare nella Lettera ai Romani e nella Prima Lettera ai Corinti, dove Paolo assume un'immagine che esisteva già nella sociologia romana: egli dice che un popolo è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni. Opportunamente l'Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni: profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni giorno la carità, tutti necessari per costruire l'unità vivente di questo organismo spirituale. L'altra interpretazione fa riferimento al Corpo stesso di Cristo. Paolo sostiene che la Chiesa non è solo un organismo, ma diventa realmente corpo di Cristo nel sacramento dell'Eucaristia, dove tutti riceviamo il suo Corpo e diventiamo realmente suo Corpo. Si realizza così il mistero sponsale che tutti diventano un solo corpo e un solo spirito in Cristo. Così la realtà va molto oltre l'immagine sociologica, esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l'unità di tutti i battezzati in Cristo, considerati dall'Apostolo "uno" in Cristo, conformati al sacramento del suo Corpo.
Dicendo questo, Paolo mostra di saper bene e fa capire a noi tutti che la Chiesa non è sua e non è nostra: la Chiesa è corpo di Cristo, è "Chiesa di Dio", "campo di Dio, edificazione di Dio, ... tempio di Dio" (1 Cor 3, 9.16). Quest'ultima designazione è particolarmente interessante, perché attribuisce a un tessuto di relazioni interpersonali un termine che comunemente serviva per indicare un luogo fisico, considerato sacro. Il rapporto tra Chiesa e tempio viene perciò ad assumere due dimensioni complementari: da una parte, viene applicata alla comunità ecclesiale la caratteristica di separatezza e purità che spettava all'edificio sacro, ma, dall'altra, viene pure superato il concetto di uno spazio materiale, per trasferire tale valenza alla realtà di una viva comunità di fede. Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di Dio, adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il luogo della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti.
Un discorso a parte meriterebbe la qualifica di "popolo di Dio", che in Paolo è applicata sostanzialmente al popolo dell'Antico Testamento e poi ai pagani che erano "il non popolo" e sono diventati anch'essi popolo di Dio grazie al loro inserimento in Cristo mediante la parola e il sacramento. E finalmente un'ultima sfumatura. Nella Lettera a Timoteo Paolo qualifica la Chiesa come "casa di Dio" (1 Tm 3, 15); e questa è una definizione davvero originale, poiché si riferisce alla Chiesa come struttura comunitaria in cui si vivono calde relazioni interpersonali di carattere familiare. L'Apostolo ci aiuta a comprendere sempre più a fondo il mistero della Chiesa nelle sue diverse dimensioni di assemblea di Dio nel mondo. Questa è la grandezza della Chiesa e la grandezza della nostra chiamata: siamo tempio di Dio nel mondo, luogo dove Dio abita realmente, e siamo, al tempo stesso, comunità, famiglia di Dio, il Quale è carità. Come famiglia e casa di Dio dobbiamo realizzare nel mondo la carità di Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua presenza. Preghiamo il Signore affinché ci conceda di essere sempre più la sua Chiesa, il suo Corpo, il luogo della presenza della sua carità in questo nostro mondo e nella nostra storia.


(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)


“Nessuna sofferenza può prevalere sulla forza della vita” - Il messaggio dei Vescovi italiani per la Giornata per la Vita - ROMA, mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La vita umana è sempre e comunque un “bene inviolabile e indisponibile”. E' quanto ribadiscono i Vescovi italiani nel loro messaggio per la Giornata Nazionale per la Vita dal titolo “La forza della vita nella sofferenza”, che verrà celebrata il primo febbraio del 2009.
“Con serenità, ma anche con chiarezza” il Consiglio pastorale permanente sottolinea che “non può mai essere legittimato e favorito l’abbandono delle cure, come pure ovviamente l’accanimento terapeutico, quando vengono meno ragionevoli prospettive di guarigione”.
Al contrario, per la Chiesa italiana, “la strada da percorrere è quella della ricerca, che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per combattere e vincere le patologie – anche le più difficili – e a non abbandonare mai la speranza”.
La vita, affermano i presuli, è fatta per la serenità e la gioia, anche se “si può soffrire per una malattia che colpisce il corpo o l’anima; per il distacco dalle persone che si amano; per la difficoltà a vivere in pace e con gioia in relazione con gli altri e con se stessi”.
In ogni caso, “la sofferenza appartiene al mistero dell’uomo e resta in parte imperscrutabile”.
Di qui l’appello della Chiesa italiana “ai parenti e agli amici dei sofferenti, a quanti si dedicano al volontariato, a chi in passato è stato egli stesso sofferente e sa che cosa significhi avere accanto qualcuno che fa compagnia, incoraggia e dà fiducia”.
I Vescovi italiani affrontano poi il tema dell’aborto: “Talune donne, spesso provate da un’esistenza infelice, vedono in una gravidanza inattesa esiti di insopportabile sofferenza”.
“Quando la risposta è l’aborto – proseguono – , viene generata ulteriore sofferenza, che non solo distrugge la creatura che custodiscono in seno, ma provoca anche in loro un trauma, destinato a lasciare una ferita perenne”.
Ma, spiegano, “al dolore non si risponde con altro dolore”, e propongono come alternativa all’aborto “soluzioni positive e aperte alla vita, come dimostra la lunga, generosa e lodevole esperienza promossa dall’associazionismo cattolico”.
“La via della sofferenza – si legge ancora nel messaggio – si fa meno impervia se diventiamo consapevoli che è Cristo, il solo giusto, a portare la sofferenza con noi”.


15/10/2008 13:44 – PAKISTAN - Lahore, Conferenza degli Ulema: gli attacchi suicidi sono “non-islamici” di Qaiser Felix - Eminenti studiosi islamici del Paese ricordano che solo lo Stato può proclamare il jihad e non anche gruppi estremisti. Lanciata una fatwa contro gli attentati che insanguinano il Paese. Arcivescovo di Lahore: “nessuna religione approva il terrorismo”.
Lahore (AsiaNews) – Un conferenza che raduna accreditati dottori islamici pakistani, riunita a Lahore, ha dichiarato ieri che gli attentati suicidi sono “non-islamici e vietati”, ricordando che solo lo Stato ha l’autorità di proclamare il jihad (guerra santa), non anche individui o gruppi.
Il Consiglio Muttahida degli Ulema, durante la conferenza a Jania Naeemia, ha persino lanciato unanime una fatwa (editto) contro la recente ondata di attentati esplosivi suicidi che hanno ucciso centinaia di persone nel Paese.
L’arcivescovo Lawrence John Saldanha, presidente della Conferenza episcopale cattolica pakistana, ha plaudito e sostenuto questa fatwa. Ad AsiaNews ha spiegato che “nessuna religione approva il terrorismo e le esplosioni suicide”.
Anche Malik Rehman, consigliere del Primo ministro per gli Interni, ha lodato questa fatwa e ha auspicato che possa dissuadere gli estremisti suicidi.
I chierici sono, però, critici verso il governo che – dicono – con il pretesto della lotta al terrorismo, persegue gli obiettivi degli Stati Uniti. Lo sollecitano a sospendere le operazioni militari nelle aree tribali e a cercare soluzioni negoziate con quelle popolazioni. Hanno anche deciso di inviare una loro delegazione a Bajaur e Swat, zone di guerra civile, per accertare l’esatta situazione.
Il gruppo Tehreek-e Taliban Pakistan e vari politici hanno chiesto che i cosiddetti terroristi possano intervenire in parlamento per esporre il loro punto di vista.
Richiesta criticata da mons. Saldanha, che non ritiene utile simile intervento di gente abituata a propagandare idee estremiste e affermare le idee con le armi.
Il prelato si dice “ottimista” che le “sessioni a porte chiuse in corso nel parlamento possano permettere la scelta delle migliori politiche per il Paese”.


16 novembre 1943 deportazione degli Ebrei di Roma - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 ottobre 2008
Per non dimenticare l’Olocausto e dare a Pio XII ciò che gli è dovuto - Lettera aperta
Caro Leone,
grazie per la Tua cortese attenzione nell’informarci di iniziative così significative ed opportune. Se invece che a Milano abitassi a Roma avrei partecipato fisicamente alla Vostra marcia, invece che solo spiritualmente.

Il dottor Leone Gianturco, membro della Comunità di Sant’Egidio, è un caro amico con cui ho condiviso la partecipazione alla Fondazione Giustizia e Solidarietà per la diminuzione del debito estero dei Paesi più poveri; iniziativa che ha coinvolto la Chiesa italiana durante l’anno del giubileo del 2000. In questi giorni mi ha informato di questa iniziativa.

Dal Sito della Comunità di Sant’Egidio stralciamo quanto segue.

Si è svolta a Roma, in questi giorni la Marcia della Memoria della deportazione degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943. Quest’anno è il 65° anniversario del tragico evento, e sono ormai 15 anni che la Comunità di Sant’Egidio organizza questa memoria insieme alla Comunità Ebraica di Roma.
Particolarmente numerosi quest’anno i partecipanti alla marcia: tra cui diversi immigrati ed alcuni sopravvissuti allo sterminio nei campi nazisti.

