giovedì 2 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI sul "Concilio" di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia - il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì
2) 01/10/2008 10:47 - Bhubaneshwar (AsiaNews) – Una donna è stata uccisa e almeno 300 case di cristiani sono state bruciate nel distretto di Kandhamal (Orissa) a oltre un mese dal pogrom contro i cristiani, lanciato da organizzazioni indù fondamentaliste.
3) “Sperando contro ogni speranza” (Rom. 4,18) - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 1 ottobre 2008
4) QUANTI MODI DI ESSERE PRETE OGGI: IL RACCONTO DI DON ALDO - Ti chiamiamo «padre» - Avvenire, 2 ottobre 2008
5) Presentato «L'inverno più lungo» di Andrea Riccardi - Salvando Roma salvò gli ebrei - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2008
6) Romano Guardini e il senso della Chiesa - L'incantesimo è finito Il cristiano torni alla realtà - Nel 1922 Romano Guardini raccolse nel libro Il senso della Chiesa le sue lezioni tenute l'anno precedente all'università di Bonn. Le lezioni avevano entusiasmato l'uditorio coinvolto in un clima generale di risveglio culturale e religioso. In occasione del quarantesimo anniversario della morte del teologo riproponiamo alcuni stralci dal primo capitolo dell'opera nella traduzione pubblicata nel 2007 dall'Editrice Morcelliana.
7) CRISI FINANZIARIA/ La precarietà dell'economia reale - Giorgio Vittadini - giovedì 2 ottobre 2008-IlSussidiario.net
8) LAICITÀ/ Una parola di cui si abusa, ma alla quale manca la giusta definizione - Redazione - giovedì 2 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) CRISI FINANZIARIA/ Contro la ricchezza virtuale, persone capaci di costruire - Paolo Preti - giovedì 2 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) GEORGIA, PUTIN PERDE LA FACCIA - UN DOPO-GUERRA NEL SEGNO DELL’IPOCRISIA - LUIGI GENINAZZI, Avvenire, 2 ottobre 2008
11) Leggere favorisce l’intelligenza Ma chi lo spiega ai ragazzi? - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 2 ottobre 2008
12) QUÉBEC - LAICISMO E FEDE/1 - Viaggio in una terra che fino a 50 anni fa era considerata la più cattolica del Nord America - Una società malata di relativismo - John Zucchi: non c’è soltanto l’offensiva dell’anticlericalismo alla radice di questa mutazione antropologica - «La rivoluzione silenziosa e la ’resa’ dei cattolici» - Avvenire, 2 ottobre 2008
13) «Diritto a rifiutare cure salvavita» - Sentenza della Cassazione: sempre necessario il consenso Il penalista Ronco: si va ben oltre l’articolo 32 della Costituzione , Avvenire, 2 ottobre 2008
14) Centri di aiuto - Convegno nazionale a Montecatini il 14-16 novembre su bellezza, ragione e diritto - DI CARLO CASINI -Il big bang della vita
15) «Solo una legge può fermare la morte per sentenza» - DI FRANCESCA LOZITO, Avvenire, 2 ottobre 2008
16) argomenti - Quando la libertà diventa ideologia stamy - di Michele Aramini – Avvenire, 2 ottobre 2008


Benedetto XVI sul "Concilio" di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 1 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi in piazza San Pietro, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, riprendendo il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Papa si è soffermato in particolare su il "Concilio" di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il rispetto e la venerazione che Paolo ha sempre coltivato nei confronti dei Dodici non vengono meno quando egli con franchezza difende la verità del Vangelo, che non è altro se non Gesù Cristo, il Signore. Vogliamo oggi soffermarci su due episodi che dimostrano la venerazione e, nello stesso tempo, la libertà con cui l’Apostolo si rivolge a Cefa e agli altri Apostoli: il cosiddetto "Concilio" di Gerusalemme e l'incidente di Antiochia di Siria, riportati nella Lettera ai Galati (cfr 2,1-10; 2,11-14).
Ogni Concilio e Sinodo della Chiesa è "evento dello Spirito" e reca nel suo compiersi le istanze di tutto il popolo di Dio: lo hanno sperimentato in prima persona quanti hanno avuto il dono di partecipare al Concilio Vaticano II. Per questo san Luca, informandoci sul primo Concilio della Chiesa, svoltosi a Gerusalemme, così introduce la lettera che gli Apostoli inviarono in quella circostanza alle comunità cristiane della diaspora: "Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi..." (At 15,28). Lo Spirito, che opera in tutta la Chiesa, conduce per mano gli Apostoli nell’intraprendere strade nuove per realizzare i suoi progetti: è Lui l’artefice principale dell’edificazione della Chiesa.
Eppure l’assemblea di Gerusalemme si svolse in un momento di non piccola tensione all’interno della Comunità delle origini. Si trattava di rispondere al quesito se occorresse richiedere ai pagani che stavano aderendo a Gesù Cristo, il Signore, la circoncisione o se fosse lecito lasciarli liberi dalla Legge mosaica, cioè dall’osservanza delle norme necessarie per essere uomini giusti, ottemperanti alla Legge, e soprattutto liberi dalle norme riguardanti le purificazioni cultuali, i cibi puri e impuri e il sabato. Dell’assemblea di Gerusalemme riferisce anche san Paolo in Gal 2,1-10: dopo quattordici anni dall'incontro con il Risorto a Damasco – siamo nella seconda metà degli anni 40 d.C. – Paolo parte con Barnaba da Antiochia di Siria e si fa accompagnare da Tito, il suo fedele collaboratore che, pur essendo di origine greca, non era stato costretto a farsi circoncidere per entrare nella Chiesa. In questa occasione Paolo espone ai Dodici, definiti come le persone più ragguardevoli, il suo vangelo della libertà dalla Legge (cfr Gal 2,6). Alla luce dell’incontro con Cristo risorto, egli aveva capito che nel momento del passaggio al Vangelo di Gesù Cristo, ai pagani non erano più necessarie la circoncisione, le regole sul cibo, sul sabato come contrassegni della giustizia: Cristo è la nostra giustizia e "giusto" è tutto ciò che è a Lui conforme. Non sono necessari altri contrassegni per essere giusti. Nella Lettera ai Galati riferisce, con poche battute, lo svolgimento dell'assemblea: con entusiasmo ricorda che il vangelo della libertà dalla Legge fu approvato da Giacomo, Cefa e Giovanni, "le colonne", che offrirono a lui e a Barnaba la destra della comunione eccelesiale in Cristo (cfr Gal 2,9). Se, come abbiamo notato, per Luca il Concilio di Gerusalemme esprime l'azione dello Spirito Santo, per Paolo rappresenta il decisivo riconoscimento della libertà condivisa fra tutti coloro che vi parteciparono: una libertà dalle obbligazioni provenienti dalla circoncisione e dalla Legge; quella libertà per la quale "Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi" e non ci lasciassimo più imporre il giogo della schiavitù (cfr Gal 5,1). Le due modalità con cui Paolo e Luca descrivono l'assemblea di Gerusalemme sono accomunate dall’azione liberante dello Spirito, poiché "dove c’è lo Spirito del Signore c'è libertà", dirà nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 3,17).
Tuttavia, come appare con grande chiarezza nelle Lettere di san Paolo, la libertà cristiana non s'identifica mai con il libertinaggio o con l'arbitrio di fare ciò che si vuole; essa si attua nella conformità a Cristo e perciò nell’autentico servizio per i fratelli, soprattutto, per i più bisognosi. Per questo, il resoconto di Paolo sull'assemblea si chiude con il ricordo della raccomandazione che gli rivolsero gli Apostoli: "Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare" (Gal 2,10). Ogni Concilio nasce dalla Chiesa e alla Chiesa torna: in quell'occasione vi ritorna con l'attenzione per i poveri che, dalle diverse annotazioni di Paolo nelle sue Lettere, sono anzitutto quelli della Chiesa di Gerusalemme. Nella preoccupazione per i poveri, attestata, in particolare, nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 8-9) e nella parte conclusiva della Lettera ai Romani (cfr Rm 15), Paolo dimostra la sua fedeltà alle decisioni maturate durante l'assemblea.
Forse non siamo più in grado di comprendere appieno il significato che Paolo e le sue comunità attribuirono alla colletta per i poveri di Gerusalemme. Si trattò di un’iniziativa del tutto nuova nel panorama delle attività religiose: non fu obbligatoria, ma libera e spontanea; vi presero parte tutte le Chiese fondate da Paolo verso l'Occidente. La colletta esprimeva il debito delle sue comunità per la Chiesa madre della Palestina, da cui avevano ricevuto il dono inenarrabile del Vangelo. Tanto grande è il valore che Paolo attribuisce a questo gesto di condivisione che raramente egli la chiama semplicemente "colletta": per lui essa è piuttosto "servizio", "benedizione", "amore", "grazia", anzi "liturgia" (2 Cor 9). Sorprende, in modo particolare, quest’ultimo termine, che conferisce alla raccolta in denaro un valore anche cultuale: da una parte essa è gesto liturgico o "servizio", offerto da ogni comunità a Dio, dall'altra è azione di amore compiuta a favore del popolo. Amore per i poveri e liturgia divina vanno insieme, l’amore per i poveri è liturgia. I due orizzonti sono presenti in ogni liturgia celebrata e vissuta nella Chiesa, che per sua natura si oppone alla separazione tra il culto e la vita, tra la fede e le opere, tra la preghiera e la carità per i fratelli. Così il Concilio di Gerusalemme nasce per dirimere la questione sul come comportarsi con i pagani che giungevano alla fede, scegliendo per la libertà dalla circoncisione e dalle osservanze imposte dalla Legge, e si risolve nell’istanza ecclesiale e pastorale che pone al centro la fede in Cristo Gesù e l’amore per i poveri di Gerusalemme e di tutta la Chiesa.
Il secondo episodio è il noto incidente di Antiochia, in Siria, che attesta la libertà interiore di cui Paolo godeva: come comportarsi in occasione della comunione di mensa tra credenti di origine giudaica e quelli di matrice gentile? Emerge qui l’altro epicentro dell’osservanza mosaica: la distinzione tra cibi puri e impuri, che divideva profondamente gli ebrei osservanti dai pagani. Inizialmente Cefa, Pietro condivideva la mensa con gli uni e con gli altri; ma con l'arrivo di alcuni cristiani legati a Giacomo, "il fratello del Signore" (Gal 1,19), Pietro aveva cominciato a evitare i contatti a tavola con i pagani, per non scandalizzare coloro che continuavano ad osservare le leggi di purità alimentare; e la scelta era stata condivisa da Barnaba. Tale scelta divideva profondamente i cristiani venuti dalla circoncisione e i cristiani venuti dal paganesimo. Questo comportamento, che minacciava realmente l’unità e la libertà della Chiesa, suscitò le accese reazioni di Paolo, che giunse ad accusare Pietro e gli altri d’ipocrisia: "Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?" (Gal 2,14). In realtà, erano diverse le preoccupazioni di Paolo, da una parte, e di Pietro e Barnaba, dall’altra: per questi ultimi la separazione dai pagani rappresentava una modalità per tutelare e per non scandalizzare i credenti provenienti dal giudaismo; per Paolo costituiva, invece, un pericolo di fraintendimento dell’universale salvezza in Cristo offerta sia ai pagani che ai giudei. Se la giustificazione si realizza soltanto in virtù della fede in Cristo, della conformità con Lui, senza alcuna opera della Legge, che senso ha osservare ancora le purità alimentari in occasione della condivisione della mensa? Molto probabilmente erano diverse le prospettive di Pietro e di Paolo: per il primo non perdere i giudei che avevano aderito al Vangelo, per il secondo non sminuire il valore salvifico della morte di Cristo per tutti i credenti.
Strano a dirsi, ma scrivendo ai cristiani di Roma, alcuni anni dopo (intorno alla metà degli anni 50 d.C.), Paolo stesso si troverà di fronte ad una situazione analoga e chiederà ai forti di non mangiare cibo impuro per non perdere o per non scandalizzare i deboli: "Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi" (Rm 14,21). L’incidente di Antiochia si rivelò così una lezione tanto per Pietro quanto per Paolo. Solo il dialogo sincero, aperto alla verità del Vangelo, poté orientare il cammino della Chiesa: "Il regno di Dio, infatti, non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). E’ una lezione che dobbiamo imparare anche noi: con i carismi diversi affidati a Pietro e a Paolo, lasciamoci tutti guidare dallo Spirito, cercando di vivere nella libertà che trova il suo orientamento nella fede in Cristo e si concretizza nel servizio ai fratelli. Essenziale è essere sempre più conformi a Cristo. E’ così che si diventa realmente liberi, così si esprime in noi il nucleo più profondo della Legge: l’amore per Dio e per il prossimo. Preghiamo il Signore che ci insegni a condividere i suoi sentimenti, per imparare da Lui la vera libertà e l’amore evangelico che abbraccia ogni essere umano.


