Nella rassegna stampa di oggi:
1) Scuola, ecco le bugie di chi vuol fare la guerra alla riforma - Giorgio Vittadini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
2) Giannino: a Scalfari non piace Milano per colpa di CdO e Cl? L’ultima “scomunica” di chi parla di una realtà senza conoscerla - Oscar Giannino - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
3) Lettera aperta della CdO Milano a Eugenio Scalfari - Antonio Intiglietta, Massimo Ferlini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
4) ELUANA/ Dalla Englaro una lezione per i medici: curare con realismo, senza ideologia - Redazione - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
5) 13/10/2008 16:02 – PAKISTAN - Un cristiano e la figlia arrestati e quasi linciati per blasfemia - di Qaiser Felix - Vicino Faisalabad, qualcuno dice che la ragazza ha strappato pagine del Corano, ma le versioni sono discordi. Aumenta l’intolleranza, mentre parlamentari parlano di “accuse inventate” per perseguitare i cristiani.
6) 13/10/2008 15:12 – VIETNAM - Discriminazioni e ostilità rendono più uniti i cattolici vietnamiti - di Thanh Thuy - Sorveglianza continua per le attività religiose, culturali e sociali dei fedeli: aderenti alla gioventù comunista che registrano le lezioni per conto della polizia. Il Politburo loda la stampa di regime per la campagna di diffamazione, ma poi l’agenzia nazionale ne loda le attività umanitarie. E intanto aumentano i giovani che vogliono sapere di più della dottrina sociale.
7) SE COFFERATI PREFERISCE IL FIGLIO ALLA POLITICA…. Quando i bambini si “mangiano” i (post) comunisti… Nel “caso Cofferati” c’entra Dio. Dopo spiegherò il perché. Prima la notizia: il sindaco di Bologna non si ricandida perché sceglie di stare col figlio piccolo. In sostanza il bambino si è dolcemente “mangiato” il (post) comunista – Antonio Socci, Libero, 11 ottobre 2008
8) L’ULTIMA CRUDELTÀ DEGLI SCAFISTI - Sacrifici umani consegnati al mare - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 14 ottobre 2008
9) Scola: «In ascolto dei testimoni autentici, così la lettura nasce dalla comunione» -Interventi al Sinodo del 13 ottobre
Scuola, ecco le bugie di chi vuol fare la guerra alla riforma - Giorgio Vittadini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Si odono nuovi venti di guerra sulla scuola dove non solo la Cgil, ma anche le sigle autonome e la Cisl, minacciano uno sciopero generale contro le riforme del ministro Gelmini in approvazione in Parlamento. Hanno ragione?
Verifichiamolo. Si paventa la riduzione delle risorse come motivo di un ulteriore peggioramento della qualità della scuola italiana. Si dimentica tuttavia che siamo già nei primi posti, tra i Paesi dell’Ocse, come spesa per istruzione primaria e secondaria superiore, ma ciò non incide sulla qualità. Hanushek, studioso di sistemi scolastici, ha infatti dimostrato che non esiste correlazione tra spesa per la scuola e sua qualità. Inoltre l’Italia ha già un numero di ore di insegnamento elevato (nella fascia 7-11 anni supera del 20% la media dei Paesi Ocse), ma ai primi posti per la qualità nell’apprendimento vi sono Paesi dove si sta a scuola molto meno.
Il fatto è che, come dimostra un altro grande studioso di sistemi scolastici, Wossmann, determinante per la qualità è piuttosto il grado di autonomia delle scuole per quel che riguarda programmi, budget, determinazione dello stipendio degli insegnanti. Qui stanno le dolenti note del sistema italiano: la spesa del ministero dell’Istruzione è per il 96,98% spesa per il personale che, né preside, né chicchessia, può in alcun modo intervenire a modificare e razionalizzare.
Non solo, il numero degli insegnanti in Italia supera quello della media Ocse. Chi oppone il fatto che questo dipenda dalla particolare configurazione del territorio italiano, per cui bisogna assicurare l’istruzione anche nelle aree rurali e di montagna, dovrebbe riflettere sul fatto che la nostra legislazione è stata quantomeno di manica larga nel concedere lo status di “comune montano” a circa 4200 comuni, circa la metà di tutti i comuni italiani! Oppure deve interrogarsi sul perché anche in aree omogenee, socialmente e territorialmente, il numero di insegnanti per classe è molto diverso, segnalando che in certi posti vige un clientelismo ammantato da ragioni sociali.
Pur rispettando le garanzie sociali, occorre chiedersi inoltre se sia davvero necessario un numero così elevato di insegnanti di sostegno (oltre il 10% degli insegnanti complessivi), con un costo che è arrivato a superare i 4 miliardi di euro, al punto che lo stesso governo Prodi aveva predisposto norme ancora non attuate per un accertamento più rigoroso degli handicap. La verità è che si è usata la scuola come strumento per creare occupazione fittizia a discapito della qualità e contro gli stessi insegnanti che hanno una paga da fame e non proporzionata al merito.
Per questo la guerra dei sindacati contro una riduzione del personale, prevista soprattutto con la non sostituzione di parte del personale che andrà in pensione nei prossimi anni, è pura e prepotente battaglia corporativa che ignora, oltre alla realtà dei fatti, le associazioni professionali degli insegnanti e il giudizio di ogni cittadino, utente del servizio. Si abbia il coraggio di ignorare il loro sciopero che è “generale” solo nei proclami.
(Il Giornale, 14 Ottobre 2008)
Giannino: a Scalfari non piace Milano per colpa di CdO e Cl? L’ultima “scomunica” di chi parla di una realtà senza conoscerla - Oscar Giannino - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Milano città egoista e leghista, chiusa nel suo particolare e soggetta a una cupola «come quella di Formigoni, Cl e Compagnia delle opere, che non esiste in alcuna altra parte del Paese, nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere». Questa la sintesi, su Repubblica di Milano ieri, della presentazione meneghina del libro “L’uomo che non credeva in Dio”, da parte dell’autore, Eugenio Scalfari. Sono parole e giudizi pesanti come pietre.
Poiché provengo da una cultura per molti versi del tutto coincidente con quella evocata da Scalfari, la cultura che nei decenni trascorsi considerava il meglio di Milano espresso dai cosiddetti “banchieri laici” come Raffaele Mattioli della Comit ed Enrico Cuccia in Mediobanca, sono particolarmente colpito dall’asprezza dei giudizi.
Non li condivido praticamente in nulla. E non si tratta affatto di animosità nei confronti di Scalari, o verso il ruolo che esercitano ogni giorno nella vita nazionale il giornale di cui è stato fondatore e il gruppo editoriale al quale appartiene. La questione è un’altra, secondo me. Mi viene da dire che si tratta di giudizi che esprimono una sostanziale incapacità di vedere e capire di che cosa si stia parlando. E poiché ho molte difficoltà ad attribuire a Scalari difetti di comprensione tanto gravi, posso solo pensare che su tutto prevalga un malinteso segno politico, e dico malinteso perché in definitiva pare a me che la condanna scalfariana - è sempre più così in lui, da parecchi anni a questa parte - poggi le sue basi su un anatema di carattere etico. Che però comprende e accomuna fenomeni tra loro totalmente diversi, per il solo fatto che essi rappresenterebbero gambe e braccia di un nemico comunque identitariamente come tale concepito, descritto e combattuto.
Dico “nemico” perché la ripulsa morale di tutto ciò che a Milano, in Lombardia e nel Nord si è espresso da ormai parecchi anni in maniera comunque distinta e distante dalle leadership e dalle politiche locali e nazionali sostenute dal centrosinistra, finisce per alimentare agli occhi dell’alfiere più intemerato di quel centrosinistra una sorta di continuum dell’abnorme e del difforme. Tanto che si tengono insieme come tratti comuni discendenti da un’unica matrice morale - il presunto inaridimento etico avvenuto nella “Milano da bere” craxiana - fenomeni che con quella matrice o c’entrano nulla perché precedenti e separati, o comunque solo successivi nel tempo ma non per questo teleologicamente collegati.
Quattro, sono i condannati a Milano da Scalfari. La buona borghesia milanese, sotto il capo d’imputazione di non esser più capace di solidarietà. I banchieri, dimentichi della tradizione laica. La Lega, naturalmente. Infine la presunta “cricca” formigoniana, Cl e Compagnia delle Opere, che dei tre condannati precedenti rappresenta per molti versi la sintesi di depravazione più seria, in quanto raffigurata come integralista, dedita al malaffare, oligarchica e irriducibile a ogni sana fisiologia della democrazia rappresentativa.
Vediamo di andare per ordine, allora.
Milano è oggi guidata proprio da un’esponente della migliore alta borghesia milanese. Se Letizia Moratti non è questo, non so chi lei sia. Lo è squisitamente tanto da aver proprio per questo problemi con la sua stessa maggioranza, e dal non esitare di condurre battaglie anche fortemente solitarie, vedi quella per la guida operativa dell’Expo 2015. Paradossalmente, la Moratti non esprime affatto un ripiegamento della borghesia milanese sui propri affari - tratto dominante di gran lunga nella storia della città, vista l’esiguità degli apporti “storici” dati dalle grandi famiglie milanesi alla politica locale e nazionale - ma l’esatto opposto. Se la sua colpa è quella di non riconoscersi nel centrosinistra, questo altro paio di maniche. È lo specchio fedele di quanto nelle urne del Nord avviene da anni: anzi dai ceti popolari e operai, prima che per i buoni borghesi milionari. Ed è un problema sul quale Repubblica e un centrosinistra serio dovrebbero riflettere in maniera critica e autocritica, non risolverlo in chiave di sentenze morali.
Non tocco se non en passant qui il terzo condannato, la Lega e dei suoi consensi. Mi limito a dire che proprio la fedeltà alla cultura laica dei Silvio Spaventa e del suo “La giustizia nell’amministrazione”, o degli Ugo La Malfa e della sua “Caporetto economica”, dovrebbero indurre a riconoscere che la gran voglia di federalismo e di sussidiarietà non è affatto espressione di egoismo localistico. È la reazione a decenni di sprechi che non hanno sanato alcun divario geoeconomico in Italia, bensì alimentato deficit e malaffare vero. Nel rilancio del principio del beneficio al livello più prossimo a quello del contribuente c’è la riscoperta del liberalismo di Luigi Einaudi, non il razzismo del Ku Klux Klan.