Le Personalità intervenute hanno dichiarato.
La manifestazione si è aperta a piazza Santa Maria in Trastevere, con le parole di Mons. Matteo Zuppi, parroco della Basilica e assistente ecclesiastico della Comunità di Sant’Egidio, che ha espresso il significato della marcia: “Ricordare è rivivere; rivivere il dolore di quel giorno per non dimenticare e capire. Capire, perché questo non avvenga più per nessuno.”
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha ringraziato la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Ebraica di Roma. Egli ha ricordato che ogni forma di razzismo deve essere combattuta e ogni minoranza protetta, per costruire una città più umana per tutti.
Il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo ha sottolineato il significato della marcia: “stare insieme”, proprio in un momento in cui “il nemico potrebbe diventare il diverso.”
Nelle parole del rabbino capo di Roma Riccardo di Segni, l’eco della memoria di quel 16 ottobre del 1943. Dopo aver ricordato che anche allora, come oggi, la comunità ebraica festeggiava la Festa delle Capanne, il rabbino ha sottolineato che la marcia non è solo un momento di memoria, ma di educazione continua.

Il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha indicato la responsabilità di consegnare la testimonianza della memoria alle future generazioni e ha sottolineato come la particolarità dell’evento organizzato dalla sua Comunità con la Comunità di Sant’Egidio sia nel: “portare tutti, da differenti culture a portare la fiaccola insieme”. Ha quindi ringraziato gli immigrati presenti, affermando che “siamo qui per portare avanti i valori dell’accoglienza.”
Renzo Gattegna, presidente della Comunità Ebraica Italiana ha detto che la lotta per la fraternità non è vinta per sempre, ma: “occorre rinsaldare continuamente la nostra alleanza, mantenere viva la memoria per trasmetterla ai più giovani”.
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità si Sant’Egidio, ha ripreso la domanda: “Che cosa succederà quando noi non ci saremo più?” e ha detto:”La vostra presenza qui oggi è una risposta. Il 16 ottobre rimarrà un evento costitutivo di Roma. …. Siamo una unione di gente diversa che condivide una grande umanità, generatrice di una visione serena per il futuro. Non abbiamo paura perché ci sentiamo uniti sulla strada del rispetto degli altri”.

Sin qui dal Sito della Comunità Sant’Egidio.

Caro Leone, voglio sperare che, anche se non riportato nel sito, si sia ricordato ai nostri “fratelli maggiori”, come li ha chiamati Giovanni Paolo II, che dobbiamo sentirci tutti uniti sulla strada del rispetto degli altri, e che ogni momento di memoria, è anche un’occasione di educazione continua per ciascuno, nessuno escluso.

Stridono non poco le parole che pochi giorni prima proprio il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha pronunciato dichiarando che il via libera di Benedetto XVI per la beatificazione di Pio XII non è stato gradito dalla comunità ebraica romana, il cui portavoce, ha ricordato come nessuno abbia visto papa Pacelli al Portico d’Ottavia dopo il 16 ottobre 1943, quando le truppe naziste diedero il via alla deportazione di massa degli ebrei dal Ghetto romano. E non sono queste le parole più aspre dette in questa occasione.

Benedetto XVI interpretando il medio sentire del popolo cristiano ha detto recentemente che Pio XII è intervenuto «ovunque fosse possibile» in favore degli ebrei e spesso lo ha fatto «in modo segreto e silenzioso» per «evitare il peggio» e salvarne «il più gran numero possibile». «Quando ci si accosta senza pregiudizi ideologici alla nobile figura di questo Papa, oltre ad essere colpiti dal suo alto profilo umano e spirituale, si rimane conquistati dall’esemplarità della sua vita e dalla straordinaria ricchezza del suo insegnamento. Si apprezza la saggezza umana e la tensione pastorale che lo hanno guidato nel suo lungo ministero e in modo particolare nell’organizzazione degli aiuti al popolo ebraico».

Fare di Pio XII – come scrive David G. Dalin – un bersaglio del nostro sdegno morale contro i nazisti e annoverare il cattolicesimo fra le istituzioni delegittimate dall’orrore dell’Olocausto significa mancare di comprensione storica.

Infatti tra le moltissime testimonianze dirette di contemporanei che si possono citare, ricordiamo:
Albert Einstein, che il 23 dicembre 1940 dichiarava: “Soltanto la Chiesa si oppose pienamente alla campagna di Hitler che mirava a sopprimere la verità. Non avevo mai avuto un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento per essa grande amore e ammirazione, perché soltanto la Chiesa ha avuto il coraggio e la perseveranza di difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Sono quindi obbligato a confessare che ciò che prima avevo disprezzato ora elogio senza una qualsiasi riserva”
.Mentre nel settembre 1945 Leon Kubowitzky, segretario generale del Congresso mondiale ebraico, ricevuto da Pio XII, gli disse: “Il Congresso mondiale ebraico mi ha pregato di esprimervi... la riconoscenza delle nostre comunità per quanto la Chiesa ha tentato di fare e tuttora fa a favore della nostra nazione perseguitata.”

Mi ha particolarmente colpito una dichiarazione recentissima apparsa sul sito di UAAR - Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – “A me il fatto che il Papa sia o non sia andato nel portico dopo il 16 ottobre non sembra determinante: cosa conta un’ apparizione o un bel discorso fatto alla piazza… quello che conta sono i fatti. Quindi io stimo di più Pio XII che i molti diplomatici di oggi.”

Probabilmente molti sanno che la Nunziatura della Santa Sede presso lo Stato italiano, risiede nel centro di Roma in una bellissima casa patrizia circondata da un magnifico parco, dono di un Ebreo a Pio XII per ringraziarlo di quanto aveva fatto per gli ebrei a Roma, in Italia, e non solo.

Nell’estate del 1944, dopo la liberazione di Roma e prima della fine della guerra, Pio XII disse a un gruppo di Ebrei romani che erano venuti a ringraziarlo per la sua protezione: “Per secoli gli ebrei sono stati ingiustamente trattati e disprezzati. È tempo che vengano trattati con giustizia e umanità. Dio lo vuole e la Chiesa lo vuole. San Paolo ci dice che gli ebrei sono nostri fratelli. Essi dovrebbero essere accolti come amici”.

Tutto ciò che meritano di domanda di perdono, di condivisione e di solidarietà piena e sincera, non li autorizza a ritenersi giudici di ultimo grado, senza il confronto necessario per sentirci tutti uniti sulla strada del rispetto degli altri, e perché ogni momento di memoria sia anche un’occasione di educazione continua per ciascuno, nessuno escluso. Questa sincerità di rapporti è necessaria affinché il rispetto per i nostri fratelli maggiori sia autentico; ed è autentico se si fonda su di un confronto franco leale ed onesto sulla strada della ricerca comune della verità, nonostante possa essere una strada faticosa.

Tutto ciò che meritano di domanda di perdono, di condivisione e di solidarietà piena e sincera, non può relegarci in una soggezione che ci impedisce di dirci come siamo e come sentiamo; più che una soggezione sarebbe un rifuggire dalla fatica della fratellanza vera.

Caro Leone, grazie per la Tua attenzione; se è vero che la verità ci farà liberi, occorre pagare alla verità il tributo che merita da parte di tutti.


Gli occhi del cuore - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 ottobre 2008
Diceva la volpe ne “il Piccolo Principe” che “non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Sembra una favola per bambini, ma racchiude una verità dell’esperienza. Certo, occorre percepirsi uomini, non abituati a trascurare se stessi, i propri bisogni e i desideri più profondi. Percepirsi vivi, almeno arricciare il naso di fronte all’omologazione generale. La lettura de “Il piccolo principe” fa ritrovare all’adulto quella parte di sé segregata in un punto recondito della coscienza. Si ridestano e risuonano nel cuore sentimenti sopiti. Nel libro è descritta una posizione umana cristallina, piena d’incanto nella sua disarmante ingenuità; colpisce perché tocca una corda del cuore, rimasta lì, sepolta da strati di polvere, magari un po’ sfilacciata ma ancora viva. Niente di sentimentale, tutto solidamente umano poiché ancorato alla realtà dell’Essere, perciò religioso. In questi giorni abbiamo sentito parlare di cuore in un modo tanto semplice quanto potentemente sorprendente, quindi corrispondente. È stato il Papa a stupirci. Ci ha ricordato che “solo con il cuore si conosce veramente una persona”. Se restiamo legati a una conoscenza “secondo la carne”, ci fermiamo all’esteriorità, siamo superficiali. O, come i farisei al tempo di Gesù, conosciamo i comportamenti degli altri, li misuriamo giudicando severamente, ma non conosciamo “il nucleo della persona”. Non per nulla Gesù ha chiesto agli apostoli: “Chi dite voi che io sia?” Solo chi accetta di implicare se stesso fino al livello del cuore può rispondere veramente a questa domanda. Benedetto XVI ha esposto queste osservazioni parlando di San Paolo, l’uomo che ha accettato che l’amicizia con Gesù incontrato sulla via di Damasco chiamasse in causa il suo cuore. Sia si tratti di rapporti umani, sia si tratti del rapporto con Dio, la dinamica in atto è sempre la stessa. Una conoscenza affettiva, un “cuore che parla al cuore”. Nell’ambito dell’ umano, infatti, non è la conoscenza scientifica o analitica o una presunta posizione oggettiva che permette la conoscenza e la comprensione dell’altro. Nel messaggio inviato al Congresso sull’“Humanae vitae”, il Papa si chiede a cosa sia dovuta la difficoltà –anche di molti fedeli- a comprendere il messaggio della Chiesa che difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale. “La tecnica non può sostituire la maturazione della libertà quando è in gioco l’amore. Neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze di un grande amore”. Cosa significa guardare con gli occhi del cuore? Significa vivere pienamente l’ontologia del nostro essere. Il cuore, luogo delle esigenze elementari donate dalla natura, è un criterio oggettivo proprio poiché donato, non costruito dal pensiero o prodotto di un contesto sociale; il criterio del cuore è infallibile poiché espressione dell’esigenza di bellezza, di verità, di giustizia comuni a tutti gli uomini. “Preso” dall’incontro con Cristo, il cuore non sbaglia, riconosce subito l’immediata corrispondenza con le proprie esigenze. “Io sono tuo”, ci dice Cristo nel Battesimo. A noi tocca corrispondergli. Con il cuore (meditazione del Papa al sinodo).


