mercoledì 22 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) "Arriverà il giorno in cui le nostre due Chiese convergeranno pienamente" - Il testo integrale del discorso del patriarca ecumenico di Costantinopoli al sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica, pronunciato nella Cappella Sistina sabato 18 ottobre 2008 di Bartolomeo I
2) Il Sinodo presenta 53 proposizioni - Votate ed emendate, verranno presentate come conclusione al Papa - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nella XX congregazione generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, celebrata questo martedì mattina, sono state presentate 53 proposizioni perché siano analizzate dall'assemblea.
3) Un avvocato denuncia la fabbrica dei divorzi - Intervista a Massimiliano Fiorin, Presidente della Camera Civile di Bologna - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- In quasi quarant'anni dall'approvazione della legge Fortuna-Baslini, fino a che punto il divorzio ha trasformato la società italiana? Che cosa è rimasto del matrimonio e della famiglia naturale? Duecento separazioni e cento divorzi al giorno in Italia sono veramente un progresso? Quali sono i danni che i divorzi generano nella prole e nel tessuto sociale? Quali sono le proposte per cambiare la legge sul divorzio?
4) 21/10/2008 16:32 AFGHANISTAN - Cristiani afghani preoccupati e commossi per la morte della cooperante
Non è la prima volta che nel Paese avvengono assassini di tipo confessionale. La donna uccisa lavorava da anni per i disabili e i profughi. Le suore di Madre Teresa e quelle dell’Associazione Pro bambini di Kabul, amate perché si prendono cura “dei nostri poveri”.
5) Quasi la metà della popolazione costretta alla fuga - Solo morti e profughi - nel bilancio della Somalia, L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
6) Intervento della Santa Sede al Consiglio dei diritti dell'uomo - Il dovere di promuovere - la tolleranza religiosa - Pubblichiamo la traduzione dell'intervento pronunciato il 19 settembre, in occasione della nona sessione del Consiglio dei diritti dell'uomo (Hrc), dall'arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, sul "razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e le forme correlate di intolleranza" - L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2008.
7) Le Sacre Scritture come pre-testo della canzone americana popolare e d'autore - La risposta soffia nella Bibbia - di Luca Miele – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
8) Storie di conversione: Marguerite Aron - I due volti di Madame le professeur - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
9) Idee pesanti contro la leggerezza laicista - L'arduo confronto con l'indifferenza - di Gianfranco Ravasi – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
10) MERCATI/ Giannino: lasciar troppo spazio all’intervento dello Stato vuol dire diminuire la libertà degli uomini - Oscar Giannino - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) Come sarebbero gli Usa se Obama dovesse battere McCain? - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
12) SCUOLA/ I danni di una demagogia di piazza che trascura le vere riforme e dimentica i tagli intelligenti - Giovanni Cominelli - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
13) LETTERATURA/ Milan Kundera e Vaclav Havel, tra la Primavera di Praga e la Rivoluzione di velluto - Sante Maletta - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
14) Lo sciopero è una "bigiata" legalizzata? I vostri commenti si scatenano - Redazione - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
15) LA MANO ADUNCA DEI PEDOFILI - SIAMO IN UN PAESE DOVE GLI ORCHI SI MUOVONO AGILMENTE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 22 ottobre 2008
16) STRANIERI A SCUOLA/1 Integrazione: la lunga marcia dei 600mila - «Le concentrazioni elevate non agevolano il lavoro in classe E finiscono per danneggiare sia gli italiani sia gli stranieri» Le proteste dei genitori «Non dobbiamo avere timore di fare una proposta educativa forte». «Rinunciare al presepio a Natale? Una sconfitta nei confronti del relativismo» - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 22 ottobre 2008
17) la critica «Il governo non rottami le coppie con figli» - - MILANO ANTONELLA MARIANI – Avvenire, 22 ottobre 2008
18) STORIA. L’austriaco Franz Jägerstätter rifiutò di arruolarsi nell’esercito nazista. Giustiziato nel 1943, ora è beato. Esce una biografia - cattolico contro Hitler - DI ANDREA RICCARDI – Avvenire, 22 ottobre 2008


"Arriverà il giorno in cui le nostre due Chiese convergeranno pienamente" - Il testo integrale del discorso del patriarca ecumenico di Costantinopoli al sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica, pronunciato nella Cappella Sistina sabato 18 ottobre 2008
di Bartolomeo I
Santità, Padri Sinodali, è al contempo motivo di disagio e di ispirazione essere cortesemente invitato da Vostra Santità a rivolgermi alla XII Assemblea Generale Ordinaria di questo ben augurante Sinodo dei Vescovi, storico incontro dei Vescovi della Chiesa Cattolica da ogni parte del mondo, riuniti in un unico luogo per meditare su "la Parola di Dio" e deliberare sull'esperienza e sull'espressione di tale Parola "nella vita e nella missione della Chiesa".

Il gentile invito di Vostra Santità alla nostra modesta persona è un gesto colmo di contenuto e di significato – abbiamo l'ardire di considerarlo come evento storico in se stesso. Si tratta della prima volta nella storia che ad un Patriarca Ecumenico è offerta l'opportunità di rivolgersi ad un Sinodo dei Vescovi della Chiesa Cattolica, e così esser parte a così alto livello della vita di questa Chiesa sorella. Consideriamo questo come una manifestazione dello Spirito Santo che guida le nostre Chiese ad una relazione sempre più stretta e profonda fra noi, un passo importante per la restaurazione della nostra piena comunione.

È ben noto come la Chiesa Ortodossa attribuisca al sistema sinodale un'importanza ecclesiologica fondamentale. Insieme con il primato, la sinodalità costituisce la spina dorsale del governo e dell'organizzazione della Chiesa. Come la nostra Commissione Internazionale Congiunta sul Dialogo Teologico fra le nostre Chiese lo ha espresso nel documento di Ravenna, tale interdipendenza fra sinodalità e primato percorre tutti i livelli della vita della Chiesa: locale, regionale ed universale. Avendo, pertanto, oggi il privilegio di rivolgerci al Vostro Sinodo, aumentano le nostre speranze che arriverà il giorno in cui le nostre due Chiese convergeranno pienamente sul ruolo del primato e della sinodalità nella vita della Chiesa, argomento al quale la nostra comune Commissione Teologica attualmente dedica il proprio studio.

Il tema che affronta questo Sinodo episcopale è di significato cruciale non soltanto per la Chiesa Cattolica, ma anche per tutti quelli che sono chiamati a dar testimonianza di Cristo nel nostro tempo. La missione e l'evangelizzazione restano un obbligo permanente della Chiesa in tutti i tempi ed in ogni luogo. Di più: esse sono parte della natura stessa della Chiesa, dato che essa è chiamata "Apostolica" sia nel senso della sua fedeltà all'insegnamento originale degli Apostoli, sia in quello di proclamare la Parola di Dio in ogni contesto culturale e in ogni tempo. La Chiesa ha bisogno, pertanto, di riscoprire la Parola di Dio in ogni generazione e porla a guida con rinnovato vigore e capacità persuasiva anche nel nostro mondo contemporaneo, il quale, nelle sue più intime profondità, ha sete del messaggio di Dio, messaggio di pace, speranza e carità.

Questo compito di evangelizzare avrebbe potuto essere grandemente favorito e rafforzato, è ovvio, se tutti i cristiani fossero stati in grado di realizzarlo ad una sola voce e come Chiesa pienamente unita. Nella sua preghiera al Padre, poco prima della propria Passione, nostro Signore ha messo in chiaro che l'unità della Chiesa è inscindibilmente correlata con la sua missione "affinché il mondo creda" (Giovanni 17, 21). È pertanto quanto mai appropriato che questo Sinodo abbia aperto le proprie porte ai delegati ecumenici fraterni, così che tutti diventiamo coscienti del nostro comune dovere dell'evangelizzazione, come pure delle difficoltà e dei problemi della sua realizzazione nel mondo odierno.

Questo Sinodo, indubbiamente, si è dedicato a studiate il soggetto "Parola di Dio" in profondità ed in tutti i suoi aspetti, sia teologici che pratici e pastorali. Nel nostro umile intervento di fronte a voi ci limiteremo a condividere con voi alcuni pensieri sul tema della vostra assemblea, deducendoli dal modo in cui la tradizione ortodossa lo ha affrontato attraverso i secoli e, in particolare, nell'insegnamento patristico greco.

Più concretamente, vorremmo concentrarci su tre aspetti dell'argomento, e precisamente: sull'ascoltare e proclamare la Parola di Dio attraverso le Sacre Scritture; sul vedere la Parola di Dio nella natura e, soprattutto, nella bellezza delle icone; e, da ultimo, sul toccare e condividere la Parola di Dio nella comunione dei Santi e nella vita sacramentale della Chiesa. Infatti, noi riteniamo che questi aspetti siano cruciali nella vita e nella missione della Chiesa.

Nel far questo, cercheremo di attingere alla ricca tradizione patristica, che risale all'inizio del terzo secolo ed espone una dottrina dei cinque sensi spirituali, dato che ascoltare la Parola di Dio, scrutarla e toccarla sono tutte vie spirituali per percepire l'unico mistero divino. Basandosi su Proverbi 2, 5 circa "la facoltà divina di percezione (áisthesis)", Origene di Alessandria afferma: "Tale senso si snoda come vista per contemplare le forme immateriali, ascolto per discernere le voci, gusto per assaporare il pane vivo, profumo per la dolce fragranza spirituale, e tatto per maneggiare la Parola di Dio, che è afferrata mediante ogni facoltà dell'anima".

Questi sensi spirituali vengono in vario modo descritti come "i cinque sensi dell'anima", come "divine" o "intime facoltà", e addirittura come "facoltà del cuore" o della "mente". Questa dottrina ha ispirato la teologia dei Cappadoci (specialmente di Basilio Magno e Gregorio di Nissa), come quella dei Padri del Deserto (in modo speciale di Evagrio Pontico e Macario il Grande).


1. Udire e proclamare la Parola attraverso le Scritture
In ogni celebrazione della Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo, il celebrante che presiede l'Eucaristia implora affinché "siamo resi degni di ascoltare il Santo Vangelo", poiché "ascoltare, vedere, toccare con le nostre mani il Verbo della vita" (cfr. 1 Giovanni 1, 1) non è prima e anzitutto nostro diritto nativo e fontale come esseri umani; è piuttosto nostro privilegio e dono come figli del Dio vivente. La Chiesa cristiana è, al di sopra di tutto, una Chiesa scritturistica. Anche se i metodi interpretativi possono aver variato da Padre della Chiesa a Padre della Chiesa, da "scuola" a "scuola", e dall'est all'ovest, tuttavia la Scrittura è sempre stata recepita come una realtà viva e non come un libro morto.

Nel contesto di una fede viva, pertanto, la Scrittura è la testimonianza vivente di una storia vissuta circa il rapporto di un Dio vivo con un popolo vivo. La Parola "che ha parlato mediante i Profeti" (Credo Niceno-Costantinopolitano), ha parlato per essere udita e produrre effetto, è primariamente una comunicazione orale e diretta rivolta a destinatari umani. Il testo scritturistico è perciò derivato e secondario, poiché il testo scritturistico serve sempre la parola parlata; non viene trasmesso meccanicamente, ma comunicato di generazione in generazione come una parola vivente. Mediante il Profeta Isaia, il Signore promette: "Come la pioggia e la neve scendono dal cielo per irrigare la terra... così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata" (cfr. 55, 10-11).

Di più: come spiega san Giovanni Crisostomo, la Parola divina manifesta profonda condiscendenza (sunkatábasis) per la diversità personale e per i contesti culturali di quanti l'odono e la ricevono. L'adattamento della Parola divina alla specifica disponibilità personale ed al contesto culturale particolare definisce la dimensione missionaria della Chiesa, chiamata a trasformare il mondo attraverso la Parola. Nel silenzio o nella proclamazione, nella preghiera o nell'azione, la Parola divina si rivolge al mondo intero, "ammaestrando tutte le nazioni" (Matteo 28, 19) senza alcun privilegio o pregiudizio nei confronti della razza, della cultura, del sesso o della classe. Quando obbediamo a questo divino comando, siamo rassicurati: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni" (Matteo 28, 20). Siamo chiamati ad annunciare la Parola divina in tutte le lingue "facendoci tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (cfr. 1 Corinzi 9, 22).

Quali discepoli della Parola di Dio, dunque è oggi più doveroso che mai che noi offriamo una prospettiva unica – al di là del sociale, del politico o dell'economico – circa la necessità di sradicare la povertà, di offrire equilibrio in un mondo globalizzato, di combattere il fondamentalismo o il razzismo, di sviluppare la tolleranza religiosa in un mondo di conflitti. Nel dar risposta alle necessità dei poveri del mondo, a quanti sono vulnerabili ed emarginati, la Chiesa può dimostrarsi un baluardo che definisce lo spazio e il carattere della comunità globale. Se da un lato il linguaggio teologico della religione e della spiritualità differisce dal vocabolario tecnico dell'economia e della politica, dall'altro le barriere che di primo acchito sembrano separare le preoccupazioni religiose (come, ad esempio, il peccato, la salvezza e la spiritualità) dagli interessi pratici (quali la contrattazione, lo scambio di merci e la politica) non sono impenetrabili, e crollano di fronte alle molteplici sfide della giustizia sociale e della globalizzazione.

Sia che si tratti di ambiente o di pace, di povertà o di fame, di educazione o di sanità, vi è oggi un accresciuto senso del comune coinvolgimento e della comune responsabilità, che viene percepita in maniera particolarmente acuta dalle persone di fede, ma anche da quanti hanno una prospettiva manifestamente secolare. Il nostro impegno in simili ambiti ovviamente non minaccia in alcuna maniera né abolisce le differenze fra le diverse discipline né le discordanze nei confronti di quanti guardano al mondo in modi differenti. E tuttavia i segni crescenti di un comune impegno per il benessere dell'umanità e della vita del mondo sono incoraggianti. è un incontro tra singoli ed istituzioni che promette bene per il mondo. Ed è un impegno che pone in risalto la suprema vocazione e missione dei discepoli e di quanti aderiscono alla Parola di Dio per trascendere le differenze politiche o religiose, al fine di trasformare l'intero mondo visibile a gloria dell'invisibile Dio.


2. Vedere la Parola di Dio. La bellezza delle icone e della natura
In nessun altro luogo l'invisibile viene reso piu visibile che nella bellezza dell'iconografia e nella meraviglia del creato. Nelle parole di quel campione delle sacre immagini che fu san Giovanni Damasceno: "Quale creatore del cielo e della terra, Dio Verbo fu Lui stesso a dipingere e a raffigurare icone". Ogni tratto del pennello dell'iconografo – al pari di ogni parola di una definizione teologica, di ogni nota musicale cantata nella salmodia e di ogni pietra scolpita in una piccola cappella o in una magnifica cattedrale – articola il Verbo divino nella creazione, la quale rende lode a Dio in ogni essere vivente ed in ogni vivente realtà (cfr. Salmi 150, 6).