01/10/2008 10:47
INDIA
Orissa: uccisa una cristiana, altre 300 case bruciate
La donna uccisa è Ramani Nayak, una cristiana madre di famiglia. Il marito e le due figlie sono riusciti a fuggire. I feriti sono una diecina. Fra essi un bambino di 8 anni e sua madre. Due giorni prima un uomo è stato torturato per costringerlo a rinunciare alla sua fede cattolica. La polizia appare incapace di intervenire e prevenire gli incidenti che si susseguono da oltre un mese.

01/10/2008 10:47 - Bhubaneshwar (AsiaNews) – Una donna è stata uccisa e almeno 300 case di cristiani sono state bruciate nel distretto di Kandhamal (Orissa) a oltre un mese dal pogrom contro i cristiani, lanciato da organizzazioni indù fondamentaliste.
Quest’ultima violenza è avvenuta ieri alle 4 di mattina. Gruppi di organizzazioni radicali indù hanno sorpreso 3 villaggi cristiani nel sonno e hanno colpito le persone con asce, bastoni, lance e coltelli.
La cristiana uccisa è Ramani Nayak, una madre di famiglia. Il marito e le due figlie sono riusciti a fuggire. Una decina di persone sono state ferite e sono ora all’ospedale di Behampur. Fra quelli più gravi vi è un bambino di 8 anni e sua madre. Dopo aver messo in fuga gli abitanti, i gruppi radicali hanno razziato le case e usato bombe molotov per innescare gli incendi. Le fiamme e il fumo nei tre villaggi continua ancora oggi. Anche una cappella è stata danneggiata.
I villaggi attaccati sono 3 : Rudangia, Telingia e Gadaguda, tutti nel G. Udaygiri Block. Secondo testimoni oculari, la polizia era presente e non ha mosso un dito. Quando alcune famiglie cristiane hanno cominciato a difendersi, i poliziotti sono intervenuti e hanno arrestato 10 persone. Non è chiaro se gli arrestati sono i radicali indù o gli abitanti dei villaggi.
Due giorni prima, un cattolico dell’area di Phiringia è stato condotto all’ospedale dopo aver subito torture da parte di indù che volevano costringerlo a rinunciare alla sua fede cristiana.
La polizia ha imposto di nuovo il coprifuoco nella zona.
Dal 24 agosto, da quando è cominiciata la campagna di violenze contro i cristiani, vi sono stati 60 cristiani uccisi; 178 chiese distrutte e danneggiate; 4600 case di cristiani incendiate; 13 scuole o centri sociali distrutti; più di 50 mila persone in fuga; oltre 18 mila feriti.


“Sperando contro ogni speranza” (Rom. 4,18) - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 1 ottobre 2008
È sperare che è difficile, diceva Péguy. Per sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia. Non è difficile riconoscere l’attualità di questo giudizio dello scrittore francese, morto sul fronte, nel 1913, durante la battaglia della Marna. Oggi la speranza è debole e vacillante, sia nella vita individuale che in quella sociale. Viviamo in un’epoca di crisi, gli intellettuali alla moda non conoscono questa parola che descrive l’esperienza di una vita visitata da “un bene”, appunto, da una grazia, da cui sembra si faccia di tutto per sfuggire in nome di una libertà senza legami. Se però, come ha detto il Papa in Francia, il Verbo si è fatto carne, è diventato un fatto in cui parla la Ragione eterna che ha assunto la nostra carne, allora, la nostra vita è stata toccata dalla Grazia: ci è stato donato un bene che ci permette di sperare per la sua forza presente. Egli è qui, diceva, ancora, Péguy. Dio non è un’idea consolatoria immaginata da noi, ma un fatto che interpella la nostra ragione e il nostro cuore. Allora le parole e le esperienze che capitano possono essere lette con una profondità che affonda le radici in una visione forte della realtà, in una concezione nobile dell’uomo. Una realtà letta come segno, indicatrice di una Presenza; un uomo considerato nella sua dignità infinita che ha commosso Dio, suo Creatore, piegatosi verso di Lui fino a sacrificargli il Figlio per salvarlo dalla corruzione e dalla morte in cui era caduto per superbia. Proviamo, in questa prospettiva, a considerare l’idea che la nostra società sia in crisi. Recentemente Benedetto XVI ha incontrato gli aderenti al movimento Retrouvaille, nato in Canada da due coniugi, diffusosi in Italia per interessamento della Cei. La spiegazione che il Papa ha dato del concetto di “crisi” si può allargare a un contesto più ampio di quello matrimoniale di cui si stava parlando. Nella vita di tutti ci sono momenti di crisi, più o meno serie. Dice il Papa che la crisi costituisce una realtà a due facce, quella che noi riconosciamo, che dichiara dolorosamente il nostro fallimento, e una che Dio vede, a noi spesso sconosciuta. Una crisi non vista come una tomba in cui sprofondare fino a che il tempo permetta di riemergere un po’ più ammaccati e sempre tristi, ma una realtà che possiamo guardare come un segno. “Ogni crisi è passaggio ad una nuova fase di vita”. Passaggio non meccanico, ma che “implica la libertà e la volontà, dunque, una “speranza più grande” della disperazione”. Dove si trova questa “speranza più grande” quando il buio invade il cuore e i pensieri? In un “noi”, dice il Papa, in una compagnia di amici, custodi della speranza perché legati a Colui che dona la speranza dentro la comunione della Chiesa. Il cristianesimo è un fatto che porta nel mondo una novità di vita. Per superare la crisi occorre che l’uomo non sia solo, non si rifugi nelle analisi che frantumano l’io, ma incontri qualcuno toccato dalla Grazia. Questa è la nostra responsabilità. Far parte del “noi” della compagnia di amici che si piega sulle sofferenze di chi ci sta accanto. Affidiamoci a Maria, madre della Speranza. “Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici!”. La gioia che solo la fede può donare.


QUANTI MODI DI ESSERE PRETE OGGI: IL RACCONTO DI DON ALDO - Ti chiamiamo «padre» - Avvenire, 2 ottobre 2008
Il giorno per me incomincia alle 5 del mattino e termina alle 23. Sono un po’ stanco, lo ammetto, ma Gesù è con me tutto il giorno, tutti giorni, così che tutto è più semplice e bello.
Nelle ultime ventiquattro ore ho accompagnato a morire sei malati. Debbo dire che il Cielo gode e l’Inferno freme dalla rabbia, perché la nostra clinica rilascia solo passaporti per il Cielo, e in quattro anni e alcuni mesi ne abbiamo già mandati quasi 600 in Paradiso. Dico così senza spiegare bene come vanno le cose, scusate. Per andar con ordine: sono padre Aldo, e da 19 anni vivo ad Asunción, in Paraguay. Ho innumerevoli mansioni, qui, su cui non voglio dilungarmi, ma tra questa una delle più gratificanti ( oltre che impegnative) è il lavoro nella piccola clinica, dove insieme a medici, infermieri, volontari aiutiamo chi ha bisogno di cure. E qui sono in tanti. Dalla nostra clinica, però, nessuno esce senza aver conosciuto il nome del Signore. Ed eccoci al mio modo dire, cioè che abbiam mandato in Cielo 600 malati.
Come vedete, è il lavoro più bello che ci sia. Perché a cosa servirebbe la vita se non ci fosse il Cielo? E che varrebbe vincere le 99 battaglie della vita se perdiamo l’ultima? Ebbene, io vivo, noi tutti nella clinica di Asunción viviamo perché quanti arrivano qui vincano l’ultima battaglia, perché conoscano il Signore e vadano in Cielo. E non vi dico la rabbia di quello ' del piano di sotto', come lo chiama una delle mie collaboratrici, qui, Lorenza.
Ho da qualche minuto firmato le pagelle dei ' miei' numerosi bambini. Quando sono arrivato alla casa numero 2 erano già tutti a letto. Solo la mamma Cristina, un figlio naturale, Richard, e un bebé di alcuni mesi, Arnaldo, stavano guardando la partita Paraguay- Venezuela ( Lugo contro Chavez), vinta per 2 a 0 dal Paraguay.
Povero Chavez... quante volte il vescovo­presidente l’ha vinta, almeno sul piano sportivo. Ma di nuovo poca chiarezza: la casa numero 2 è una delle case- famiglia che sono nate ad Asunción negli ultimi anni e che accolgono i bambini orfani o provenienti da situazioni familiari drammatiche, per dar loro una via d’uscita dalla violenza, dalla droga, dalla malattia. Per dar loro un futuro. Qui ci sono famiglie che si prestano a ospitarli, e che li accolgono come figli loro. È il caso di Cristina, alla casa numero 2, dove stasera sono passato per controllare le ' mie' pagelle. Mi si chiede di firmare lì dove c’è scritto: padre o madre. E io firmo: padre Aldo. Una bella soddisfazione, molto più grande dei numeri che ci sono dentro: solo qualche sufficienza e per il resto tutto da costruire. Però nessuno è più a 0, ma tutti a 1 ( il sistema dei voti qui funziona così, approssimativamente).
Arrivare a 1 è stata l’impresa più difficile, adesso c’è tutta la vita per crescere e arrivare al massimo. C’è tutto da costruire, questo conta. Dopo la firma li ho guardati mentre dormivano: sono proprio belli, questi miei figli! Dietro i loro volti angelici quanti segni di violenza, di sopruso... Eppure adesso sono contenti nella loro casetta, bella, grande, nuova. Si sentono amati e io, personalmente, li adoro. Guai a chi me li tocca! Sono tutti qui per ordine giudiziario e, quindi, anche protetti legalmente contro ogni forma di violenza. Le cose vanno così, in Paraguay. Io vedo in ognuno di loro il bambino Gesù. E , pensate, mi chiamano ' papi'. Quando li sento provo un’emozione che non vi dico... anche se, data l’età, mi sento più un nonno che un papà. Però papà si è sempre quando la verginità è la forma della vita, mi ripeto.
Guardandoli mi è più semplice capire perché don Giussani, l’ 8 settembre del 1989, mi ha spedito qui. Lui sì che ci vedeva bene... anche con gli ' schizzati' come me, quelli che non sapevano stare al loro posto, che non erano mai contenti, che andavano ' salvati', indirizzati. Invece di mandarmi dallo psicologo, o affiancarmene uno – come giustamente il professor Andreoli ritiene essere importante oggi, coi preti ' moderni' e i giovani seminaristi – lui mi mandò in Paraguay. E ce ne volle di fegato per una simile operazione. Lui ne aveva, come tutte le persone che portano nel cuore un frammento di santità: mi guardò intensamente, per qualche minuto, senza fissare appuntamenti o colloqui, e capì.
Dopo pochi minuti mi aveva già sconvolto la vita. Chi l’avrebbe detto, 19 anni fa, che quel prete un po’ depresso il 10 settembre del 2008 sarebbe stato nominato cittadino ' illustre' di Asunción, con il sindaco che gli consegna le chiavi ella città? È quello che è successo oggi.
Così adesso – ho pensato io appena mi danno la notizia – potrò decidere chi lasciar entrare e chi no. Mi vien da ridere ( anche perché avrei una lunga lista!), ma poi mi viene in mente che le chiavi di questa terra non contano mai molto, che sono quelle di San Pietro che dovrebbero Èpreoccuparci tutti, e che io sono qui per far sì che attraverso quella porta, la porta del Cielo, passino sempre più persone: i miei figli, i miei malati, i figli che verranno, le persone che si ammaleranno. Che faccio di questo ' premio', dunque? Lo dedico alla divina Provvidenza, che mi ha ' fregato', perché in fondo io in tutta questa vicenda, in tutto questo entrare in Paradiso, io non c’entro proprio nulla. O meglio, ho solo una grande responsabilità: quella di essere strumento, di farmi strumento ogni giorno, prendendo sul serio la vita e il mio impegno. E obbedendo alla realtà.
difficile spiegare questa obbedienza. Almeno quanto impararla. Molti anni fa una donna del gruppo degli adulti che seguiamo mi ha chiesto: ma tu a chi obbedisci? Non le ho mai risposto, semplicemente ho detto: per il momento faccio già una grande fatica a obbedire alla realtà... All’epoca l’età e lo spirito un po’ ribelle, devo confessarlo, mi rendevano quasi impossibile obbedire ai miei superiori. Volevo fare tutto di testa mia. Cercavo, invece, e con tutte le mie forze, di obbedire alla realtà: a quello che succedeva, alle situazioni che di volta in volta mi si ponevano davanti.
Oggi, con un po’ più di anni sulle spalle, ho imparato a obbedire ai miei superiori, ma mi piace pensare che tutte questo ' bel casino' che la Provvidenza ha messo in piedi ad Asunción – con i bambini che trovano una casa e una mamma, con i giovani che si appassionano alla scuola e prendono bei voti, con i malati che muoiono recitando l’Ave Maria e l’amministrazione locale che si accorge che queste sono cose ' buone' – non esisterebbe se non avessi cercato in tutti i modi di obbedire anche alla realtà. Certo, molti dormirebbero meglio. Anche io. E non saremmo così stanchi, qui, con tutto il da fare che c’è. Ma i miei figli, i vecchietti assistiti, che gioia vederli sorridere! E io, questo rompiballe che ogni giorno mette a soqquadro il cielo e la terra con il suo mendicare, che fine avrei fatto? Non lo so davvero.
Così, dicevo, pian pianino ho imparato a obbedire a tutto e tutti.
E oggi, il 10 settembre, giorno in cui mi son messo a scrivere di questa ' storia', dopo aver ricevuto l’immeritato premio del sindaco di Asunción, mi ritrovo a commuovermi.
C’era, alla cerimonia, anche il Nunzio apostolico del Paraguay, con le lacrime agli occhi mentre ricordavo e ringraziavo don Giussani, don Massimo e tutti gli amici attraverso cui il Signore ha cambiato la mia vita. Se oggi sono qui, e faccio del bene, è per queste persone e perché il Signore ha deciso di cambiare la mia vita.
padre Aldo Trento Asunción ( Paraguay)