Uno strumento per risolvere la crisi economica, e non solo... - Roberto Fontolan - giovedì 16 ottobre 2008
Qualche giorno fa, commentando il salmo, Benedetto XVI ha usato una frase che ha fatto il giro del mondo: «I soldi non sono nulla, solo Dio è eterno».
Il Papa ha rivolto le sue parole a un mondo sconvolto dall’uragano finanziario che si è abbattuto in modo particolare su quell’Occidente “cristiano” che deve il suo benessere e il suo progresso proprio alla storia cristiana iniziata con il monachesimo benedettino, come sempre il Papa aveva detto in Francia a metà settembre, in un meraviglioso discorso sulla cultura.
Oggi, di fronte ad un crisi radicale, vediamo come questo stesso mondo non sappia affrontare la natura profonda di questa crisi, pretendendo di curare la malattia delle banche con le banche, il denaro con altro denaro, la politica economica con altra politica economica: non può, non vuole andare oltre la superficie.
Ci vuole un’altra proposta, un’altra cultura. Nel passare del tempo essa ha preso il nome di “Dottrina sociale della Chiesa” e cioè l’insieme dei documenti di rilevanza sociale che a partire dall’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII si è sviluppato nella Chiesa attraverso il Magistero dei Pontefici e dei Vescovi arrivando ai giorni nostri. Chi voglia affrontare e approfondire questa altra proposta, questa altra cultura può sfogliare il Compendio della Dottrina Sociale, voluto dall’eroico cardinale vietnamita Van Thuan, morto nel 2002, quando era capo del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace.
Nei suoi 583 brevi articoli (per circa 300 pagine), ciascuno contenente la proposizione fondamentale seguita da una spiegazione e dai riferimenti testuali, viene dispiegata la straordinaria sapienza della Chiesa “esperta in umanità”. C’è tutto ciò che noi possiamo intuire e conoscere dell’uomo concreto, del suo bisogno, della sua ansia di giustizia e della sua incapacità di raggiungerla, della sua propensione al bene e della sua resa al male.
A fondamento della Dottrina sociale c’è il «disegno di amore di Dio per l’umanità» che attraverso l’avvenimento di Cristo «redime non soltanto la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini»; e dunque così come cambia la persona, cambia anche i rapporti sociali per renderli rispondenti alle esigenze del Regno di Dio. Nei cristiani infatti abita la «fondata speranza che per tutte le persone umane è preparata una nuova ed eterna dimora, una terra in cui abita la giustizia».
La costruzione di questa dimora è affidata alle mani dell’uomo, alla sua libera azione. Un dramma, certo, perché implica istante dopo istante l’adesione dell’uomo alla fede in Gesù («anche oggi pongo davanti a te la vita e la morte», dice la Bibbia), fonte delle scelte, fonte dell’agire. E forse il dramma più profondo dell’esistenza dell’uomo, che faticosamente costruisce e facilmente distrugge.
È proprio della Dottrina sociale proporsi come una continua elaborazione e approfondimento (un “cantiere” la definisce il Compendio): non si troveranno dunque formule e schemi che chiudono e imprigionano la mutevole realtà socio-politica. Non è una ideologia, non è frutto di una analisi sul mondo, e nemmeno di una illuminazione interiore.
Più che un insieme di contenuti, la Dottrina sociale propone un metodo. Un metodo di lavoro e un metodo di costruzione. C’è un centro, che è la persona umana; e ci sono i principi ispiratori dell’azione cristiana (e umana). Vale la pena elencarli: il bene comune, la destinazione universale dei beni (da prendere molto sul serio), la sussidiarietà, la partecipazione, la solidarietà (che è insieme una virtù morale e un principio ordinatore delle istituzioni).
Per agire, da politici, da banchieri, da uomini comuni, non ci sarebbe bisogno di altro, ma all’articolo 583, l’ultimo, il Compendio svela l’ultimo segreto: «Solo la carità può cambiare completamente l’uomo».


SCUOLA/ Le classi di inserimento per gli stranieri non sono ghetti, ma un’occasione di integrazione - Renato Farina - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Impressionante. Quando la sinistra – non quella riformista ma ideologica – parte, non la si può più fermare nella corsa a sfasciare tutto. Nel campo della scuola avevamo previsto già mesi fa proprio su Il Sussidiario questo andazzo. Scrivevamo che Veltroni avrebbe cercato di compattare la sua leadership lanciando le truppe tradizionalmente fedeli contro il governo. E dover trovarle se non nella scuola e nell’università? Ecco fatto. Dunque scioperi, occupazioni eccetera. Il tutto sulla base di proclami astratti, con accuse surreali addirittura di razzismo indirizzati alla maggioranza e al ministro Gelmini in particolare.
Ci riferiamo in particolare alla mozione della Lega sulla formazione delle classi, che è stata fatto propria anche dal Popolo della libertà. L’idea è molto semplice, e nasce da una considerazione pratica. Oggi molti bambini e ragazzi stranieri entrano nella scuola senza sapere l’italiano. Non solo: spesso sono la maggioranza. Il risultato è una particolare lentezza nello sviluppo dei programmi, tale per cui molte famiglie italiane preferiscono trasferire altrove i propri figli. Sarà ingiusto, ma accade così. Il risultato è che nascono classi-ghetto, dove la maggioranza o addirittura la grande maggioranza degli alunni sono stranieri, proveniente dalle più svariate nazionalità. Il risultato è il caos. Si parli con insegnanti non ideologizzati: converranno. La richiesta viene proprio dal mondo della scuola. Si tratta di creare una corsia che renda agevole l’inserimento. Dove sta lo scandalo? Famiglia cristiana è partita lancia in resta con la solita accusa: razzismo, una mozione che spinge alla espulsione. In realtà si tratta esattamente del contrario. Nasce dalla volontà di integrazione, non di discriminazione. Ed è una vera vergogna che Piero Fassino si sia impancato a dare giudizi morale sul prossimo, sostenendo con linguaggio violento che si tratterebbe di una «abiezione tanto più grave perché diretta contro i bambini, contro i più piccoli». Oltretutto queste classi di transizione saranno frequentate solo da chi effettivamente non parla l’italiano, perché la si dovrà frequentare se non si supera un test di comprensione. Dopo di che nessuna classe potrà più avere un numero di stranieri che possano trasformarla in una enclave di questa o quella nazionalità.
Cose semplici. Pragmatiche. Un paragone tra metodologie, dove nessuno dovrebbe dare lezioni di limpida coscienza umanitaria all’altro. Invece è venuto giù il mondo. Sindacati, partiti, intellettuali: i bambini extracomunitari sono sembrati essere la preda ambita di una caccia infame. Il tutto è stato abilmente innescato da titoli di quotidiani monocordi. Repubblica: «A scuola classi solo per immigrati». E il Corriere: «Sì a classi separate per stranieri». Con tanto di morale fatta trarre dal direttore di Famiglia cristiana: «Altro che integrazione. Così si punta all’espulsione».
Serietà, merito, disciplina, riconoscimento dell’autorità, tentativo di introdurre i bambini in un mondo culturale dove il dato dominante della nostra tradizione non sia annacquato, senza negare le differenze ma valorizzandole. Per valorizzarsi però bisogna capirsi. Prepararsi per capirsi, secondo modi che non offendano alcuno, sarà l’impegno del governo. Partire negando la buona fede del governo e della maggioranza significa trattare da razzista la più parte degli italiani che ha voglia di cambiare la scuola anche attraverso pochi e chiari punti fermi.
Vedremo se poi il governo avrà il coraggio, come chiesto da chi finora lo ha difeso, di aprire realmente alla parità scolastica, senza cui gli impegni di serietà, merito e autorità sarebbero affidati alla solita burocrazia di Stato.