Nell'affermare la liceità delle sacre immagini, il settimo Concilio Ecumenico di Nicea non si preoccupò dell'arte religiosa; era la continuazione e la conferma di definizioni precedenti riguardanti la pienezza dell'umanità del Verbo di Dio. Le icone sono un ricordo visibile della nostra vocazione celeste; sono un invito ad innalzarci al di sopra delle nostre preoccupazioni meschine e dei servili modi riduttivi del mondo. Ci incoraggiano a ricercare lo straordinario proprio nell'ordinario, ad essere ripieni della medesima meraviglia che caratterizzò il divino stupore nella Genesi: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Genesi 1, 30-31). La parola greca (dei LXX) per "bontà", è "kállos", che implica – etimologicamente e simbolicamente – un senso di "chiamare". Le icone sottolineano che la missione fondamentale della Chiesa è di riconoscere che ogni persona ed ogni cosa sono create e chiamate ad essere "buone" e "belle".

Certamente le icone ci ricordano un altro modo di vedere le cose, un'altra maniera di far esperienza della realtà, un altro modo di risolvere i conflitti. Siamo chiamati ad assumere ciò che l'innologia della domenica di Pasqua chiama "un altro modo di vivere". Ci siamo infatti comportati in maniera arrogante e sconsiderata verso la creazione naturale. Ci siamo rifiutati di obbedire alla Parola di Dio negli oceani del pianeta, negli alberi dei continenti, e negli animali della terra. Abbiamo rinnegato la nostra stessa natura, che ci invita a chinarci sufficientemente in basso per udire la Parola di Dio nella creazione, se vogliamo "divenire partecipi della natura divina" (2 Pietro 1, 4). Come possiamo ignorare le piu vaste implicazioni del Verbo divino che ha assunto la carne? Perché non siamo in grado di percepire la natura creata quale estensione del corpo di Cristo?

I teologi dell'Oriente cristiano hanno sempre sottolineato le proporzioni cosmiche dell'incarnazione divina. Il Verbo incarnato è intrinseco alla creazione, che è venuta all'esistenza attraverso un divino pronunciamento. San Massimo il Confessore insiste sulla presenza della Parola divina in ogni cosa (cfr. Colossesi 3, 11); il Logos divino è al centro del mondo, rivelando in modo misterioso il suo originale principio e ultimo scopo (cfr. 1 Pietro 1, 20). Tale mistero viene descritto da sant'Atanasio di Alessandria: "Come Verbo – scrive – Egli non è contenuto da nulla e, tuttavia, contiene tutto. È in tutto e, tuttavia, al di fuori di tutto... il Primogenito del mondo intero in ogni suo aspetto".

L'intero mondo è un prologo al Vangelo di Giovanni e quando la Chiesa è incapace di riconoscere le dimensioni piu ampie, cosmiche della Parola di Dio, restringendo le proprie preoccupazioni ad argomenti puramente spirituali, trascura la propria missione di implorare Dio per la trasformazione – sempre e dovunque, "in ogni luogo del dominio del Signore – dell'intero cosmo inquinato. Non è da meravigliarsi, quindi, che nella domenica di Pasqua, quando la celebrazione pasquale raggiunge il suo culmine, i cristiani ortodossi cantino: "Ora tutto è riempito di luce divina: cielo e terra, ed ogni cosa sotto terra. Si rallegri, pertanto, l'intera creazione".

Ogni genuina "ecologia profonda" è pertanto collegata intrinsecamente con la teologia profonda: "Anche una pietra – scrive Basilio Magno – reca in sé il marchio della Parola di Dio. Ciò vale per una formica, un'ape ed una mosca, le più piccole fra le creature. Perché Egli apre gli ampi cieli e stese l'immenso mare, ed Egli creò la piccola custodia del pungiglione dell'ape". Ricordare la nostra piccolezza nell'ampia e splendida creazione di Dio sottolinea semplicemente il nostro ruolo centrale nel piano di Dio per la salvezza del mondo intero.


3. Toccare e condividere la Parola di Dio. La comunione dei Santi e i Sacramenti della vita.
La Parola di Dio costantemente "esce fuori di Se stessa in estasi" (Dionigi Aeropagita), cercando in maniera appassionata di "dimorare in noi" (Giovanni 1, 14), perché il mondo abbia la vita in abbondanza (Giovanni 10, 10). La compassionevole misericordia di Dio viene riversata e condivisa "affinché vengano moltiplicati gli oggetti della Sua beneficenza" (Gregorio il Teologo). Dio assume tutto ciò che è nostro "essendo provato in ogni cosa, come noi, eccetto il peccato" (Ebrei 4, 15), al fine di offrirci ogni cosa che è di Dio e renderci dei per grazia. "Da ricco che era, si è fatto povero, perché noi diventassimo ricchi" (2 Corinzi 8, 9), scrive l'apostolo Paolo, al quale questo anno è giustamente dedicato. Questo è il Verbo di Dio: a Lui siano rese grazie e gloria.

La parola di Dio riceve la sua piena incorporazione nella creazione e, soprattutto, nel sacramento della Santissima Eucaristia. è qui che il Verbo diviene carne e ci permette non soltanto di udirlo o vederlo, ma di toccarlo con le nostre stesse mani, come dichiara san Giovanni (1 Giovanni 1, 1) e di farlo parte del nostro stesso corpo e sangue (sússomoi kai súnaimoi), secondo le parole di san Giovanni Crisostomo.

Nella Santa Eucaristia la Parola ascoltata è al tempo stesso veduta e condivisa (koinonía). Non è un caso accidentale che nei primi documenti eucaristici, come ad esempio l'Apocalisse e la Didaché, l'Eucaristia fosse associata con la profezia, e i Vescovi che la presiedevano fossero visti come successori dei profeti (ad esempio, nel Martirio di Policarpo). Già da san Paolo l'Eucaristia (1 Corinzi 11) veniva descritta come "proclamazione" della morte di Cristo e della sua Seconda Venuta. E poiché lo scopo della Scrittura è essenzialmente la proclamazione del Regno e l'annuncio delle realtà escatologiche, l'Eucaristia è un pregustamento del Regno, e in questo senso è la proclamazione del Verbo per eccellenza. Nell'Eucaristia, Parola e Sacramento divengono un'unica realtà. La parola cessa di essere "parole" e diviene una Persona, che incarna in se stessa tutti gli esseri umani e l'intera creazione.

Dentro la vita della Chiesa, l'indicibile svuotamento di sé (kénosis) e la generosa condivisione (koinonía) del Logos divino sono riflessi nelle vite dei Santi quale esperienza tangibile ed espressione umana della Parola di Dio nella nostra comunitr. Cose, la Parola di Dio diviene Corpo di Cristo, crocifisso e glorificato allo stesso tempo. Ne risulta che i Santi hanno una relazione organica con il cielo e la terra, con Dio e l'intera creazione. Nel combattimento ascetico, il Santo riconcilia la Parola con il mondo. Attraverso il pentimento e la purificazione, il Santo viene riempito – come insiste Abba Isacco il Siro – di compassione per tutte le creature, cosa che è la suprema umiltà e perfezione.

Questa è la ragione per cui il Santo ama con ardore e ampiezza non condizionati ed irresistibili. Nei Santi conosciamo la Parola stessa di Dio, dato che – come afferma san Gregorio Palamas – "Dio e i suoi Santi condividono la medesima gloria e splendore". Nella presenza gentile di un Santo apprendiamo come teologia e azione coincidano; nell'amore compassionevole del Santo, sperimentiamo Dio come "Padre nostro" e la sua misericordia è "ferma ed eterna" (cfr. Salmi 135, LXX). Il Santo è consumato dal fuoco dell'amore di Dio: questa è la ragione per cui egli distribuisce grazia e non può tollerare la minima manipolazione o sfruttamento sia nella società che nella natura. Il Santo fa semplicemente ciò che è "appropriato e giusto" (Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo), sempre dignificando l'umanità e onorando la creazione. "Le sue parole hanno la forza delle azioni ed il suo silenzio la potenza di un discorso" (sant'Ignazio di Antiochia).

Entro la comunione dei Santi, ciascuno di noi è chiamato a "diventare come fuoco" (Detti dei Padri del Deserto), a toccare il mondo con la mistica forza della Parola di Dio, cose che – quale esteso corpo di Cristo – anche il mondo possa dire: "Qualcuno mi ha toccato" (cfr. Matteo 9, 20). Il male viene sradicato soltanto dalla santitò, non dalla durezza; la santità introduce nella società un seme che guarisce e trasforma. Arricchiti della vita sacramentale e della preghiera pura, siamo in grado di entrare nel mistero piu recondito della Parola di Dio. Avviene come per le placche tettoniche della crosta terrestre: gli strati piu profondi devono spostarsi solo di pochi millimetri per scuotere la superficie del mondo. E tuttavia, perché tale rivoluzione spirituale avvenga, dobbiamo fare esperienza della metánoia radicale – una conversione dei comportamenti, delle abitudini e della prassi – nei confronti dei modi con i quali abbiamo travisato o mal usato la Parola di Dio, i doni di Dio e la creazione di Dio.

Una simile conversione è, ovviamente, impossibile senza la grazia divina; non la si può raggiungere semplicemente attraverso sforzi piu grandi o forza di volontà umana. "Per i mortali è impossibile, ma per Dio ogni cosa è possibile" (Matteo 19, 26). Il mutamento spirituale avviene quando i nostri corpi ed anime sono innestati sulla vivente Parola di Dio, quando le nostre cellule contengono lo scorrere del sangue vivificante che proviene dai Sacramenti; quando siamo aperti a condividere ogni cosa con ogni persona. Come ci ricorda san Giovanni Crisostomo, il sacramento del "nostro prossimo" non può essere isolato dal sacramento "dell'altare". Purtroppo, abbiamo ignorato la vocazione a condividere e il dovere che ne consegue. L'ingiustizia sociale e l'ineguaglianza, la povertà globale e la guerra, l'inquinamento e il degrado ecologico derivano dalla nostra incapacità o non volontà di condividere. Se affermiamo di possedere il Sacramento dell'altare, non possiamo soprassedere o dimenticare il sacramento del prossimo, condizione fondamentale per realizzare la Parola di Dio nel mondo, entro la vita e la missione della Chiesa.


Carissimi Fratelli in Cristo,

abbiamo esplorato l'insegnamento patristico dei sensi spirituali, percependo la potenza dell'ascoltare e del pronunciare la Parola di Dio nella Scrittura, del vedere la Parola di Dio nelle icone e nella natura, come pure del toccare e condividere la Parola di Dio nei Santi e nei Sacramenti. Orbene, per rimanere fedeli alla vita e alla missione della Chiesa, dobbiamo essere personalmente cambiati da questa Parola. La Chiesa deve apparire quale madre, sostenuta e nutrita attraverso il cibo che essa mangia. Tutto ciò che non è cibo e non nutre chiunque altro, non può sostenere neppure noi. Quando il mondo non condivide la gioia della Risurrezione di Cristo, ciò diventa un atto d'accusa nei confronti della nostra stessa integrità e del nostro impegno verso la vivente Parola di Dio. Prima della celebrazione di ogni Divina Liturgia, i cristiani ortodossi pregano che tale Parola sia "spezzata e consumata, distribuita e condivisa" in comunione. E noi "sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli" e sorelle (1 Giovanni, 3, 14).

La sfida che sta di fronte a noi è il discernimento della Parola di Dio nei confronti del male, la trasfigurazione di ogni più piccolo dettaglio e frammento di questo mondo alla luce della Risurrezione. La vittoria è già presente nelle profondità della Chiesa, ogni volta che sperimentiamo la grazia della riconciliazione e della comunione. Mentre combattiamo la nostra battaglia – in noi stessi e nel mondo – per riconoscere la potenza della Croce, cominciamo ad apprezzare come ogni atto di giustizia, ogni sprazzo di bellezza, ogni parola di verità possano gradualmente raschiar via la crosta del male. Tuttavia, al di là dei nostri fragili sforzi, abbiamo la rassicurazione dello Spirito, che "ci sostiene nelle nostre debolezze" (Romani 8, 26) ed è al nostro fianco come avvocato e "consolatore" (Giovanni 14, 6), penetrando tutte le cose e "trasformandoci – come dice san Simeone il Nuovo Teologo – in ogni cosa che la Parola di Dio afferma circa il Regno di Dio: perla, chicco di senape, lievito, acqua, fuoco, pane, vita e mistica camera delle nozze". Tale è la potenza e la grazia dello Spirito Santo che noi invochiamo, mentre concludiamo il nostro intervento, estendendo a Vostra Santità la nostra gratitudine e a ciascuno di voi qui presenti la nostra benedizione:

Re del cielo, Consolatore, Spirito di verità,
Presente ovunque per riempire ogni cosa;
Tesoro di bontà e datore di vita:
Vieni e dimora in noi.

Purificaci da ogni impurità;
Salva le nostre anime.

Poiché tu sei buono ed ami l'umanità.

Amen.

__________


Il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I ha rivolto questo suo discorso ai padri sinodali nel pomeriggio di sabato 18 ottobre 2008, nella Cappella Sistina, al termine dei primi vespri della XXIX domenica del tempo ordinario presieduti congiuntamente da Benedetto XVI e da lui, e dopo che entrambi avevano impartito la benedizione, l'uno in latino e l'altro in greco.

Nel dare la parola al patriarca il papa si è così espresso:

"Signori cardinali, venerati fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle, con la celebrazione dei vespri ci siamo rivolti a Dio usando le sue stesse parole: i salmi. La meditazione della Parola di Dio è luce che guida i nostri passi. Abbiamo avuto la gioia di avere con noi in questa circostanza di intenso raccoglimento il patriarca ecumenico, Sua Santità Bartolomeo I, che saluto cordialmente anche a nome vostro. Vi invito ora ad ascoltare le riflessioni che egli ci presenterà sul tema della Parola di Dio, argomento del sinodo dei vescovi che si sta celebrando in questi giorni in Vaticano.

Bartolomeo I ha tenuto il suo discorso in lingua inglese. Al termine, Benedetto XVI lo ha così ringraziato:

"Santità, con tutto il cuore vorrei dire 'grazie' a Lei per queste sue parole. L'applauso dei Padri era molto più che espressione di cortesia, era veramente espressione di una profonda gioia spirituale e di una esperienza viva della nostra comunione. In questo momento abbiamo realmente vissuto il 'sinodo': siamo stati 'insieme in cammino' nella terra della Parola divina sotto la guida di Vostra Santità e ne abbiamo gustato la bellezza, con la grande gioia di essere ascoltatori della Parola di Dio, di essere posti a confronto con questo dono della sua Parola.