Quanto al secondo imputato, i banchieri, proprio la cultura laica alla quale anch’io appartengo dovrebbe essere più autocritica. La Comit si rivoltò contro Cuccia che la voleva far sposare a Banca di Roma, in un’ottica nazionale di alleggerimento degli attivi patrimoniali della seconda, al servizio della crescita della prima che era la maggior banca internazionale che vantasse il nostro Paese. Alla fine, fu la Banca Intesa del professor Giovanni Bazoli a incorporare la Comit, e a girar pagina sui lunghi decenni della presunta contrapposizione tra “finanza laica” e “finanza cattolica”. In tutto il decennio successivo al grande consolidamento bancario italiano dopo la legge Amato, furono le fondazioni bancarie per lo più di matrice cattolica a dettarne tappe, tempi e sviluppi. Ci siamo abituati per anni a parlare e straparlare solo degli amministratori delegati, ma alla fine anche oggi sono le fondazioni che devono sottoscrivere gli aumenti di capitale. E lo fanno, a differenza di quanto capiti con altri soci in altre grandi banche mondiali che vanno a gambe all’aria.
Forse è il mondo laico che per tanto tempo si è cullato nella superiorità del ruolo sistemico esercitato da Cuccia, salvando i capitalisti italiani dai loro stessi errori e ponendo uno scudo tra le loro imprese e le eccessive pretese della politica in quegli anni, a non aver più saputo dipanare matasse e sfide di un tempo che diveniva obbligatoriamente diverso. Oggi, quei vecchi criteri - laico e cattolico - non dicono più nulla delle dinamiche e dei problemi con i quali devono confrontarsi banche come Unicredit e Intesa, la Popolare di Milano o altre Popolari. E, con tutto il rispetto, la battuta scalfariana su “Geronzi esportato a Milano” o non fa ridere o è mal detta. Se un banchiere sa comprare al ribasso e vendere al picco, Geronzi lo ha saputo fare nella sua vita meglio di più giovani banchieri che oggi devono fare mea culpa. Oppure, vuol dire che Scalfari pensa che il male - nelle banche come nel potere - stava a Roma e non a Milano, e allora è come se si dichiarasse d’accordo coi pretesi milanesi che di Roma non ne vogliono sapere.
Quanto a Formigoni, Cl e la Compagna delle Opere, conosco troppo bene dall’interno le impronte digitali del vecchio anticlericalismo per non riconoscerle. Don Giussani e la sua lezione sulla centralità dell’uomo e la libertà come fondamento del credere restano totalmente misconosciuti da chi crede di ridicolizzare i Memores Domini e i loro voti come se fossero una setta di tarantolati. Craxi e Lega, egoismo sociale e poteri mafiosi, con ciò che davvero sono Cl e la Compagnia delle Opere c’entrano assolutamente nulla. Se uno si sforza di conoscerli per davvero, naturalmente, con l’atteggiamento che ogni giornalista - non voglio parlare dei fondamenti dell’essere uomo - dovrebbe sempre serbare per le cose del mondo. La Compagnia delle Opere, per dirne una, offre a migliaia di imprenditori suoi iscritti la formazione della loro manodopera. Confindustria se lo sogna, in cambio della sue pur pingui quote associative.
Questa caricatura di una cupola mafiosa non va vissuta come un insulto, dunque. È il segno di una debacle culturale che disconosce se stessa. Incapace di capire e modificare il mondo in maniere a sé più congeniali, lo scomunica e lo danna. Sono gli stessi che dicono sempre di difendere il Galilei dal Bellarmino, ma la Congregazione per la dottrina della fede oggi non lo assumerebbe, a Scalfari. Per lui ci vuole proprio il vecchio Sant’Uffizio, che benignamente affidava al braccio secolare il male da bruciare.
Lettera aperta della CdO Milano a Eugenio Scalfari - Antonio Intiglietta, Massimo Ferlini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Milano, lunedì 13 ottobre 2008
Citando il premio Nobel Alexis Carrel “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore, molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”, Compagnia delle Opere di Milano con questa lettera aperta desidera sfidare Eugenio Scalfari su una cosa semplice e cara a tutti noi: la realtà. Perché prima di giudicare bisogna necessariamente conoscere.
In riferimento a quanto dichiarato da Scalfari e riportato su La Repubblica Ed. Milano di oggi, invitiamo lo stesso Scalfari a venire a conoscere e a incontrare personalmente la realtà di Compagnia delle Opere. Una realtà, appunto, quotidianamente al lavoro con imprenditori e lavoratori, per aiutarli ad affrontare i problemi quotidiani della vita: gestione finanziaria, fisco, servizi bancari e assicurativi, sviluppo delle imprese, servizio al lavoro e formazione professionale per disoccupati ed emarginati. Un’attività che è parte integrante e fondamentale della realizzazione del principio di sussidiarietà, inteso come decisione a “progettare e costruire da sé, in piena autonomia, la risposta ai propri bisogni ed ai propri desideri”.“Un criterio ideale, un’amicizia operativa” è la frase che racchiude l’essenza della modalità d’azione che caratterizza ogni attività di Compagnia delle Opere come insieme di persone che operano, collaborando, nella società civile ed economica.
Rappresentiamo i nostri soci attraverso le attività dell’associazione e, come tutte le altre organizzazioni imprenditoriali, attraverso la partecipazione alla Camera di Commercio di Milano. Nel costruire le nostre iniziative puntiamo costantemente ad essere aperti a tutti i fattori della realtà, rifacendoci così a quella tradizione dell’illuminismo milanese che ha alimentato la tradizione del riformismo laico, socialista e cattolico.
Invitiamo caldamente Eugenio Scalfari a visitare personalmente le nostre sedi e le nostre realtà imprenditoriali, sociali e no-profit, per fargli osservare quello che per noi è un contributo valido, seppur sempre migliorabile, al bene comune della città, della regione e di tutto il Paese.
Riteniamo che la realtà possa far cambiare idea e dunque confidiamo che Scalfari avrà l’onesta intellettuale di vederci in tutt’altri termini.
Avrà Scalfari il coraggio di confrontarsi? Se sì, lo aspettiamo.
Massimo Ferlini, Presidente Compagnia delle Opere Milano e Provincia
Antonio Intiglietta, Coordinatore Comitato Direttivo Federazione CdO Lombardia
ELUANA/ Dalla Englaro una lezione per i medici: curare con realismo, senza ideologia - Redazione - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Quello che sta capitando in questi ultimi giorni a Eluana provoca alcune riflessioni che sono tanto più opportune perchè si riferiscono a fatti già accaduti in altre epoche storiche. Come disse il filosofo G. Santayana, «Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo» ed è destinato a ripeterlo con gli stessi errori, commessi (e non ammessi) sotto la bandiera ideologica della qualità della vita. Per non ripetere gli stessi errori con Eluana, leggiamo questi “casi umani”, accaduti, non citati dai nostri quotidiani; osserviamo i risvolti affettivi delle famiglie, dopo la loro morte richiesta, procurata, con la compiacenza di una medicina ormai tecnologicamente forte, ma resa vana da una miopia dello sguardo, da una povertà di motivazioni a curare ed assistere. Leggiamo per tentare di capire cosa è stata la vita dopo la loro morte, per chi è rimasto. In questi casi i medici abdicarono a una sentenza, non tennero fede al loro compito, che da sempre è quello di curare dapprima e di assistere sempre e comunque quando non c’è più speranza di guarigione.
Karen Ann Quinlan, figlia adottiva di una famiglia del New Jersey, nel 1975, a 22 anni, cadde in stato vegetativo, dopo l’assunzione di un non meglio precisato cocktail alcoolico. Alcuni mesi dopo, i genitori chiesero che venisse sospesa la respirazione artificiale e dopo una battaglia legale presso la Corte locale Karen venne staccata dal respiratore. Continuò a vivere in respiro spontaneo per 10 anni. Morì però al primo episodio di polmonite che si scelse di non trattare. I genitori avevano voluto la sua fine, non sopportando più di vederla in quelle condizioni. Eppure in un diario tenuto dalla madre si legge: «Per 10 anni con Karen abbiamo vissuto in una attesa estenuante; noi e la nostra famiglia; ci siamo addolorati per 10 anni e abbiamo dovuto provare dolore ancora una volta. Ora non potremo più andare a visitarla alla casa di cura, non potrò più spazzolarle i capelli, parlare con lei. Un vuoto terribile. Per 10 anni quello era il nostro e il suo modo di vivere, andare a trovarla presso la casa di cura, tutti i giorni. Oramai eravamo molto soli».
Gli altri due fatti accaduti sono più gravi: la decisione medica fu presa solo in base alla disabilità dei due pazienti, anziché al quadro clinico che manifestavano. La cronaca medica e le riviste scientifiche li ricordano bene con due nomi fittizi: Baby Joe e Baby Jane Doe.
Nel 1982 nasce nell’Indiana Baby Joe, affetto da sindrome di Down e malformazione esofagea: perché disabile, affetto da una patologia esofagea chirurgicamente ben correggibile, non viene operato; muore in sesta giornata di vita per disidratazione e polmonite. Il fatto scatenò in quell’epoca grandi discussioni circa la legittimità del parere dei genitori a determinare decisioni mediche, fino a privare delle terapie dovute i bambini disabili, solo perché disabili.
Un altro caso pediatrico è quello di Baby Jane Doe, nata nel 1993, a Long Island, con spina bifida (una malformazione della colonna vertebrale con anomalie neurologiche associate). Da subito non ci fu accordo tra i medici circa la correzione chirurgica della malformazione alla colonna vertebrale: il timore era tutto relativo alla successiva qualità di vita della bambina. Si perdette tempo, e così il chirurgo pediatra Koop, favorevole all’intervento, si rivolse al Department of Health and Human Services (HHS): la bambina venne operata, sopravvisse, sì, ma con ulteriore peggioramento dell’handicap per meningite, sopraggiunta nel frattempo, mentre si discuteva.
Storia docet. Noi medici non possiamo delegare ad altri ciò che ci compete e abbiamo una grave responsabilità: da sempre scopo della medicina è quello di trattare senza pregiudizio, per tentare di risolvere la patologia acuta in atto, anche in pazienti con patologia preesistente, tanto più se tali condizioni sono documentate essere di assoluta stabilità fino a quel momento.
I tre casi descritti hanno interrogato e interrogano la letteratura medica internazionale e sono un ulteriore stimolo per noi. Le condizioni di Eluana fino ad oggi non sono quelle di una paziente in stato terminale: fino a che non saranno comparsi segni clinici indiscutibili di inefficacia, e soprattutto non procurati da abbandono terapeutico e incuria per il pregiudizio di cui sopra, non si potrà né si dovrà rinunciare all’assistenza di sostegno vitale (acqua e cibo) e di terapie di supporto (anche queste dovute a lei come ad ogni altro paziente).
Per fare ciò che è giusto basta poco: si deve stare al dato obiettivo del quadro clinico attuale e da questo lasciarsi guidare nelle decisioni mediche, lasciando da parte il dibattito ormai tutto ideologico dentro cui si è finiti.