POVERTÀ/ 15 milioni gli italiani a rischio. Ecco tre proposte per fermare l'emergenza - Luca Pesenti - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
L’annuale “Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia” presentato ieri dalla Caritas rilancia con forza dati ed elementi analitici già sufficientemente noti, desunti in buona parte dalle fonti ufficiali (ISTAT ed Eurostat in particolare). In particolare, torna a puntare l’attenzione su tre questioni centrali.
La prima riguarda le dimensioni della fascia di popolazione a rischio di povertà. La cifra monstre di 15 milioni di persone che vivrebbero sull’orlo o dentro l’abisso della povertà è un dato impressionante, che però andrebbe relativizzato tenendo conto delle particolari modalità di calcolo da cui trae origine. Tale cifra, contenente le due categorie dei “poveri” e dei “quasi poveri”, riguarda infatti la dimensione della povertà relativa, ovvero calcolata come scostamento della quota di consumi di una famiglia messa in relazione con la media dei consumi presenti nel complesso della popolazione. Il che, naturalmente, non significa automaticamente che quella famiglie possa essere definibile come “assolutamente povera”.
Si tratta di un tema annoso, che anche il “Libro Verde sul welfare” ha recentemente riproposto. Tutto ciò naturalmente nulla toglie a una percezione diffusa di impoverimento, che in Italia si respira fin dal 2002, anno dell’introduzione dell’euro con il conseguente balzo in avanti dell’inflazione percepita prima e di quella ufficiale poi. Percezione (e rischio concretissimo) che oggi tende a rafforzarsi sulla scorta della grave crisi finanziaria con la quale il mondo intero si sta misurando.
La seconda questione posta è anch’essa da alcuni anni al centro della riflessione sociologica e politologia, e riguarda le categorie a maggior rischio: persone non autosufficienti (soprattutto anziani) e famiglie con (tanti) figli. Come a dire che la povertà si annida là dove c’è bisogno di cura e, nel caso delle famiglie con figli, soprattutto là dove ci sono persone che si assumono maggiori responsabilità sociali. Un tema mai sufficientemente affrontato e che fa riflette sulla sostanziale ingiustizia del nostro sistema di politiche sociali.
Il che apre alla terza questione, e cioè quella dell’inefficacia delle misure pubbliche nel contrastare il fenomeno della povertà, poggiata invece su fondamenta statistiche più solide.
La tabella 1 mostra con chiarezza il fallimento delle politiche di trasferimento (monetari o in servizi) applicata nel nostro Paese e più in generale nei Paesi mediterranei, in particolare se si compara il dato con i Paesi scandinavi dal welfare “munifico”. È un dato che conferma la sensazione di un welfare italiano capace di garantire assistenza e servizi alle categorie più garantite, ingenerando un circolo vizioso che contraddice il principio stesso di redistribuzione insito nell’idea di welfare.
Tabella 1: Persone a rischio di povertà, prima e dopo i trasferimenti sociali (valori %)
Prima dei trasferimenti sociali (pensioni escluse) Dopo i trasferimenti sociali % di diminuzione
EU15 26 16 38,5
BE 27 15 44,4
DK 28 12 57,1
DE 26 13 50,0
IE 33 18 45,5
GR 23 21 8,7
ES 24 20 16,7
FR 25 13 48,0
IT 24 20 16,7
LUX 24 14 41,7
NL 21 10 52,4
AT 25 13 48,0
PT 25 18 28,0
FI 29 13 55,2
SW 29 12 58,6
UK 30 19 36,7
Fonte: Eurostat, 2006
Questo spinge la Caritas a mettere sotto accusa il modello di politiche sociali prevalente in Italia, e in particolare il sistema dei trasferimenti monetari, sotto le due forme degli assegni famigliari e delle indennità di accompagnamento. Trasferimenti che seguono protocolli generali e astratti e che paiono incapaci di intercettare e risolvere i bisogni più estremi, come appunti quelli di chi rischia la povertà. La proposta Caritas è di trasformare questo sistema in un modello fortemente personalizzato e, per quanto possibile, di convertire i soldi trasferiti in servizi.
Si tratta certamente di un tema importante, la cui declinazione pratica resta un po’ generica nelle formulazioni proposte dalla Caritas.
Ci permettiamo in questa sede di avanzare tre modeste proposte. Da un lato l’introduzione di forme di perequazione fiscale (quoziente famigliare), che toglierebbe dal rischio di povertà soprattutto le famiglie con figli. Dall’altro il trasferimento della gestione dei diritti esigibili (assegni e indennità) dallo Stato alle Regioni, ponendo le premesse per un effettivo controllo nell’utilizzo degli stessi, evitando così un utilizzo a pioggia, incontrollato e incontrollabile, come è in questo momento.
Per ultimo, è bene ricordare come il miglioramento delle performance da parte delle amministrazioni pubbliche in tema di assistenza si può raggiungere solo aumentando la capacità di queste ultime di costruire una rete pubblico/privata di servizi, permettendo così al privato sociale mosso da motivazioni ideali di intervenire in modo più ampio, autonomo ed efficace di quanto non sia in grado di fare ora nella maggioranza dei territori italiani.


Insegnare NON stanca - La scuola illuminata: lo scopo della sfida educativa - Associazione Diesse - giovedì 16 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Sabato 11 ottobre più di 400 insegnanti lombardi si sono ritrovati nell'aula magna dell'Università Cattolica di Milano per il convegno promosso da Diesse Lombardia (www.diesse.org; www.diesselombardia.it) sul tema: "La scuola illuminata. Insegnanti: quale compito? verso quale scuola?".
Come ospite d'onore era presente Eraldo Affinati, insegnante e scrittore che, attraverso le storie dei suoi allievi, ragazzi giunti in Italia in fuga dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza e ospitati alla "Città dei ragazzi" (istituzione educativa fondata dopo la seconda guerra mondiale per gli orfani di guerra), intraprende nei suoi romanzi un viaggio alla ricerca delle proprie radici, svolgendo una profonda meditazione sulla paternità e sul senso profondo del "mestiere" di vivere e di insegnare.
Sono intervenuti anche la prof.ssa Mariella Ferrante, Presidente di Diesse Lombardia e il prof. Franco Nembrini, docente di lettere.
Il dibattito, moderato dal giornalista Roberto Persico, ha affrontato, soprattutto grazie alle parole di Mariella Ferrante, la situazione attuale della scuola, in cui si incrociano non solo elementi oggettivi di crisi e un disagio soggettivo di tutti i protagonisti della scuola, ma anche incomprensioni, riduzioni ideologiche e proteste che rivelano spesso la difficoltà a collocare i vari fattori in un giudizio e in una prospettiva globali.
Franco Nembrini ha ricordato a tutti che l'emergenza educativa, oggi tanto di moda sui giornali, si configura innanzitutto come una sfida educativa ed è pertanto necessaria una vera e propria battaglia per l'educazione, che parta dall'assunzione di responsabilità personale di ciascuno e dall'alleanza con tutti quei soggetti che, nella scuola e fuori dalla scuola, hanno ancora a cuore il problema della formazione e della crescita degli uomini.
Eraldo Affinati ha testimoniato come, anche e soprattutto di fronte a bisogni che vanno prepotentemente al di là della semplice istruzione, come succede quotidianamente nella Città dei Ragazzi, alle porte di Roma, dove lui insegna, il rapporto educativo è sempre possibile e incomincia proprio col prendere sul serio le circostanze e le domande dei nostri allievi.
Come è successo a lui che, incalzato dagli inviti di alcuni ragazzi, non volendo "mollare" sulla questione, è finito fino in Marocco, a incontrare le loro famiglie. O come quando ha rivelato che la sua professione-vocazione presso i ragazzi emarginati e senza una famiglia accanto, parte anche dal suo rapporto con suo padre, che era un orfano come molti di questi ragazzi, e che non ha avuto la grazia di incontrare ciò che oggi Eraldo può far incontrare a tanti giovani cittadini della Città dei Ragazzi.
Tra le varie iniziative in corso, Diesse Lombardia ha lanciato il primo numero dell'Accendino e il forum online dell'Accendino, aperti alla collaborazione di tutti (email admin@diesselombardia.it): due volte al mese, l'Accendino uscirà con una notizia online che racconta spunti, fatti e storie positive dal mondo della scuola e dell'educazione, storie cioè che illuminano una quotidianità che non è solo fatta di frustrazioni e di follie alla YouTube, ma anche di tanti generosi tentativi che sono eroici proprio per la loro semplicità e quotidianità, proprio perché non si sono identificati con la resa dominante, ma hanno voluto stare di fronte ai bisogni degli uomini con tutta la drammaticità e la libertà che questo comporta. Anche fino al Marocco? Sì, ci ricorda Affinati.