Presentato «L'inverno più lungo» di Andrea Riccardi - Salvando Roma salvò gli ebrei - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2008
È molto probabile che anche Karl Rahner oggi plaudirebbe con trasporto di fronte al nuovo studio di Andrea Riccardi L'inverno più lungo 1943-44: Pio xii, gli ebrei e i nazisti a Roma (Roma-Bari, Laterza, 2008, pagine 404, euro 18) presentato martedì 30 settembre presso la sede romana delle Edizioni Laterza. Il teologo di Friburgo, il 29 febbraio 1964 - e quindi un anno dopo la prima rappresentazione del dramma teatrale Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth - in una conferenza all'Accademia Cattolica di Baviera ebbe a osservare come in ambito conciliare, in quel periodo, si stesse criticando un certo atteggiamento "trionfalistico clericale" per il quale la Chiesa è davvero tutto, e cioè "maestra di popoli nonché saggia e navigata madre degli uomini", sottacendo però come perfino il più pio dei cristiani, pur fedele alla Chiesa e ai suoi principi, possa a volte anche prendere decisioni sbagliate dalle conseguenze pesanti per la vita pubblica e privata. La stessa colpa però, all'inverso - notava Rahner - si riscontra altrettanto spesso tra i laicisti, o nel clero di mentalità laicale. Secondo questi ultimi, ad esempio, "la Chiesa avrebbe dovuto prevedere tutte le conseguenze della svolta impressa dall'editto costantiniano (...) avrebbe avuto la possibilità di evitare tutti gli errori e tutte le conclusioni teologiche precipitate che finirono per condurre poi alla persecuzione degli eretici, alle guerre di religione (...) insomma, a tutti gli eventi più neri della storia ecclesiastica. A loro parere nella difesa degli ebrei, Papa Pio xii avrebbe dovuto procedere in modo completamente diverso - e naturalmente così come la pensano essi oggi".
In effetti il lavoro di Riccardi si pone all'attenzione degli studiosi per una peculiarità di fondo più volte rilevata nel corso della presentazione. Sia il senatore Francesco Cossiga, sia il cardinale Camillo Ruini come pure gli storici Anna Foa e Lutz Klinkhammer, concordano con diversità di sfumature, nel ritenere il volume di Riccardi "opera ad ampio respiro storico intorno a vicende di una complessità drammatica", ove non risalta solo la vicenda degli ebrei e la loro tragica persecuzione, insieme a quella dei loro persecutori, dei collaborazionisti, dei testimoni silenziosi e terrorizzati, ma anche l'azione e la disponibilità dei coraggiosi e anche di una Chiesa che nelle sue diverse componenti - gerarchia, clero, religiosi, religiose e laici - si adopera in moltissimi modi e con evidenti risultati ad accogliere, proteggere, nascondere quanti si trovino in condizioni di pericolo. Gli ebrei innanzitutto; ma non solo gli ebrei. Realtà di fronte alle quali lo studioso ha inteso porsi non come apologeta, né come giudice bensì come idealmente partecipe. Sono situazioni da leggere e da capire ricordando vicende di persone singole, talune umili, altre più famose, alcune delle quali in parte già note e studiate da Riccardi - basti solo ricordare la figura di monsignor Roberto Ronca "alla testa del più grosso centro di asilo e di opera clandestina che era il Laterano extraterritoriale" - ma altre assolutamente nuove, e comunque viste con un ampiezza e una varietà di prospettive inusuali. Il lavoro di Riccardi è del resto un'opera matura, frutto di decenni di ricerche, di indagini, di confronti e di riflessioni significativamente dedicato dall'autore al maestro Pietro Scoppola.
Fu lui che negli anni Settanta, suggerì all'allora giovane borsista, di indagare sulla "resistenza" passiva di Roma. Entrare giorno dopo giorno nella realtà di quei nove mesi che vanno dal settembre 1943 al giugno 1944 peraltro non sarebbe stata impresa semplice, ammette lo stesso Riccardi. Il periodo in questione, dolorosamente segnato dalla funesta giornata del 16 ottobre con il rastrellamento del ghetto ebraico e le deportazioni nei lager, non può non riproporre del resto anche il tema dei "silenzi" di Papa Pio xii. Ma è il Papa per primo ad essere ben consapevole della difficoltà della sua scelta, come un giorno confida apertamente al delegato apostolico Angelo Giuseppe Roncalli.
La posizione del Papa - come ha sottolineato il cardinale Ruini - risulta chiarissima e si comprende alla luce di tre ordini diversi di considerazioni: in primo luogo, una denuncia pubblica si mostra inefficace e controproducente e si volgerebbe a danno dei cattolici e degli stessi ebrei. Ecco allora l'opzione silente e operosa dell'etica della testimonianza. Far parlare i fatti piuttosto che lanciare proclami. Si tratta infine di preservare Roma dalla guerra guerreggiata. Anche la Chiesa del Vaticano ii, ricorda del resto il cardinale Ruini, adotterà un contegno non dissimile nei confronti delle persecuzioni condotte dai regimi comunisti dell'Est europeo richiamando la nota espressione del cardinale Agostino Casaroli "il martirio della pazienza". La Santa Sede aveva infatti sperimentato come nell'immediato dopoguerra, e negli anni Cinquanta, il mutato atteggiamento, di condanna aperta nei confronti delle persecuzioni, avesse sortito effetti devastanti nei Paesi sottoposti al giogo comunista.
Ora nei nove mesi che corrono dall'armistizio alla liberazione dell'Italia, solo una resistenza passiva come si apprende dalla voce stessa - viva e colorita - di alcuni dei più diretti collaboratori del Papa, quali monsignor Antonio Traglia, è l'unica plausibile e attuabile dai cristiani: "Bisogna non rendere più difficile la situazione della popolazione, perché poi si può resistere quando c'è speranza di un risultato... se invece non c'è questa speranza sarebbe da sciocchi. Non se po' fa' la guerra con i manici di scopa contro i carri armati".
Eppure anche così c'è modo di mostrare coraggio, solidarietà e accoglienza. Istituti, case religiose e conventi aprono le porte; nascondono; arrivano perfino a costruire nuove identità agli ospiti. Basti pensare alla false carte d'identità fatte dalle suore benedettine di Priscilla, come ricorda Klinkhammer. Ma la stessa Città del Vaticano diviene rifugio di diversi clandestini più o meno illustri: emblematici i casi di Eva Maria Jung o dello storico del concilio di Trento Hubert Jedin.
Osserva Anna Foa come sia incontestabile l'esistenza di un chiaro piano di coordinamento in tutta questa strategia di aiuti, di accoglienza e di protezione dei perseguitati. Una rete complessa e ben organizzata che peraltro viene a connettersi all'indomani del 16 ottobre. All'inizio il primo moto di solidarietà nei confronti degli ebrei è un fenomeno spontaneo tipico del popolo romano di allora. È questa infatti una Roma indicibilmente diversa rispetto a quella odierna: più piccola, più unita e familiare. E, come ricorda il cardinale Ruini, anche il Papa e la curia sono romani, non solo di nome ma anche di fatto.
Proprio Roma e la sua sicurezza sono la preoccupazione principale di Pio xii. Egli conosce a fondo e da vicino la Germania e il nazismo fin dagli anni in cui è stato nunzio a Berlino e in seguito, da segretario di Stato, primo e più fedele collaboratore di Pio xi, checché se ne dica. Egli soppesa i rischi per l'incolumità della Città aperta e per l'extraterritorialità dello stesso Stato vaticano derivanti da una condanna esplicita. Del resto Riccardi, ad alcuni rilievi sulle fonti d'archivio, sollevati da Klinkhammer ricorda l'esistenza di una lettera indirizzata a Pio xii da alcuni ebrei che dicono testualmente "Non sappiamo neppure suggerire che cosa fare". Alla fine della guerra duemila saranno i morti ebrei di Roma, e diecimila i salvati.
Non è però questione di numeri. Nel volume si ricorda quando il filosofo francese Emanuel Lévinas riferendosi alla tragedia della Shoah parla di sconfitta della cultura cristiana europea. Con analogo atteggiamento Riccardi conclude il suo libro ricordando le parole di una sopravvissuta del 16 ottobre, scampata allo sterminio: "quanti anni sono andati in fumo nei forni crematori dei lager, nel più mostruoso furto della storia?". Non essere riusciti a impedire una simile mostruosità - dice Riccardi - è stata una sconfitta di tutti, tedeschi, italiani, cristiani europei soprattutto. "Per questo anche le storie dei coraggiosi o degli onesti si collocano nel clima cupo di una pagina oscura della storia, che non si presta all'enfasi o all'esaltazione di nessuno." Questo libro di storia su Roma occupata è un esortazione buona per l'uomo di oggi a considerare se stesso e gli altri in una prospettiva di comune e reciproca responsabilità - e compassione fraterna - al di là delle appartenenze e degli schieramenti. E nondimeno di fronte a tanto dolore ci aiuta pur sempre ricordare che il decorso delle vicende non è mai sempre uguale a se stesso. "Anche nelle ore più oscure la storia ha diversi colori".
(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2008)