"Quanto Lei ha detto era profondamente nutrito dello spirito dei Padri, della Sacra Liturgia e proprio per questo anche fortemente contestualizzato nel nostro tempo, con un grande realismo cristiano che ce ne fa vedere le sfide. Abbiamo visto che andare al cuore della Sacra Scrittura, incontrare realmente la Parola nelle parole, penetrare nella Parola di Dio apre anche gli occhi per il nostro mondo, per la realtà di oggi.

"E questa era anche un'esperienza gioiosa, un'esperienza di unità forse non perfetta, ma vera e profonda. Ho pensato: i vostri Padri, che Ella ha citato ampiamente, sono anche i nostri Padri, e i nostri sono anche i vostri: se abbiamo Padri comuni, come potremmo non essere fratelli tra noi? Grazie, Santità. Le sue parole ci accompagneranno nel lavoro della prossima settimana, ci illumineranno e saremo anche nella prossima settimana – e oltre – in cammino comune con Lei.
Grazie, Santità".


Il Sinodo presenta 53 proposizioni - Votate ed emendate, verranno presentate come conclusione al Papa - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nella XX congregazione generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, celebrata questo martedì mattina, sono state presentate 53 proposizioni perché siano analizzate dall'assemblea.
Secondo quanto ha spiegato il Cardinale Marc Ouellet, P.S.S., Arcivescovo di Québec (Canada) e Relatore Generale del Sinodo, in un primo momento sono state consegnate alla segretaria generale del Sinodo 254 proposizioni.
Le proposizioni sono state preparate dai singoli Circoli minori (i gruppi di lavoro per lingua), svolti sabato pomeriggio, domenica e lunedì 18, 19 e 20 ottobre 2008, dal Relatore Generale insieme al Segretario Speciale, monsignor Laurent Monsengwo Pasinya, Arcivescovo di Kinshasa, e dai Relatori dei Circoli minori.
L'Elenco Unico, opera di tutta l'assemblea, è distribuito ai Padri sinodali per lo studio privato e la preparazione dei Modi individuali, che ciascun Padre sinodale potrà presentare in seno al proprio Circolo minore per la discussione e l'esame comune.
Le proposizioni sono ora all'analisi dei gruppi di lavoro per lingua, che sono tornati a riunirsi questo martedì pomeriggio e continueranno le loro deliberazioni mercoledì.
Bisogna presentare suggerimenti di variazioni del testo, approvato nella sostanza, che lo ampliano, lo riducono o lo integrano perché possa esprimere meglio il senso voluto dall'assemblea.
Con questi suggerimenti, verrà redatta la lista definitiva delle proposizioni che verranno votate il 25 ottobre, ultimo giorno delle sessioni di lavoro. I Padri sinodali potranno pronunciarsi su ogni proposizione con un “placet”, se il voto è affermativo, o un “non placet”, se è negativo.
Perché una proposizione sia accettata deve avere il sostegno dei due terzi dei voti del Sinodo.
Le proposizioni verranno presentate al Papa, che può decidere se renderle pubbliche o mantenerle riservate. Il Pontefice si baserà su queste per redigere l'esortazione apostolica post-sinodale, il frutto più importante dell'assemblea sinodale.
Le 53 proposizioni presentate questo martedì, informa “L'Osservatore Romano”, mettono in rilievo alcuni elementi significativi di ordine generale.
“Innanzitutto i destinatari: sono tutti i singoli fedeli. Ognuno è invitato ad avere una copia della Bibbia”, spiega il quotidiano vaticano nell'edizione italiana del 22 ottobre.
“Quindi gli interpreti della Bibbia, in particolare gli esegeti. L'esegeta, si afferma, deve tener conto, come teologo, che la Parola ha una dimensione ulteriore che non può essere esaurita con la mera ricerca filologica, storico-critica, ma esige un altro itinerario, un altro metodo, un altro approccio che è nello spirito di Dio, cioè l'approccio teologico in senso stretto”.
“La lettura teologica della Bibbia fonde insieme queste due dimensioni. Sono poi stati esaminati alcuni significativi 'orizzonti'”, come li ha presentati l'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e presidente della Commissione per il Messaggio del Sinodo, parlandone con i giornalisti.
“Quello della liturgia, luogo privilegiato in cui far risuonare la Bibbia a partire sempre dall'omelia. Non deve esserci un divario tra la forza della Parola e l'abitudine, lo scontato dell'omelia”, continua la sintesi che “L'Osservatore Romano” fa delle proposizioni.
Altro orizzonte considerato è l'ecumenismo. “Effettivamente protestanti e ortodossi si ritrovano con una unità reale, anche se non piena, già attorno alla Bibbia”.
Le proposizioni parlano anche dei cristiani “non evangelizzati”, “cioè i battezzati che hanno perso ormai non solo le loro radici cristiane, ma anche qualche componente che possa arricchire la loro esistenza”.
“È stato proposto poi l'orizzonte dei laici in senso tecnico, cioè coloro che non sono credenti. L'auspicio è che la Bibbia sia anche il grande testo della cultura laica”.
“Infine – conclude il quotidiano vaticano –, è stato affrontato l'orizzonte della comunicazione”.


Un avvocato denuncia la fabbrica dei divorzi - Intervista a Massimiliano Fiorin, Presidente della Camera Civile di Bologna - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- In quasi quarant'anni dall'approvazione della legge Fortuna-Baslini, fino a che punto il divorzio ha trasformato la società italiana? Che cosa è rimasto del matrimonio e della famiglia naturale? Duecento separazioni e cento divorzi al giorno in Italia sono veramente un progresso? Quali sono i danni che i divorzi generano nella prole e nel tessuto sociale? Quali sono le proposte per cambiare la legge sul divorzio?
A queste e altre mille domande ha provato a rispondere l’avvocato Massimiliano Fiorin, pubblicando un libro dal titolo “La fabbrica dei divorzi. Il diritto contro la famiglia” (Edizioni San Paolo, 304 pagine, 18 Euro).
L’avvocato Fiorin, che è anche giornalista, svolge la sua professione a Bologna dove ricopre l'incarico di Presidente della Camera Civile.
Per approfondire un tema di così scottante attualità, ZENIT ha intervistato lo ha intervistato
Un titolo forte il suo. Perché parla di meccanismo infernale dei divorzi?

Fiorin: Il sistema divorzista, non solo in Italia, si basa su una contraddizione e un rovesciamento. Il divorzio, che secondo la legge doveva essere un estremo rimedio per le crisi familiari altrimenti irrisolvibili, nella prassi giudiziaria è invece diventato un sacrosanto diritto individuale. Esso non viene soltanto riconosciuto e garantito, ma anche favorito molto più di tutti gli altri diritti e doveri che dovrebbero discendere dal matrimonio.
Oggi una moglie in crisi può ottenere una rapida separazione senza dover fornire la minima giustificazione, sapendo di poterne trarre dei vantaggi economici assai notevoli. Nello stesso tempo, nella società si è ormai diffusa una spaventosa carenza di educazione alla vita familiare. Così, sono sempre meno quelli che riescono a resistere alle sirene divorziste, non appena il loro matrimonio si rivela per quello che è, e cioè un'avventura che richiederebbe impegno e responsabilità.
Questo ha fatto sì che gli operatori del diritto oggi tendano a considerare la separazione coniugale e il divorzio più come obiettivi da raggiungere, che non come semplici eventualità. Assai difficilmente cercano di guidare i loro assistiti verso soluzioni alternative, che siano più rispettose dell'interesse dei figli minori, che a parole tutti dicono di voler tutelare.

Negli anni Settanta il divorzio è stato presentato come una misura che avrebbe garantito il progresso e la felicità degli uomini e delle donne. Lei parla invece di inferno. Cosa è accaduto negli ultimi trent'anni?

Fiorin: Nel Discorso della Montagna, secondo la versione di Matteo, Gesù ha insegnato che è dai frutti che si riconoscono i falsi profeti. Nel mio libro ho cercato di seguire questo consiglio, e di dimostrare che le conseguenze sociali del divorzio di massa già oggi dimostrano che negli anni Settanta si era appunto in presenza di una falsa profezia. La possibilità di divorziare liberamente non ci ha resi tutti più liberi, e tantomeno più felici. Lo dimostra il malessere sociale, economico, ma soprattutto psicologico che il divorzio ha diffuso endemicamente nella società occidentale. Questo è ciò che ho cercato di dimostrare nel mio libro, partendo dai fatti. Il divorzismo invece si basa su una cattiva coscienza collettiva, che partendo dalla propria ideologia cerca di rimuovere certe questioni dal dibattito pubblico.

Quali sono i danni singoli, sociali, economici, demografici …. del divorzio?

Fiorin: Il divorzio ha portato le società occidentali ad essere inondate da quelli che io chiamo gli "oceani di sofferenza". Negli ultimi quarant'anni, con un'accelerazione spaventosa a decorrere dall'ultimo decennio, si sono prodotti disagi e lacerazioni sociali assai più profondi di quanto non si sia disposti ad ammettere.
Oggi, in Italia, i fatti di sangue con motivazioni connesse alla separazione e al divorzio sono probabilmente più numerosi di quelli dovuti alla criminalità organizzata. Ci sono migliaia di persone, quasi tutti padri separati, che a causa della separazione hanno perso tutto, casa, lavoro, figli, e vivono alle soglie dell'indigenza.
La crisi dell'istituto matrimoniale ha poi contribuito al cosiddetto inverno demografico. Oggi la maggior parte delle coppie sembra non volere più di un figlio, e non prima dei 35 anni. Questo potrebbe ben presto portare l'intera Europa ad una crisi di civiltà, e comunque alla insostenibilità del nostro sistema di welfare. Questi, peraltro, sono solo i frutti economici più immediati. Ma in realtà, èl'assenza forzata del padre dalle famiglie che ha causato i problemi più devastanti nel medio e lungo termine, specie oggi che la prima generazione dei figli del divorzio di massa è diventata adulta.
Negli Stati Uniti, che hanno conosciuto per primi le conseguenze del "no-fault divorce" (cioè la possibilità di divorziare facilmente e senza colpa), non vi è studio sociologico e statistico che non abbia dimostrato che l'assenza del padre da casa durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, a causa del divorzio dei genitori, è un fattore di devianza sociale che ricorre molto più di tutti gli altri.
A partire dalle bocciature e dagli abbandoni scolastici, per arrivare alla depressione, all'alcolismo e alla tossicodipendenza, fino alla disoccupazione e alla marginalità sociale, e così via fino ai casi più gravi di suicidio e criminalità. L'essere cresciuti senza il padre in casa è sempre il fattore statisticamente più ricorrente, tra i campioni di popolazione che si trovano coinvolti in questi problemi.

Quali sono i luoghi comuni e i pregiudizi ideologici che, secondo lei, nascondono la realtà dei divorzi?

Fiorin: Vi è prima di tutto l'idea che un bel divorzio sia sempre meglio di un cattivo matrimonio, specialmente se tra i coniugi in crisi vi è conflittualità. La vera bestia nera degli operatori del diritto non è tanto il divorzio in sé, quanto la conflittualità che esso genera. Per non disturbare i manovratori della macchina divorzista, ci si illude che per i figli sia meglio essere preservati dall'assistere ai litigi dei genitori, piuttosto che dalla loro separazione. Ma ormai buona parte degli psicologi e dei neuropsichiatri devono ammettere che sembra piuttosto vero il contrario. La ferita prodotta dalla separazione dei propri genitori in se stessa produce danni permanenti all'equilibrio psichico, anche nei soggetti che sembrerebbero averne risentito di meno. Invece, l'essere cresciuti in una casa dove i genitori "non si amavano più" - secondo la visione romantica e tardo adolescenziale del matrimonio che ormai ha conquistato tutti - è un fattore di instabilità psichica molto meno grave.
Oltretutto, la mia esperienza professionale, e non solo quella, dimostra che sono proprio le situazioni di grande conflitto tra coniugi, o comunque tra genitori, quelle che lascerebbero i maggiori margini di mediazione. Sempre che si convinca le parti a lasciarsi aiutare, invece di proporre loro il divorzio come unica panacea.

Quali sono le riforme legislative e culturali che lei proporrebbe per riparare ai danni sociali e individuali dei divorzi?
Fiorin: Dal punto di vista legislativo, una prospettiva interessante - che è stata già adottata da alcuni Stati nordamericani, come Louisiana, Arkansas ed Arizona - è quella del "covenant marriage". Si tratta di un nuovo modello matrimoniale, dove gli sposi decidono fin dall'inizio che il loro legame sarà un'alleanza per la vita, e quindi potranno divorziare solo fornendo motivazioni oggettive, e dopo essersi sottoposti ad un periodo di mediazione familiare. E' un modello di libertà, che nel contempo aiuterebbe molto un ritorno al matrimonio e alla filiazione responsabili. Nel contempo, visto che non mi illudo che ci si possa arrivare in tempi brevi, nel mio libro propongo nuovi modelli di comportamento che già ora ritengo che dovrebbero essere adottati dagli avvocati familiaristi, per fare il proprio lavoro in maniera più responsabile, e di maggiore aiuto alle coppie in crisi.
Qual è il fine ultimo del libro? Perché lo ha scritto?
Fiorin: Nella mia esperienza di avvocato, sono arrivato relativamente tardi ad occuparmi di diritto di famiglia. Tuttora mi considero più un avvocato civilista che non un "familiarista" in senso stretto. Per scelta di coscienza, ma anche di specializzazione personale, mi occupo solo di un numero selezionato di casi di separazione e divorzio, e solo laddove è ancora possibile aiutare i coniugi in crisi a trovare una soluzione meno drammatica, o ancor più spesso quando si tratta di difendere loro e i loro figli da una violenta aggressione ai propri diritti naturali, perpetrata dalle logiche divorziste.
Questa scelta mi ha aiutato a vedere i problemi in modo più distaccato, e ad accorgemi che "il re è nudo", molto meglio di quanto non possa fare un avvocato che occupandosi solo di divorzi, magari in modo magistrale, ha comunque finito per adeguarsi alla logica del sistema, talvolta in modo inconsapevole.


21/10/2008 16:32 AFGHANISTAN - Cristiani afghani preoccupati e commossi per la morte della cooperante
Non è la prima volta che nel Paese avvengono assassini di tipo confessionale. La donna uccisa lavorava da anni per i disabili e i profughi. Le suore di Madre Teresa e quelle dell’Associazione Pro bambini di Kabul, amate perché si prendono cura “dei nostri poveri”.