A trent'anni dall'elezione di Giovanni Paolo II - Il Papa che per dialogare - ripropose sempre la verità - Il cardinale Stanislaw Dziwisz racconta la sera del 16 ottobre 1978 - La Chiesa del silenzio cominciava a parlare - di Giampaolo Mattei – L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2008
"Come mi accoglieranno i romani, cosa diranno di un Papa venuto da un Paese lontano?". Un attimo prima che i cerimonieri aprissero le ante della loggia della benedizione, la sera del 16 ottobre 1978, Karol Wojtyla, appena divenuto Giovanni Paolo II, pensava a come Roma avrebbe guardato a "un Pontefice straniero dopo i bellissimi e importanti Pontificati del Novecento". Questa rivelazione è del cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, per trentanove anni segretario particolare di Wojtyla
"Mi confidò - racconta oggi il cardinale - la sua preoccupazione per Roma quando potei avvicinarlo, vincendo l'emozione di vederlo per la prima volta vestito di bianco. Mi disse anche che appena affacciato si era rassicurato perché nell'accoglienza della gente in piazza San Pietro aveva percepito un sentimento di speranza. Ecco, disse proprio così: ho sentito la speranza. Aggiunse che guardare la piazza dalla loggia gli aveva rafforzato la consapevolezza di essere Papa in quanto vescovo di Roma. Insomma, tra il Papa polacco e Roma era stato amore a prima vista. Ne era felicissimo e quando, negli anni, tornava col pensiero a quella sua preoccupazione iniziale lo faceva proprio per confidare di sentirsi più che mai "romano de Roma"".
Sono nitidi i ricordi di quel giorno di trent'anni fa in don Stanislao, come continua a essere chiamato, nonostante la porpora, quasi a mantenere quel legame con Wojtyla. "Al momento della fumata bianca - racconta - anch'io ero in piazza San Pietro, vicino al cancello della basilica. Quando il cardinale Pericle Felici pronunciò, in latino, il nome Carolum mi resi conto che stava per accadere l'impensabile. Poi disse: Wojtyla. Urlai di gioia prima di rimanere impietrito finché non sono stato accompagnato dal mio vescovo divenuto Papa".
Giovanni Paolo II lo vide appena rientrato dalla prima benedizione. Ricorda: "Gli dissi subito che la folla aveva accolto la sua elezione con gioia e io stesso avevo personalmente toccato con mano quella speranza che lui aveva avvertito. L'avevo vista nei volti, l'avevo ascoltata nelle parole delle persone accanto a me in piazza San Pietro. Sono testimone di come la sorpresa per la sua elezione - qualcuno pensò che il nuovo Papa fosse africano dopo aver sentito quel cognome difficile - si trasformò subito in speranza, forse per la carica di novità che portava con sé".
Don Stanislao racconta un altro episodio di quelle prime ore del Pontificato: "Con un sorriso complice e un po' del suo humour volle pure mettermi al corrente del primo strappo al protocollo. Prima di affacciarsi il maestro delle cerimonie, monsignor Virgilio Noè, si era raccomandato che il nuovo Papa impartisse la benedizione in latino senza fare discorsi. Giovanni Paolo II però non riuscì a trattenersi e incominciò a parlare in italiano. Un saluto rimasto storico: "Mi hanno chiamato da un Paese lontano... se mi sbaglio mi corrigerete". Nel raccontarmelo si mostrava certo di aver fatto bene a fare quel breve discorso, ma al tempo stesso sembrava quasi scusarsi con i suoi collaboratori per la prima di mille improvvisazioni".
L'elezione del primo Papa slavo, prosegue il cardinale, "era una novità da far tremare i polsi. Mentre iniziavo il mio nuovo servizio mi venne da pensare alle persone che a Cracovia pregavano perché non fosse eletto, in tanti non volevano che lasciasse l'arcidiocesi. E mi ricordai anche del funzionario polacco che, prima della partenza per il conclave, aveva tolto al cardinale Wojtyla il passaporto diplomatico, rilasciandogli solo quello turistico, con la minaccia che i conti li avrebbero fatti al ritorno in patria. La sera del 16 ottobre non rimasi in Vaticano, tornai ai Collegio polacco. Non chiusi occhio. Per tutta la notte restai attaccato alla radio per carpire notizie su come l'elezione del cardinale di Cracovia era stata accolta, soprattutto in Polonia. Mi resi conto che la Chiesa del silenzio cominciava a parlare con la bocca del Papa".
Come Giovanni Paolo II visse i momenti dopo la prima benedizione? "Non si fece prendere da frenesie. Volle cenare con i cardinali, poi si ritirò nella stanza che gli era stata assegnata per il conclave, nel mezzanino dell'appartamento del segretario di Stato. La condivideva con il cardinale Corrado Ursi. Si mise a scrivere di suo pugno, in latino, il discorso programmatico per la messa dell'indomani. E cominciò a pensare all'omelia della celebrazione per l'inizio del ministero petrino". È il discorso rimasto famoso per il motto, linea-guida del Pontificato: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo". Spiega don Stanislao che "queste parole le aveva maturate negli anni. Erano espressione della sua fede. Le ha vissute, pregate. Mi disse che le considerava adatte per scuotere le coscienze e iniziare la sua nuova missione di proclamare il Vangelo al mondo intero. Sono testimone che ha scritto quell'omelia da solo. Conservo il testo autografo".
Il Papa era consapevole che quelle sue parole avrebbero avuto un effetto dirompente soprattutto laddove la libertà era negata? "Sapeva molto bene - è la convinzione di don Stanislao - che le dittature si reggono solo sulla paura. Per abbattere quei regimi non disponeva di forze armate. Il Papa non ha divisioni, come ironicamente diceva Stalin. Ma ha la parola. Il suo obiettivo era chiaro: indicare la verità di Cristo per infondere nella gente un senso di libertà interiore. È questo stimolo alla libertà che ha dato ai popoli la forza di cambiare, di lottare contro i sistemi repressivi, politici ed economici. Quell'invito a non aver paura ha innescato una rivoluzione straordinaria, senza spargimento di sangue. Ha contribuito a far crollare i muri e ha messo in discussione la logica della guerra fredda, voluta dalle grandi potenze nucleari". Tutto questo, però, non faceva parte di una strategia politica. Liberare la gente dalla paura è stata, fin dal primo giorno, la forza e la novità del suo Pontificato: "Non si tratta di ideologia ma di Vangelo. Voleva che la Chiesa fosse là dove è l'uomo".
Il segreto di Wojtyla è stato senz'altro quello di aver mostrato il volto umano di Dio. Ne è certo don Stanislao: "La mia esperienza mi dice che la gente non cercava tanto lui, ma la persona di Dio di cui era testimone. E rivelo un altro segreto: non si può comprendere Giovanni Paolo II escludendo la preghiera e il suo rapporto con la Parola. In questo non c'era nulla di bigotto. Anzi, niente in lui pareva essere più naturale. Neppure il giorno dell'elezione venne meno a questo stile". E aggiunge: "Non si dava mai pace per cercare sempre parole e modi nuovi per annunciare Cristo. Così quando mandava all'aria il protocollo non era alla ricerca di popolarità ma di un sistema per testimoniare l'amore di Dio". C'è un gesto che, nelle parole del segretario, esprime l'irruenza spirituale di Giovanni Paolo II: lo scendere sulla piazza, alla fine della messa del 22 ottobre 1978, in mezzo ai disabili e alzare il pastorale muovendolo come fosse una bandiera.
Per don Stanislao, in questi giorni, c'è stato un altro anniversario da ricordare: l'8 ottobre 1966 l'arcivescovo Wojtyla gli propose di diventare suo segretario. "Quando devo iniziare?" chiese. "Subito" fu la risposta. Oggi commenta: "Quel giorno imparai a stargli vicino. L'ho fatto per trentanove anni, prima a Cracovia poi a Roma. Ho visto la mia veste macchiata del suo sangue, il 13 maggio 1981. E ho ripensato ai versi che scrisse per san Stanislao patrono di Polonia: se la parola non ha convertito sarà il sangue a convertire. Sempre sono rimasto accanto a Karol Wojtyla. Io, sacerdote accarezzato da un dono e da un mistero".
(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)


A colloquio con Andrzej Maria Deskur, il porporato legatissimo a Wojtyla - Il mio amico Karol - di Wlodzimierz Redzioch – L’Osservatore Romano 16 ottobre 2008
Subito dopo l'elezione di Giovanni Paolo II, successe un fatto inusuale: il nuovo Pontefice si recò privatamente, senza la grande pompa che di solito accompagna tali eventi, all'ospedale Gemelli per visitare il suo amico colpito da ictus. Fu il primo "viaggio" del Papa a Roma. In quell'occasione Egli pronunciò un breve discorso, in cui diceva tra l'altro: "Sono venuto qui per visitare il mio amico, il mio collega, il vescovo Andrzej Deskur, presidente della Pontificia Commissione delle Comunicazioni Sociali, da cui ho ricevuto tanto bene e tanta amicizia, e che da qualche giorno, dal giorno precedente il conclave, è finito in ospedale in gravi condizioni. Volevo fargli la visita, ma non soltanto a lui, anche a tutti gli altri ammalati". In questo modo il mondo ha scoperto l'amicizia di due grandi Polacchi: Karol Wojtyla e Andrzej Maria Deskur.


Il cardinale Andrzej Maria Deskur - un nobile polacco d'origine francese - è stato uno dei più importanti personaggi polacchi della Curia romana. Dal 1952 il suo nome è legato ai pontifici dicasteri che si occupano dei mass media (prima alla Pontificia Commissione per la Cinematografia, poi alla Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali e finalmente al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali).
Deskur è stato teologo del concilio Vaticano ii e membro della commissione che preparò il Decreto conciliare Inter mirifica sugli strumenti della comunicazione sociale. È stato anche uno dei promotori della Sala Stampa della Santa Sede; grazie ai suoi sforzi si fece la prima trasmissione via satellite a carattere religioso ed è nata la stazione radio "Radio Veritas" che trasmetteva i programmi religiosi per Asia e Oceania. Ha visitato più di settanta Paesi per sensibilizzare i vescovi di tutto il mondo ai problemi della moderna comunicazione religiosa, insomma è stato uno di quegli ecclesiastici che hanno introdotto la Chiesa nel nuovo mondo delle comunicazioni di massa.
In tutti quegli anni è rimasto in contatto con il suo vecchio compagno di seminario Karol Wojtyla. Di questa amicizia abbiamo parlato con lui in occasione del trentesimo anniversario dell'elezione dell'arcivescovo di Cracovia che per il porporato coincide con il medesimo anniversario della malattia che lo tiene prigioniero sulla sedia a rotelle e a letto.

Eminenza, quando ha conosciuto Karol Wojtyla?