Dunque assistiamo e trattiamo Eluana come ogni persona, viva, in una condizione di stato vegetativo, stabile, cioè una malata cronica che si è anemizzata acutamente. Facciamo il nostro dovere: curiamo e assistiamo. Il resto non è nelle nostre mani.
(Clementina Isimbaldi - Pediatra Ospedaliero Ospedale di Merate - Ass. Medicina&Persona)
13/10/2008 16:02 – PAKISTAN - Un cristiano e la figlia arrestati e quasi linciati per blasfemia - di Qaiser Felix
Vicino Faisalabad, qualcuno dice che la ragazza ha strappato pagine del Corano, ma le versioni sono discordi. Aumenta l’intolleranza, mentre parlamentari parlano di “accuse inventate” per perseguitare i cristiani.
Chak Jhumra (AsiaNews) – Il cristiano Gulsher Masih e la figlia Sandal sono stati arrestati per blasfemia (art. 295 B del codice penale) per avere strappato pagine del Corano, il 9 ottobre nel villaggio di Tehsil Chak Jhumra, distretto di Faisalabad. E hanno anche rischiato il linciaggio.
Alcuni islamici dicono che, passando davanti la casa dei Gulsher, hanno visto la figlia Sandal strappare pagine del Corano e gettarle in strada, insieme al padre Masih. La storia è stata poi raccontata nelle moschee del villaggio, e subito la sera del 9 ottobre una folla inferocita di musulmani ha marciato per il villaggio, chiedendo a gran voce la morte dei blasfemi. Tra loro c’era persino gente di villaggi vicini, come il viceispettore Faryad spiega ad AsiaNews. Arrivati alla loro casa, hanno iniziato a lanciarci pietre contro e a colpire con bastoni porte e finestre (nella foto), hanno pure lanciato sassi contro una vicina chiesa protestante.
La polizia ha arrestato l’intera famiglia “per la loro stessa sicurezza” – prosegue Faryad. “Interi pulmini carichi di islamici hanno marciato sul villaggio, ma la polizia non li ha fatti entrare”.
Il cristiano Ayub Khawar racconta ad AsiaNews che la folla urlava di aggredire le case cristiane e lui, terrorizzato, è corso a casa, ha spento ogni luce e ammonito la famiglia di stare in totale silenzio e al buio.
E’ critico Shahbaz Bhatti, parlamentare e presidente dell’Alleanza delle minoranze di tutto il Pakistan (Apma), che dice ad AsiaNews che l’accusa è del tutto inventata. “Non ci sono prove – dice – né indagini della polizia”, ma spesso l’accusa di blasfemia è usata per colpire i cristiani: appena qualche giorno prima la famiglia Gulsher aveva avuto un litigio pubblico con islamici.
L’Apma ha ottenuto la custodia degli altri membri della famiglia, non accusati di blasfemia, e li ha nascosti in un luogo sicuro e Bhatti assicura “la piena assistenza legale e finanziaria della famiglia. I nostri avvocati chiederanno subito il rilascio su cauzione”.
AsiaNews è stata al villaggio il 10 ottobre, ha parlato con vari islamici e ha visto che ci sono versioni diverse circa l’affermata blasfemia. Ghulam Ghaus dice che tre bambini cristiani di 10-12 anni, tra cui un figlio di Gulsher, hanno rubato un Corano da una moschea del villaggio e strappato le pagine per giocarci, lasciandole poi in terra, dove sono state trovate. Qualcuno ha accusato Sandal e la voce si è sparsa.
Master Kamal, insegnante di una scuola elementare cristiana, dice che Sandal ha trovato le pagine strappate tra i rifiuti in strada, le ha raccolte e date a una donna islamica, che invece l’ha accusata.
Lo stesso 9 ottobre un’accusa analoga di sacrilegio contro il Corano ha colpito l’islamico Rehmat Ali, a Faisalabad. Un passante ha visto Rehmat, che ha problemi mentali, gettarne pagine dentro l’acqua di scolo e ha chiamato i passanti. Lo hanno preso e malmenato, finché è arrivata la polizia che l’ha arrestato. La folla è poi sfilata per le vie, chiedendo la morte, e ha persino assalito la stazione di polizia di Batala Colony chiedendo la consegna del blasfemo per ucciderlo subito. La polizia ha caricato con bastoni e lanciato gas lacrimogeno.
13/10/2008 15:12 – VIETNAM - Discriminazioni e ostilità rendono più uniti i cattolici vietnamiti - di Thanh Thuy - Sorveglianza continua per le attività religiose, culturali e sociali dei fedeli: aderenti alla gioventù comunista che registrano le lezioni per conto della polizia. Il Politburo loda la stampa di regime per la campagna di diffamazione, ma poi l’agenzia nazionale ne loda le attività umanitarie. E intanto aumentano i giovani che vogliono sapere di più della dottrina sociale.
Ho Chi Minh City (AsiaNews) – Al di là della ostilità manifestata dalle autorità nelle vicende riguardanti i beni della Chiesa a Hanoi – e per le quali i media statali che hanno condotto una campagna di diffamazione hanno ricevuto le lodi del Politburo - i sette milioni di cattolici vietnamiti subiscono una discriminazione diffusa, insieme ad una sorveglianza continua.
E’ un controllo che copre tutto ciò che essi fanno in campo educativo, culturale, economico e sociale. “Nella mia classe – racconta John Tran G., un docente di inglese – nell’Istituto di amministrazione economica del distretto 10, ci sono studenti che sono membri dell’Unione della gioventù, che lavorano per la polizia e mi seguono per fare rapporto alle autorità locali. Fanno rapporti sulle mie attività religiose. Raccontano ai responsabili dell’Istituto della mia partecipazione a gruppi di preghiera”. “Ogni volta che faccio lezione – aggiunge una professoressa della Ho Chi Minh City Open University – vedo due o tre studenti che mi registrano. Forse lo fanno per mostrare ciò che dico e ciò che penso alla polizia. Quando entro in classe sono triste e inquieta. Ma non voglio lasciare il mio lavoro, lo amo e serve per mantenere la mia famiglia”. “Quando insegno – conferma un docente dell’Università nazionale – le mie parole sono registrate dai miei studenti che vogliono ‘vendere’ le registrazioni o i resoconti alla polizia, per pochi soldi. Questo mi rattrista, perché sono offeso nel mio rispetto per me stesso. Forse il governo produce menzogna e sospetti reciproci tra gli esseri umani”.
Il fatto è che ormai l’obiettivo dell’educazione è l’arricchimento personale e non il progresso della società, non la formazione di ideali. “Il sistema educativo – spiega un professore di storia – è degradato. Il meccanismo sta distruggendo l’eredità culturale del Paese, concetti come ‘ton su, trong dao’, cioè la venerazione verso i maestri ed il rispetto dei valori tradizionali. Si producono cittadini del ‘chu nghia co hoi’, persone di ‘opportunismo’ nella società, che lavorano per soddisfare bisogni egoistici e non per i valori del Paese. Per denaro sono pronti a tutto e questo è terribile per la nostra nazione”.
Ma questa ostilità sotterranea e quella aperta manifestatasi a Hanoi nella controversia per il complesso della ex delegazione apostolica e il terreno della parrocchia di Thai Ha stanno ottenendo l’effetto, certo non voluto, di accrescere lo spirito di unità tra i cattolici, la speranza e la carità. Con buona pace del Politburo del Partito che ha celebrato le “vittorie” contro la Chiesa.
L’8 ottobre, infatti, il settore per gli Affari media e propaganda ha lodato i media statali per i loro sforzi per la “diffusione rapida, tempestiva e per la propaganda nella giusta direzione a proposito degli incidenti contro la legge da parte di sacerdoti e fedeli e dell’arcivescovo Ngo Quang Kiet alla parrocchia di Thai Ha” ed alla ex delegazione apostolica. I giornali statali non hanno nascosto la loro gioia per la vittoria contro i cattolici, ci sono stati complimenti e congratulazioni per i giornalisti, che aspettano dal Politburo promozioni e medaglie.
Ieri, però, l’agenzia statale VNA ha dedicato un servizio alle attività umanitarie dei credenti, lodando in particolare quanto fanno i cattolici della provincia di Thua Thien-Hue, “compiendo cose buone sia per la religione che per la nazione”. Potrebbe essere un piccolo segnale di un cambiamento di rotta.
Da parte loro, i cattolici di Hanoi si consolano col fatto che la ex delegazione “veniva usata come night club, con una musica assordante che spesso disturbava le celebrazioni nella vicina cattedrale. Ora tutto questo è finito”. E padre Joseph Nguyen racconta di “vedere più gente andare in chiesa, anche nei giorni feriali e molti fanno domande sull’insegnamento sociale cattolico, specie tra i giovani studenti. Penso – commenta – che questo sia più importante di tutto”.
Ha collaborato: J.B. An Dang
SE COFFERATI PREFERISCE IL FIGLIO ALLA POLITICA…. Quando i bambini si “mangiano” i (post) comunisti… Nel “caso Cofferati” c’entra Dio. Dopo spiegherò il perché. Prima la notizia: il sindaco di Bologna non si ricandida perché sceglie di stare col figlio piccolo. In sostanza il bambino si è dolcemente “mangiato” il (post) comunista – Antonio Socci, Libero, 11 ottobre 2008
Il piccolo Edoardo (neanche un anno di età) ha sciolto l’anima dell’antico compagno, del leader della classe operaia, di colui che aveva in mano la sinistra italiana e, una volta sciolto il papà come un gelato al sole, se l’è bevuto dandogli una splendida e convincente lezione: non è vero che tutto è politica (l’antico dogma sessantottino) e non è vero che la politica è tutto (il dogma comunista). Anzi, la vita che sta fuori dalla politica – per esempio un figlio - è molto, molto più grande e importante. E’ più bello veder crescere Edoardo che veder decrescere il Partito democratico. Meglio farsi “mangiare” (il proprio tempo, le proprie giornate) dal proprio bellissimo bimbo, che dal partito.
Solo qualche anno fa sarebbe stata una bestemmia. Il riflusso nel privato era una deriva piccolo borghese che non sarebbe mai stata perdonata. Il problema di Cofferati forse è che ama la musica e tutta la storia comincia da lì. Il vecchio Lenin aveva avvertito. Un giorno disse testualmente: “E’ l’ora in cui non è più possibile sentire la musica, perché la musica fa venire desiderio di accarezzare la testa ai bambini, mentre è venuto il momento di tagliargliela” (se qualcuno dubitasse della citazione fornisco il riferimento bibliografico: M. Gor’kij, “Lenin”, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 67-68).