Kabul (AsiaNews) – I volontari e cristiani che lavorano in Afghanistan sono commossi e sgomenti per l’uccisione di Gayle Williams, volontaria di Serve Afghanistan, colpita ieri mentre si recava al lavoro. Secondo i Talebani, che hanno rivendicato l’assassinio, la donna “lavorava per un’organizzazione che predicava il cristianesimo in Afghanistan”. Non è la prima volta che una motivazione confessionale viene esplicitata dai fondamentalisti come ragione delle uccisioni, ma vi sono cattolici che dubitano sui motivi reali che hanno portato alla morte della volontaria inglese.
Gayle Williams, 34enne (nella foto), da anni lavorava nel Paese, nella cura dei disabili. Si era impegnata dapprima a Kandahar, poi a Kabul. I suoi collaboratori di Serve Afghanistan, un’organizzazione britannica di ispirazione cristiana, la ricordano come “una persona che metteva gli altri prima di sé”, sempre premurosa a “servire coloro che sono nel bisogno”.
L’organizzazione Serve è impegnata con la popolazione afghana fin dal tempo dei sovietici. I suoi volontari hanno lavorato affianco ai profughi afghani in Pakistan. Alla fine degli anni ’90, essendo finita l’emergenza profughi (trasferitisi intanto nel Paese), anche Serve ha deciso di aiutare anziani, disabili e bambini in Afghanistan.
Dopo la guerra internazionale e la cacciata dei Talebani nel 2001, molte organizzazioni non governative sono giunte in Afghanistan per lavorare a risolvere diversi bisogni sociali. Sono anche presenti alcune ong cattoliche, spesso legate a ordini religiosi maschili e femminili, come anche una comunità delle suore di madre Teresa.
La presenza di così tante donne cristiane, perfino con l’abito delle suore – come le Missionarie della carità – spinge qualcuno a dubitare che la Williams sia stata uccisa a causa della sua fede. “Se avessero voluto uccidere dei cristiani, avrebbero una grande scelta, anche con obbiettivi più riconoscibili”, dice una fonte di Kabul. “È probabile – continua la stessa fonte – che la Williams sia stata colpita perché è inglese”.
D’altra parte, in tutti questi anni, vi sono stati spesso uccisioni e rapimenti a carattere religioso. Alcuni mesi fa sono stati uccisi tre cooperanti di ong e i Talebani hanno annunciato di aver ucciso “tre cristiani”. Qualche anno fa è stata uccisa una ragazza francese, cattolica, a Kandahar. Anch’essa eliminata “perché cristiana”. Nel 2007, 23 cristiani presbiteriani sudcoreani sono stati rapiti. Due di loro erano stati uccisi prima che Seoul potesse concordare la loro liberazione.
Le comunità cattoliche presenti in Afghanistan tendono a non fare alcun proselitismo. La loro testimonianza passa attraverso le opere. Impegnati a favore di bambini disabili e di strada vi sono le suore di madre Teresa e le religiose legate all’Associazione “Pro-bambini di Kabul”. Finora esse non hanno registrato alcun risentimento o tensione. La gente le ama perché – dice – “queste donne sono venute qui per aiutare i nostri poveri”.


Quasi la metà della popolazione costretta alla fuga - Solo morti e profughi - nel bilancio della Somalia, L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
Mogadiscio, 21. Dai primi mesi del 2007 allo scorso settembre circa diecimila civili sono stati uccisi a Mogadiscio e nel resto della Somalia nei combattimenti sempre più estesi tra i miliziani delle corti islamiche e le forze del Governo di transizione nazionale somalo appoggiate dalle truppe etiopiche. Le stime in merito di fonti umanitarie concordi sono sostanzialmente le stesse confermate, nello stesso periodo, dalle Nazioni Unite che ritengono altresì che i profughi siano ormai oltre tre milioni di persone, quasi la metà dell'intera popolazione somala. L'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) ha di nuovo definito ieri le condizioni di questi profughi disperate dal punto di vista igienico, sanitario e nutritivo, ammonendo che senza massicci e rapidi interventi si profila una catastrofe umanitaria di dimensioni senza precedenti.
Finora la presenza di circa tremila uomini dell'Amison, la forza di pace inviata dall'Unione africana, non ha inciso minimamente sulla situazione e, anzi, nelle ultime settimane i contingenti burundese e ugandese dell'Amison sono stati a loro volta attaccati a Mogadiscio dagli insorti delle corti islamiche, egemonizzati dal gruppo fondamentalista degli al Shabaab (gioventù, in arabo).
I ribelli controllano anche ampie e strategiche zone del territorio somalo, tra cui il sud, a cavallo del confine con il Kenya, dove sorge Chisimaio, sede di un importante porto e di un aeroporto internazionale.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


Intervento della Santa Sede al Consiglio dei diritti dell'uomo - Il dovere di promuovere - la tolleranza religiosa - Pubblichiamo la traduzione dell'intervento pronunciato il 19 settembre, in occasione della nona sessione del Consiglio dei diritti dell'uomo (Hrc), dall'arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, sul "razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e le forme correlate di intolleranza" - L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2008.

Signor Presidente,
Nelle ultime settimane, e in diverse aree geografiche, la comunità internazionale ha assistito sempre più spesso a manifestazioni di intolleranza religiosa che violano i diritti umani fondamentali delle persone dell'una o dell'altra convinzione religiosa. Luoghi di culto sono stati incendiati e dissacrati. Migliaia di persone sono state sradicate con la forza e le loro case distrutte. Membri di famiglie sono stati feriti, e perfino uccisi solo perché professavano la loro religione. Altri sono stati arrestati con accuse false. L'impunità per questi crimini, come accade spesso, trasmette il messaggio che l'aggressione violenta, e perfino l'eliminazione fisica, di persone di diversa convinzione religiosa è accettabile. Sessant'anni fa, la comunità globale, attraverso la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ha assunto l'impegno solenne di sostenere e difendere il principio secondo il quale "ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti" (articolo 18). Il cammino per la realizzazione di tale diritto resta lungo e arduo.
La delegazione della Santa Sede è profondamente preoccupata perché bersaglio di queste aggressioni sono minoranze religiose che già soffrono per pregiudizi sociali e politici e per comportamenti violenti, discriminatori e provocati da stereotipi. Questa delegazione quindi sostiene la riaffermazione del Consiglio per i diritti umani, del diritto alla libertà di religione, coscienza, credo e pratica religiosa, in privato e in pubblico. Concorda anche sul suggerimento che il Rapporteur speciale per le forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e forme correlate di intolleranza, ha dato a questo Consiglio di allontanare la propria riflessione dal concetto vago di "diffamazione della religione" e di incentrarla invece sulla norma giuridica di non incitamento all'odio nazionale, razziale o religioso e sui diritti ben riassunti nel Patto Internazionale sui diritti civili, politici e culturali (Iccpr). In qualsiasi società, il cammino verso la comprensione reciproca e una coesistenza pacifica e costruttiva non può essere un'impresa isolata. Per un efficace cambiamento della società bisogna affrontare la sua forma strutturale e istituzionale. Questa responsabilità non può limitarsi a dichiarazioni retoriche, ma dovrebbe invece essere articolata a tutti i livelli di azione che uno Stato può intraprendere: nella legislazione nazionale, nel sistema giudiziario, nel governo, nel sistema educativo, nei mezzi di comunicazione sociale e nelle comunità di fede stesse. Nell'inevitabile pluralismo che la globalizzazione introduce in ogni società, questo sforzo concertato sortirà effetti positivi.
Come dimostrato in vari rapporti sulla questione della religione e dei diritti umani, redatti dal sistema delle Nazioni Unite, esistono alcune preoccupazioni legittime relative all'esortazione ad affrontare in termini tangibili la questione della diffamazione delle religioni, ma ciò dovrebbe essere fatto in modo cooperativo, costruttivo e olistico. Di fatto, un possibile progresso potrebbe scaturire dal basarsi sull'Udhr, sull'Iccpr e sulla Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione e sul credo, adottata dall'Assemblea Generale nel 1981. Una modalità positiva e giuridica eviterà per la società e per i membri delle religioni minoritarie conseguenze negative e non volute, causate dalle stesse leggi sulla diffamazione della religione laddove sono in vigore. Per esempio, in diversi casi, le leggi sulla blasfemia sono state utilizzate come armi contro nemici personali o come pretesti per fomentare la violenza di massa. Tali azioni finiscono per dividere le comunità religiose invece che promuovere la tolleranza. La Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione e il credo e gli strumenti su cui essa si fonda potrebbero fare da cornice a un nuovo trattato o all'elaborazione di una nuova dichiarazione su direttive, criteri e buone pratiche. Quindi la comunità internazionale potrebbe percorrere un cammino rassicurante per creare una famiglia umana più serena, affrontando, nello stesso tempo, alcune importanti sfide di oggi. Fra queste ultime vi è il bisogno urgente di promuovere la tolleranza religiosa, di porre fine alla discriminazione religiosa da parte dello Stato e di membri della società civile, di promuovere la pratica "dell'accordo ragionevole" delle pratiche religiose, di accrescere la capacità di proteggere le persone dalla violenza perpetrata in gruppo e la capacità dei sistemi giudiziari di offrire agli imputati processi rapidi e giusti.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


Le Sacre Scritture come pre-testo della canzone americana popolare e d'autore - La risposta soffia nella Bibbia - di Luca Miele – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
"Il re ordinò che fossero legati / e gettati nella fornace ardente". Il re di cui si parla è Nabucodonosor, la fornace attende chi non adorerà "l'idolo d'oro". Siamo dinanzi ai versi di una canzone di Johnny Cash, The fourth Man. La fornace ardente a cui allude il testo (fiery furnace), prima di essere un luogo comune del romanzo americano, le cui tracce sono tanto nel melvilliano Moby Dick che nei racconti di Hawthorne, è estrapolata da un brano biblico. Per narrare la sua personale (e sofferta) redenzione, Cash sceglie di interpretare un passo del profeta Daniele. Come è accaduto a Sadrach, Mesach e Abdenego nel passo biblico, Cash sente di avere camminato nelle fiamme e di esserne uscito, soccorso da un misterioso "quarto uomo". Quello del corpo a corpo con le Sacre Scritture non è solo la cifra poetica del cantante scomparso nel 2003, ma un tòpos ricorrente nella canzone popolare americana. Mediata dal grande patrimonio afroamericano dei gospel, nel quale il cristianesimo ha riversato il suo patrimonio figurale, lessicale e simbolico, la canzone Usa ha attinto a piene mani dal testo biblico, spingendosi in alcuni casi fino alla citazione letterale. Insomma se c'è un pre-testo che percorre l'intero mondo della canzone americana, popolare e d'autore, è proprio la Bibbia. La Bibbia ha fornito immagini, simboli, un intero linguaggio, come si addice a un testo fondativo, ad alcune delle più significative voci americane.
Questa appropriazione è rintracciabile anche in personalità che la critica ha sempre dipinto come distanti dalla fede. Come Woody Guthrie, una delle figure più intense del panorama musicale americano, cantore dei diseredati, delle vittime della Grande depressione, degli esclusi dal sogno americano. Ebbene Guthrie intitola una canzone a Gesù (Jesus Christ), nella quale attinge ai Vangeli con grande attenzione filologica per fare del suo personale Messia un'incarnazione della lotta per la giustizia. Gesù, canta Guthrie, "aveva viaggiato in lungo e largo" (Matteo, 8, 20 e Luca, 9, 58), era un falegname (Marco, 6, 3), venuto "a portare non la pace, ma la spada" (Matteo, 10, 34), il cui insegnamento è di dare tutto ai poveri (Matteo, 19, 21; Marco, 10, 21; Luca, 18, 22). E la convinzione che "i poveri un giorno erediteranno il mondo", espressa nel brano, trova la sua base scritturale nel Discorso della montagna.
Chi è profondamente debitore del mondo poetico di Guthrie è Bruce Springsteen al quale si deve una riscrittura del personaggio di Tom Joad, protagonista del romanzo Furore di John Steinbeck, già cantato dallo stesso Guthrie. La produzione di Springsteen è disseminata di simboli, motivi e citazioni bibliche, in particolare per dire la salvezza e l'ansia di redenzione. Il tragitto che nella sua ormai trentennale carriera Springsteen fa descrivere ai suoi personaggi è infatti un progressivo abbandonare l'oscurità per approdare in un territorio di luce. Se in un brano giovanile, il cantante attinge all'Esodo e alle immagini del deserto per proclamare la sua fede nella Terra promessa (The promised land), in una canzone della maturità - Across the border - la salvezza è declinata, come ha notato Antonio Spadaro, con le parole del Salmo 23. Ma è soprattutto nei brani di The rising, composti dopo l'11 settembre, che il linguaggio di Springsteen assume coloriture sempre più religiose. In The rising (il verbo to rise significa ascendere, sollevarsi, resuscitare) un pompiere corre verso l'alto, nelle mai nominate Twin Towers. L'uomo risponde alla "croce della sua chiamata". Sale con un macigno sulle spalle, ha perso la sua strada nell'oscurità per quanto è salito, non riesce a vedere nulla davanti a sé e niente alle sue spalle, non sente nulla se non la catena che lo lega. Incrocia facce annerite, occhi che bruciano. Si imbatte in spiriti: sono "sopra e dietro" di sé. Il nominare gli spiriti indica qui la frattura della realtà. Siamo ancora in questa vita? Nell'altra? Sono persone vive? Sono anime? Quello che è certo è che siamo ormai in un'altra dimensione. Negli attimi che precedono la morte, l'io poetico vede l'immagine "sacra" dei suoi figli danzare in un cielo di luce. L'uomo giunge a trovarsi faccia a faccia con "la luce incandescente del Signore". Il fuoco, che Springsteen nomina quando canta di un "vento infuocato", è lo Spirito. Qui riecheggia la parola biblica: lo Spirito santo è il vento (Giovanni, 3, 8) che avvampa il fuoco, Spirito e fuoco sono una cosa sola (Atti degli apostoli, 2, 2-3). Nella sua carriera, Springsteen ha incontrato il patrimonio musicale di un altro storico cantore Usa, Pete Seeger, il cui brano Turn! Turn! Turn! è una riscrittura di un passo dell'Ecclesiaste (3, 1-8).
L'autore, che più di altri ha contribuito a rivoluzionare il linguaggio non solo musicale del rock, fino a fare esplodere i limiti della forma-canzone, forzando i confini tra poesia e musica, rock e tradizione popolare è Bob Dylan. Ha scritto Alessandro Carrera, "sarebbe troppo poco dire che Dylan legge la Bibbia, cita dalla Bibbia, si fa ispirare dalla Bibbia. Dylan è letteralmente attraversato dalla Bibbia, annega nella Bibbia e con la Bibbia risorge alla superficie. Non c'è quasi allusione oscura nelle sue canzoni che non sia riconducibile a un riferimento biblico". E allora, sul filo del lavoro esegetico compiuto da Carrera, prendiamo in esame uno tra i più celebri brani di Dylan, All along the watchtower. "C'è troppa confusione/ non riesco a trovare pace", canta Dylan. Ma di una "città della confusione" e di una "torre di vedetta" c'è traccia in Isaia (24, 10 e 21, 5). Mentre dell'ora che si fa tarda e del dovere di stare in guardia, come ricorda ancora Carrera, ci si può riferire a Matteo (24, 42-43). Ancora nel testo di Dylan fanno irruzione uno "sciacallo", l'ululato del vento, l'avvicinarsi di due cavalieri, tutti segni della distruzione che si avvicina. Il riferimento è alla caduta di Babilonia. I rimandi alla Bibbia sono presenti anche in altre composizioni di Dylan. Si pensi ai celebri versi di Blowin' in the wind nei quali è richiamata l'immagine della colomba (Genesi, 8, 8), o a quelli di Highway 61 revisited nei quali il mancato sacrificio di Isacco (Genesi, 22, 3) si compie sotto la minaccia di essere "deportati" lungo la highway 61.
L'ossessione della morte e della caduta permea un brano di Tom Waits Dirt in the ground nel quale è richiamato Ezechiele 37, 4: "Caino uccise Abele con una pietra / il cielo si squarciò / il tuono risuonò // Potranno queste ossa asciutte rivivere lungo un fiume di carne? / Chiedilo a un re o a uno straccione / la risposta sarà sempre / saremo tutti / polvere nella terra".
Il "polvere sei e polvere tornerai" (Genesi, 3, 19) riecheggia anche in un brano di Steve Earle, Ashes to ashes, apparso nel controverso album Jerusalem, nel quale è presente anche un'allusione all'episodio della torre di Babele (Genesi, 11, 9): "Faresti bene a tenere a mente / che ogni torre cadrà / non importa quanto forte possa essere / un giorno ogni grande muro si sbriciolerà / ogni idolo cadrà / Polvere alla polvere / cenere alla cenere". In Jerusalem, un presente ingoiato dalla violenza si scioglie nella visione escatologica, quando "il lupo e l'agnello pascoleranno insieme" (Isaia, 65, 25).