Conobbi Karol Wojtyla già nel lontano 1945 a Cracovia. Studiavamo insieme nel Seminario Metropolitano: io al primo anno, lui al quarto. Nel 1946 si sparse la notizia che Wojtyla sarebbe stato ordinato sacerdote entro l'anno e mandato a studiare all'estero. Fu un grande riconoscimento per lui ma nessuno lo invidiava perché tutti gli volevano bene e riconoscevano la sua grande intelligenza, la solida preparazione e la profonda spiritualità. Durante gli studi abitavamo insieme, quindi ci conoscevamo bene. Mi ricordo che tutti volevano uscire con lui durante le nostre passeggiate settimanali perché si tornava arricchiti. Un giorno qualcuno dei colleghi ha scritto sulla porta della sua stanza: "Karol Wojtyla: futuro santo". Sembrava uno scherzo, ma in verità rifletteva l'opinione che già allora avevamo del giovane Wojtyla e adesso, sessanta anni dopo e con il processo di beatificazione in corso, questo fatto diventa simbolico.
Alla vigilia della sua partenza, Karol venne da me per chiedermi se non era una cosa rischiosa mandare all'estero un giovane sacerdote, come lui. Gli risposi: "Dio non corre mai nessun rischio, perché tiene tutto nella Sua mano. Non ti preoccupare: nella Sua mano tiene anche te".

E così Wojtyla partì per Roma. Ma anche lei nel 1950 fu inviato prima a Friburgo per gli studi di teologia morale e dopo a Roma per studiare alla Pontificia Accademia Ecclesiastica. Wojtyla invece, finiti gli studi all'Angelicum, tornò a Cracovia. Vi siete persi di vista?

Non esattamente. Ci siamo incontrati durante i lavori del concilio Vaticano ii. Io ero teologo conciliare, lui, arcivescovo di Cracovia, padre conciliare. Andavo con lui a tutte le riunioni delle commissioni di cui era membro. Monsignor Wojtyla era ben visto dappertutto perché aveva un tratto di carattere molto apprezzabile: non era polemico. Con lui non si poteva litigare perché nelle discussioni contavano soltanto gli argomenti.

Quando morì Paolo VI e, subito dopo, Giovanni Paolo I, lei aveva già una grande esperienza curiale e conosceva bene i cardinali riuniti nel nuovo conclave. Si aspettava l'elezione di un cardinale non italiano?

Non soltanto mi aspettavo l'elezione di un cardinale non italiano, ma di un concreto porporato, il cardinale Karol Wojtyla. Vorrei spiegarmi meglio: si sa che il nuovo Pontefice viene eletto dai cardinali, ma, in un certo senso, il suo grande elettore è anche il suo predecessore che sceglie i membri del Collegio Cardinalizio, determinando il risultato del conclave. Paolo VI apprezzava molto il cardinale Wojtyla e, direi, che in qualche modo lo preparò per succedergli. Prima, lo volle predicatore degli esercizi spirituali in Vaticano per la Curia Romana per far conoscere il suo grande sapere e la profonda spiritualità. Poi lo nominò relatore del Sinodo sull'evangelizzazione. Era una sorpresa per tutti perché ci si aspettava un relatore da qualche Paese di missione. Ma in questo modo anche i cardinali del Terzo Mondo poterono conoscere l'arcivescovo di Cracovia e apprezzare il suo zelo pastorale e missionario. Non è di poco conto il fatto che Paolo VI incoraggiava Wojtyla a viaggiare per il mondo per conoscere meglio la realtà delle Chiese locali.

Quando Giovanni Paolo II apparve per la prima volta sulla loggia della basilica di San Pietro, lei si trovava nel letto dell'ospedale Gemelli: l'inizio del Pontificato del suo amico coincide con il suo dramma personale...

Devo ammettere che quando all'ospedale capì che sarei stato paralizzato per sempre, rimasi scioccato. Anche se, nel mio caso, non si può parlare delle sofferenze fisiche: il paralitico è una persona imprigionata dal corpo, priva di libertà. Soltanto la preghiera mi permise di superare quel momento difficile e accettare la mia invalidità.
Quando dopo le cure sono tornato a casa e sono andato in pensione, lasciando l'incarico della presidenza del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ricevetti una lettera personale del Papa che cominciava con la frase: "Adesso sai qual è la tua missione nella Chiesa". Si trattava della missione della preghiera, la missione di tutti gli ammalati e i sofferenti. Il Papa mi aiutò tanto con quella lettera.

La sua malattia vi impediva di mantenere i vostri consueti stretti rapporti personali?

Per niente. Ogni domenica pranzavo con lui nel suo appartamento e ogni tanto veniva lui da me (la festa di sant'Andrea era il nostro appuntamento fisso a casa mia).

Giovanni Paolo II non la voleva disoccupato: la nominò presidente della Pontificia Accademia dell'Immacolata. Che compito le ha affidato?

La Pontificia Accademia dell'Immacolata si occupa degli studi dei dogmi e del culto mariano, ma anche del lavoro pastorale. Giovanni Paolo II ci teneva tanto al lavoro dell'Accademia perché volle ripristinare nella Chiesa la degna venerazione della Madre di Dio, il cui culto fu indebolito dell'erronea interpretazione degli insegnamenti del concilio Vaticano ii. Secondariamente, il Santo Padre era convinto che la nuova evangelizzazione passava anche attraverso i santuari mariani. L'Europa è da sempre la "terra della Madonna" disseminata dei suoi santuari, centri di spiritualità. Mi ricordo le parole di Karol Wojtyla, quando era ancora arcivescovo di Cracovia: "I santuari mariani sono un capitale della Chiesa perché sono i luoghi dove si proclama la Parola di Dio e si dispensano i sacramenti, sono centri di preghiera e di raduno dei fedeli nell'ambiente più ampio che la parrocchia; sono luoghi, dove le esperienze del pellegrino s'intrecciano con il mistero di Maria, e le esperienze della nazione, della patria, della regione incontrano l'amore della Chiesa e della Sua Madre".

Per nove anni lei è stato membro della Congregazione per le Cause dei Santi. Si accusava Giovanni Paolo II d'aver proclamato troppi santi e beati. Il Papa come rispondeva a tali critiche?

Quando gli parlavo di tali critiche, mi rispondeva tranquillamente che la Chiesa esisteva per far sì che ci fossero i santi. Non c'è mai abbastanza santità nella Chiesa!

Per tanta gente anche Giovanni Paolo II è già un santo...

La Chiesa ha le sue procedure per la canonizzazione ed è bene che ci siano, ma io ho sempre in mente la scritta sulla porta del giovane seminarista di Cracovia: "Karol Wojtyla: futuro santo".


(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)


QUEL PRIMO GIORNO DEL «PAPA POLACCO» - LA STORIA SI MISE A CORRERE MA IN UNA DIREZIONE INATTESA - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 16 ottobre 2008
Il primo sentimento fu lo stupore. Chi c’era se lo ricorda an­cora quel 16 ottobre di trent’anni fa, l’emozione e lo sba­lordimento per una sorpresa di carattere epocale che irrom­peva nella storia della Chiesa e avrebbe cambiato il mondo: dopo oltre quattrocento anni di sommi pontefici italiani ar­rivava un Papa straniero. Uno slavo, un polacco dal nome impronunciabile. Perfino il cardinale Pericle Felici, cui spet­tava dare l’annuncio pubblico dalla loggia centrale della ba­silica vaticana, ebbe una piccola esitazione e dovette con­sultare il foglietto su cui si era fatto scrivere la dizione esatta: «Carolum... cardinalem Wojtyla». Prima degli applausi e del­le grida di giubilo ci fu un attimo di silenzio tra i fedeli che gremivano piazza San Pietro. Il mondo trattenne il fiato. Chi era il nuovo Papa? E quale rotta avrebbe intrapreso la navi­cella di Pietro al cui timone era stato chiamato un uomo «di un Paese lontano», come di lì a poco si sarebbe presentato Giovanni Paolo II?
C’era, più o meno confusamente, la sensazione di una svolta anche se nessuno allora poteva immaginare il significato di­rompente di quell’incredibile serata ottobrina. Ma la novità rappresentata da Giovanni Paolo II divenne subito evidente. Bastava guardare la sua figura di 58nne straordinariamente gio­vanile, piena d’energia, traboccante di umanità e ricca di hu­mour. Bastava sentire la sua voce forte e tonante, ascoltare le sue parole che invitavano ad aprirsi a Cristo, a spalancargli le porte e a non avere paura. Bastava ripercorrere la sua biogra­fia più avventurosa di un romanzo: fin da ragazzo aveva co­nosciuto lutti, povertà e sofferenze, aveva vissuto gli orrori del nazismo, della guerra e del comunismo e da tutto questo era uscito più forte nel segno della fede, granitica come quella del suo popolo. Si apriva l’era del Papa polacco, una definizione che qualche commentatore usò inizialmente in senso ridut­tivo, per poi ricredersi davanti al potente universalismo del pontificato wojtyliano.
Per capire fino in fondo la rottura con il passato che si con­sumò quel 16 ottobre dobbiamo ricordare cos’era il mondo e qual era la situazione della Chiesa alla fine degli anni Settan­ta. Se nell’Est dell’Europa sovietizzata tutto appariva immo­bile sotto la cappa di piombo della cosiddetta stagnazione brezneviana, all’Ovest invece c’era grande subbuglio, anche dentro la Chiesa. L’effetto Wojtyla che si produsse in Polonia e poi negli altri Paesi comunisti è entrato ormai nella leggen­da: con Giovanni Paolo II la gente all’Est iniziò a vincere la paura e a richiedere libertà, mentre nelle stanze del potere serpeggiava il panico. Al Cremlino ebbero un oscuro presen­timento. «Questo Papa ci porterà solo guai», ammonì Breznev in un incontro coi dirigenti del partito comunista polacco.
Ma anche in Occidente c’era in corso una grande sfida, meno conosciuta ma non meno difficile. L’onda lunga della conte­stazione stava investendo la Chiesa a tal punto che ci si chie­deva se i credenti, in quanto tali, avessero ancora qualcosa da dire in un mondo secolarizzato. Ed ecco un Papa che, diver­samente da molti esponenti del cattolicesimo occidentale, non ha nessun complesso d’inferiorità di fronte al marxismo avendolo vissuto sulla propria pelle. L’avvento di Giovanni Paolo II costrinse tutti a un brusco cambiamento di prospet­tiva: la storia si era messa a correre ma in tutt’altra direzione rispetto a quella sognata dai rivoluzionari di casa nostra.
E lo stupore di trent’anni fa è diventato profonda gratitudine per il dono di 'Karol il Grande' che Dio ha voluto fare alla Chiesa e al mondo.