Romano Guardini e il senso della Chiesa - L'incantesimo è finito Il cristiano torni alla realtà - Nel 1922 Romano Guardini raccolse nel libro Il senso della Chiesa le sue lezioni tenute l'anno precedente all'università di Bonn. Le lezioni avevano entusiasmato l'uditorio coinvolto in un clima generale di risveglio culturale e religioso. In occasione del quarantesimo anniversario della morte del teologo riproponiamo alcuni stralci dal primo capitolo dell'opera nella traduzione pubblicata nel 2007 dall'Editrice Morcelliana.
di Romano Guardini
Si è iniziato un processo di incalcolabile portata: il risveglio della Chiesa nelle anime. Naturalmente questo va inteso nel suo giusto significato. Presente, la Chiesa lo è sempre stata ed ha avuto sempre e in tutti i tempi valore decisivo per il credente che ne accettava la dottrina e ne seguiva i precetti. Con la sua solida, sostanziale realtà essa è stata per lui sostegno e sicurezza. Ma quando, verso la fine del medioevo, l'evoluzione individualistica ebbe raggiunto un certo grado, la Chiesa non venne più sentita come contenuto della vita religiosa vera e propria. Il fedele viveva bensì nella Chiesa e da lei si lasciava guidare, ma viveva sempre meno la Chiesa. La vita religiosa inclinava sempre più verso la pietà personale e quindi la Chiesa fu sentita come limite e forse anche come opposizione a questa sfera dell'individualità; in ogni modo come qualche cosa che imponesse un freno al fattore personale e quindi al vero atteggiamento religioso. E, a seconda della mentalità del singolo individuo, la regola apparve, a volta a volta benefica o inevitabile, o oppressiva. (...)
Ora, su che cosa si basava questo atteggiamento?
Vi abbiamo già accennato: sul soggettivismo e sull'individualismo dei nostri tempi. La religione fu sentita come appartenente soltanto alla sfera della soggettività (...) La realtà oggettiva religiosa, la Chiesa, era per il singolo principalmente un ordinamento del campo della religiosità personale, una sicurezza contro le deficienze della soggettività. Quanto trascendeva tutto questo, l'oggettivo, levandosi in una libera altezza, scevra da determinati fini, stava in generale come alcunché di freddo e spiritualmente rozzo di fronte alla personalità. Perfino il consenso e l'entusiasmo, che gli erano offerti, erano in molti qualche cosa di esteriore e di individualistico che aveva, dal punto di vista psicologico, molta affinità con l'antico patriotismus.
Guardando più attentamente, vediamo che non si era più neppure coscienti che l'oggetto della religione fosse reale. Questa tendenza dominò universalmente la vita religiosa nella seconda metà del diciannovesimo e al principio del ventesimo secolo. (...) In verità, per l'uomo di quell'epoca era dubbio se addirittura esistesse l'oggetto.
Egli non possedeva alcuna coscienza immediatamente solida della realtà delle cose e, in fondo, neppure della propria. Creazioni del pensiero, come il conseguente solipsismo, non posavano su conclusioni logiche, ma erano tentativi di interpretazione di quest'esperienza di soggettività. (...) E questo vale anche per la religione: quanto non era dato immediatamente per via logica o psicologica non aveva più potere di convincere, anzi, senz'altro non convinceva più.
Sicuro era per l'individuo solo quello che egli personalmente provava, sentiva, viveva, sperimentava, e poi inoltre i concetti, le idee e le esigenze del suo pensiero. Quindi anche la Chiesa doveva esser sentita non come realtà religiosa, che riposasse su se stessa, ma come valore-limite del soggettivo, non come vita vivente, ma come istituzione formale.
Anche la vita religiosa era individualistica, dispersa, priva di carattere comunitario. L'individuo viveva per sé: "Io e il mio Creatore" era per molti la formula unica. La comunità non era qualche cosa di originario, ma veniva solo in seconda linea; non preesisteva, ma era pensata, voluta, istituita. Il singolo andava, sì, verso gli altri, si occupava di loro, li chiamava presso di sé; ma non stava intimamente tra loro, non formava con loro una vivente unità. Non vi era comunità ma organizzazione, come dappertutto, così anche nell'ambito religioso. Quanto poco "comunità" si sentivano i fedeli anche negli atti del culto! Quanto poco cosciente della comunità parrocchiale era il singolo fedele! Perfino il Sacramento della comunanza, la "Comunione", veniva concepito individualisticamente.
Inoltre, a rafforzare questa tendenza, venne la mentalità razionalistica dell'epoca. Si ammetteva soltanto quello che si poteva "concepire", "calcolare". Si cercò di rimpiazzare le qualità delle cose, nella loro indistruttibile originarietà, con relazioni di massa determinate matematicamente; di sostituire delle formule chimiche alla vita.
Invece che di anima, si parlò di processi psichici; l'unità vivente della personalità venne considerata come un fascio di stati e di attività. Quel periodo non aveva contatto diretto che con quanto è sperimentalmente dimostrabile. (...) Tutto questo esercitava il suo influsso anche sulla figura della Chiesa, che appariva principalmente quale istituzione religiosa in certo modo utilitaria e giuridica. Ma quanto in essa vi è di mistico, quello che sta dietro agli scopi e alle istituzioni tangibili, quello che è espresso nel concetto del Regno di Dio, del Corpo mistico di Cristo, non era sentito direttamente.
Tutto questo ora subisce una trasformazione profonda. Nuove forze si sono affermate in quelle enigmatiche profondità dell'essere umano dove attingono stimolo e direzione i moti della vita dello spirito. Ora sentiamo la realtà come dato di fatto originario: essa non è più quella cosa dubbia davanti alla quale preferiamo ritirarci nella validità logica, che appare più sicura e più salda. Essa è altrettanto sicura, anzi ancora di più, perché primordiale e più ampiamente comprensiva e completa. Vari sintomi stanno ad indicare che ora si vuol pretendere il reale concreto quale unico dato e riferire ad esso ciò che è valido astrattamente. Non ci dobbiamo stupire di un nuovo nominalismo: questa coscienza della realtà è venuta all'uomo a volte proprio come un'esperienza di vita. Il nostro tempo riscopre formalmente che le cose sono e sono in una determinatezza propria, originaria e creaturale, che non si può sottoporre a calcolo. Il concreto, nella sua illimitata ricchezza, diviene esperienza vissuta e così pure diviene esperienza la felicità di poter osare di penetrarvi e in esso procedere. Ne deriva anche un senso di libertà e di pienezza: io sono reale e reale è questa cosa che mi sta dinanzi nella sua propria determinatezza! Pensare è una relazione vivente che passa da me alla cosa - e chissà? forse anche dalla cosa a me; agire è mettersi in un vero e proprio rapporto con essa: vivere è un reale evolversi, un procedere tra le cose, un aver comunanza con delle entità, un reciproco dare e ricevere.
Sempre più inconcepibile ci appare quella riserva critica che prima era ritenuta perfetta spiritualità ed era come un incantesimo che bandisse gli uomini dalla ricchezza plenaria della realtà in un morto mondo di schemi. Il nuovo idealismo, contro il quale per tanto tempo erano stati vani tutti gli attacchi della logica (...) non ha più bisogno di essere confutato. L'incanto è svanito e ci domandiamo come abbiamo potuto sopportarlo così a lungo. S'attua un grande risveglio alla realtà.
Ed anche alla realtà metafisica. Io credo che nessuno, - a meno che non voglia mantenere una posizione antecedentemente assunta - nessuno che viva l'epoca attuale o magari precorra il tempo, dubiti sul serio della realtà dell'anima. Già si parla di "un mondo delle cose spirituali" il che vuol dire che lo psichico è ritenuto abbastanza reale per vedervi un intero ordine ontologico che trascenda quello sensibile. Per la scienza rimane spesso solo la difficoltà di trovare il passaggio dalla precedente negazione, divenuta dogmatica, al fatto inconfutabilmente chiaro che c'è davvero un'anima.
E altrettanto certamente vi è un Dio. La corrente occultistica e antroposofica - in sé poco consolante - è una prova di quanto forte già sia questa coscienza metafisica della realtà. Di fronte a essa sorge addirittura il compito di mantenere nella pura spiritualità l'idea della anima e di Dio e di lasciare il loro buon diritto alle materie sperimentabili. La stessa tendenza si rivela nella rinascita attuale del pensiero platonico. Le forme spirituali sono considerate come metafisicamente attive e non più soltanto legate alla struttura logica della coscienza. E così è per molto altro.
Così risulta un dato immediato anche la comunità. L'appartarsi in se stessi non vale più, come venti anni fa, quale unica posizione degna di essere tenuta, ma piuttosto appare invece atteggiamento problematico, improduttivo e impotente. L'esperienza che "vi sono gli uomini" è intensamente vissuta come quella che "vi sono cose, v'è un mondo". Anzi questa è ancora più forte, perché ci riguarda più da vicino. Vi è l'altro uomo, come vi sono io. Ognuno mi è congiunto, ma ognuno è anche un mondo a sé, di insostituibile valore. Donde la conseguenza appassionante che noi siamo per natura uniti, siamo fratelli, sorelle! È naturale che il singolo stia nella comunità; questa non si forma solo quando l'uno si volge verso l'altro, o rinuncia a una parte della propria indipendenza, ma la comunità è altrettanto primordiale e fondamentale quanto il compito di portare alla sua perfezione la propria personalità.
Questa coscienza dell'unione fra gli uomini acquista un significato e un carattere proprio: diviene coscienza di popolo. Il vocabolo "popolo" non significa "massa", o "gente incolta" o "primitivi", la cui vita spirituale e il mondo dei valori e delle cose non siano evoluti. Tutte queste interpretazioni vengono dal pensiero liberale, illuministico, individualistico. Ora il tono è del tutto diverso; qualche cosa di essenziale sta sorgendo. "Popolo" è l'unione originaria degli uomini che per specie, paese e evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico.
Queste profonde trasformazioni debbono giungere a valere anche nella comunità religiosa. La realtà delle cose, la realtà dell'anima, la realtà di Dio ci si presentano con nuovo vigore. La vita religiosa nel suo oggetto, nel suo contenuto, nel suo sviluppo, è un'autentica realtà, un atteggiamento dell'anima vivente verso il Dio vivente. È una vita reale rivolta a Lui, non un semplice sentimento o una pura entità ideale. È un obbedire e un seguire, un ricevere e un donare. Il problema, in fondo, non è più: Vi è un Dio?, ma: come è questo Dio? dove lo trovo? quale è la mia posizione di fronte a Lui? come posso giungere a Lui? Non ci si domanda più se, ma come si debba pregare, non se, ma quale ascesi sia necessaria.
In questo atteggiamento religioso s'inserisce in modo vissuto anche il prossimo. È una comunità religiosa, non una semplice giustapposizione di individui singoli chiusi in se stessi, ma di una realtà che trascende i singoli: Ecclesia. Essa comprende il popolo, abbraccia l'umanità, attrae a sé anche le cose, il mondo intero. E così riacquista l'ampiezza cosmica dei primi secoli e del Medioevo.
La figura della Chiesa, del Corpus Christi mysticum, come si presenta nelle epistole di san Paolo agli Efesini e ai Colossesi, acquista una forza tutta nuova. Sotto la guida del suo Capo, Cristo, la Chiesa comprende "tutto quello che sta in cielo, in terra e sotto la terra" (cfr. Filippesi, 2, 10). Nella Chiesa tutto è legato a Dio, gli uomini, gli angeli e le cose. In essa comincia fin da ora la grande rinascita alla quale "tutta la creazione anela" (cfr. Romani, 8, 19 ss.).
Questa unità, però, non è una esperienza di vita caotica, non è soltanto una corrente di sentimento. Si tratta di una collettività che dogma, liturgia e diritto hanno contribuito a formare: non semplice collettività, ma comunità, non solo movimento religioso, ma vita di Chiesa, non una romanticheria dello spirito, ma realtà ontologica ecclesiale.
Questo modo d'essere in comunità è tuttavia sostenuto, come dal circolare pulsante del sangue, dalla coscienza della vita sovrannaturale. Come nella sfera della spiritualità si afferma ovunque la vita - che è tanto enigmatica e pur di tanto immediata penetrazione intuitiva - così accade anche nel sovrannaturale. La grazia è vita reale; l'agire religiosamente è un elevarsi ad un modo di vita più alto; la comunità è comunione di vita e tutte le forme sono forme vitali.
Tutto questo si può riassumere in una parola: la realtà di fatto immensa, la "Chiesa", è nuovamente viva e noi comprendiamo che essa è veramente l'Uno e il Tutto. Intuiamo in parte la passione con la quale l'abbracciarono i grandi Santi che per essa combatterono. Forse, prima, le loro parole ci saranno qualche volta suonate come vuote frasi, ma ora, invece, quale luce si leva! Il pensatore vedrà, estasiato, nella Chiesa l'ultima poderosa riduzione ad unum di tutte le entità. L'artista sperimenterà in essa, con potenza di intima commozione, la grandiosa forza formativa, l'attitudine a trasfigurare, a sublimare tutto il reale per mezzo di un'altissima potenza di chiarità e di bellezza.
(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2008)