(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


Storie di conversione: Marguerite Aron - I due volti di Madame le professeur - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
La storia dell'educazione delle donne nei secoli è sempre stata soggetta a discriminazioni e barriere, sconcerta però constatare come anche in tempi recenti - mi riferisco alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento - nella pur progressista e illuminata Francia ancora resistenze e pregiudizi fossero ben vivi e tenaci.
La ben conosciuta e rinomata scuola di Sèvres che avrebbe diplomato quelle giovani donne dette poi sévriennes, cioè la prima generazione di insegnanti nella scuola secondaria francese, era stata aperta solo nel 1881. In Senato, durante la discussione sull'opportunità di aprire una scuola Normale Superiore per le ragazze, un senatore conservatore ebbe a dire dinnanzi a un'idea così innovativa: "Un seminario laico per ragazze che vorrebbero essere delle signore professoresse, non sono abituato a questo tipo di mostri!".
Le giovani invece si sentivano pioniere del futuro, educate per creare l'anima della nuova donna, oltre che ad afferrare la grandezza e la bellezza del ruolo dell'educatrice. La lotta di queste coraggiose giovani per farsi accettare dalla società fu di non poco conto, pregiudizi e tabù gravavano ancora sulla donna che si sarebbe dedicata all'insegnamento superiore. La novità procurò notevoli commenti e disagi a queste "donne nuove" della Terza Repubblica: una barriera fu frantumata da queste giovani che passarono dal livello generico di istitutrici a quello socialmente riconosciuto di insegnanti a livello superiore. Inoltre, gli schemi e i parametri maschili non dovevano diventare impositivi e determinanti si apriva allora un tracciato inedito, tutto femminile.
La targa che ricorda tutte le Sévriennes morte per la Francia, non porta un nome, quello di Marguerite Aron che morì vittima della furia distruttrice del nazismo. Nata in una famiglia ebraica a Parigi nel 1873 nel ix arrondissement, nei pressi della stazione Saint-Lazare, Marguerite al compiere dei sette anni ricevette in dono dal nonno Aronhauser il libro delle preghiere degli ebrei d'Alsazia. Margherite, culturalmente, venne allevata sulle "ginocchia dell'università" e assorbì idee scettiche e indifferenti verso il cattolicesimo.
Un dissesto economico familiare costrinse la giovane ragazza, che si sentiva inclinata agli studi universitari, a virare invece nel 1893 verso quell'istituto di studi della Scuola Normale di Sèvres, detto Couvent laïque. La sua formazione fu quindi quella dell'insegnante, professione che intraprese una volta diplomata, dapprima in provincia, poi a Versailles e infine a Parigi. Il metodo e la personalità "del mostro" suscitarono notevoli problemi, tanto da venire invitata a non allargare troppo le idee delle allieve e a non prestare loro libri!
Un problema però angustia madame le professeur ed è quello della sua vocazione nella vita: "Come vorrei avere una vocazione chiara, imperiosa, senza repliche! Eppure non ce l'ho. Appartengo a quel tipo di persone equilibrate e mediocri che riescono un poco dappertutto, senza riuscire da nessuna parte, che esitano, ponderano, che si servono di una parte della loro attività nel domandarsi che cosa vogliono fare (...) Quando ero piccola, era già il mio cruccio: sognavo d'avere una vocazione".
Quando ancora frequentava la scuola di Sévres, Marguerite nelle sue sterminate letture si era imbattuta e aveva letto Pascal, mentre l'Imitazione di Cristo, per l'austero ascetismo non entrò nel suo spirito. Fu invece toccata nel profondo da un altro incontro con una persona di spicco nel suo tempo: il domenicano Héribert che aveva fondato il Circolo Veritas, nei cui interessi culturali religiosi poneva un accento ben preciso sul ruolo del popolo di Israele nella storia della salvezza. Si ignora come Marguerite ne incontrò il fondatore, però ne seguiva le attività e cominciò a percepire dentro di sé un richiamo interiore che promanava dalla sua stessa stirpe ebraica. Iniziò quindi il cammino della conversione al cristianesimo su cui ella mantenne sempre un silenzio denso di discrezione; un indizio può tuttavia gettare luce su quanto le accadde se ci si riferisce a quanto scrisse su Marie-Alphonse Ratisbonne: "Egli, d'un sol colpo, ricevette tutto, fede, luce; venne folgorato e illuminato, la sua partenza è l'arrivo degli altri". Sempre in lei rimarranno presenti "due tempi, due volti", non in conflitto ma in complementare armonia, ebraismo e cristianesimo.
Marguerite fu battezzata nel 1914 e si legò alla spiritualità e all'attività domenicana: collaborazioni a riviste quali La Vie intellectuelle e La Vie spirituelle, un vivo gusto per la ricerca e la scrittura di tanti libri di spiritualità, brillanti conferenze e l'animazione di circoli aperti ai liceali.
Fondamentale fu il suo avvicinamento all'abbazia di Solesmes dove giunse per la prima volta l'8 settembre 1930, frequentandola durante la Settimana Santa e per periodi personali di ritiro e riflessione, insieme con un fedele gruppo di amici.
La sua maturazione religiosa fu progressiva e attenta: "Giunge il momento in cui le cerimonie che incantavano annoiano, che all'ufficiatura solenne si preferisca l'orazione silenziosa. Ma se si è veramente figli della Chiesa universale si capisce poi che tutto questo non fa che un grande tutto la cui cifra è la lode, l'amore, l'obbedienza".
Un tratto della sua spiritualità fu anche il legame con Maria la Madre di Gesù; aveva scritto commentando le xilografie della Via Crucis di Raymond Dubois: "In Lui, tutti i morti della stirpe sono presenti, quelli dei secoli passati, quelli dei secoli futuri; e dopo il sacrificio di Abele, prima vittima del genere umano, mai nessun prete ha avuto o ha offerto una simile ostia (...) È così che Maria diviene la Madre di tutte le grazie, la misericordiosa dispensatrice del perdono, la tesoriera del sangue di Gesù".
Marguerite conobbe anche e strinse grande amicizia con quella che sarebbe divenuta la beata Ursula Ledochowska, la fondatrice delle Orsoline, la cui storia si deve alla sua penna.
Malgrado la persecuzione nazista che infuriava in Europa, Marguerite non volle lasciare Solesmes e nascondersi. Non solo ma osò ospitare nella sua casa un'ebrea ricercata, Elisabeth Cahen d'Anvers. Le due anziane, evidentemente denunciate, il 26 gennaio 1944 mentre uscivano dalla celebrazione della messa furono arrestate e deportate. Il 13 gennaio il convoglio giunse ad Auschwitz, quasi certamente Marguerite non superò la selezione del dottor Mengele che eliminava immediatamente i "pezzi" che contavano più di cinquant'anni, così ella condivise con il suo popolo l'odio contro il popolo di Israele e i suoi due volti trovarono, nel martirio silenzioso e sconosciuto ai più, quella pace e quell'unità cui tutti aneliamo.


(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


Idee pesanti contro la leggerezza laicista - L'arduo confronto con l'indifferenza - di Gianfranco Ravasi – L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
Il concetto di secolarizzazione o laicismo è una delle categorie più caratteristiche adottate per definire la società moderna. È necessario, però, evocare la distinzione che si deve operare tra "secolarità/laicità" e "secolarismo/laicismo". La prima coppia designa la corretta autonomia della sfera politica, economica e sociale per quanto è di sua competenza rispetto all'orizzonte religioso-sacrale, sulla scia del monito evangelico: "Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Col "secolarismo/laicismo" (parallelo, anche se antitetico, alla teocrazia e al sacralismo integristico) si vuole, invece, cancellare ogni presenza "incarnata" della fede nella storia e nella società, impedendole qualsiasi giudizio morale sull'agire politico-sociale. Per questa via si elimina ogni segno pubblico religioso, si estirpa ogni rimando teologico nel confronto culturale, si accede a una sottile destabilizzazione dell'etica naturale in nome di un'autonomia assoluta della persona, si privilegia l'esasperazione libertaria che lascia briglia sciolta su ogni valore, si enfatizza la radicale indipendenza della scienza da qualsiasi remora morale, considerata come estrinseca e così via.
A questo fenomeno - che, peraltro, ora risente di una certa crisi non solo per l'attuale interventismo del fondamentalismo religioso sulla scena del mondo, ma anche per quella che Gilles Kepel in un suo saggio del 1991 ha chiamato la revanche de Dieu, cioè la rivincita di Dio e il ritorno del sacro - possiamo associare un soggetto tematico affine, quello della non credenza. È soprattutto su quest'ultima che ora vorremmo porre l'accento. Nell'Ottocento il poeta tedesco Heinrich Heine rappresentava paradossalmente così questo fenomeno, inconcepibile in altre ere e civiltà antiche: "In ginocchio! Suona la campanella: si stanno portando i sacramenti a un Dio che muore". In forma anche più drammatica il filosofo conterraneo e contemporaneo Friedrich Nietzsche sceneggiava l'avanzata della morte di Dio con la celebre descrizione della Gaia scienza (1882) in cui un uomo grida per le strade l'annunzio ferale: "Dio è morto! Noi lo abbiamo ucciso e le nostre mani grondano del suo sangue", mentre il lezzo della sua putrefazione inquina le nostre città. Bisogna, però, riconoscere che questo ateismo fiero e inquietante (si pensi, ad esempio, anche allo scrittore Albert Camus) - che aveva sollecitato persino una "teologia della morte di Dio" - è ormai quasi estinto e ha lasciato spazio a una sorta di scimmiottatura, fatta di sberleffi sarcastici irreligiosi, come si può dimostrare attraverso i vari libelli alla Odifreddi, Onfray, Hitchens, Dawkins e così via.
È forse sorprendente, ma è ancor oggi la Bibbia a indicarci meglio le tre tipologie di non credenza che attualmente possiamo classificare a livello culturale. L'ateismo rigoroso sopra descritto è da ricercare nell'idolatria che genera pagine veementi nelle Scritture. È la tentazione di sostituire se stessi o un dato storico immanente alla trascendenza divina: pensiamo al materialismo dialettico marxista, ma anche allo Spirito immanente all'essere e alla storia nella concezione idealistica hegeliana o all'umanesimo ateo che pone l'uomo come misura e senso esclusivo di tutto l'essere e l'esistere. San Paolo nel primo capitolo della Lettera ai Romani vede nella sostituzione della verità divina con un sistema su propria immagine e interesse la sorgente della degradazione morale.
C'è, però, un secondo modello biblico da considerare: è l'incredulità. Non è la negazione teorica e programmatica di Dio quanto l'affermazione della sua distanza o irrilevanza nella storia. Sotto questo schema potremmo rubricare la vera forma dominante di non credenza, la cosiddetta indifferenza religiosa. La figura di Dio non deve interferire nelle vicende umane, non dev'essere principio di scelte esistenziali, deve rimanere nel limbo della sua remota trascendenza. Dio non lo si combatte, ma lo si ignora perché considerato una realtà inattuale e, comunque, disturbante.
È paradossale, ma a questa particolare tipologia di incredulità dev'essere associata anche una certa forma di religiosità contemporanea, fluida e sottile, che produce surrogati spirituali e cocktail religiosi che fondono sincretisticamente spezie di fedi diverse. Forse il modello più espressivo è quello della New Age, divenuta poi Next Age, un percorso che evita ogni discorso serio e severo, un itinerario consolatorio che esclude l'inquietudine agostiniana della ricerca - "finché si è inquieti, si può stare tranquilli", ammoniva Julien Green -, un'esaltazione della spiritualità eterea che ignora il peso del peccato e le insorgenze del reale drammatico e del tragico della storia.
La terza tipologia biblica è quella dell'assenza misteriosa di Dio. Essa, però, fa parte della stessa esperienza di fede e ruota attorno alla domanda che sale verso l'alto di fronte allo sconcerto degli scandali del male, del dolore, della morte: "Dov'è Dio?". Questo interrogativo rivolto al Dio muto e apparentemente assente scandisce l'intero itinerario di Giobbe, che è in verità un vero credente anche quando le sue parole acquistano iridescenze blasfeme e quando ripete: "Io grido a te e tu non rispondi!". È la situazione di Qohelet che si sente coinvolto e avvolto dal non-senso (habel, "vuoto, vanità") della storia e dell'essere e si trova di fronte a un cielo muto e a un Dio taciturno. È, allora, necessario - quando si affronta il fenomeno dell'ateismo - operare una serie di distinzioni, ricordando che il confronto anche culturalmente più arduo non è tanto con l'idolatria-ateismo autentico, che è vissuto con sincerità come una vera visione della vita, quanto piuttosto con l'indifferenza-incredulità, realtà sfuggente e ambigua.
Essa è simile a una nebbia difficile da diradare, non conosce ansietà e domande, si nutre di stereotipi e di banalità, si accontenta di vivere in superficie, sfiorando i problemi fondamentali, secondo l'ormai notissima immagine del Diario di Søren Kierkegaard: "La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani". I mezzi di comunicazione di massa, infatti, ci insegnano tutto sulle mode e i modi di vivere, ma ignorano il significato ultimo dell'esistere, l'inquietudine della ricerca interiore, le interrogazioni radicali sull'oltre e sull'altro rispetto a noi e al nostro orizzonte. Un conto è avere a che fare con la notte dello spirito dell'ateo o del credente (alla Giovanni della Croce o alla Meister Eckhart o alla Angelo Silesio) e un conto è avere a che fare con quella che già il filosofo Martin Heidegger, nei Sentieri interrotti, chiamava "il tempo della notte del mondo, ossia il tempo della povertà del mondo, quella di non riconoscere più la mancanza di Dio come mancanza". Ed è purtroppo questa la dominante della non credenza nell'attuale mondo secolarizzato.
Quale strategia sia da adottare di fronte a una simile temperie culturale grigia è piuttosto difficile da programmare. Certo è che le Chiese non devono rassegnarsi a inseguire questa deriva, scegliendo la strada dell'adattamento, riducendo la religiosità a una spiritualità debole e inoffensiva, che si accontenti del minimo, sia pure con la continua consapevolezza che non si deve spegnere la fiammella vacillante. È, invece, da calibrare innanzitutto un linguaggio che sia percepibile a queste orecchie ostruite dai rumori di fondo della società, dal brusio informatico, dalla distrazione superficiale. Un linguaggio che sappia anche ricorrere alle categorie deboli di questa cultura, ma ne induca altre forti, quasi come una spina nel fianco, una provocazione nella mente. Fuor di metafora, è necessario procedere verso la proposta di alcuni contenuti radicali che riescano ad artigliare la coscienza intorpidita, anche se per un istante, aprendole una ferita.
Intendiamo riferirci ai cosiddetti temi ultimi, che inesorabilmente attraversano l'esistenza di tutti: la vita e la morte, il dolore e il male, l'amore e il tradimento, il mistero e la trascendenza, la verità e il falso, la prevaricazione dell'ingiustizia e la solidarietà, il mondo con le sue bellezze, i suoi segreti e la sua tutela, e infine come apice lo Spirito, Dio, il Vangelo. È, quindi, necessario ritornare alle grandi narrazioni, ai simboli capitali, alle idee pesanti, espresse in modo incisivo e provocatorio, senza facili sconti, pur nella lievità e chiarezza della comunicazione contemporanea. Accanto a questo vero e proprio attacco, che "incida ferite nei campi dell'abitudine" tipica dell'"incredulo" - per usare un'espressione suggestiva della poetessa ebrea tedesca Nelly Sachs - occorre non abbandonare neanche l'orizzonte delle realtà "penultime".