Formigoni: scandalosi quei fondi per Roma - DA ROMA - ANGELO PICARIELLO – Avvenire, 16 ottobre 2008
I l testo del federalismo fi­scale approda al Senato, assegnato alle commis­sioni competenti. La mag­gioranza ha percentuali tali da tenerlo al riparo da sor­prese, ma non sarà un cam­mino in discesa, visto che anche nel Pdl si aprono po­lemiche insidiose. Come quella di Roberto Formigo­ni che, guardando dentro ai numeri delle competenze previste per Roma, per i sal­vataggi del Comune di Ca­tania e per la sanità del La­zio, sbotta: «È offensivo. Co­sì il federalismo fiscale par­te male». Nel mirino in par- ticolare le provvidenze per Roma, che da emergenziali, per ripianare il deficit pre­gresso, diverranno struttu­rali, in base al provvedi­mento ad hoc per Roma Ca­pitale inserito all’ultimo mo­mento nello schema di di­segno di legge del governo. Si tratta, osserva la Regione Lombardia, «non solo delle centinaia di milioni di euro destinati a Catania (150) e Roma (500) per la spesa cor­rente (cioè per coprire i bu­chi di bilancio), ma della di­sposizione (articolo 5 del de­creto) per cui Roma Capita­le avrà, dal 2010 in poi, altri 500 milioni all’anno addirit­tura utilizzabili per coprire disavanzi pregressi di parte corrente». Previsioni che fanno indignare il governa­tore, che pure è stato un so­stenitore convinto della campagna elettorale di Gianni Alemanno. «Abbia­mo lavorato intensamente per superare il criterio della spesa storica e introdurre quello dei costi standard – lamenta Formigoni – ma co­sì si torna alla vecchia logi­ca dei ripiani a pie’ di lista». E, in vista del dibattito in Parlamento, avverte: «Se il governo non accoglierà e­mendamenti, non potremo accettare un simile provve­dimento ». Da Torino, dove si tiene il convegno delle Province, il presidente dell’Anci Leo­nardo Domenici continua a ricordare che «con il taglio dell’Ici resta il problema per i Comuni di chiudere i bi­lanci », e chiede di rivedere il patto di stabilità interno fra Stato ede enti locali. Ma an­che il presidente dei gover­natori Vasco Errani avverte, dopo il sì in conferenza uni­ficata, che «è ora di parlare di conti». Segnale chiarissimo, allora, quello di Formigoni: se il governo non apporterà delle modifiche, la Lombar­dia, e forse anche il Veneto, non hanno motivo per fare i 'governativi' sul fronte de­gli enti locali, che sono in gran parte in mano al Pd. E infatti il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, capofila del Pd in Lombardia, coglie il nervo scoperto nella maggioranza: «I soldi, in base al manuale Cencelli, possiamo dire che vanno alle città con sindaci di An. Altro che Lega, ci vo­leva anche a Milano un sin­daco di An, 500 milioni di euro all’anno, dal 2015 in poi, per Roma...». E allarga le braccia, Penati: «È il dop­pio di quel che arriverà a Mi­lano da qui all’Expo».
La Lega non replica. Ma Ro­berto Maroni, da Torino, al­l’incontro dell’Upi, nel pro­mettere a breve anche il va­ro del Codice delle Autono­mie, continua a chiedere a­gli enti locali «uno sforzo comune».
Il federalismo fiscale approda al Senato, ma si apre un fronte polemico nella maggioranza per i provvedimenti per la Capitale e Catania. Penati ironizza: «Per l’Expo serviva un sindaco di An»


Quanti inganni nella «pillola del giorno dopo» - di Filippo Boscia* - C ome da indicazioni terapeutiche della Gazzetta Ufficiale, il Norlevo viene definito come prodotto «contraccettivo d’emergenza».
In realtà la sua azione chimica è quella di alterare l’equilibrio ormonale rendendo la mucosa uterina inadatta all’impianto embrionario o, in fase più avanzata, favorendo l’espulsione dell’embrione impiantato di recente. L’effetto è di indurre una sorta di mestruazione anticipata. Avvenire, 16 ottobre 2008


Si dice che sia «contraccettivo di emergenza» ma non impedisce il concepimento: semplicemente elimina l’embrione, se già c’è, impedendone l’annidamento Attorno al farmaco il cui consumo sta crescendo tra le giovanissime si è creata una cortina di «equivoci» Che va diradata
Per capire quanto contraddittoria ed equivoca sia la definizione del prodotto rispetto alla sua specificità di azione è opportuno richiamare alcuni concetti di biologia ed embriologia di base.
Il concepimento avviene tramite la penetrazione dello spermatozoo (cellula gametica maschile) nell’ovocita (cellula gametica femminile) con conseguente fusione dei due corredi cromosomici aplolidi (a 23 cromosomi) dei due gameti in una singola cellula diploide (zigote) con corredo cromosomico costituito da 46 cromosomi (23 coppie). Già a distanza di 24 ore sono osservabili i due pronuclei e, dopo 48 ore, è evidenziabile la presenza di 2 blastomeri, frutto della prima divisione cellulare (mitotica) dello zigote.

È evidente come un prodotto che agisce entro 72 ore dal rapporto sessuale può interrompere un processo vitale già in atto, e non – come il termine 'contraccettivo' potrebbe far supporre – impedire che avvenga il concepimento. Già allo stato di zigote, infatti, è possibile affermare che si è creata una nuova vita, con due caratteristiche: è dotata di una sua peculiare e unica identità genetica in quanto frutto dell’assortimento indipendente e casuale dei cromosomi di due individui diversi; è dotata di una piena e totale capacità di proliferazione e differenziazione autonoma.
La crescita nei primi giorni di sviluppo è rapida: le divisioni cellulari si susseguono al ritmo di una ogni 8-10 ore. Ecco che dopo 60 ore l’embrione è già allo stadio di 8 cellule e due giorni dopo, divenuto blastocisti, è già in procinto di raggiungere la cavità uterina dove dovrebbe impiantarsi. È chiara a questo punto l’estrema nocività di una pillola che non inibisce il concepimento ma allo stadio di 2, 4 o 8 cellule, o addirittura ancora più avanti nello sviluppo embrionario, determina la regressione di una vita in fieri agendo su un ambiente, quello uterino, che ha un ruolo di 'approvvigionamento' dei fattori essenziali di crescita.
Per logica stringente ne deriva che il solo sospetto di un’azione di tipo abortivo, anche in pochi casi, rende legittima l’obiezione di coscienza dei sanitari, diritto garantito da ogni Stato democratico. La cosiddetta 'intercezione post-coitale' conseguita dal farmaco è un atto che può contrastare con la coscienza del sanitario o con il suo convincimento clinico. Da un punto di vista deontologico, la prescrizione della 'pillola del giorno dopo' non rientra nelle mansioni obbligatorie del medico, il cui compito primario è curare le malattie o prevenirle. E il concepimento non è una malattia!

Secondo l’articolo 22 del Codice deontologico, «il medico al quale vengono richieste prescrizioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la propria opera a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento».
Nell’attività sanitaria l’obiezione di coscienza si inquadra nel principio del consenso che garantisce la libertà morale degli utenti ma anche degli operatori dei servizi socio-sanitari, che non vanno ridotti ad acritici prestatori d’opera. L’obiezione di coscienza non è solo obbligo morale ma anche dovere deontologico quando si è di fronte alla richiesta di particolari interventi – anche sulle minorenni – che contrastano con i contenuti etici e professionali del proprio agire professionale.
Nel caso della 'pillola del giorno dopo' l’obiezione di coscienza ha motivazioni cliniche che occorre conoscere:
a) le forti dosi di ormoni assunte per via orale con il farmaco causano totale sconvolgimento del delicato equilibrio ormonale della donna, soprattutto se minorenne;
b) il Norlevo è escluso dalla dispensazione libera: occorre cioè esibire in farmacia prescrizione nominativa non ripetibile, sempre obbligatoria perché si tratta di un farmaco delicato che necessita di valutazione medica preliminare e di accertamenti diagnostici;
c) il meccanismo di azione del farmaco non è completamente definito: nello stesso bugiardino è riportato, tra gli effetti collaterali, che può impedire l’impianto dell’ovulo eventualmente fecondato (ovvero agire come abortivo precoce);
d) il farmaco non va somministrato in pazienti a rischio per gravidanza