CRISI FINANZIARIA/ La precarietà dell'economia reale - Giorgio Vittadini - giovedì 2 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Molti commenti sulla grave crisi finanziaria tendono a minimizzare l’accaduto invocando a testimonianza il modello inglese, che ha scelto la strada dei servizi finanziari ed è cresciuto per un decennio più della media europea. Eppure, sfogliando autorevoli giornali quali l’Herald Tribune e il Guardian, si scopre che persino conservatori inglesi quali James O’Shaughnessy, responsabile della politica e della ricerca, il cancelliere ombra George Osborne e il ministro ombra della competizione Mark Prisk stanno abbandonando tesi fondate sull’ultraliberismo finanziario abbracciate al tempo della Tatcher.
L’idea sostenuta è che anche in Gran Bretagna la finanziarizzazione esasperata dell’economia ha avuto effetti perniciosi nel lungo periodo, con un distacco totale dall’economia reale del mondo della finanza. Prima del 1973 solo il 10% degli investimenti era considerato speculativo mentre oggi è giunto al 90%; oggi solo il 2,3% dei prestiti interni delle banche è destinato all’industria manifatturiera. Ne consegue anche una crescente disuguaglianza distributiva: nel 1976 il 50% più povero della popolazione possedeva il 12% della ricchezza, escludendo le proprietà immobiliari, mentre oggi possiede solo l’1% della ricchezza complessiva e il valore reale dei salari è diminuito. Quale ricetta quindi per un sistema che, al di là delle apparenze, rischia di generare ineguaglianze sempre più grandi e di non supportare più lo sviluppo?
La soluzione non sta in uno statalismo desueto dove le perdite private siano nazionalizzate. Occorre guardare alla situazione reale della gente. Senza nascondersi la necessità di operare una riforma globale del sistema macro-economico, i nuovi conservatori britannici si pongono come obiettivo la possibilità dell’autosufficienza di fasce sempre più grandi della popolazione attraverso la promozione di un’imprenditoria diffusa, una pluralità di forme di proprietà, una facilità ad acquisire capitali da usare per finanziare l’economia reale, un rilancio del sistema economico locale onshore, attraverso la decentralizzazione delle funzioni economiche e amministrative e dei finanziamenti pubblici. Singolare risulta l’assonanza con tesi abbracciate da tempo da Giulio Tremonti nella sua critica al mercatismo: il rifiuto di un semplice ritorno allo stato assistenziale con un taglio alla spesa pubblica; la centralità dell’economia reale, affermata nei fatti dal sostegno alla piccola e media impresa e dalla difesa delle esportazioni italiane; la riproposizione di una finanza privata che sostenga grandi investimenti anche pubblici; il federalismo fiscale, unitamente alla sussidiarietà orizzontale, affermati simbolicamente dal provvedimento del 5 per mille, condizioni per una responsabilizzazione delle comunità locali. Tutto ciò segnala l’esistenza di una nuova filosofia economica che si sta affermando a livello internazionale. Se questa filosofia si affermerà giungendo anche a rilanciare i salari, vero tallone di Achille dell’economia italiana, si potrà vedere una strada non effimera per uscire, non solo dalla crisi finanziaria internazionale, ma anche dalla stagnazione italiana, ad onta di chi si ostina ancor oggi a perseguire modelli ormai desueti.


Il modello Irlanda per la pace in Medio Oriente
Roberto Fontolan
giovedì 2 ottobre 2008
Tempo fa un articolo dello scrittore israeliano David Grossman raccontava della disperata invidia per la riuscita del negoziato di pace tra repubblicani e unionisti nell’Irlanda del Nord. Come hanno fatto, si chiedeva lo scrittore? E qual è la ricetta? Non possiamo applicarla anche qui da noi per trovare una soluzione alla guerra israelo-palestinese? Come facciamo ad imparare il cammino? Fateci un corso, diceva Grossman, fateci partecipare alle vostre riunioni. E aggiungeva: dobbiamo cominciare dalle cose semplici: rivolgerci la parola con interesse reciproco (e non soltanto per affermare la propria posizione), “spendere” del tempo insieme, essere disponibili, manifestare una sincera volontà di incontro, anche personale (forse soprattutto personale). Perché non ne siamo capaci?
Qualche anno dopo, l’intervento pronunciato al Meeting di Rimini 2007 dal giornalista irlandese John Waters (e pubblicato in La verità, il nostro destino, Mondadori Università, Milano 2008) pareva involontariamente rispondere alle questioni poste dolorosamente da Grossman. Egli parlava del premier e del vice premier nord-irlandesi, che per anni erano stati acerrimi nemici e che ora sedevano insieme al governo, sorridenti e amichevoli. Questa immagine «suggerisce che è successo qualcosa di trascendente, qualcosa che supera il normale ambito d’azione della politica». Waters prova a descrivere questo «qualcosa di trascendente»: «Non si è trattato di una riconciliazione sdolcinata realizzata nell’interesse della pacificazione, ma di un profondo rapporto umano che ha superato le barriere ideologiche, storiche e politiche tra questi due uomini… Questa riconciliazione umana è stata alimentata da un contesto assai più ampio, da un profondo mutamento nella cultura circostante e questa riconciliazione personale, di due persone, ha a propria volta alimentato i mutamenti che le hanno dato vita». Cioè ci sono stati pensieri e bisogni che hanno toccato la volontà, che si sono tramutati in parole e decisioni, in programmi condivisi: Waters racconta bene il processo che lui definisce simile «allo sbrinamento di un frigorifero», in cui la pazienza e la determinazione si sono alleate per un lungo tempo.
Tra i due mondi (Medio Oriente e Irlanda del Nord) moltissime sono le differenze che rendono ardui paragoni e somiglianze. Eppure nelle parole di Waters si può scorgere una chiave culturale, un principio che vale a tutte le latitudini. «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo» diceva don Luigi Giussani: è esattamente quello che possiamo scorgere alla radice del lunghissimo e drammatico processo di pace nell’Ulster (e qualcosa di simile si può dire a proposito della fine dell’apartheid in Sudafrica). E anche se nel tempo e nelle circostanze storiche gli uomini cedono alla tentazione di “cambiare metodo”, di abbandonare o censurare il cuore, la verità di questo principio non ne viene offuscata. Non si tratta di una convinzione privata, di una “ispirazione” di coscienza, ma di una dinamica storica, reale, sperimentabile persino in un negoziato politico. Il frigorifero si può sbrinare se qualcuno si mette al lavoro, come hanno fatto gli antichi nemici irlandesi. Cambiano i contesti e le condizioni, quel principio è all’opera dovunque ci sia qualcuno che lo fa suo.