Cofferati deve aver ascoltato troppa musica. E il bambino ha fatto perdere la testa a lui. A suo modo l’episodio segna un’epoca: la riabilitazione a Sinistra del padre di famiglia. L’ideologia vedeva in questa figura il simbolo del “piccolo borghese”. Péguy proclamò, al contrario, che il padre di famiglia era il vero eroe del nostro tempo. Perché simbolo dell’amore gratuito e della speranza. Ma l’ideologia non sopportava i padri. Doveva imporre un padrone, il Partito. Era una sorta di religione atea, che pretendeva di amministrare e dominare tutta l’esistenza degli individui. Si pretendeva di ficcarci dentro tutta la realtà.
Siccome c’era sempre qualcosa che dentro quella gabbia non ci stava, si provvedeva a cancellarlo dalla storia. Per esempio Dio. Un’altra cosa eccedente era il mondo degli affetti e si censurò sia l’amore che la famiglia come ferrivecchi borghesi che sarebbero stati travolti e superati nella “società” comunista.
Nel periodo staliniano il partito si frappose pure fra marito e moglie e si aveva terrore di essere denunciati addirittura dai familiari. I figli diventarono sostanzialmente proprietà del partito e specialmente in certi momenti o certi paesi, penso alla Cambogia di Pol Pot o alla Cina della “rivoluzione culturale” o alla Corea del Nord, si andò perfino al di là dell’orrenda frase di Lenin.
L’ideologia era disumana. Ma che significasse pure schizofrenia – perché troppe cose importanti restavano fuori - era chiaro fin dai tempi del vecchio Marx. Il quale scriveva il 21 giugno 1856 alla moglie: “Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti. Ma l’amore, non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo”.
Una lettera emblematica. Dove si vede che, a rispondere alla domanda più importante della vita, quella che Leopardi formulava così: “e io che sono?”, non era l’ideologia, ma l’amore, il volto di un “tu”. Nella lettera di Marx emergeva la schizofrenia fra il mondo dell’utopia e la realtà dove si muovono creature desiderose di amare e di essere amate, esseri umani capaci di male, incapaci di essere se stessi, ma sorpresi di trovare il proprio io e la propria felicità negli occhi della donna amata.
Don Giussani commentava le parole di Marx così: “come si può reggere una antropologia, come si può immaginare una concezione della storia che non nasca, investa e spieghi ciò che l’uomo fa ogni giorno?”. Infatti non ha retto. E’ crollata. Anche la nuova stagione dell’ideologia, quella scatenata dal ’68, naufragò proprio nell’oceano che separa l’utopia dalla drammaticità della vita quotidiana concreta dove – in attesa dell’utopico paradiso comunista – si cercavano le scorciatoie dei paradisi artificiali delle droghe o si sprofondava nella disperazione, alla ricerca del senso dell’esistenza. Si corse ai ripari teorizzando che anche il “personale” aveva un valore politico (era l’ideologia radicale). Ma si era incapaci di dare risposta davanti alla scoperta del male e anche al male di vivere.
Resta – come epitaffio di quella generazione – una lettera di un militante, pubblicata sul giornale “Lotta Continua” il 30 settembre 1977, all’indomani dell’ennesimo suicidio di un compagno. Diceva: “nel 1968 si affermava che ‘tutto è politica’. Lo si diceva dando alla frase semplicemente il significato opposto a quello che ha ora l’espressione ‘il personale è politico’. Voleva dire che per fare una rivoluzione si doveva rinunciare ai nostri bisogni personali, voleva dire nascondere i nostri sentimenti”.
Una volta allontanatasi la “rapida vittoria” iniziò il dolore di “riscoprire insieme le nostre individualità represse, ritrovare l’umiltà per parlare dei propri problemi” e diventò “facile rendersi conto di essere soli, a volte disperati”. La lettera continuava così: “Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati ‘disumani’, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo in cui si sono trattati i compagni ‘silenziosi’… disumani sono stati i piccoli e grandi leader depositari del sapere e del potere; disumani sono stati i nostri rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie o lettori dei nostri volantini o persone cui spiegare la rivoluzione… Fra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così; c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra ‘squallida’ pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi”.
Vi è stato un poeta comunista, Louis Aragon, per il quale l’incontro (due mesi dopo aver tentato il suicidio, a Venezia) con la donna della sua vita, Elsa Triolet, ha significato uscire dalla disperazione e trovare la ragione dell’impegno politico. Elsa simbolizzava ogni amore, compreso quello per la patria e per gli sfruttati. Ma la più bella delle poesie a lei dedicata s’intitola “Non esistono amori felici”. E basta la prima strofa per capire: “Nulla appartiene all’uomo. Né la sua forza/ Né la sua debolezza, né il suo cuore. E quando crede/ di aprire le braccia, la sua ombra è quella di una croce/ e quando crede di stringere la felicità la stritola./ La sua vita è uno strano e doloroso divorzio./ Non esistono amori felici”.
E’ come se mancasse sempre il centro di gravità, qualcosa che sia capace di dare senso a tutto (senza censurare niente), all’essere padre e al fare politica, all’innamorarsi e all’impegno sociale, alla bellezza della musica, al vivere e al morire, qualcosa che dia valore pure al soffrire, che vinca il male personale e il male del mondo, senza la violenza dell’utopia e senza il cinismo della legge del più forte. Un “centro” che non sia travolto dal tempo che passa. Devo ancora dirvi che c’entra Dio. Ma di cosa abbiamo parlato finora?
Antonio Socci
Da “Libero”, 11 ottobre 2008
L’ULTIMA CRUDELTÀ DEGLI SCAFISTI - Sacrifici umani consegnati al mare - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 14 ottobre 2008
Buio su buio. Oscurità sulle peggiori oscurità.
Non sapremo forse mai esattamente cosa è successo sulla barca che ha abbandonato in mare tredici dei disperati che stavano tentando l’ennesima traversata. Era settembre, una barca di immigrati clandestini arrivava a Capo Passero.
Ma anche se non esattamente, ecco, nell’oscurità la sagoma dei fatti si intravede, grazie alle indagini, agli arresti degli ' scafisti' e ai racconti dei sopravvissuti. Che prima avevano paura, e non volevano parlare. E poi grazie alla pazienza, al tempo e alla forza dei nostri carabinieri e della Procura di Siracusa, hanno raccontato.
I tredici disgraziati sarebbero stati abbandonati alle onde con la motivazione che il loro delirare era dovuto non già al sole e alle prove della traversata ma perché erano ' posseduti' da spiriti maligni. E dunque era meglio scaricarli. Facendo leva sulla superstizione, su retrive convinzioni pseudoreligiose, e sulla impressionabilità dei disperati, gli scafisti – questi scarafaggi del mare, questi angeli del niente – hanno convinto o forse obbligato gli altri a disfarsi dei tredici. E, come per un sacrificio umano collettivo, vivi li hanno lasciati alle onde e alla morte sicura. O forse hanno potuto contare sulla connivenza degli altri, di coloro che sono arrivati e ora raccontano.
Buio su buio. Ma quel che si perde in questi fatti non è solo la successione precisa dei fatti e delle circostanze di una così disumana strage.
Si perde, di più, la misura possibile del male. Si perde la misura della vigliacca disumanità degli scarafaggi del mare, degli scafisti che sono abilissimi e modernissimi nel contare i denari che intascano per ogni vita portata come bestia da costa a costa. E poi furbescamente tornano antichi, nutriti di superstizione , se serve anche questo per fare i loro disumani affari. E non avere intralci. Nero su nero. Violenza dentro violenza. Come a ferire, se ancor più è possibile, il cielo e il mare su cui avviene l’orrendo commercio.
Perché, se così si potesse dire, è quasi umano morire tentando la traversata. Insomma, è quasi umano trovare la morte tentando la maledetta fortuna di approdare all’ex- eldorado chiamato Italia. È insomma una cosa che sta nel conto, anche se i più che si imbarcano forse non sanno neppure che viaggio sarà, raggirati fin dall’inizio. Ma morire così, abbandonati al mare poiché posseduti dagli spiriti maligni, è un oltraggio nell’oltraggio, è violenza nella violenza. È buio nel buio. Non hanno scusanti, coloro che sono ricorsi a questo mezzo orrendo per compiere un sacrificio umano.
Vanno inseguiti, come in questo caso, stanati, puniti in modo esemplare. E colpita la rete che copre e addirittura favorisce in modo mafioso – sì, chiamiamolo con il nome che fa indignare– il commercio di uomini che li vede al centro.
Cosa dobbiamo ancora sapere per comprendere che questa nuova tremenda mafia è spietata come e quanto quella che si cerca di contrastare con ingente dispiego di procure e di forze, di campagne di stampa e di sensibilizzazione, e con uomini e con armi? Gli scarafaggi del mare vanno inseguiti e avvelenate le loro risorse, le loro tane, le protezioni. O sopporteremo che alle nostre coste si affaccino e si arricchiscano uomini che non esitano a compiere sacrifici umani per il loro dio denaro ? Ci dobbiamo un sussulto di indignazione e una conseguente azione. Lo dobbiamo a noi stessi, e specialmente a quei tredici poveri cristi, che cercavano la vita futura e sono stati consegnati alla più remota delle morti
Scola: «In ascolto dei testimoni autentici, così la lettura nasce dalla comunione» -Interventi al Sinodo del 13 ottobre
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 13 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo i riassunti degli interventi pronunciati al Sinodo sulla Parola di Dio nella mattina del 13 ottobre, quando è iniziata la dodicesima Congregazione generale.
…
Dei Verbum 25 esorta tutti i fedeli perché "si accostino volentieri al sacro testo mediante la pia
lettura ‘per piam lectionem'", connessa alla preghiera: "affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo". La pia lettura delle Scritture non può ridursi né a puro studio, né a semplice, immediata reazione. È relazione personale col Signore, perché "si può leggere la Bibbia senza fede, ma senza fede non si può scrutare la Parola di Dio" (IL 26a). La pia lettura riconosce che la Sacra Scrittura è testimonianza ispirata e normativa della Rivelazione. La radice della testimonianza della Scrittura è Gesù Cristo stesso, il testimone fedele dell'alleanza di Dio con gli uomini. Così la Scrittura può essere adeguatamente compresa solo dal testimone. Quindi, per essere pia la lettura della Scrittura deve passare da Testimone a testimone. La categoria di testimonianza mette in primo piano il soggetto ecclesiale (personale e comunitario) della pia lettura. Questa è la strada del realismo che evita ogni deriva fondamentalista e intellettualistica, rischi di letture che prescindono dalla testimonianza della Chiesa, luogo dell'ascolto credente della Parola. Questa comprensione della Scrittura garantisce l'autenticità della esperienza cristiana, ma richiede una comunione ecclesiale vissuta quotidianamente.