Perché il corpo vivo è sempre «persona» - «argomenti, Avvenire, 16 ottobre 2008

Come persona Eluana è morta 16 anni fa [...].
Adesso c’è un corpo che è ancora vivo, ma è il corpo, non la testa»: questa recentissima affermazione di Umberto Veronesi lascia certo molto perplessi, ma costringe a riflettere. Perché un corpo che 'non sente', 'non soffre', 'non ha fame', 'non ha sete' non sarebbe un corpo umano, cioè il corpo di una persona e dunque la persona nel suo corpo? E poi, con quali criteri si registra il sentire, il soffrire, l’aver fame e sete di un corpo umano personale che vive in condizioni di disabilità estrema, come il cosiddetto 'stato vegetativo'? Sono interrogativi difficili ma decisivi per orientarsi in 'scienza e coscienza' in tanti casi umani, ormai sempre più diffusi nel tempo che abitiamo, l’età della tecnica.
La prima grande esigenza della nostra ragione dovrebbe essere quella di voler vedere tutta la realtà e non solo l’apparenza esterna di un corpo capace di certe funzioni organiche. Purtroppo il linguaggio ordinario si è abituato a 'ridurre' l’evento dell’uomo alle sue condizioni fisiche. Solo per fare un esempio: quando una persona è molto intelligente si dice che è 'un cervello' e non tanto che 'è una mente'. La mente, però, – che ha la base organica nel cervello –, non è il cervello, è molto di più. Così il corpo umano è spesso ridotto a materia organica estesa in movimento, collocata nello spazio, che si sviluppa nel tempo senza saper riconoscere nessuna dimensione ulteriore. In verità, l’uomo è corpo e nel corpo è anche 'tutto ciò che è', persona umana, «Per il riduzionismo scientista gli embrioni, i feti, i bambini, i cerebrolesi, i dementi, gli individui in coma, gli handicappati gravi sono individui incarnati in un corpo biologicamente umano privo di soggettività personale» capace di dono, di relazione d’amore. Così, il corpo non è solo oggetto, ma è sempre corpo-soggetto. È sempre un corpo con qualità, essenze e fini personali, relazionali, comunitari: non è mai un corpo depersonalizzato, spersonalizzato, impersonale. La materia organica in movimento – il corpo, in quanto è umano – è biogeneticamente tracciata dall’essere immagine e somiglianza, fin nelle radici più profonde dell’essere corporeo, cioè quelle della dimensione eterosessuale: l’essere maschio e femmina, cioè relazione costitutiva, persona umana.
Benedetto XVI ha affermato nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace del 1° gennaio 2007: «Perché creato a immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone». Riconoscere la persona nell’uomo, in qualunque situazione si trovi, è certo un atto della ragione. Ma di quale ragione? Appare oltremodo difficile, pressoché impossibile, riconoscere la 'persona umana' dentro le misure di una razionalità ricondotta ai soli canoni scientifici. È questa una forma di razionalità che, sorvolando sulla verità della persona, giunge alla menzogna dell’uomo-esperimento, dell’uomo prodotto dell’uomo. È come un albero senza radici: secca. È una razionalità che ammette come esistente solo il dato fattuale conoscibile sperimentalmente dalla scienza (mediante la misurazione quantitativa meccanica dell’estensione e del movimento). Così, per il riduzionismo scientista gli embrioni, i feti, gli infanti, i bambini, i cerebrolesi, i dementi, gli individui in coma, gli handicappati gravi sembrano essere considerati come individui incarnati in un corpo biologicamente umano senza soggettività personale. È come se, a causa della loro condizione di 'dipendenza' e di 'vulnerabilità', sparisse il loro essere a 'immagine e somiglianza di Dio'.
Si comprende allora l’insistenza del Papa di allargare il concetto della razionalità oltre la ragione pragmatica che pensa di poter fare le cose solo perché le sa fare, senza vincoli etici, senza orientamenti morali. Si intende ancor più perché è importante che politicamente le società democratiche non degenerino in senso solo procedurale: non è infatti una procedura ben costruita e attuata che può decidere cosa è vita e cosa non lo è, quando l’uomo è persona e quando no, se 'staccare la spina' facendo morire una persona o mantenerla in vita in situazioni di grande sofferenza. In gioco c’è sempre la vita personale dell’uomo e la sua dignità umana 'non negoziabile' che ha sempre ragione di fine e mai di mezzo. Perché il corpo vivo dell’uomo è sempre 'persona'.
Staglianò è autore di «Ecce homo. Le persone, l’idea di cultura e la 'questione antropologica' in Papa Wojtyla», Cantagalli 2008
di SAntonio Staglianò


L’enciclica sulla verità - IDEE. A dieci anni dalla pubblicazione, un grande convegno fa il punto sulla «Fides et ratio» e sul suo influsso sulla cultura contemporanea - DI VITTORIO POSSENTI – Avvenire, 16 ottobre 2008
La Fides et ratio
colpisce nel segno denunciando il diffuso disinteresse per lo studio della filosofia condiviso da non pochi teologi, un rilievo che dovrebbe piacere ai filosofi laici che hanno a cuore il loro compito. Alcuni hanno osservato che il dialogo dell’enciclica con il pensiero contemporaneo è delicato, poiché la Fides et ratio impiega un lessico estraneo al palato attuale.
Esisterebbe una fondamentale lontananza concettuale e semantica tra enciclica e cultura che renderebbe vano l’intento nobile di un dialogo. Quello sguardo metafisico che Fides et ratio considera indispensabile per una sapienza filosofica autentica è ritenuto un traguardo irraggiungibile, sulla scorta di un orientamento scettico condiviso da molte scuole filosofiche contemporanee.
Antifondazionismo e debolismo sono tuttora presenti nella filosofia. Nonostante l’invito della
Fides et ratio di passare dal fenomeno al fondamento, rimane diffusa la postura postmetafisica e il dubbio sulla possibilità della filosofia di raggiungere la verità, che per molti sarebbe esclusivo appannaggio della scienza. Della fede si ricomincia ad apprezzare l’apporto etico e civile alla convivenza, come è ormai non infrequente riscontrare, meno il suo apporto cognitivo sull’essere e la trascendenza. Permane dunque una certa chiusura di ascolto verso il messaggio di
Fides et ratio, riconducibile al postulato di una ragione umana autocentrica e poco interessata al messaggio rivelato, il cui ascolto configura per alcuni nient’altro che una resa della ragione, una ragione in ginocchio e decisamente eteronoma. Il piano più compromesso sembra quello della ragione teoretica aperta all’essere, dove molti confermano l’insuperabilità della posizione postmetafisica. Vanno qui ricordati il vigoroso richiamo della Fides et ratio alla necessità di pensare in modo metafisico, e le penetranti indicazioni in favore della filosofia dell’essere e dell’actus essendi. Le pagine sulla metafisica dinamica dell’essere sono particolarmente felici e dicono qualcosa di essenziale, il cui ascolto è reso difficoltoso da un profondo oblio dell’essere che sbocca nel nichilismo speculativo. Nel dialogo tra pensiero secolare e pensiero religioso si avverte una minor rigidità nei confronti della valenza pubblica del secondo.
Non si nega il possibile apporto della fede alla sfera pubblica, ma questo raramente comporta una circolarità conoscitiva tra fede e ragione, poiché per molti contemporanei la fede è un’opzione privata che concerne la pietà e il culto, ma che è estranea all’ambito della conoscenza. Delle tre direttrici della modernità compiuta, l’idealismo, l’umanesimo ateo e il positivismo scientista, il primo appare concluso, e in buona parte il secondo, mentre rimane forte il terzo col suo specifico nichilismo e razionalità strumentale. Forte è attualmente la riduzione della filosofia ad un sapere 'lunare' che non possiede un compito proprio ma che riflette soltanto la luce delle scienze. È così aumentata invece che diminuita la marginalità del sapere filosofico. Nella seconda metà del XX secolo non sono apparsi sistemi intellettuali nuovi e poderosi, ma una notevole varietà di ricerche spesso centrate sull’etica, un ambito fortemente visitato, la politica e l’epistemologia. Nessuna di queste pur fondamentali discipline è in grado però di fornire un accesso adeguato all’intero e neppure di garantire forme accettabili di circolarità fede-ragione. Tale circolarità può accadere ed essere feconda in ambiti più ristretti, purché si verifichino alcune condizioni tra cui ovviamente la pertinenza della fede e l’esame dell’intera triade 'mondo-uomo-Dio' [...].
Con la fuoriuscita postmetafisica del problema di Dio dalla filosofia, la triade diventa una diade e la religione non è più qualcosa che appartiene all’essenza umana, ma un fatto solo positivo cui si può credere o non credere [...].
La moltiplicazione dei saperi regionali vertenti sul finito ha drasticamente ridotto l’area del sapere su Dio. La nostra epoca rimane profondamente illuministica nel suo non (voler) sapere niente di Dio, e dalla metà del XIX secolo in avanti pochi sono stati i sistemi filosofici che hanno posto anche speculativamente al centro il suo tema, pressoché sempre provenienti dall’area del cristianesimo. L’esistenzialismo ateo ha proceduto in senso opposto; e il nesso storicistico posto da Heidegger tra essere e tempo finiva per lasciare poco spazio al tema di Dio se non forse nella forma enigmatica e oracolare del dio venturo o dell’ultimo dio. La congiunta azione di illuminismo silente su Dio e di nichilismo antiteologico sembra ancora stabilire il clima dell’epoca. Fanno eccezione alcune filosofie cristiane del contemporaneo che si ispirano direttamente a Cristo quale Verbo incarnato e che recuperano la ricchezza del filosofare nella fede cui Fides et ratio dedica importanti paragrafi, ma che rimangono alquanto lontane dal dibattito pubblico, dominato appunto dallo spirito dell’illuminismo.