LAICITÀ/ Una parola di cui si abusa, ma alla quale manca la giusta definizione - Redazione - giovedì 2 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La crisi della parola “laicità” si è ben vista la scorsa settimana alla Summer School “Galimberti” su “Religioni e laicità”, organizzata dal Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo. La discussione ha mostrato quella che chiameremo una crisi epistemologica della parola e che ci interessa più dell’inevitabile risvolto etico su cui troppo spesso sono ripiegate le discussioni intorno a questo tema.
Tanto per cominciare, può una parola andare “in crisi”? Sì, quando la sua definizione non coglie più la realtà.
La parola “laico” nell’accezione difesa dalla nostra intellighenzia è l’opposto di “credente”, e dovrebbe identificare la parte più progressista della società, quella più legata all’evoluzione sociale e ai problemi concreti. Declinata sul piano del diritto, “laicità” sancisce un principio “primario” della Costituzione di molti Paesi, soprattutto europei, per il quale lo Stato è neutrale, per non dire indifferente, rispetto ai giudizi di valore dei cittadini.
La crisi è emersa in tutte le battaglie etiche recenti, dal terrorismo alla bioetica, facendo vacillare antiche convinzioni “laiche”. Di queste convinzioni vogliamo qui cogliere – per cominciare un dibattito – la radice epistemologica, ossia ciò che riguarda la conoscenza che esse presuppongono.
L’ex presidente della Corte Costituzionale Zagrebelsky ha spiegato con la solita chiarezza qual è il “nucleo irrinunciabile” di questa visione di laicità: laico è chi è prima un cittadino e poi “tutto il resto”, comprendendo nel “resto” religioni, squadre di calcio, circoli, ideologie di ogni genere e tipo. Insomma, come diceva Rousseau, prima si deve essere cittadini e poi uomini. Il nemico della laicità – conclude l’insigne giurista – è ogni forma di “appartenenza”.
In due parole: se togliamo l’appartenenza, aboliremo l’ingiustizia e fanatismo.
Peccato che questo schema illuminista non funzioni più. L’inter-culturalismo delle nostre società occidentali mostra che nessuno può più riconoscersi in questa visione di laicità se non un pugno di accademici occidentali con la perenne pretesa di insegnare come il mondo “dovrebbe essere”. Indifferente a questi ultimi, la narrazione di sé della gran maggioranza del mondo comprende ogni genere di appartenenze in cui ci si riconosce: dalla religione alla tradizione, dalla squadra di calcio alla marca delle scarpe. Pensate davvero che nelle villas argentine, nei ghetti americani, nelle banlieues parigine (i tipi di società che Zagrebelsky vorrebbe migliorare con la laicità dello Stato) essere prima “cittadino” e poi “tutto il resto” abbia un senso? Del resto, nella vita di ciascuno non è proprio l’appartenenza alla propria famiglia, scuola, squadra di calcio, religione e Paese, che collabora all’identità? Più ancora, non è la propria esperienza di una realtà che ci precede (era già lì quando siamo “arrivati”) che costituisce l’unico uomo che può diventare un cittadino?
Certo, le identità particolari possono sfociare nel fondamentalismo.
Il problema, però, non è la troppa appartenenza, ma quello che ha messo in luce Pennac nel suo libro sulla scuola: le appartenenze sono pericolose quando non sono giudicate (È giusto? È vero? È buono? È bello?). E non sono giudicate quando ci vengono imposte le parole con cui descriverle. Dall’amore privato alla politica, usiamo le parole (e i gesti) imposte dai film e dalle pubblicità, dai professori e dai giornalisti. “Liberare le parole”, connettere esperienza e pensiero è il primo passo per superare l’estraneità che sfocia in violenza e per riconoscere chi sa insegnare davvero. Non c’è da avere paura delle differenze se le parole indicano lealmente un’esperienza della vita perché la realtà mostrerà la propria verità. Sarà l’esperienza a mostrare il “senso comune” che presiede a ogni cultura autentica.
Conviene forse riprendere un’altra definizione di “laico”: quella che oppone “laico” a “clericale”. Clericale è chi controlla il significato delle parole, imponendole a prescindere dall’esperienza, laico è chi usa le parole secondo l’esperienza. In questo senso, il temutissimo Papa che aux Bernardins sostiene che se uno cerca la Vita, deve imparare la grammatica, è più laico di chi ci vuole tutti, a priori, “citoyens”.
(Giovanni Maddalena)


CRISI FINANZIARIA/ Contro la ricchezza virtuale, persone capaci di costruire - Paolo Preti - giovedì 2 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Fino a poco tempo fa ci dicevano, un giorno sì e uno no, che l’Italia rischiava il declino, economico e non solo. Ora le cattive notizie ci arrivano da oltreoceano portandoci anche la paura, questa sì concreta, del contagio. Dobbiamo dedurne di conseguenza che le basi del nostro agire economico non erano, non sono poi così negative.
Messi da parte facili e inutili trionfalismi occorre però non perdere l’occasione per una riflessione sul nostro modo di stare sulla ribalta economica internazionale. È il nostro un modello originale di sviluppo che, con tutti i miglioramenti del caso, va apprezzato e difeso nelle sue peculiari caratteristiche.
Piccole imprese verso grandi dimensioni, finanza come mezzo a sostegno dell’impresa manifatturiera, mai come fine in sé; mercato borsistico come alternativa, anche residuale, al finanziamento imprenditoriale e non come incrocio principale dei destini aziendali; famiglie proprietarie nella maggioranza dei casi fortemente legate nel tempo all’evolversi della dinamica aziendale e non manager troppo spesso mercenari del mercato del lavoro; imprenditori remunerati con parte dell’utile eventualmente prodotto e non chief executive officer autoincentivati con bonus milionari pochi giorni prima del disastro; banche del territorio disposte ancora oggi a premiare l’iniziativa del singolo e non a finanziare la realizzazione di sogni impossibili; un territorio, quello dell’Italia dei comuni che è ancora oggi, nonostante tutto, sinonimo di voglia di fare, ricchezza di rapporti, fiducia reciproca, contrasto all’indifferenza e alla superficialità.
Certo questo nostro modello mostra oggi vistose crepe dove si insinua il dubbio dell’insicurezza e della paura, non tanto e non solo di quella economica, dell’individualismo e della perdita di senso causato dall’inaridirsi delle radici che nel secondo dopoguerra hanno motivato l’azione di tutti e che ha prodotto il benessere diffuso in cui siamo abituati a vivere.
Come nel gioco di bambini del passaparola, così nel passaggio tra le generazioni l’origine del fare si è dapprima sbiadita, poi solo lontanamente riecheggiata, oggi quasi persa. E tuttavia i risultati ci dicono che questo impasto, più o meno incosciente, di tradizione, responsabilità, voglia di intraprendere, percezione, sia pure ridotta, del bene comune, realismo sono in grado di mettere al riparo il Paese e il suo popolo molto più e molto meglio di un mercato lasciato libero di alimentare il bisogno, pur vero, delle persone.
Questo giusto riconoscimento non può coprire, peraltro, le responsabilità di chi ha da sempre zavorrato con sprechi, inefficienze ingiustificate, centralismi fuori dalla storia e contrapposizioni ideologiche questo modello originale di sviluppo. Non ci sono qui categorie da mettere sul banco degli accusati, perché si è trattato di un comportamento che ha spesso interessato trasversalmente tutti: pubblico e privato, sindacato e imprenditori, scuola e lavoro.
La partita tra mercato e Stato obbliga a rimettere al centro la persona come responsabile del proprio destino e l’educazione come strada per approfondire la sua coscienza. Abbiamo toccato con mano che non c’è corso di etica degli affari che tenga, anche quelli delle prestigiose scuole di business statunitensi, e nemmeno leggi in grado di modificare sensibilmente il comportamento economico: opportunistico è e tale rimane.
Meglio riconoscere allora, almeno in economia, l’azione di quelle persone, gli imprenditori, che lontane dalla perfezione astratta dei modelli matematici si assumono quotidianamente responsabilità all’interno delle proprie aziende. Occorre proporre questa figura come immagine positiva, forse la vera risorsa economica del nostro Paese, promuoverne la diffusione e sostenerne lo sforzo.
Riconoscere, non solo simbolicamente, la figura dell’imprenditore può essere utile anche a sottolinearne i doveri sociali, a temperarne l’iniziativa privata nell’interesse della collettività più ampia, ad emarginare figure imprenditoriali, poche per la verità, che, nel loro essere più simili a pirati che a costruttori di imprese, ne danneggiano l’immagine complessiva.
Il nostro modello originale di sviluppo ha bisogno di imprenditori che non perdano nel tempo la voglia di rischiare, che sappiano adattare le proprie competenze e la naturale predisposizione alle mutevoli necessità dell’azienda, che vivano questa straordinaria avventura come realizzazione di sé e servizio agli altri, un misto di fatica e privilegio.
Non eroi, né moderni miti, ma uomini e donne di cui la nostra società ha particolarmente bisogno e a cui essere riconoscenti per la funzione che assolvono.


GEORGIA, PUTIN PERDE LA FACCIA - UN DOPO-GUERRA NEL SEGNO DELL’IPOCRISIA - LUIGI GENINAZZI, Avvenire, 2 ottobre 2008
Limitare i danni di un difficile do­poguerra. Sembra essere questo l’unico vero scopo dei 352 osservato­ri dell’Unione Europea, fra cui 40 ita­liani, che da ieri sono presenti in Georgia. Hanno iniziato a pattuglia­re il territorio ma potranno farlo non oltre la 'fascia di sicurezza', vale a di­re una zona-cuscinetto larga 7 chilo­metri, creata arbitrariamente da Mo­sca al confine con le regioni separati­ste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkha­zia e tuttora controllata dalle truppe russe. La missione Ue dovrà vigilare sul loro ritiro, previsto entro il 10 ot­tobre, e garantire il cessate il fuoco, secondo quanto stabilito dal piano di pace elaborato dal presidente fran­cese Sarkozy. Dovrà insomma impe­dire che riesploda una nuova guerra nel Caucaso. E fin qui va bene.
Vorremmo però ricordare che l’ac­cordo in sei punti sottoscritto da Mo­sca e da Tbilisi prevedeva il ritiro dei rispettivi eserciti sulle posizioni pre­cedenti lo scoppio del conflitto ar­mato l’8 agosto scorso. Ma dopo aver invaso l’Ossezia del Sud le truppe rus­se non hanno alcuna intenzione di la­sciare il campo. Anzi, Putin ha fatto sa­pere che nelle regioni 'liberate' re­sterà un presidio di ben 7600 soldati inviati da Mosca. Bastano loro a man­tenere l’ordine ed a garantire la pace, mentre gli osservatori internazionali (a cominciare da quelli dell’Unione Europea) non potranno mettervi pie­de. E per ribadire il concetto il Crem­lino ha annunciato il riconoscimen­to dell’indipendenza proclamata u­nilateralmente, già parecchi anni fa, dai separatisti dell’Abkhazia e del­l’Ossezia del Sud. I governi occidentali dapprima han­no reagito con grande sdegno. Poi hanno fatto finta di niente. Nessuno ha avuto il coraggio di dire in faccia a Medvedev e a Putin l’ovvia verità: ma quale indipendenza, questa è un pura e semplice annessione! L’Osse­zia del Sud conta attualmente 40mi­la abitanti ed è difficile immaginare, all’inizio del terzo millennio, che l’e­quivalente degli abitanti di un sob­borgo cittadino si proclami Stato, senza alcuna tradizione storica o ba­se giuridica. Nel Caucaso c’è un mi­scuglio di etnie, cosa succederebbe se non solo i ceceni ma anche gli in­gusceti, i daghestani e via dicendo si proclamassero indipendenti? Del re­sto la minuscola Ossezia del Sud non desidera affatto un’impossibile indi­pendenza, vuole far parte della gran­de Russia. Altro che ritorno allo sta­tu quo! L’occupazione russa delle due regioni separatiste durerà a lungo e la Georgia dovrà rassegnarsi a di­ventare una seconda Cipro, l’isola a maggioranza greca la cui parte nord, dopo la guerra del 1974, è occupata dall’esercito turco (e solo ora si sta faticosamente negoziando la riunifi­cazione).
La missione Ue ha preso implicita­mente atto di questa situazione, li­mitandosi a controllare la 'zona cu­scinetto'. La Russia può cantare vit­toria. Ma a ben vedere è una vittoria di Pirro. Nessun Paese, ad eccezione del Nicaragua, l’ha seguita nel rico­noscere l’indipendenza dell’Ossezia del Sud. Neppure la Cina, neppure le satrapie centro-asiatiche alleate di Mosca, neanche la fedele Bielorussia. E con l’Occidente forse non si è tor­nati alla guerra fredda ma certo sia­mo di fronte ad una pace molto tie­pida. Putin ha vinto la guerra con la Georgia ma ha perso la fiducia degli ambienti internazionali. Gli investi­menti stranieri in Russia si sono di­mezzati (da 80 a 40 miliardi di euro) e la Borsa di Mosca, ancor prima del­la recente bufera finanziaria, aveva cominciato a scendere a picco du­rante la guerra d’agosto e oggi perde il 53% rispetto all’inizio dell’anno. La Russia mostra i muscoli ma ha i pie­di d’argilla.