1) Scuola, ecco le bugie di chi vuol fare la guerra alla riforma - Giorgio Vittadini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
2) Giannino: a Scalfari non piace Milano per colpa di CdO e Cl? L’ultima “scomunica” di chi parla di una realtà senza conoscerla - Oscar Giannino - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
3) Lettera aperta della CdO Milano a Eugenio Scalfari - Antonio Intiglietta, Massimo Ferlini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
4) ELUANA/ Dalla Englaro una lezione per i medici: curare con realismo, senza ideologia - Redazione - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
5) 13/10/2008 16:02 – PAKISTAN - Un cristiano e la figlia arrestati e quasi linciati per blasfemia - di Qaiser Felix - Vicino Faisalabad, qualcuno dice che la ragazza ha strappato pagine del Corano, ma le versioni sono discordi. Aumenta l’intolleranza, mentre parlamentari parlano di “accuse inventate” per perseguitare i cristiani.
6) 13/10/2008 15:12 – VIETNAM - Discriminazioni e ostilità rendono più uniti i cattolici vietnamiti - di Thanh Thuy - Sorveglianza continua per le attività religiose, culturali e sociali dei fedeli: aderenti alla gioventù comunista che registrano le lezioni per conto della polizia. Il Politburo loda la stampa di regime per la campagna di diffamazione, ma poi l’agenzia nazionale ne loda le attività umanitarie. E intanto aumentano i giovani che vogliono sapere di più della dottrina sociale.
7) SE COFFERATI PREFERISCE IL FIGLIO ALLA POLITICA…. Quando i bambini si “mangiano” i (post) comunisti… Nel “caso Cofferati” c’entra Dio. Dopo spiegherò il perché. Prima la notizia: il sindaco di Bologna non si ricandida perché sceglie di stare col figlio piccolo. In sostanza il bambino si è dolcemente “mangiato” il (post) comunista – Antonio Socci, Libero, 11 ottobre 2008
8) L’ULTIMA CRUDELTÀ DEGLI SCAFISTI - Sacrifici umani consegnati al mare - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 14 ottobre 2008
9) Scola: «In ascolto dei testimoni autentici, così la lettura nasce dalla comunione» -Interventi al Sinodo del 13 ottobre
Scuola, ecco le bugie di chi vuol fare la guerra alla riforma - Giorgio Vittadini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Si odono nuovi venti di guerra sulla scuola dove non solo la Cgil, ma anche le sigle autonome e la Cisl, minacciano uno sciopero generale contro le riforme del ministro Gelmini in approvazione in Parlamento. Hanno ragione?
Verifichiamolo. Si paventa la riduzione delle risorse come motivo di un ulteriore peggioramento della qualità della scuola italiana. Si dimentica tuttavia che siamo già nei primi posti, tra i Paesi dell’Ocse, come spesa per istruzione primaria e secondaria superiore, ma ciò non incide sulla qualità. Hanushek, studioso di sistemi scolastici, ha infatti dimostrato che non esiste correlazione tra spesa per la scuola e sua qualità. Inoltre l’Italia ha già un numero di ore di insegnamento elevato (nella fascia 7-11 anni supera del 20% la media dei Paesi Ocse), ma ai primi posti per la qualità nell’apprendimento vi sono Paesi dove si sta a scuola molto meno.
Il fatto è che, come dimostra un altro grande studioso di sistemi scolastici, Wossmann, determinante per la qualità è piuttosto il grado di autonomia delle scuole per quel che riguarda programmi, budget, determinazione dello stipendio degli insegnanti. Qui stanno le dolenti note del sistema italiano: la spesa del ministero dell’Istruzione è per il 96,98% spesa per il personale che, né preside, né chicchessia, può in alcun modo intervenire a modificare e razionalizzare.
Non solo, il numero degli insegnanti in Italia supera quello della media Ocse. Chi oppone il fatto che questo dipenda dalla particolare configurazione del territorio italiano, per cui bisogna assicurare l’istruzione anche nelle aree rurali e di montagna, dovrebbe riflettere sul fatto che la nostra legislazione è stata quantomeno di manica larga nel concedere lo status di “comune montano” a circa 4200 comuni, circa la metà di tutti i comuni italiani! Oppure deve interrogarsi sul perché anche in aree omogenee, socialmente e territorialmente, il numero di insegnanti per classe è molto diverso, segnalando che in certi posti vige un clientelismo ammantato da ragioni sociali.
Pur rispettando le garanzie sociali, occorre chiedersi inoltre se sia davvero necessario un numero così elevato di insegnanti di sostegno (oltre il 10% degli insegnanti complessivi), con un costo che è arrivato a superare i 4 miliardi di euro, al punto che lo stesso governo Prodi aveva predisposto norme ancora non attuate per un accertamento più rigoroso degli handicap. La verità è che si è usata la scuola come strumento per creare occupazione fittizia a discapito della qualità e contro gli stessi insegnanti che hanno una paga da fame e non proporzionata al merito.
Per questo la guerra dei sindacati contro una riduzione del personale, prevista soprattutto con la non sostituzione di parte del personale che andrà in pensione nei prossimi anni, è pura e prepotente battaglia corporativa che ignora, oltre alla realtà dei fatti, le associazioni professionali degli insegnanti e il giudizio di ogni cittadino, utente del servizio. Si abbia il coraggio di ignorare il loro sciopero che è “generale” solo nei proclami.
(Il Giornale, 14 Ottobre 2008)
Giannino: a Scalfari non piace Milano per colpa di CdO e Cl? L’ultima “scomunica” di chi parla di una realtà senza conoscerla - Oscar Giannino - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Milano città egoista e leghista, chiusa nel suo particolare e soggetta a una cupola «come quella di Formigoni, Cl e Compagnia delle opere, che non esiste in alcuna altra parte del Paese, nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere». Questa la sintesi, su Repubblica di Milano ieri, della presentazione meneghina del libro “L’uomo che non credeva in Dio”, da parte dell’autore, Eugenio Scalfari. Sono parole e giudizi pesanti come pietre.
Poiché provengo da una cultura per molti versi del tutto coincidente con quella evocata da Scalfari, la cultura che nei decenni trascorsi considerava il meglio di Milano espresso dai cosiddetti “banchieri laici” come Raffaele Mattioli della Comit ed Enrico Cuccia in Mediobanca, sono particolarmente colpito dall’asprezza dei giudizi.
Non li condivido praticamente in nulla. E non si tratta affatto di animosità nei confronti di Scalari, o verso il ruolo che esercitano ogni giorno nella vita nazionale il giornale di cui è stato fondatore e il gruppo editoriale al quale appartiene. La questione è un’altra, secondo me. Mi viene da dire che si tratta di giudizi che esprimono una sostanziale incapacità di vedere e capire di che cosa si stia parlando. E poiché ho molte difficoltà ad attribuire a Scalari difetti di comprensione tanto gravi, posso solo pensare che su tutto prevalga un malinteso segno politico, e dico malinteso perché in definitiva pare a me che la condanna scalfariana - è sempre più così in lui, da parecchi anni a questa parte - poggi le sue basi su un anatema di carattere etico. Che però comprende e accomuna fenomeni tra loro totalmente diversi, per il solo fatto che essi rappresenterebbero gambe e braccia di un nemico comunque identitariamente come tale concepito, descritto e combattuto.
Dico “nemico” perché la ripulsa morale di tutto ciò che a Milano, in Lombardia e nel Nord si è espresso da ormai parecchi anni in maniera comunque distinta e distante dalle leadership e dalle politiche locali e nazionali sostenute dal centrosinistra, finisce per alimentare agli occhi dell’alfiere più intemerato di quel centrosinistra una sorta di continuum dell’abnorme e del difforme. Tanto che si tengono insieme come tratti comuni discendenti da un’unica matrice morale - il presunto inaridimento etico avvenuto nella “Milano da bere” craxiana - fenomeni che con quella matrice o c’entrano nulla perché precedenti e separati, o comunque solo successivi nel tempo ma non per questo teleologicamente collegati.
Quattro, sono i condannati a Milano da Scalfari. La buona borghesia milanese, sotto il capo d’imputazione di non esser più capace di solidarietà. I banchieri, dimentichi della tradizione laica. La Lega, naturalmente. Infine la presunta “cricca” formigoniana, Cl e Compagnia delle Opere, che dei tre condannati precedenti rappresenta per molti versi la sintesi di depravazione più seria, in quanto raffigurata come integralista, dedita al malaffare, oligarchica e irriducibile a ogni sana fisiologia della democrazia rappresentativa.
Vediamo di andare per ordine, allora.
Milano è oggi guidata proprio da un’esponente della migliore alta borghesia milanese. Se Letizia Moratti non è questo, non so chi lei sia. Lo è squisitamente tanto da aver proprio per questo problemi con la sua stessa maggioranza, e dal non esitare di condurre battaglie anche fortemente solitarie, vedi quella per la guida operativa dell’Expo 2015. Paradossalmente, la Moratti non esprime affatto un ripiegamento della borghesia milanese sui propri affari - tratto dominante di gran lunga nella storia della città, vista l’esiguità degli apporti “storici” dati dalle grandi famiglie milanesi alla politica locale e nazionale - ma l’esatto opposto. Se la sua colpa è quella di non riconoscersi nel centrosinistra, questo altro paio di maniche. È lo specchio fedele di quanto nelle urne del Nord avviene da anni: anzi dai ceti popolari e operai, prima che per i buoni borghesi milionari. Ed è un problema sul quale Repubblica e un centrosinistra serio dovrebbero riflettere in maniera critica e autocritica, non risolverlo in chiave di sentenze morali.
Non tocco se non en passant qui il terzo condannato, la Lega e dei suoi consensi. Mi limito a dire che proprio la fedeltà alla cultura laica dei Silvio Spaventa e del suo “La giustizia nell’amministrazione”, o degli Ugo La Malfa e della sua “Caporetto economica”, dovrebbero indurre a riconoscere che la gran voglia di federalismo e di sussidiarietà non è affatto espressione di egoismo localistico. È la reazione a decenni di sprechi che non hanno sanato alcun divario geoeconomico in Italia, bensì alimentato deficit e malaffare vero. Nel rilancio del principio del beneficio al livello più prossimo a quello del contribuente c’è la riscoperta del liberalismo di Luigi Einaudi, non il razzismo del Ku Klux Klan.