(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


MERCATI/ Giannino: lasciar troppo spazio all’intervento dello Stato vuol dire diminuire la libertà degli uomini - Oscar Giannino - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
È nelle grandi crisi, che occorre porsi i grandi interrogativi. Nelle grandi crisi infatti si mettono in atto risposte in tempi obbligatoriamente rapidi, se non concitati. E si compiono balzi anche radicali, rispetto ai paradigmi precedentemente rispettati in maniera sin troppo ortodossa.
Nessuno può dirsi certo delle conseguenze ultime che scaturiranno dalle terapie d’emergenza per affrontare le emorragie banco-finanziarie, perché tutti intanto pensano che la cosa essenziale è arrestare il rischio di dissanguamento. Ma terapie che a breve ottengano anche l’arresto del peggio, ma gettino insieme i semi di una successiva paralisi lenta e progressiva dell’organismo salvato, sono comunque terapie sulle quali interrogarsi seriamente.
Io credo che Graziano Tarantini abbia profondamente ragione, nel richiamare noi tutti a una riflessione profonda, intorno al rischio che lo Stato da invocato salvatore dell’oggi divenga poi - come quasi sempre è stato - nemico del meglio e del bene, avverso a chi sa e vuole fare in quanto persona, in teoria garante di solidarietà ed eguaglianza, in realtà arido livellatore secondo ideologie di questa o quella scuola di perfettismo strutturalista. Non mi fa molta differenza, che sia socialismo, comunismo o tecnocrazia di enarchi laico-illuministi innamorati dell’Aufklarung: in tutti i diversi casi, sappiamo già bene dalla storia che cosa se ne debba desumere, dal loro sostituirsi alla libera interazione dell’uomo come entità collettiva di minoranze organizzate e autoselezionate in nome del presunto “bene comune” .
Il disastro regalatoci dalla finanza ad alta leva finanziaria e bassa congruità patrimoniale delle cinque grandi banche d’investimento americane ha almeno tre conseguenze che a mio giudizio non bisogna esitare a definire “epocali”. Finisce un intero modello di intermediazione finanziaria: un’idea di crescita vorticosa costruita questa volta non più sul rapido crescere dei consumi sostenuti dal debito pubblico come da noi, ma da quello privato, trasformato in alta redditività del capitale con prodotti finanziari sintetici e tecniche di collateralizzazione sempre più in spregio ai fondamentali, per i quali occorre un rapporto prudenziale tra propri asset patrimoniali, impieghi intermediati e rischi di controparte.
Finisce un intero equilibrio geopolitico, basato su una crescita indebitata americana da una parte, e sull’interesse della Cina a reggerne gli squilibri comprandone asset denominati in dollari per miglia di miliardi di dollari, pur di guadagnare in tempi rapidi nuovi e sicuri mercati per le sue merci a basso prezzo.
Finisce, altresì, un’intera concezione del “rischio” alla base dello sconto del capitale come di tutti i fattori che concorrono alla produzione. State attenti a quest’ultimo punto, perché chi dice che un conto è la finanza e un altro la produzione dice solo parzialmente la verità. L’imprenditore è colui che arbitra mezzi definiti per fini prefissi, ma lo fa scontando il rischio separandolo dall’incertezza. Il “rischio” è categoria decisiva per ogni attività economica, ed esso è SOLO finanziariamente definito non da oggi, ma da sempre. Poiché si tratta di ridefinire modalità di valutazione condivisa del rischio per intere classi di impieghi e prodotti finanziari, la conseguenza degli Ias o di una Basilea3 non riguarda solo banchieri e finanzieri, ma CHIUNQUE abbia in mente di esercitare QUALUNQUE attività d’impresa.
Il disastro attuale è che l’aver affermato “nessuna banca può fallire” evoca inevitabilmente un paradiso senza inferno o un governo senza opposizione. Un mercato senza fallimento è esattamente analogo. È una prospettiva autocratica, è la terra ideale per uno Stato che torni a risentirsi “dio”.
Non significa affatto, per chi la pensa come noi, dire no a tutto ciò che solo lo Stato può fare oggi, per ridare agibilità alla liquidità interbancaria e per evitare alle imprese le conseguenze disastrose della stretta creditizia. Ma significa aver ben chiaro in testa, che tutto ciò deve avvenire senza - o nel minor grado possibile - che lo Stato torni a essere e a sentirsi “padrone” . Padrone delle banche e delle imprese, significa essere padrone della vita degli uomini, delle loro possibilità di tradurre in atti e fatti concreti le loro aspirazioni.
Saper dire la giusta misura di “grazie no”, in queste prossime settimane e mesi, sarà il netto discrimine tra politici che abbiano a cuore l’uomo, e altri che contrabbandano per lotta alla paura il proprio desiderio di potenza su altri uomini.


Come sarebbero gli Usa se Obama dovesse battere McCain? - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La corsa alla presidenza sta ormai entrando nella sua fase finale e, per la maggior parte degli osservatori, la mattina del 5 novembre il mondo sarà in ansiosa attesa delle prime parole e dei primi atti del neo-eletto presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. A meno che accada qualcosa di imprevisto, come un attacco terrorista, la necessità di un nuovo coinvolgimento militare degli Stati Uniti, un eccesso di fiducia da parte del Partito Democratico o un numero maggiore di quanto stimato di elettori non disposti a votare un candidato di colore.
L’ultimo dibattito tra Obama e McCain, la scorsa settimana, è stata la migliore prestazione di McCain finora, ma i sondaggi indicano che i suoi sforzi per scuotere la sicurezza di Obama non sono riusciti a superare il distacco a suo sfavore. Anzi, il divario sembrerebbe addirittura aumentato. Se nelle elezioni i Democratici riuscissero a prendere il controllo del Senato con 60 o più senatori (potendo così bloccare eventuali tentativi di ostruzionismo da parte dei Repubblicani), Obama comincerebbe la sua amministrazione come uno dei più forti neo-eletti presidenti nella storia americana.
Infatti, in questi ultimi giorni di campagna, gli sforzi di McCain sono diretti verso gli elettori indecisi, o che comunque voterebbero Obama senza grande entusiasmo, tentando di convincerne il maggior numero possibile che la vittoria di Obama sposterebbe il governo molto più a sinistra di quanto gli americani siano disposti a tollerare. Come ha notato un commentatore favorevole a McCain, nei prossimi quattro anni il presidente Obama si troverà a combattere o con la base ideologizzata del suo partito o con la maggioranza degli americani.
Se ciò dovesse accadere, la vincitrice sarà Sarah Palin, che diventerebbe probabilmente la nuova speranza del Partito Repubblicano. Come ha dichiarato francamente la settimana scorsa: «Non ho niente da perdere», e in effetti, già ora si parla della campagna presidenziale del 2012 come di un confronto Hillary Clinton e Sarah Palin. Obama sa tutto questo e, avendo dimostrato di essere un ottimo politico, sarà molto interessante vedere come inizierà la sua presidenza.
Molto dipenderà da cosa succederà al movimento conservatore. Con la vittoria di Obama sempre più certa, il movimento conservatore comincia a sfaldarsi e le dispute tra i suoi leader sono ormai pubbliche. La settimana scorsa, due dei suoi più famosi membri hanno preso le distanze dalla campagna di McCain e ne hanno abbandonato la causa: Cristopher Buckley, figlio di William F. Buckley, il fondatore del moderno movimento conservatore americano, e Peggy Noonan, autorevole giornalista che scrive per The Wall Street Journal.
Buckley ha appoggiato Obama e Noonan ha accusato Sarah Palin di non aver nessuna stima del pensiero conservatore e di ridurre l’ideologia conservatrice a slogan.
Se Obama dovesse vincere, questo non vorrebbe dire che gli americani hanno rifiutato il pensiero conservatore, bensì che molti conservatori hanno preferito il potere politico all’impegno di educare gli elettori americani.


SCUOLA/ I danni di una demagogia di piazza che trascura le vere riforme e dimentica i tagli intelligenti - Giovanni Cominelli - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Il mese di ottobre è attraversato dalle mobilitazioni di migliaia di studenti e di insegnanti. In attesa dei botti finali: la manifestazione veltroniana del 25 ottobre contro il governo, lo sciopero generale della scuola del 30 ottobre.
A sinistra si favoleggia di un nuovo ’68. “Piacerebbe!”, verrebbe voglia di dire. Dimentichi, i meschini, che le giovani generazioni del ’68 percepivano davanti a sé un futuro utopico, realistica o meno che fosse l’aspettativa.
Nel 2008 il futuro percepito dalle giovani generazioni – e non solo – è distopico, pieno di paure e di incertezze. Dalla distopia storicamente sono sempre nati movimenti di destra. Perciò, parce sepultis.
In ogni caso, in attesa della parusia del nuovo ’68, la fucina ideologica per ora produce solo fumi. Prendiamo i tagli. Solo una demagogia senza confini può sostenere che non sono necessari. Dovrebbero essere intelligenti, questo sì. Ma perché siano intelligenti, occorrerebbe finalmente attuare le riforme istituzionali e ordinamentali già messe sul binario prima da Berlinguer e poi dalla Moratti. Peccato che a suo tempo i due abbiano goduto di analoghi moti di opposizione, in particolare la Moratti. Perciò binario morto. Già Luigi Berlinguer ha fatto notare che l’abolizione dell’ultimo anno delle superiori, didatticamente e pedagogicamente del tutto necessaria, avrebbe prodotto anche un notevole risparmio. Tocca al Ministro e al Ministero renderli intelligenti. Le strade non mancano. È noto, per esempio, che presso parecchie scuole autonome si nascondono “contabilità speciali”, cioè soldi dati dall’Amministrazione alle scuole per bypassare “fastidiose” gare d’appalto. Si tratta di milioni di euro destinati a progetti dalla consistenza culturale incerta e dall’utilità dubbia. Questi “tesoretti” si possono chiudere. Oppure basterebbe vigilare sulle spese per subappalti di cattedre e supplenze in alcune zone del Paese. E per le telefonate a fini di reperimento di supplenti.
L’Amministrazione assorbe un fiume di denaro che si perde in mille rigagnoli nascosti. C’è un modo per eliminarli? Semplificare drasticamente l’apparato ministeriale e puntare sulle autonomie e sulle Fondazioni. Se non si fanno riforme, i tagli orizzontali saranno ottusi. Ma chi convoca o sommuove la piazza contro i tagli è anche contro le riforme. Pretende di bere e fischiare contemporaneamente.
Prendiamo la questione immigrati. Se il fine resta l’integrazione e se la scuola ne costituisce un passaggio strategico, l’inserimento ex abrupto in una classe di un bambino che non parli l’italiano costituisce per lui un trauma e un peso per gli altri. L’effetto è la dis-integrazione, non l’integrazione. Quale ipocrisia può far sostenere l’opposto? Certamente il governo e/o l’ente locale devono finanziare uno spazio/tempo dedicato di integrazione linguistica, preparando il personale. Le scuole gestiscano in modo autonomo l’impresa integrativa. Meglio sarebbe stato un impegno diretto del governo sul punto, invece che affidare una questione così delicata e così strategica alla mozione di una maggioranza parlamentare composita e attraversata da pulsioni spesso divergenti. Ma un arretramento sotto la pressione della piazza e dei sindacati non aiuterebbe di un millimetro la causa dell’integrazione e neppure quella più modesta della ricerca di un impossibile consenso da parte della piazza e dei sindacati. Anche perché la mobilitazione politica e sindacale, che traina quella degli studenti, non ha altro obbiettivo che quello di abbattere il governo o, forse più realisticamente, di accumulare forze per il futuro o di sostenere un traballante Veltroni alla leadership del Pd.
Il destino della scuola interessa poco. Interessano i voti degli insegnanti e dintorni.