Leggere favorisce l’intelligenza Ma chi lo spiega ai ragazzi? - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 2 ottobre 2008
Quanto vale leggere? Gli Stati generali dell’editoria italiana, in corso a Roma, sono attraversati da questa domanda. Quanto vale in termini economici, certo. Ma anche e soprattutto quanto vale in termini di miglioramento di qualità della vita. La questione è seria. Non è detto, come dimostra la storia di personalità divenute famose per la capacità di compiere malefatte o addirittura orrori, che leggere migliori le persone. Grandi tiranni o grandi delinquenti hanno letto più libri di tanti poveri cristi che non han mai fatto male a nessuno. E come diceva un grande poeta francese, si può aver letto tutti i libri eppure avere la 'carne triste', ovvero un’esistenza non più aperta alla speranza. Ma di certo – e il dato è importante – leggere migliora il rendimento intellettivo. Il sociologo De Lillo, presentando ieri una ricerca dell’Istituto Iard, ha indicato in mezzo punto l’aumento del voto medio scolastico per i ragazzi che leggono di più. In particolare, ogni 10 libri letti in più nei sei mesi precedenti producono l’elevarsi medio di mezzo punto del voto scolastico.
E dunque, poiché non sono propriamente tanti i nostri ragazzi che leggono mediamente 10 libri in 6 mesi, ecco spiegata una delle ragioni per cui i nostri ragazzi sono dietro ai loro coetanei portoghesi, spagnoli, tedeschi, olandesi, irlandesi e svedesi nella capacità media di comprendere i testi. Da noi i quindicenni che mostrano difficoltà nell’affrontare testi scritti sono oltre il 26%. La ricerca ricorda pure che in Italia la spesa per la Pubblica Istruzione è intorno al 4,5%, metà della Danimarca, e dietro di più di un punto a Francia e Svezia, per esempio. Non solo lo Stato spende di meno per l’Istruzione, ma anche le famiglie stanno spendendo meno. I dati però non spiegano tutto, poiché ad esempio in Irlanda la spesa è più bassa che da noi, ma il rendimento qualitativo degli studenti è più alto.
Insomma, sono dati che vanno considerati con attenzione e hanno comunque ragione all’Aie che ha titolato i suoi Stati Generali 'Più cultura. Più lettura. Più paese.
Scommettere sui giovani'. Titolo impegnativo, specie per chi ha la responsabilità di offrire ai giovani gli strumenti con cui formarsi. Se infatti il governo è fortemente richiamato a riscuotere l’Italia dalla posizione di fanalino di coda europeo per investimenti nella Istruzione, d’altra parte famiglie e editori devono farsi domande serie sulla qualità di quanto propongono ai ragazzi. Non si può dire, infatti, che in Italia non siano a disposizione libri e luoghi dove trovarli – anche se, per quel che riguarda sud e isole si può fare ancora molto, e i dati di cui sopra andrebbero visti scomposti anche territorialmente. Certo è che la lettura è come una bella malattia: non ne guarisci se incontri bei libri, persone di qualità che a scuola o in famiglia te ne mostrino il valore, e un’offerta che non badi solo a seguire fenomeni alla moda per trarre facili profitti. Se leggere ha indubbiamente un effetto positivo in termini di rendita intellettuale nelle giovani generazioni, l’educazione alla lettura va incrementata. Ma, appunto, l’educazione non è un fenomeno semplice. Né ottenibile solo con l’aumento pur doveroso dei finanziamenti o con iniziative spot. Occorre una lavoro profondo e alacre a livello di insegnanti e di genitori perché la lettura sia indicata ai ragazzi come uno dei modi migliori per diventare se stessi, e per scoprire il mondo con intelligenza. La lettura, infatti, è in genere un’azione dove l’ascolto di una voce altrui invita ad ascoltare la voce della propria vita e della vita intorno a sé. Perciò favorisce la intelligenza. Nella maggior parte dei casi si è invitati alla lettura grazie all’incontro con qualcuno che, avendo stima della nostra umanità, ci ha indicato libri, ce ne ha suggerito ipotesi di lettura, ce ne ha mostrato la bellezza. La carenza di lettura, comunque la si giri, indica un’assenza di maestri e di incontri amichevoli e autorevoli.

QUÉBEC - LAICISMO E FEDE/1 - Viaggio in una terra che fino a 50 anni fa era considerata la più cattolica del Nord America - Una società malata di relativismo - John Zucchi: non c’è soltanto l’offensiva dell’anticlericalismo alla radice di questa mutazione antropologica - «La rivoluzione silenziosa e la ’resa’ dei cattolici» - Avvenire, 2 ottobre 2008 - DAL NOSTRO INVIATO A MONTREAL
E ra un Paese profondamente cattolico. Ogni villaggio, ogni fiume del Québec rurale porta il nome di un santo. Negli anni Venti, dicono le statistiche, addirittura una donna maggiorenne su 11 era suora. Da qui alla frequenza alla messa del 5%, cosa è successo in Québec?
John Zucchi, docente di Sto­ria alla Mc Gill University e traduttore in Canada dei li­bri di don Giussani, spiega: «Prima della guerra, tutto in Québec era in mano alla Chiesa: ospedali, sindacato, scuola, tanto che solo nel ’64 è nato il ministero dell’I­struzione. Tra il 1935 e il 1959 i governi del conserva­tore Maurice Duplessis ave- vano stretto con la Chiesa cattolica un’al­leanza forte, ma anche strumentale. Poi, ne­gli anni Sessanta scoppia quella che noi chia­miamo la 'rivoluzione tranquilla'. L’influs­so della cultura marxista e l’esplosione del­lo statalismo incrociano l’impatto del Con­cilio Vaticano II. Numerosi sacerdoti ab­bandonano la veste. La Chiesa pare ritirarsi su sé stessa. Prende piede, nella generazio­ne che oggi ha 50 anni, un visibile rancore verso ciò che è cattolico. Nel 1985 all’uni­versità io non potevo permettermi di parla­re positivamente della Chiesa, gli studenti, francofoni e cattolici di origine, non lo tol­leravano. La nostra è la generazione più a­mara ».
Quella che, anagraficamente, ora è al go­verno, e nei media, marcati da un netto an­ticlericalismo…
Sì, anche se occorre dire che non tutta la lai­cizzazione del Québec è opera di una cultu­ra radicale. Le leggi su aborto e divorzio so­no dovute a governi liberali, moderati, a po­litici anche cattolici. Fino a questa legge che bandisce l’insegnamento confessionale dal­le scuole, e che pure viene da un governo moderato. Uno degli estensori del progetto del nuovo Corso di etica, George Leroux, as­sume in fondo la tesi kantiana dello Stato che si appropria della religione, per farne u­na religione di Stato.
In Québec con il forte flusso dell’immigra­zione si affronta anche il problema della convivenza religiosa…
Ci sono state molti processi concernenti la 'accoglienza ragionevole', la conciliazione degli usi degli immigrati con quelli tradizio­nali. Poi il Governo ha commissionato una grande indagine nel Paese, alla ricerca di possibili soluzioni. In realtà però i nuovi ar­rivati in genere non mostrano alcun fastidio per le croci sugli edifici. Il multiculturalismo è usato come alibi da una cultura laicista che vuole semplicemente ridurre la fede reli­giosa a uno spazio privato.
L’aggressività del laicismo, soprattutto fra gli intellettuali e nei giornali, basta a spiegare il crollo della pratica cattolica in Québec?
Da un lato, nell’onda della 'rivoluzione tran­quilla' e poi del ’68 la Chiesa qui si è senti­ta messa ai margini, irrilevante. E forse si è andata anche dimenticando del fonda­mento, della sua prima radice. Oggi, gli a­dulti sono ancora spesso ostili. I ventenni, in­vece, del cristianesimo non sanno quasi niente, e sono più disposti ad ascoltare. A volte però il rischio è il pietismo, un cristia­nesimo privato che rinunci a incidere sulla realtà.
E da quest’anno, a scuola, l’Etica di Stato. Per i cattolici uno schiaffo, ma forse anche una sfida.
Marina Corradi


«Diritto a rifiutare cure salvavita» - Sentenza della Cassazione: sempre necessario il consenso Il penalista Ronco: si va ben oltre l’articolo 32 della Costituzione , Avvenire, 2 ottobre 2008
DA MILANO
Una sentenza della quarta sezio­ne penale della Cassazione (nu­mero 37077) ha condannato per lesioni colpose un medico che a­veva praticato una terapia farmacolo­gica sperimentale a una ragazzina di 12 anni senza informare correttamen­te la famiglia e ottenerne il consenso. La Suprema Corte è tornata a sottoli­neare che il consenso è sempre neces­sario per praticare terapie, visto che il paziente ha diritto a scegliere le cure cui vuole o non vuole essere sottopo­sto, comprese quelle salvavita. «Se è ve­ro che non si può obbligare nessuno a farsi curare – puntualizza il giurista Mauro Ronco – non si può stabilire un diritto del paziente a rifiutare le cure». La sentenza della Cassazione riguar­da il caso di una dottoressa di Pistoia, Donatella M., che fu condannata dal­la Corte d’appello di Firenze per lesio­ni colpose gravi nei confronti di una dodicenne, sua paziente per la cura dell’obesità. Il medico aveva sommi­nistrato un farmaco off label (cioè fuo­ri dai protocolli autorizzati) senza ot­tenere un adeguato consenso infor­mato, che doveva prevedere anche l’il­lustrazione dei possibili effetti negati­vi del farmaco. Che non tardarono a farsi sentire: sonnolenza, incubi, emi­crania, eccitabilità, allucinazioni. Di qui la causa.
I giudici però, per spiegare la condan­na, ampliano di molto il discorso fino a sostenere che «nel rispetto del dirit­to del singolo alla salute, tutelato dal­l’art. 32 della Costituzione» il criterio di disciplina della relazione medico­malato è quello della libera disponibi­lità del bene salute da parte del pa­ziente in possesso delle capacità intel­lettive e volitive, secondo una totale au­tonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve sempre essere rispettata dal sanitario».
Una tesi che non convince Mauro Ron­co, docente di diritto penale all’Uni­versità di Padova e presidente dell’Or­dine degli avvocati di Torino: «Vanno distinti due punti rilevanti. Il rifiuto del­le cure è una situazione in cui non c’è possibilità di disporre coercitivamen­te una cura. Ma dall’impossibilità di imporre una terapia non si può rica­vare il diritto a rifiutare le cure. È sba­gliato creare un diritto assoluto della persona alla disponibilità della propria salute, che va ben aldilà dell’articolo 32 della Costituzione (pensato per evita­re trattamenti che violano la dignità u­mana) e stravolge il significato dell’al­leanza terapeutica tra medico e pa­ziente ». (En.Ne.)