Quanto al secondo imputato, i banchieri, proprio la cultura laica alla quale anch’io appartengo dovrebbe essere più autocritica. La Comit si rivoltò contro Cuccia che la voleva far sposare a Banca di Roma, in un’ottica nazionale di alleggerimento degli attivi patrimoniali della seconda, al servizio della crescita della prima che era la maggior banca internazionale che vantasse il nostro Paese. Alla fine, fu la Banca Intesa del professor Giovanni Bazoli a incorporare la Comit, e a girar pagina sui lunghi decenni della presunta contrapposizione tra “finanza laica” e “finanza cattolica”. In tutto il decennio successivo al grande consolidamento bancario italiano dopo la legge Amato, furono le fondazioni bancarie per lo più di matrice cattolica a dettarne tappe, tempi e sviluppi. Ci siamo abituati per anni a parlare e straparlare solo degli amministratori delegati, ma alla fine anche oggi sono le fondazioni che devono sottoscrivere gli aumenti di capitale. E lo fanno, a differenza di quanto capiti con altri soci in altre grandi banche mondiali che vanno a gambe all’aria.
Forse è il mondo laico che per tanto tempo si è cullato nella superiorità del ruolo sistemico esercitato da Cuccia, salvando i capitalisti italiani dai loro stessi errori e ponendo uno scudo tra le loro imprese e le eccessive pretese della politica in quegli anni, a non aver più saputo dipanare matasse e sfide di un tempo che diveniva obbligatoriamente diverso. Oggi, quei vecchi criteri - laico e cattolico - non dicono più nulla delle dinamiche e dei problemi con i quali devono confrontarsi banche come Unicredit e Intesa, la Popolare di Milano o altre Popolari. E, con tutto il rispetto, la battuta scalfariana su “Geronzi esportato a Milano” o non fa ridere o è mal detta. Se un banchiere sa comprare al ribasso e vendere al picco, Geronzi lo ha saputo fare nella sua vita meglio di più giovani banchieri che oggi devono fare mea culpa. Oppure, vuol dire che Scalfari pensa che il male - nelle banche come nel potere - stava a Roma e non a Milano, e allora è come se si dichiarasse d’accordo coi pretesi milanesi che di Roma non ne vogliono sapere.
Quanto a Formigoni, Cl e la Compagna delle Opere, conosco troppo bene dall’interno le impronte digitali del vecchio anticlericalismo per non riconoscerle. Don Giussani e la sua lezione sulla centralità dell’uomo e la libertà come fondamento del credere restano totalmente misconosciuti da chi crede di ridicolizzare i Memores Domini e i loro voti come se fossero una setta di tarantolati. Craxi e Lega, egoismo sociale e poteri mafiosi, con ciò che davvero sono Cl e la Compagnia delle Opere c’entrano assolutamente nulla. Se uno si sforza di conoscerli per davvero, naturalmente, con l’atteggiamento che ogni giornalista - non voglio parlare dei fondamenti dell’essere uomo - dovrebbe sempre serbare per le cose del mondo. La Compagnia delle Opere, per dirne una, offre a migliaia di imprenditori suoi iscritti la formazione della loro manodopera. Confindustria se lo sogna, in cambio della sue pur pingui quote associative.
Questa caricatura di una cupola mafiosa non va vissuta come un insulto, dunque. È il segno di una debacle culturale che disconosce se stessa. Incapace di capire e modificare il mondo in maniere a sé più congeniali, lo scomunica e lo danna. Sono gli stessi che dicono sempre di difendere il Galilei dal Bellarmino, ma la Congregazione per la dottrina della fede oggi non lo assumerebbe, a Scalfari. Per lui ci vuole proprio il vecchio Sant’Uffizio, che benignamente affidava al braccio secolare il male da bruciare.
Lettera aperta della CdO Milano a Eugenio Scalfari - Antonio Intiglietta, Massimo Ferlini - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Milano, lunedì 13 ottobre 2008
Citando il premio Nobel Alexis Carrel “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore, molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”, Compagnia delle Opere di Milano con questa lettera aperta desidera sfidare Eugenio Scalfari su una cosa semplice e cara a tutti noi: la realtà. Perché prima di giudicare bisogna necessariamente conoscere.
In riferimento a quanto dichiarato da Scalfari e riportato su La Repubblica Ed. Milano di oggi, invitiamo lo stesso Scalfari a venire a conoscere e a incontrare personalmente la realtà di Compagnia delle Opere. Una realtà, appunto, quotidianamente al lavoro con imprenditori e lavoratori, per aiutarli ad affrontare i problemi quotidiani della vita: gestione finanziaria, fisco, servizi bancari e assicurativi, sviluppo delle imprese, servizio al lavoro e formazione professionale per disoccupati ed emarginati. Un’attività che è parte integrante e fondamentale della realizzazione del principio di sussidiarietà, inteso come decisione a “progettare e costruire da sé, in piena autonomia, la risposta ai propri bisogni ed ai propri desideri”.“Un criterio ideale, un’amicizia operativa” è la frase che racchiude l’essenza della modalità d’azione che caratterizza ogni attività di Compagnia delle Opere come insieme di persone che operano, collaborando, nella società civile ed economica.
Rappresentiamo i nostri soci attraverso le attività dell’associazione e, come tutte le altre organizzazioni imprenditoriali, attraverso la partecipazione alla Camera di Commercio di Milano. Nel costruire le nostre iniziative puntiamo costantemente ad essere aperti a tutti i fattori della realtà, rifacendoci così a quella tradizione dell’illuminismo milanese che ha alimentato la tradizione del riformismo laico, socialista e cattolico.
Invitiamo caldamente Eugenio Scalfari a visitare personalmente le nostre sedi e le nostre realtà imprenditoriali, sociali e no-profit, per fargli osservare quello che per noi è un contributo valido, seppur sempre migliorabile, al bene comune della città, della regione e di tutto il Paese.
Riteniamo che la realtà possa far cambiare idea e dunque confidiamo che Scalfari avrà l’onesta intellettuale di vederci in tutt’altri termini.
Avrà Scalfari il coraggio di confrontarsi? Se sì, lo aspettiamo.
Massimo Ferlini, Presidente Compagnia delle Opere Milano e Provincia
Antonio Intiglietta, Coordinatore Comitato Direttivo Federazione CdO Lombardia
ELUANA/ Dalla Englaro una lezione per i medici: curare con realismo, senza ideologia - Redazione - martedì 14 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Quello che sta capitando in questi ultimi giorni a Eluana provoca alcune riflessioni che sono tanto più opportune perchè si riferiscono a fatti già accaduti in altre epoche storiche. Come disse il filosofo G. Santayana, «Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo» ed è destinato a ripeterlo con gli stessi errori, commessi (e non ammessi) sotto la bandiera ideologica della qualità della vita. Per non ripetere gli stessi errori con Eluana, leggiamo questi “casi umani”, accaduti, non citati dai nostri quotidiani; osserviamo i risvolti affettivi delle famiglie, dopo la loro morte richiesta, procurata, con la compiacenza di una medicina ormai tecnologicamente forte, ma resa vana da una miopia dello sguardo, da una povertà di motivazioni a curare ed assistere. Leggiamo per tentare di capire cosa è stata la vita dopo la loro morte, per chi è rimasto. In questi casi i medici abdicarono a una sentenza, non tennero fede al loro compito, che da sempre è quello di curare dapprima e di assistere sempre e comunque quando non c’è più speranza di guarigione.
Karen Ann Quinlan, figlia adottiva di una famiglia del New Jersey, nel 1975, a 22 anni, cadde in stato vegetativo, dopo l’assunzione di un non meglio precisato cocktail alcoolico. Alcuni mesi dopo, i genitori chiesero che venisse sospesa la respirazione artificiale e dopo una battaglia legale presso la Corte locale Karen venne staccata dal respiratore. Continuò a vivere in respiro spontaneo per 10 anni. Morì però al primo episodio di polmonite che si scelse di non trattare. I genitori avevano voluto la sua fine, non sopportando più di vederla in quelle condizioni. Eppure in un diario tenuto dalla madre si legge: «Per 10 anni con Karen abbiamo vissuto in una attesa estenuante; noi e la nostra famiglia; ci siamo addolorati per 10 anni e abbiamo dovuto provare dolore ancora una volta. Ora non potremo più andare a visitarla alla casa di cura, non potrò più spazzolarle i capelli, parlare con lei. Un vuoto terribile. Per 10 anni quello era il nostro e il suo modo di vivere, andare a trovarla presso la casa di cura, tutti i giorni. Oramai eravamo molto soli».
Gli altri due fatti accaduti sono più gravi: la decisione medica fu presa solo in base alla disabilità dei due pazienti, anziché al quadro clinico che manifestavano. La cronaca medica e le riviste scientifiche li ricordano bene con due nomi fittizi: Baby Joe e Baby Jane Doe.
Nel 1982 nasce nell’Indiana Baby Joe, affetto da sindrome di Down e malformazione esofagea: perché disabile, affetto da una patologia esofagea chirurgicamente ben correggibile, non viene operato; muore in sesta giornata di vita per disidratazione e polmonite. Il fatto scatenò in quell’epoca grandi discussioni circa la legittimità del parere dei genitori a determinare decisioni mediche, fino a privare delle terapie dovute i bambini disabili, solo perché disabili.
Un altro caso pediatrico è quello di Baby Jane Doe, nata nel 1993, a Long Island, con spina bifida (una malformazione della colonna vertebrale con anomalie neurologiche associate). Da subito non ci fu accordo tra i medici circa la correzione chirurgica della malformazione alla colonna vertebrale: il timore era tutto relativo alla successiva qualità di vita della bambina. Si perdette tempo, e così il chirurgo pediatra Koop, favorevole all’intervento, si rivolse al Department of Health and Human Services (HHS): la bambina venne operata, sopravvisse, sì, ma con ulteriore peggioramento dell’handicap per meningite, sopraggiunta nel frattempo, mentre si discuteva.
Storia docet. Noi medici non possiamo delegare ad altri ciò che ci compete e abbiamo una grave responsabilità: da sempre scopo della medicina è quello di trattare senza pregiudizio, per tentare di risolvere la patologia acuta in atto, anche in pazienti con patologia preesistente, tanto più se tali condizioni sono documentate essere di assoluta stabilità fino a quel momento.
I tre casi descritti hanno interrogato e interrogano la letteratura medica internazionale e sono un ulteriore stimolo per noi. Le condizioni di Eluana fino ad oggi non sono quelle di una paziente in stato terminale: fino a che non saranno comparsi segni clinici indiscutibili di inefficacia, e soprattutto non procurati da abbandono terapeutico e incuria per il pregiudizio di cui sopra, non si potrà né si dovrà rinunciare all’assistenza di sostegno vitale (acqua e cibo) e di terapie di supporto (anche queste dovute a lei come ad ogni altro paziente).
Per fare ciò che è giusto basta poco: si deve stare al dato obiettivo del quadro clinico attuale e da questo lasciarsi guidare nelle decisioni mediche, lasciando da parte il dibattito ormai tutto ideologico dentro cui si è finiti.