LETTERATURA/ Milan Kundera e Vaclav Havel, tra la Primavera di Praga e la Rivoluzione di velluto - Sante Maletta - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Con periodicità inquietante sono portati a conoscenza della pubblica opinione episodi biografici relativi a intellettuali europei, tra i più celebrati e i più politicamente corretti, che gettano una macchia sulle loro vesti sinora immacolate. L’ultima vittima è il grande scrittore ceco Milan Kundera, accusato di avere, giovane studente nel 1950, denunciato alla polizia politica comunista e fatto arrestare un ex-pilota dell’aviazione che collaborava con gli occidentali. Non è questo il luogo per approfondire la questione. Ci basti dire che, anche se l’episodio dovesse trovare conferma, ciò non inficerebbe il grande valore artistico dell’opera di Kundera e non dovrebbe indurre a dimenticare la lotta personale dello scrittore contro il regime comunista, lotta che gli è costata l’esilio.
Ciò che ci interessa è confrontare la traiettoria biografica e intellettuale di Kundera con quella di un altro grande intellettuale ceco, Vaclav Havel, drammaturgo, già presidente prima della Cecoslovacchia e poi della Repubblica ceca dopo la caduta del comunismo. Si tratta infatti di due percorsi emblematici per l’intellighenzia europea.
Kundera si iscrive al Partito comunista cecoslovacco nel 1948 per esserne espulso nel 1950. Iscrittosi di nuovo nel 1956, partecipa alla Primavera di Praga, di cui è uno degli intellettuali più in vista. Ne 1970 viene espulso di nuovo dal partito per la sua opposizione all’invasione sovietica e lascia infine la Cecoslovacchia nel 1975 per stabilirsi definitivamente in Francia. Non fa in tempo, quindi, a partecipare al movimento di Charta ’77, di cui invece Havel è uno dei leader.
Il paragone tra i due scrittori consente di sottolineare l’esistenza di una soluzione di continuità tra tre eventi decisivi per la storia europea del Novecento, quali la Primavera di Praga da un lato e il movimento del dissenso e la Rivoluzione di velluto dall’altro. I protagonisti della Primavera sono i comunisti riformisti (quali Kundera), caratterizzati da un idealismo astratto per quanto sincero e da un comportamento ondivago e ingenuo nei confronti dei sovietici. Havel a tal proposito parla di utopismo. Il tragico fallimento della Primavera permette la maturazione di un nuovo atteggiamento, che evita le polemiche ideologiche con il regime e combatte sino in fondo e a carte scoperte per delle cose concrete. Tale atteggiamento trova formulazione in una sorta di principio, formulato per la prima volta da Havel in una lettera a Dubcek sin dal 1969: un’azione puramente morale, che non ha speranza di avere un effetto politico immediato e visibile, può col tempo essere lentamente apprezzata in modo indirettamente politico.
In altre parole, ciò che emerge a livello di consapevolezza è la presenza in ogni essere umano di qualcosa di assoluto, di assolutamente degno di rispetto, che vale la pena difendere e per cui vale la spesa combattere, senza preoccuparsi dell’esito. Qualcosa che è in gioco nelle circostanze concrete e apparentemente banali della vita quotidiana e che “si annunzia oramai in certi scrupoli, in certi sussulti”. Qui a manifestarsi è in realtà l’essere in quanto tale, qualcosa di misterioso (poiché non lo posso circoscrivere concettualmente) ma anche evidente (poiché non lo poso negare), che è ciò che c’è di più intimo all’io. E l’io stesso è suscitato da tale esperienza la quale, in quanto sussulto, scrupolo, implica una domanda, un appello. In definitiva l’io si costituisce attraverso la risposta a tale appello che avviene nella sua parola ed azione. Come dice il più grande filosofo ceco del Novecento, anche lui leader di Charta ’77 e martire della violenza totalitaria, Jan Patocka, “tutti i doveri morali sono impliciti in ciò che può essere definito il dovere dell’uomo verso se stesso”.
Armato di tale esperienza e di tali riflessioni, Havel attraversa l’esperienza del dissenso (per cui paga prezzi assai pesanti in termini personali), la quale sfocia nella crisi del regime comunista e nell’instaurazione della democrazia. Un esito, per quanto desiderato, del tutto imprevedibile. E l’esperienza dell’assoluto, di un assoluto così concreto da generare una posizione morale capace di scardinare il regime, anima anche lo Havel presidente della repubblica, il quale non nega mai la sua apertura al trascendente. Una posizione apparentemente insostenibile, invece, per il post-comunista Kundera, il cui cammino biografico e intellettuale è caratterizzato da un esito tendenzialmente nichilista, comune del resto a tanti altri intellettuali europei.
In definitiva l’esperienza del dissenso anti-totalitario ci fornisce la prospettiva di un assoluto capace di produrre effetti di liberazione sul piano politico. Si tratta di una prospettiva interessante in un momento in cui l’unica soluzione ai conflitti di valore e di istanze di origine religiosa, che caratterizzano l’agone politico contemporaneo, sembra essere quella di una neutralizzazione dello spazio pubblico.


Lo sciopero è una "bigiata" legalizzata? I vostri commenti si scatenano - Redazione - mercoledì 22 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Manifestazioni e scioperi nella scuola evidentemente pongono serie domande almeno a una parte degli studenti. Dopo la lettera di Cecilia, liceo scientifico di Aosta, questa settimana vorrei soffermarmi sull’articolo di Anna, liceo classico di Crema, e sui commenti pervenuti. Ecco alcuni stralci dell’articolo.
«Personalmente non posso proprio dire di ritrovarmi nella fantomatica “opinione generale” sbandierata ultimamente dai media che sembra trovare tutti d'accordo. […]
Ma a prescindere dal valore più o meno accertato di tali provvedimenti, è lo sciopero il modo migliore di affrontare una situazione di questo tipo? Davanti a una proposta non condivisa, da che mondo e mondo si risponde con una proposta migliore. Decidere di legalizzare la “bigiata” scolastica (da noi si dice così) non mi sembra il modo più ragionevole di risolvere la faccenda. […] Io non sciopero perchè sono sicura che, se condividessi le ragioni delle proteste, non sarebbe funzionale al mio obbiettivo, e non mi renderebbe minimamente appagata o soddisfatta che sia. Caso mai lo sciopero è funzionale alla popolarità dei sindacati, che con la riforma hanno tutto da perdere in quanto a numero di tesserati. Ma, in definitiva, questa non è altro che la modesta opinione di una diciassettenne».
Sembrerebbe normale che una diciassettenne non si ritrovi nella “opinione generale” e la voglia mettere in discussione, pur ammettendo che è solo un’opinione. Invece, ciò viene contestato, come nel commento di Chiara Benvegnù: «Il tuo è il modesto parere di una diciassettenne. Se non ti senti toccata dallo sfascio della scuola pubblica in quanto studentessa modello e benestante, beata te che non riesci a vedere al di là del tuo naso». Commento di un’operaia metalmeccanica in cassa integrazione? No: «Io sono insegnante precaria e non ho idea di che lavoro farò il prossimo anno; [..] ..ogni anno una sede diversa -quando va bene, di solito ho almeno due sedi alla volta, perchè la cattedra intera è riservata a chi è più anziano di me in graduatoria».
Al di là dell’incipit, non penso che Chiara volesse offendere Anna, ma in questo commento credo vi sia tutta la tragedia della scuola italiana: la frustrazione di tanti, troppi insegnanti. Sono sicuro che molti commenti di questo tipo pervenuti a ilsussidiario.net non nascano da ideologia, ma da esperienze difficili, da sogni svaniti, da passioni spente o trasformate in rabbia, magari proprio verso questi ragazzi cui si voleva dedicare la vita.
Eppure Anna si limitava a definire lo sciopero per quello che è per molti dei suoi compagni, una “bigiata” legalizzata e a chiedere un diverso metodo di confronto. Né credo sia l’unica a identificare in questo sciopero un preciso interesse dei sindacati, troppo spesso schierati per uno statu quo a loro conveniente.
Ma, scrive Mario Longo: «Lo sciopero vuol dire "rottura delle trattative", questo perchè non si è voluto dialogare per riformare, ma prendere delle decisioni senza sentire/ascoltare chi nel mondo della scuola lavora da anni». È pensabile che si sarebbe potuto condurre la questione in un modo meno calato dall’alto, ma rimane forte la sensazione che lo sciopero fosse a “prescindere”, per le ragioni anzidette.
D’altro canto, non si può certo dire che analisi, discussioni, progetti sulla scuola siano mancati negli ultimi anni, anzi ci si lamenta delle troppe riforme: nonostante tutto questo dibattito, la scuola rimane un grande problema e ogni tentativo di cambiamento va incontro a più o meno violente resistenze. Come se nel nostro paese tutto potesse cambiare, e interi settori della nostra vita sono stati radicalmente modificati, ma non la scuola, non quel tipo di scuola sorto dalle ceneri del ‘68.
Comunque, l’allarme più grande è il livore che traspare da molti commenti, anche sulla questione delle scuole paritarie e della libertà di educazione, con una difesa dello Stato insolita per noi italiani, usi ad essere accusati e ad accusarci di scarso senso dello stesso. Altrettanto perplessi lasciano quei commenti che sembrano sottintendere che la scuola è una roba esclusiva degli insegnanti e gli studenti come Cecilia e Anna, o le famiglie, debbano solo tacere e pagare. Forse mi illudo, ma sono tuttavia convinto che la maggioranza di chi è nella scuola sia su posizioni molto più costruttive, qualunque opinione abbia della riforma Gelmini.


LA MANO ADUNCA DEI PEDOFILI - SIAMO IN UN PAESE DOVE GLI ORCHI SI MUOVONO AGILMENTE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 22 ottobre 2008
I bambini sono le nostre vittime. Siamo un mondo dove i bambini vengono vio­lati. Tra un mese a Rio de Janeiro si terrà u­na grande conferenza mondiale voluta da Unicef e da altre organizzazioni sul tema dello sfruttamento sessuale dei minori. A Roma ne hanno parlato ieri in un semina­rio dedicato al tema. I dati fanno impres­sione. Il fenomeno è complesso e non di facile rilevazione. L’orrore ha molte facce, molti tentacoli. Il fenomeno della pedo­pornografia e pedofilia virtuale si mesco­la velenosamente sempre con reati che vir­tuali non sono per nulla, e con traumi e drammi realissimi. Nel mondo, come si sa, la tratta dei nuovi schiavi è un business in espansione. Quasi tre milioni di persone, secondo le Nazioni Unite sono vittime del­la tratta. L’80% di questi sono bambini. Molti finiscono poi nel giro dello sfrutta­mento sessuale. E si stima che siano mol­te decine di migliaia i bambini che nei pae­si meta dell’imponente fenomeno del tu­rismo sessuale cadono sotto le grinfie di questa categoria di orchi in viaggio, molti dei quali italiani. In Italia, del resto, sono oltre 400 i reati legati alla pedofilia denun­ciati nel 2006, e ben 11.769 i siti attivi nel nostro paese rilevati come pedofili. La ma­no adunca e tremenda dei pedofili può pu­re contare sullo spalleggiamento di cam­pagne apparente­mente innocue de­dicate alla tenerezza verso i bimbi e verso i minori. I fenomeni di ineducazione e di miseria favoriscono in molti luoghi trat­tamenti crudeli ver­so i più piccoli. Ma come può un adulto piegare alla propria voglia oscura un mi­nore? Come è possi­bile che non ci si fer­mi, che non si op­ponga al montare i­gnobile di un desiderio infame, il tremore di un rispetto, il dubbio di un rimorso? Da che forza nera si lasciano impadronire questi sfruttatori? Malati, si dice. Ma è trop­po poco, o troppo semplice. Perché que­sta è una malattia dell’anima, non un han­dicap congenito. E le dimensioni del fe­nomeno indicano che la malattia è in e­spansione. Ci sono motivi culturali e so­ciali. In Italia, dicono gli esperti, ci sono le leggi giuste per perseguitare i reati. E mol­to viene fatto. Può e deve aumentare la col­laborazione tra vari organismi. E soprat­tutto deve crescere l’attenzione sociale e culturale al fenomeno.
Ogni tanto, la cronaca ci desta dal torpore. Come nel caso del ragazzino di otto anni sorpreso ieri a spacciare per conto del non­no a Palermo. Si devono colpire i singoli casi, ma l’emergenza educativa di cui si parla spesso anche nel nostro paese indi­ca che la priorità di costituire luoghi di ri­ferimento scolastici e no, per i minori e le loro famiglie è una priorità sociale. Un pae­se dove è debole la rete di luoghi attenti al­lo sviluppo dei minori è un paese dove gli orchi possono muoversi meglio. Alla guer­ra - ché di questo si tratta - sul fronte poli­ziesco si deve affiancare una guerra com­battuta dallo Stato e dai soggetti privati e pubblici sul fronte della costruzione di luo­ghi educativi che servano i minori e gli a­dolescenti. Pensando a quanti soldi ed e­nergie gli enti pubblici e spesso anche i pri­vati investono per manifestazioni o fac­cende di poca durata, viene da chiedersi se non ci si stia concentrando su fronti meno importanti, mentre alle nostre spalle di­vampa l’incendio e l’attacco che stermina. La guerra va combattuta cercando di capi­re quali sono i fronti importanti, magari quelli di cui si parla poco sui media. Da tempo scrivo che la bomba su cui siamo se­duti, più ancora che la crisi economica o le querelle della politica, sono i nostri ragaz­zini. La bomba è quel che si agita nei loro occhi, e nei loro corpi. Guardare, capire il fenomeno è una prima urgente responsa­bilità. Così che oltre a fermare la mano con l’artiglio che si alza sui nostri bambini, si possa togliere forza alle mani che hanno la tentazione di alzarsi.