Dunque assistiamo e trattiamo Eluana come ogni persona, viva, in una condizione di stato vegetativo, stabile, cioè una malata cronica che si è anemizzata acutamente. Facciamo il nostro dovere: curiamo e assistiamo. Il resto non è nelle nostre mani.
(Clementina Isimbaldi - Pediatra Ospedaliero Ospedale di Merate - Ass. Medicina&Persona)
13/10/2008 16:02 – PAKISTAN - Un cristiano e la figlia arrestati e quasi linciati per blasfemia - di Qaiser Felix
Vicino Faisalabad, qualcuno dice che la ragazza ha strappato pagine del Corano, ma le versioni sono discordi. Aumenta l’intolleranza, mentre parlamentari parlano di “accuse inventate” per perseguitare i cristiani.
Chak Jhumra (AsiaNews) – Il cristiano Gulsher Masih e la figlia Sandal sono stati arrestati per blasfemia (art. 295 B del codice penale) per avere strappato pagine del Corano, il 9 ottobre nel villaggio di Tehsil Chak Jhumra, distretto di Faisalabad. E hanno anche rischiato il linciaggio.
Alcuni islamici dicono che, passando davanti la casa dei Gulsher, hanno visto la figlia Sandal strappare pagine del Corano e gettarle in strada, insieme al padre Masih. La storia è stata poi raccontata nelle moschee del villaggio, e subito la sera del 9 ottobre una folla inferocita di musulmani ha marciato per il villaggio, chiedendo a gran voce la morte dei blasfemi. Tra loro c’era persino gente di villaggi vicini, come il viceispettore Faryad spiega ad AsiaNews. Arrivati alla loro casa, hanno iniziato a lanciarci pietre contro e a colpire con bastoni porte e finestre (nella foto), hanno pure lanciato sassi contro una vicina chiesa protestante.
La polizia ha arrestato l’intera famiglia “per la loro stessa sicurezza” – prosegue Faryad. “Interi pulmini carichi di islamici hanno marciato sul villaggio, ma la polizia non li ha fatti entrare”.
Il cristiano Ayub Khawar racconta ad AsiaNews che la folla urlava di aggredire le case cristiane e lui, terrorizzato, è corso a casa, ha spento ogni luce e ammonito la famiglia di stare in totale silenzio e al buio.
E’ critico Shahbaz Bhatti, parlamentare e presidente dell’Alleanza delle minoranze di tutto il Pakistan (Apma), che dice ad AsiaNews che l’accusa è del tutto inventata. “Non ci sono prove – dice – né indagini della polizia”, ma spesso l’accusa di blasfemia è usata per colpire i cristiani: appena qualche giorno prima la famiglia Gulsher aveva avuto un litigio pubblico con islamici.
L’Apma ha ottenuto la custodia degli altri membri della famiglia, non accusati di blasfemia, e li ha nascosti in un luogo sicuro e Bhatti assicura “la piena assistenza legale e finanziaria della famiglia. I nostri avvocati chiederanno subito il rilascio su cauzione”.
AsiaNews è stata al villaggio il 10 ottobre, ha parlato con vari islamici e ha visto che ci sono versioni diverse circa l’affermata blasfemia. Ghulam Ghaus dice che tre bambini cristiani di 10-12 anni, tra cui un figlio di Gulsher, hanno rubato un Corano da una moschea del villaggio e strappato le pagine per giocarci, lasciandole poi in terra, dove sono state trovate. Qualcuno ha accusato Sandal e la voce si è sparsa.
Master Kamal, insegnante di una scuola elementare cristiana, dice che Sandal ha trovato le pagine strappate tra i rifiuti in strada, le ha raccolte e date a una donna islamica, che invece l’ha accusata.
Lo stesso 9 ottobre un’accusa analoga di sacrilegio contro il Corano ha colpito l’islamico Rehmat Ali, a Faisalabad. Un passante ha visto Rehmat, che ha problemi mentali, gettarne pagine dentro l’acqua di scolo e ha chiamato i passanti. Lo hanno preso e malmenato, finché è arrivata la polizia che l’ha arrestato. La folla è poi sfilata per le vie, chiedendo la morte, e ha persino assalito la stazione di polizia di Batala Colony chiedendo la consegna del blasfemo per ucciderlo subito. La polizia ha caricato con bastoni e lanciato gas lacrimogeno.
13/10/2008 15:12 – VIETNAM - Discriminazioni e ostilità rendono più uniti i cattolici vietnamiti - di Thanh Thuy - Sorveglianza continua per le attività religiose, culturali e sociali dei fedeli: aderenti alla gioventù comunista che registrano le lezioni per conto della polizia. Il Politburo loda la stampa di regime per la campagna di diffamazione, ma poi l’agenzia nazionale ne loda le attività umanitarie. E intanto aumentano i giovani che vogliono sapere di più della dottrina sociale.
Ho Chi Minh City (AsiaNews) – Al di là della ostilità manifestata dalle autorità nelle vicende riguardanti i beni della Chiesa a Hanoi – e per le quali i media statali che hanno condotto una campagna di diffamazione hanno ricevuto le lodi del Politburo - i sette milioni di cattolici vietnamiti subiscono una discriminazione diffusa, insieme ad una sorveglianza continua.
E’ un controllo che copre tutto ciò che essi fanno in campo educativo, culturale, economico e sociale. “Nella mia classe – racconta John Tran G., un docente di inglese – nell’Istituto di amministrazione economica del distretto 10, ci sono studenti che sono membri dell’Unione della gioventù, che lavorano per la polizia e mi seguono per fare rapporto alle autorità locali. Fanno rapporti sulle mie attività religiose. Raccontano ai responsabili dell’Istituto della mia partecipazione a gruppi di preghiera”. “Ogni volta che faccio lezione – aggiunge una professoressa della Ho Chi Minh City Open University – vedo due o tre studenti che mi registrano. Forse lo fanno per mostrare ciò che dico e ciò che penso alla polizia. Quando entro in classe sono triste e inquieta. Ma non voglio lasciare il mio lavoro, lo amo e serve per mantenere la mia famiglia”. “Quando insegno – conferma un docente dell’Università nazionale – le mie parole sono registrate dai miei studenti che vogliono ‘vendere’ le registrazioni o i resoconti alla polizia, per pochi soldi. Questo mi rattrista, perché sono offeso nel mio rispetto per me stesso. Forse il governo produce menzogna e sospetti reciproci tra gli esseri umani”.
Il fatto è che ormai l’obiettivo dell’educazione è l’arricchimento personale e non il progresso della società, non la formazione di ideali. “Il sistema educativo – spiega un professore di storia – è degradato. Il meccanismo sta distruggendo l’eredità culturale del Paese, concetti come ‘ton su, trong dao’, cioè la venerazione verso i maestri ed il rispetto dei valori tradizionali. Si producono cittadini del ‘chu nghia co hoi’, persone di ‘opportunismo’ nella società, che lavorano per soddisfare bisogni egoistici e non per i valori del Paese. Per denaro sono pronti a tutto e questo è terribile per la nostra nazione”.
Ma questa ostilità sotterranea e quella aperta manifestatasi a Hanoi nella controversia per il complesso della ex delegazione apostolica e il terreno della parrocchia di Thai Ha stanno ottenendo l’effetto, certo non voluto, di accrescere lo spirito di unità tra i cattolici, la speranza e la carità. Con buona pace del Politburo del Partito che ha celebrato le “vittorie” contro la Chiesa.
L’8 ottobre, infatti, il settore per gli Affari media e propaganda ha lodato i media statali per i loro sforzi per la “diffusione rapida, tempestiva e per la propaganda nella giusta direzione a proposito degli incidenti contro la legge da parte di sacerdoti e fedeli e dell’arcivescovo Ngo Quang Kiet alla parrocchia di Thai Ha” ed alla ex delegazione apostolica. I giornali statali non hanno nascosto la loro gioia per la vittoria contro i cattolici, ci sono stati complimenti e congratulazioni per i giornalisti, che aspettano dal Politburo promozioni e medaglie.
Ieri, però, l’agenzia statale VNA ha dedicato un servizio alle attività umanitarie dei credenti, lodando in particolare quanto fanno i cattolici della provincia di Thua Thien-Hue, “compiendo cose buone sia per la religione che per la nazione”. Potrebbe essere un piccolo segnale di un cambiamento di rotta.
Da parte loro, i cattolici di Hanoi si consolano col fatto che la ex delegazione “veniva usata come night club, con una musica assordante che spesso disturbava le celebrazioni nella vicina cattedrale. Ora tutto questo è finito”. E padre Joseph Nguyen racconta di “vedere più gente andare in chiesa, anche nei giorni feriali e molti fanno domande sull’insegnamento sociale cattolico, specie tra i giovani studenti. Penso – commenta – che questo sia più importante di tutto”.
Ha collaborato: J.B. An Dang
SE COFFERATI PREFERISCE IL FIGLIO ALLA POLITICA…. Quando i bambini si “mangiano” i (post) comunisti… Nel “caso Cofferati” c’entra Dio. Dopo spiegherò il perché. Prima la notizia: il sindaco di Bologna non si ricandida perché sceglie di stare col figlio piccolo. In sostanza il bambino si è dolcemente “mangiato” il (post) comunista – Antonio Socci, Libero, 11 ottobre 2008
Il piccolo Edoardo (neanche un anno di età) ha sciolto l’anima dell’antico compagno, del leader della classe operaia, di colui che aveva in mano la sinistra italiana e, una volta sciolto il papà come un gelato al sole, se l’è bevuto dandogli una splendida e convincente lezione: non è vero che tutto è politica (l’antico dogma sessantottino) e non è vero che la politica è tutto (il dogma comunista). Anzi, la vita che sta fuori dalla politica – per esempio un figlio - è molto, molto più grande e importante. E’ più bello veder crescere Edoardo che veder decrescere il Partito democratico. Meglio farsi “mangiare” (il proprio tempo, le proprie giornate) dal proprio bellissimo bimbo, che dal partito.
Solo qualche anno fa sarebbe stata una bestemmia. Il riflusso nel privato era una deriva piccolo borghese che non sarebbe mai stata perdonata. Il problema di Cofferati forse è che ama la musica e tutta la storia comincia da lì. Il vecchio Lenin aveva avvertito. Un giorno disse testualmente: “E’ l’ora in cui non è più possibile sentire la musica, perché la musica fa venire desiderio di accarezzare la testa ai bambini, mentre è venuto il momento di tagliargliela” (se qualcuno dubitasse della citazione fornisco il riferimento bibliografico: M. Gor’kij, “Lenin”, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 67-68).