STRANIERI A SCUOLA/1 Integrazione: la lunga marcia dei 600mila - «Le concentrazioni elevate non agevolano il lavoro in classe E finiscono per danneggiare sia gli italiani sia gli stranieri» Le proteste dei genitori «Non dobbiamo avere timore di fare una proposta educativa forte». «Rinunciare al presepio a Natale? Una sconfitta nei confronti del relativismo» - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 22 ottobre 2008
L’ anno scorso erano 574mi­la, i dati ufficiali di que­st’anno non sono ancora disponibili, ma certamente hanno superato le 600mila unità. Gli stu­denti stranieri rappresentano più del 6 per cento del totale a livello na­zionale, ma in alcune zone arrivano a un quarto, un terzo, e talvolta so­no più della metà. A Torino si è rag­giunto il top con una classe ele­mentare dove non c’è neppure un i­taliano. La polemica divampata nei giorni scorsi sulle «classi per l’inse­rimento » che dovrebbero essere ri­servate a coloro che non superano i test d’ingresso – ma la Gelmini ha corretto il tiro spiegando che ci sa­ranno solo corsi intensivi di italiano – è solo l’ultima in ordine di tempo. E va bel al di là degli aspetti didatti­ci e linguistici, riproponendo gli in­terrogativi sulla convivenza da co­struire con coloro che, sempre più numerosi, arrivano da lontano. Con queste sfide si misura­no da tempo migliaia di insegnanti, visto che ormai la presenza di stranieri riguarda il 75 per cento degli istituti. L’integrazione degli stranieri è un proces­so che vanta molti ri­sultati positivi, accan­to a qualche inevitabi­le insuccesso, anche se i media enfatizzano gli aspetti più sensazio­nalistici. Insomma, co­me spesso accade, fa più clamore e trova molto più spazio l’al­bero che cade rispetto alla foresta che silen­ziosamente cresce. Protocolli di acco­glienza, referenti per l’intercultura, fogli informativi plurilingue per le famiglie, spor­telli territoriali per l’in­serimento, mediatori culturali e linguistici.
La nomenclatura delle iniziative messe in campo per favorire l’integrazione è sem­pre più ricca e artico­lata. Molti lamentano un investimento ina­deguato rispetto a un fenomeno che conti­nua a crescere in ma­niera esponenziale.
C’è anche chi fa nota­re che i fondi a dispo­sizione potrebbero es­sere impiegati con più saggezza: ad esempio, meno convegni e più aiuto alle esperienze in atto. Ma un’osserva­zione ravvicinata della realtà rileva che le «buone pratiche», spesso più preziose di tanti manua­li , si moltiplicano, anche se poche (finora) sono diventate modelli da imitare. Il fai-da-te è ancora la stra­da più battuta, e molti insegnanti ammettono di sentirsi impreparati rispetto alla silenziosa rivoluzione che sta avvenendo tra i banchi.
Gabriella Villa è la responsabile del­lo Sportello stranieri di Treviglio: «In provincia di Bergamo ce ne sono un­dici, aiutano i docenti ad affrontare i problemi didattici e quelli legati al rapporto con tradizioni culturali e modi di guardare alla scuola spesso diversi dai nostri. Aumentano gli strumenti didattici a disposizione, si fanno corsi di formazione, con­sulenze, incontri periodici, circola­zione delle buone pratiche. Certo, i problemi non mancano e ai docen­ti sono chieste una flessibilità e una capacità di aggiornamento legate al­la crescente multietnicità. Da que­ste parti l’incidenza degli stranieri è del 9 per cento, tre punti in più del­la media nazionale, ma in alcune lo- calità si raggiungono picchi molto più elevati e non sono mancate le proteste di genitori italiani preoc­cupati che i loro figli diventino mi­noranza o vengano danneggiati nel­l’apprendimento. Qualcuno li spo­sta in altri istituti, altri hanno scelto le scuole private. È chiaro che le con­centrazioni elevate non agevolano il lavoro. Non siamo ancora a livel­lo di guardia, ma si sta già pensan­do di distribuire in maniera più e­quilibrata le presenze, in modo da prevenire proteste, e da evitare pro­blemi, sia agli italiani sia agli stra­nieri: anche loro vengono penaliz­zati quando si superano certe so­glie ». Nove anni fa la maestra Aida Salan­ti, a Cremona, si è trovata improvvi­samente a fare i conti con una clas­se di 22 alunni, di cui solo 10 italia­ni. «È stato uno choc, ma anche u­na salutare provocazione che mi ha costretto a misurarmi nuovamente con le ragioni del mio lavoro. A chi viene da lontano dobbiamo offrire le stesse chances che diamo a chi è na­to qui, e soprattutto una proposta e­ducativa forte e qualificata, con la quale potersi misurare. Nel clima di confusione e di relativismo che per­mea la nostra società, l’emergenza educativa non conosce confini. Tut­to il resto – strumenti didattici, per­sonale specializzato, corsi di aggior­namento – dev’essere in funzione di que­sto ». Oggi Aida Salan­ti è referente per l’in­tercultura nella sua scuola, in cui sono presenti 28 naziona­lità. «Si dice spesso che la diversità può diventare una ric­chezza: ma perché questo non diventi u­no slogan retorico e buonista, è necessario che ci sia il desiderio di un incontro da am­bo le parti e che non si mettano tra parentesi i riferimenti ideali che tengono in piedi la nostra società». Per e­sempio? «Un caso classico, che ogni an­no diventa un tor­mentone: come pre­sentare il Natale ad a­lunni di culture non cristiane? C’è chi s’in­venta la festa dell’in­verno, i canti sulla pa­ce, e altre scorciatoie. Ma se si fanno 15 gior­ni di vacanza, ci sarà un motivo… Perché non spiegarlo, perché non dire che Natale è la memoria della na­scita di Gesù? Spesso il ’rispetto delle diffe­renze’ diventa un co­modo alibi per una certa cultura laicista. Nelle mie classi ho sempre costruito il presepio insieme ai bambini, invitando ciascuno a collabora­re. L’anno scorso un’a­lunna tunisina mi ha portato una statuina di Gesù Bam­bino: ’L’ho scelta con mamma e papà, mi ha detto, è il personaggio più importante del presepio’. A vol­te dagli stranieri ci viene una lezio­ne sul valore dell’identità, che noi i­taliani stiamo progressivamente perdendo. Come se l’identità fosse qualcosa da nascondere o da met­tere tra parentesi perché può dan­neggiare il dialogo».
Una conferma viene da Amanda Diaz, un’educatrice brasiliana, che lavora nelle scuole di Pescara come mediatrice culturale. «I ragazzi stra­nieri, anche quando non sanno e­sprimersi compiutamente, sono ge­neralmente molto più consapevoli e orgogliosi della loro identità, della storia e delle tradizioni delle loro ter­re, rispetto agli italiani. Non è un buon segno, per voi. Come si fa a co­struire un incontro se si ha vergogna della propria faccia?». Forse biso­gnerebbe partire da qui, per imma­ginare un futuro solido per una scuo­la che sarà, piaccia o non piaccia, sempre più multietnica. (1.continua)


la critica «Il governo non rottami le coppie con figli» - - MILANO ANTONELLA MARIANI – Avvenire, 22 ottobre 2008
R ischio rottamazione per le famiglie italiane » , tuo­nano le Acli. « Schizofre­nia di un Paese che cerca un moto­re di rilancio e mortifica l’unica fon­te di sviluppo stabile e organico: la famiglia » , aggiunge il Forum delle associazioni famigliari. Il taglio di un terzo del Fondo per le politiche delle famiglie non è passato inos­servato.
« Nel 2009 non ci sarà neppure un eu­ro per i consultori familiari, per le fa­miglie numerose e per gli assistenti familiari » , constata ancora il Forum. La realtà è proprio questa: se nel 2008 la famiglia ha potuto contare su 273 milioni di euro ( più qualche spiccio­lo), nel 2009 le risorse sono precipi­tate a 186,6 milioni, il 32 per cento in meno. A farne le spese, come ha spie­gato peraltro il sottosegretario con delega alla Famiglia Carlo Giovanar­di nei giorni scorsi davanti alla Com­missione Affari sociali della Camera, è stata la cosiddetta 'Triplice in­tesa': azzerati i finan­ziamenti – erano 97 milioni nel 2007 e al­trettanti del 2008 – per la qualificazione del la­voro delle badanti, per la riorganizzazione dei consultori familiari e per la speri­mentazione di tariffe e servizi ' ami­ci' delle famiglie numerose.
« I tagli ci sono stati per tutti – di­chiara ad Avvenire Giovanardi –. Ma ho cercato di salvaguardare l’impe­gno in settori strategici per il futuro del Paese: così sono rimaste immu­tate le risorse per il Piano asili nidi ( 100 milioni di euro per il terzo an­no consecutivo, ndr) e per le misure di conci­liazione dei tempi di lavoro con i tempi del­la famiglia » .
La polemica ora però si sposta sull’opportu­nità di alcune scelte politiche, ad esempio gli incentivi alla rotta­mazione. Le Acli fanno osservare che « la questione più urgente per le fa­miglie italiane non è comprare una nuova automobile o un frigorifero, ma arrivare alla quarta settimana » . « La risposta alla crisi finanziaria non può andare solo nella direzione del­le banche e delle imprese – aggiun­ge il presidente delle Acli Andrea O­livero –. È urgente e necessario un intervento straordinario per soste­nere le famiglie, un segnale di svolta per iniettare fiducia nella società » .
Delusione anche in Lungotevere dei Vallati, nella sede del Forum delle as­sociazioni familiari. Un breve comu­nicato fa notare che le rottamazioni sono « solo pannicelli caldi che non incidono nel sistema economica » e che « l’unica speranza di vero rilancio è investire sulla famiglia » . Il Forum getta però un ' salvagente' al sotto­segretario Carlo Giovanardi, « sem­pre più solo all’interno del governo » .
Il Forum e le Acli contro i tagli: non serve l’auto ma arrivare alla quarta settimana. Giovanardi: abbiamo fatto il possibile


STORIA. L’austriaco Franz Jägerstätter rifiutò di arruolarsi nell’esercito nazista. Giustiziato nel 1943, ora è beato. Esce una biografia - cattolico contro Hitler - DI ANDREA RICCARDI – Avvenire, 22 ottobre 2008
F ranz Jägerstätter ha giocato la propria vita sulla drammatica alternativa: 'soldato di Cristo o soldato di Hitler'. Si tratta di un con­tadino cattolico di Sankt Radegund, un paesino dell’Alta Austria, a trenta chilometri da Braunau, dove nacque Adolf Hitler. È la vicenda di un uomo comune, un contadino, che finisce con la condanna a morte per il suo rifiuto di essere 'soldato di Hitler'. Jägerstätter aveva scelto di non ser­vire l’esercito del Terzo Reich e di non combattere per la sua affermazione in Europa. Così era andato incontro alla morte.
La sua disobbedienza era contur­bante per lo stesso potere nazista che lo fece condurre lontano dal carcere di Linz, nella regione natia, fino a quello di Tegel a Berlino, per essere condannato. Un 'resistente' in no­me della fede andava isolato, perché non fosse di esempio e il suo spirito non si diffondesse. La resistenza cri­stiana di un uomo solo, a mani nu­de, quella di un semplice contadino, faceva paura all’onnipotente potere hitleriano. Il condannato doveva es­sere giudicato e giustiziato nell’iso­lamento e distante dalla sua terra.
A Berlino, nel carcere di Tegel, Franz Jägerstätter passa i suoi ultimi gior­ni e incontra per l’ultima volta la mo­glie, Franziska. Lì c’erano grandi per­sonalità di resistenti: il noto pastore Dietrich Bonhoeffer, teologo della Chiesa confessante, e il prevosto ber­linese della cattedrale di Sankt Hedwig, Bernhard Lichtenberg, che aveva pregato pubblicamente per gli ebrei durante la notte dei cristalli, quando esplose l’antisemitismo na­zista. Si tratta di grandi uomini di fe­de, ma pure di personalità dal gran­de spessore culturale. Ma come un semplice contadino dell’Alta Austria, qual era Jägerstätter, era arrivato a u­na decisione di questo tipo? Non e­ra un intellettuale e non era legato a particolari circuiti politici o associa­tivi. Era un uomo di fede, un fedele della parrocchia contadina austriaca di Sankt Radegund.
Nient’altro!
Jägerstätter è stato figlio di quella 'civiltà parroc­chiale' che si ritrovava nella liturgia, nella pietà condivisa, attorno alle fi­gure dei parroci. A Sankt Radegund, il parroco è arrestato per una predica antinazista nel 1940.
Questo mondo antico di campagna, alla frontiera con la Germania, non lontano dalla cittadina bavarese dove Joseph Ratzinger passa alcuni anni della sua infanzia, non regge l’impatto con la propa­ganda nazista: la regione si nazistifi­ca dopo l’Anschluß. C’è anche un im­patto 'secolarizzante' del totalitari­smo nazista e dei totalitarismi in ge­nere.
Nel confronto quotidiano con questa realtà difficile, Jägerstätter non si pie­ga né si nasconde nella vita quoti­diana come tanti. La fede è all’origine della 'scelta fol­le' di Franz, compiuta alla fine in grande solitudine, incompreso, iso­lato dalla gente del suo villaggio e dal­lo stesso mondo ecclesiastico. Ma Jä­gerstätter non era un folle, un fana­tico, qualcuno che cercava il marti­rio. Era un uomo normale, radicato nei suoi affetti, legato alla sua fami- glia e alla sua terra. Aveva però capi­to che cosa fosse il nazismo e, come cristiano, non intendeva prestarsi a servirlo in nessun modo. Egli scrive: «Ogni nuova vittoria della Germania, rende noi tedeschi sempre più col­pevoli ». Non bisogna sostenere in nessun modo la Germania hitleriana. Alla luce della sua fede, Jägerstätter sapeva leggere i 'segni dei tempi', per usare un’espressione di Giovan­ni XXIII in voga qualche decennio più tardi. Per lui il nazismo era il segno del tempo del dominio del male.
Questa intuizione lucida del sempli­ce contadino austriaco si staglia nel panorama dello stesso cattolicesimo austriaco che, dopo l’Anschluß fu percepito da Sigmund Freud come una 'canna al vento'. Non dissimile era il giudizio di un 'cattolico obbe­diente', come Jägerstätter: «La Chie­sa austriaca si è lasciata fare prigio­niera e da allora giace in catene…». Ma lui non era un contestatore: «Non dobbiamo però lanciare accuse ai nostri vescovi e preti… - scrive - . Non rendiamo loro, con i nostri rimpro­veri, le cose più difficili di quanto già non siano». Il tempo che i cattolici stanno vivendo è molto duro e non sarà facile uscirne: «Se anche questa dura lotta tra l’essere nazisti e l’esse­re cristiani dovesse finire bene, cre­diamo davvero - si interroga - che la cristianizzazione di un popolo che è caduto così in basso potrebbe pro­cedere tanto in fretta da venir vissu­ta già dai nostri figli?». Jägerstätter non è un contestatore nella Chiesa, ma nemmeno è un uo­mo che cede allo spirito del tempo. Si prende le sue responsabilità e pa­ga con la sua vita e con il dolore del­la sua famiglia. Non intende cedere alla forza del male. Soprattutto non intende essere parte della guerra na­zista. Condivide l’amore della Chie­sa per la pace, che legge nelle parole di Pio XI e di Pio XII.
La storia di Jägerstätter, nonostante si tratti di un uomo semplice, è una grande pagina di umanesimo cri­stiano nel cuore dell’Europa e du­rante il nazismo. È un capitolo di quell’umanesimo che i nuovi marti­ri del Novecento hanno scritto con la loro vita: infatti non hanno credu­to che salvare la loro vita dalla mi­naccia di morte valesse la rinuncia alla fede e all’umanità piegandosi al male. Giovanni Paolo II aveva intui­to con forza, anche grazie alla pro­pria esperienza, come i 'nuovi mar­tiri' rappresentassero una chiave di lettura decisiva per il cristianesimo. È stato lui a riproporre all’attenzio­ne dei cristiani e degli studiosi il gran­de tema del martirio dei cristiani del Novecento, facendolo in un modo o­riginale, non per chiedere vendetta o istigare all’odio, ma perdonando e ri­cordando.