Cofferati deve aver ascoltato troppa musica. E il bambino ha fatto perdere la testa a lui. A suo modo l’episodio segna un’epoca: la riabilitazione a Sinistra del padre di famiglia. L’ideologia vedeva in questa figura il simbolo del “piccolo borghese”. Péguy proclamò, al contrario, che il padre di famiglia era il vero eroe del nostro tempo. Perché simbolo dell’amore gratuito e della speranza. Ma l’ideologia non sopportava i padri. Doveva imporre un padrone, il Partito. Era una sorta di religione atea, che pretendeva di amministrare e dominare tutta l’esistenza degli individui. Si pretendeva di ficcarci dentro tutta la realtà.
Siccome c’era sempre qualcosa che dentro quella gabbia non ci stava, si provvedeva a cancellarlo dalla storia. Per esempio Dio. Un’altra cosa eccedente era il mondo degli affetti e si censurò sia l’amore che la famiglia come ferrivecchi borghesi che sarebbero stati travolti e superati nella “società” comunista.
Nel periodo staliniano il partito si frappose pure fra marito e moglie e si aveva terrore di essere denunciati addirittura dai familiari. I figli diventarono sostanzialmente proprietà del partito e specialmente in certi momenti o certi paesi, penso alla Cambogia di Pol Pot o alla Cina della “rivoluzione culturale” o alla Corea del Nord, si andò perfino al di là dell’orrenda frase di Lenin.
L’ideologia era disumana. Ma che significasse pure schizofrenia – perché troppe cose importanti restavano fuori - era chiaro fin dai tempi del vecchio Marx. Il quale scriveva il 21 giugno 1856 alla moglie: “Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti. Ma l’amore, non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo”.
Una lettera emblematica. Dove si vede che, a rispondere alla domanda più importante della vita, quella che Leopardi formulava così: “e io che sono?”, non era l’ideologia, ma l’amore, il volto di un “tu”. Nella lettera di Marx emergeva la schizofrenia fra il mondo dell’utopia e la realtà dove si muovono creature desiderose di amare e di essere amate, esseri umani capaci di male, incapaci di essere se stessi, ma sorpresi di trovare il proprio io e la propria felicità negli occhi della donna amata.
Don Giussani commentava le parole di Marx così: “come si può reggere una antropologia, come si può immaginare una concezione della storia che non nasca, investa e spieghi ciò che l’uomo fa ogni giorno?”. Infatti non ha retto. E’ crollata. Anche la nuova stagione dell’ideologia, quella scatenata dal ’68, naufragò proprio nell’oceano che separa l’utopia dalla drammaticità della vita quotidiana concreta dove – in attesa dell’utopico paradiso comunista – si cercavano le scorciatoie dei paradisi artificiali delle droghe o si sprofondava nella disperazione, alla ricerca del senso dell’esistenza. Si corse ai ripari teorizzando che anche il “personale” aveva un valore politico (era l’ideologia radicale). Ma si era incapaci di dare risposta davanti alla scoperta del male e anche al male di vivere.
Resta – come epitaffio di quella generazione – una lettera di un militante, pubblicata sul giornale “Lotta Continua” il 30 settembre 1977, all’indomani dell’ennesimo suicidio di un compagno. Diceva: “nel 1968 si affermava che ‘tutto è politica’. Lo si diceva dando alla frase semplicemente il significato opposto a quello che ha ora l’espressione ‘il personale è politico’. Voleva dire che per fare una rivoluzione si doveva rinunciare ai nostri bisogni personali, voleva dire nascondere i nostri sentimenti”.
Una volta allontanatasi la “rapida vittoria” iniziò il dolore di “riscoprire insieme le nostre individualità represse, ritrovare l’umiltà per parlare dei propri problemi” e diventò “facile rendersi conto di essere soli, a volte disperati”. La lettera continuava così: “Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati ‘disumani’, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo in cui si sono trattati i compagni ‘silenziosi’… disumani sono stati i piccoli e grandi leader depositari del sapere e del potere; disumani sono stati i nostri rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie o lettori dei nostri volantini o persone cui spiegare la rivoluzione… Fra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così; c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra ‘squallida’ pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi”.
Vi è stato un poeta comunista, Louis Aragon, per il quale l’incontro (due mesi dopo aver tentato il suicidio, a Venezia) con la donna della sua vita, Elsa Triolet, ha significato uscire dalla disperazione e trovare la ragione dell’impegno politico. Elsa simbolizzava ogni amore, compreso quello per la patria e per gli sfruttati. Ma la più bella delle poesie a lei dedicata s’intitola “Non esistono amori felici”. E basta la prima strofa per capire: “Nulla appartiene all’uomo. Né la sua forza/ Né la sua debolezza, né il suo cuore. E quando crede/ di aprire le braccia, la sua ombra è quella di una croce/ e quando crede di stringere la felicità la stritola./ La sua vita è uno strano e doloroso divorzio./ Non esistono amori felici”.
E’ come se mancasse sempre il centro di gravità, qualcosa che sia capace di dare senso a tutto (senza censurare niente), all’essere padre e al fare politica, all’innamorarsi e all’impegno sociale, alla bellezza della musica, al vivere e al morire, qualcosa che dia valore pure al soffrire, che vinca il male personale e il male del mondo, senza la violenza dell’utopia e senza il cinismo della legge del più forte. Un “centro” che non sia travolto dal tempo che passa. Devo ancora dirvi che c’entra Dio. Ma di cosa abbiamo parlato finora?
Antonio Socci
Da “Libero”, 11 ottobre 2008
L’ULTIMA CRUDELTÀ DEGLI SCAFISTI - Sacrifici umani consegnati al mare - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 14 ottobre 2008
Buio su buio. Oscurità sulle peggiori oscurità.
Non sapremo forse mai esattamente cosa è successo sulla barca che ha abbandonato in mare tredici dei disperati che stavano tentando l’ennesima traversata. Era settembre, una barca di immigrati clandestini arrivava a Capo Passero.
Ma anche se non esattamente, ecco, nell’oscurità la sagoma dei fatti si intravede, grazie alle indagini, agli arresti degli ' scafisti' e ai racconti dei sopravvissuti. Che prima avevano paura, e non volevano parlare. E poi grazie alla pazienza, al tempo e alla forza dei nostri carabinieri e della Procura di Siracusa, hanno raccontato.
I tredici disgraziati sarebbero stati abbandonati alle onde con la motivazione che il loro delirare era dovuto non già al sole e alle prove della traversata ma perché erano ' posseduti' da spiriti maligni. E dunque era meglio scaricarli. Facendo leva sulla superstizione, su retrive convinzioni pseudoreligiose, e sulla impressionabilità dei disperati, gli scafisti – questi scarafaggi del mare, questi angeli del niente – hanno convinto o forse obbligato gli altri a disfarsi dei tredici. E, come per un sacrificio umano collettivo, vivi li hanno lasciati alle onde e alla morte sicura. O forse hanno potuto contare sulla connivenza degli altri, di coloro che sono arrivati e ora raccontano.
Buio su buio. Ma quel che si perde in questi fatti non è solo la successione precisa dei fatti e delle circostanze di una così disumana strage.
Si perde, di più, la misura possibile del male. Si perde la misura della vigliacca disumanità degli scarafaggi del mare, degli scafisti che sono abilissimi e modernissimi nel contare i denari che intascano per ogni vita portata come bestia da costa a costa. E poi furbescamente tornano antichi, nutriti di superstizione , se serve anche questo per fare i loro disumani affari. E non avere intralci. Nero su nero. Violenza dentro violenza. Come a ferire, se ancor più è possibile, il cielo e il mare su cui avviene l’orrendo commercio.
Perché, se così si potesse dire, è quasi umano morire tentando la traversata. Insomma, è quasi umano trovare la morte tentando la maledetta fortuna di approdare all’ex- eldorado chiamato Italia. È insomma una cosa che sta nel conto, anche se i più che si imbarcano forse non sanno neppure che viaggio sarà, raggirati fin dall’inizio. Ma morire così, abbandonati al mare poiché posseduti dagli spiriti maligni, è un oltraggio nell’oltraggio, è violenza nella violenza. È buio nel buio. Non hanno scusanti, coloro che sono ricorsi a questo mezzo orrendo per compiere un sacrificio umano.
Vanno inseguiti, come in questo caso, stanati, puniti in modo esemplare. E colpita la rete che copre e addirittura favorisce in modo mafioso – sì, chiamiamolo con il nome che fa indignare– il commercio di uomini che li vede al centro.
Cosa dobbiamo ancora sapere per comprendere che questa nuova tremenda mafia è spietata come e quanto quella che si cerca di contrastare con ingente dispiego di procure e di forze, di campagne di stampa e di sensibilizzazione, e con uomini e con armi? Gli scarafaggi del mare vanno inseguiti e avvelenate le loro risorse, le loro tane, le protezioni. O sopporteremo che alle nostre coste si affaccino e si arricchiscano uomini che non esitano a compiere sacrifici umani per il loro dio denaro ? Ci dobbiamo un sussulto di indignazione e una conseguente azione. Lo dobbiamo a noi stessi, e specialmente a quei tredici poveri cristi, che cercavano la vita futura e sono stati consegnati alla più remota delle morti
Scola: «In ascolto dei testimoni autentici, così la lettura nasce dalla comunione» -Interventi al Sinodo del 13 ottobre
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 13 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo i riassunti degli interventi pronunciati al Sinodo sulla Parola di Dio nella mattina del 13 ottobre, quando è iniziata la dodicesima Congregazione generale.
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Dei Verbum 25 esorta tutti i fedeli perché "si accostino volentieri al sacro testo mediante la pia
lettura ‘per piam lectionem'", connessa alla preghiera: "affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo". La pia lettura delle Scritture non può ridursi né a puro studio, né a semplice, immediata reazione. È relazione personale col Signore, perché "si può leggere la Bibbia senza fede, ma senza fede non si può scrutare la Parola di Dio" (IL 26a). La pia lettura riconosce che la Sacra Scrittura è testimonianza ispirata e normativa della Rivelazione. La radice della testimonianza della Scrittura è Gesù Cristo stesso, il testimone fedele dell'alleanza di Dio con gli uomini. Così la Scrittura può essere adeguatamente compresa solo dal testimone. Quindi, per essere pia la lettura della Scrittura deve passare da Testimone a testimone. La categoria di testimonianza mette in primo piano il soggetto ecclesiale (personale e comunitario) della pia lettura. Questa è la strada del realismo che evita ogni deriva fondamentalista e intellettualistica, rischi di letture che prescindono dalla testimonianza della Chiesa, luogo dell'ascolto credente della Parola. Questa comprensione della Scrittura garantisce l'autenticità della esperienza cristiana, ma richiede una comunione ecclesiale vissuta quotidianamente.