Centri di aiuto - Convegno nazionale a Montecatini il 14-16 novembre su bellezza, ragione e diritto - DI CARLO CASINI -Il big bang della vita
È dal 1980 che una volta all’anno gli operatori dei Cav ( Centri di aiuto alla vita) d’Italia si riuniscono per fare il punto sulla tutela della vita nascente. La convocazione riguarda anche i Movimenti per la vita dato il loro collegamento con i centri. L’invito è rivolto anche ai molti che già operano in altre Associazioni e a quanti desiderano comunque offrire un contributo volontario alla causa della vita.
Di fatto, anno dopo anno, il convegno è stato uno stimolo alla crescita dei Cav ed anche una occasione di confronto con la società civile.
Vi è un obiettivo «interno» di carattere organizzativo ed un obiettivo «esterno».
Nell’anno in cui ricorre il 30° anniversario della legge 194/1978 questi due obiettivi devono essere calati nell’attualità.
Abbiamo più volte scritto e detto che non possiamo rassegnarci alla gridata immutabilità della legge 194; abbiamo constatato il crescere di una « preferenza per la nascita » , che, per quanto debole nell’affermare il diritto alla vita, tuttavia sta liberando il concetto di prevenzione dalla gabbia della contraccezione e valorizza l’aiuto alle maternità difficili o non desiderate come liberazione della c. d. « necessità » di abortire; abbiamo ascoltato le promesse elettorali di « far tutto il possibile per evitare l’aborto e favorire la nascita » ; abbiamo orientato tutto il mondo pro- life ad accettare una logica di gradualità realistica che non si contenta della giusta protesta contro la legge ingiusta, ma cerca gli spazi immediati per cambiamenti che salvino la vita nel maggior grado del possibile; abbiamo elaborato già dettagliate proposte; abbiamo offerto l’esperienza dei Cav e documentato così che è possibile difendere il diritto del figlio anche nelle condizioni più difficili stando accanto alla madre e non contro di lei.
Il titolo generale del Convegno, «Il big bang della vita: bellezza, ragione, diritto » , esige uno sguardo concentrato sul momento di passaggio dal nulla all’esistenza. La scienza moderna chiama « Big bang » quel momento collocato a 13 miliardi e 800 milioni di anni dall’oggi in cui, nelle dimensioni di un punto esplosivo, è cominciato l’universo. Ben più stupefacente è il comparire attuale di ogni uomo nel mondo dell’esistenza.
Il concepito reca in sé la meraviglia del passaggio dal non essere all’essere. La dignità umana improvvisamente compare ed accanto allo stupore invoca lo sguardo della ragione e del diritto. Il primo problema è sapere se la comunità degli uomini quando non vieta più l’aborto non rinuncia almeno, a difendere l’esistenza stessa del concepito, il suo diritto a vivere con strutture e efficacemente, univocamente, fortemente manifestino che le istituzioni sono comunque dalla parte del diritto alla vita. La radicale riforma dei consultori familiari che noi proponiamo si colloca in questo ambito.
Ora è giunto il momento della verifica.
Per questo, a Montecatini, sottoporremo la nostre proposte al vaglio della politica in una tavola rotonda dal titolo: «Le istituzioni a servizio della vita umana » , cui parteciperanno responsabili del governo centrale, regionale e dell’opposizione (14 novembre pomeriggio).
Sappiamo bene che la legge 194 non ha ridotto il numero degli aborti, ma vogliamo verificarlo con il rigore delle indagini statistiche, approfondendo anche la questione demografica. Successivamente ( 15 novembre) si svilupperà lo studio della evoluzione culturale e psicologica della maternità accolta e negata oggi e delle nuove esperienze di servizio alla vita ( corsi di formazione, presenze nei reparti di ostetricia, interventi nelle sindromi post aborto, situazioni estreme dell’amore paterno e materno).
Come di abitudine le relazioni e le tavole rotonde saranno seguite dal lavoro dei gruppi di studio ( pomeriggio del sabato) e dalle conclusioni della domenica 16 novembre.


«Solo una legge può fermare la morte per sentenza» - DI FRANCESCA LOZITO, Avvenire, 2 ottobre 2008
Legiferare per una sola ragione: difendere la vita sino alla fine. Ne è convinta Elisabetta De Septis, avvocato e docente di Biodiritto presso il biennio specialistico in Bioetica del «Marcianum» di Venezia. Alla vigilia ormai dei due pronunciamenti attesi per mercoledì prossimo dalla Corte costituzionale e dalla Corte d’Appello di Milano (vedi box in questa pagina) è opportuno mettere a fuoco
alcuni punti fermi.
Perché la sentenza della Corte d’Appello di Milano con cui si dà via libera alla sospensione di idratazione e alimentazione a Eluana Englaro è uno spartiacque nel dibattito etico e giuridico?
«Il decreto della Corte d’Appello del luglio scorso si ricollega, come noto, alla sentenza della Cassazione dell’ottobre 2007, che aveva posto le premesse giuridiche per autorizzare il distacco del sondino che alimenta e idrata Eluana, ponendo due condizioni: l’irreversibilità dello stato vegetativo della paziente e l’accertamento della sua presunta volontà riguardo all’interruzione del trattamento, per la cui constatazione demandava alla Corte d’Appello di Milano. Sono decisioni senza precedenti: in mancanza di dichiarazioni scritte di Eluana sono stati riconosciuti effetti giuridici alla sua volontà anticipata 'ricostruita' attraverso elementi tratti dal suo 'vissuto', dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni. C’è stato un sostanziale riconoscimento giurisprudenziale di dichiarazioni anticipate non scritte, ancor più problematico perché offre minori garanzie e si presta a più ampi abusi rispetto a eventuali dichiarazioni disciplinate con una legge, che ancora non c’è».
Ora però alla Cassazione di un anno fa (prima sezione civile) si contrappone la Cassazione di pochi giorni addietro (terza sezione civile) sulla causa intentata per danni morali da un testimone di Geova trasfuso in situazione di emergenza contro la sua volontà, manifestata attraverso un talloncino con scritto 'no sangue'.
Quali le analogie e quali le differenze?
«Qui la Cassazione, non reputando sufficiente il talloncino, ha ritenuto necessario un documento scritto, che il paziente deve tenere con sé, con dichiarazioni anticipate articolate e puntuali. La sentenza emessa per il caso Englaro prescinde invece da un documento scritto. Sia dall’una che dall’altra pronuncia emerge comunque un importante segnale: la redazione in forma scritta di dichiarazioni anticipate di trattamento si rivela necessaria o quanto meno preferibile, al fine di evitare conseguenze peggiori».
Se si arrivasse all’irreparabile, ovvero al distacco del sondino di Eluana, altri pazienti in condizioni simili correrebbero il rischio di fare la stessa fine?
«Di per sé nel nostro ordinamento le sentenze producono effetti limitatamente al caso concreto e alle parti in causa e non costituiscono un precedente vincolante .Temo però che, di fatto, il caso di Eluana possa essere interpretato come tale da altri malati e soprattutto dalle loro famiglie, anche perché le decisioni della Cassazione hanno la funzione di favorire l’uniformità della giurisprudenza e vi è un continuo richiamo a esse da parte dei Tribunali».
E una legge sul fine vita potrebbe evitare questa deriva eutanasica, rafforzata ancora ieri da un nuovo pronunciamento della Cassazione (quarta sezione penale)?
«Le dichiarazioni anticipate, eventualmente disciplinate dalla legge, potrebbero contemplare una volontà tesa solo al rifiuto dell’accanimento terapeutico o di interventi di rianimazione. Non potrebbero in alcun modo invece avere per oggetto o comunque legittimare pretese eutanasiche o di abbandono terapeutico. E questo deve esser chiaro, anche nel testo della legge. La vita è inviolabile e indisponibile.
Un’eventuale futura legge non potrebbe porsi in contrasto con questi princìpi, che sono fondamentali nel nostro ordinamento giuridico».
Quali contenuti dovrebbe avere una legge davvero dalla parte dei malati e delle loro famiglie?
«Non si tratta, evidentemente, di una legge qualsiasi, riguardando la vita. Ritengo perciò indispensabile una legge che preveda tutte le garanzie e le cautele possibili per impedire qualsiasi inaccettabile abuso. La legge dovrebbe evitare che le dichiarazioni anticipate siano fonte di ulteriore burocrazia che si frapponga tra il medico e il malato (che ha espresso la sua volontà anticipata) con i suoi familiari, a scapito dell’alleanza terapeutica. Le dichiarazioni anticipate dovrebbero essere la 'fotografia' dell’autentica e circostanziata volontà del paziente, personalizzata il più possibile e periodicamente revisionata, correttamente formulata, anche in termini medici, senza dar adito a dubbi e a problemi di interpretazione».
Le sentenze di Cassazione e Corte d’Appello sul caso di Eluana hanno creato «una situazione senza precedenti» Occorre porre un argine allo strapotere di pronunce che mettono a repentaglio la vita come bene indisponibile I punti fermi della bio-giurista Elisabetta De Septis


argomenti - Quando la libertà diventa ideologia stamy - di Michele Aramini – Avvenire, 2 ottobre 2008
La società 'liquida', se­condo la fortunata defi­nizione di Zygmunt Bau­man, è quella in cui tut­to cambia velocemente, ma anch’essa sembra a­vere qualche punto fermo. Uno di questi è la convinzione che ogni aspetto della propria vita debba essere regolato in piena auto­nomia e che si possa disporre anche di se stessi, della propria salute e perfino della propria vita. È questo il motivo per cui sembra crescere un certo favore nei confronti del testamento biologico e dell’eutanasia, quali espressioni di un nuovo di­ritto: quello di allargare il campo della libertà per­sonale fino al punto di poter decidere quando mo­rire.

In questa situazione, dopo il fallimento della campagna per convincere la gente dei 'benefi­ci' dell’eutanasia, i suoi sostenitori stanno cer­cando di introdurre il progetto eutanasico attraverso il più soffice motto «nessuno deve decidere per me», con l’invito a dettare indicazioni precise ai me­dici, quali il divieto di rianimare, l’obbligo di so­spendere il sostegno del respiratore, il rifiuto del­l’alimentazione e dell’idratazione o la richiesta di somministrare analgesici in dosi mortali. In tal modo il testamento biologico diventerebbe la por­ta d’ingresso dell’eutanasia vera e propria.
In effetti la libertà è elemento essenziale dell’i­dentità umana, ma la libertà dell’uomo non è as­soluta come affermano alcuni odierni discepoli di Hegel o altri esponenti di un più banale indivi­dualismo.

In realtà essa si definisce e si precisa innanzitut­to nella relazione con gli altri uomini e nel ri­conoscimento degli uomini di avere un debito reciproco, debito di cura e di responsabilità. La ve­ra libertà è anche responsabilità e dono di sé agli altri. La stima che abbiamo di noi stessi dipende dalla stima e dalla vicinanza che gli altri hanno ver­so di noi, soprattutto nel tempo in cui sperimen­tiamo la nostra fragilità. Fondamentale è poi il ri­chiamo al fatto che le decisioni di fine vita non so­no solo un fatto privato, ma coinvolgono la re­sponsabilità della professione medica di difende­re la vita. La richiesta di morire comporta che qual­cuno mi faccia morire, e ciò costituisce un fatto so­ciale, non privato. Ma se dall’ambito della rifles­sione filosofica passiamo a quello più immediato dell’esperienza pratica, ci si accorge di quanti limiti abbia la nostra libertà in tutti i campi: quello la­vorativo, quello delle relazioni personali, quello fa­miliare, ecc. L’idea che possiamo disporre libera­mente di noi stessi in modo assoluto è irrealistica, ideologica e non appartiene alla vita vera.
Proprio sul piano dell’esperienza, la pratica o­landese dell’eutanasia ha mostrato che la li­bertà delle persone è stata consegnata nelle mani dei medici che sono sempre più i veri deci­sori. Sono essi infatti che accettano di sommini­­strare l’eutanasia a pazienti che la richiedono o la negano se ritengono che la vita del paziente non sia ancora arrivata al punto di essere 'vita senza va­lore'. Lo stesso rilievo si può muovere allo stru­mento del testamento biologico così come viene strutturato nella maggior parte dei progetti di leg­ge presentati in Parlamento. L’autonomia del pa­ziente, tanto sbandierata, viene ampiamente con­traddetta. Infatti va sottolineata l’insistenza con la quale si chiede che il testamento biologico sia re­datto con l’ausilio di un medico. Il motivo è chia­ro: il cittadino non è ritenuto capace di dare di­sposizioni da solo, perché non conosce la medi­cina. Ma ci si può chiedere se il medico si limiterà alle spiegazioni o suggerirà anche le soluzioni che lui riterrà più opportune.
L’autonomia perciò è più una bandiera che una realtà. Il rispetto vero dell’autonomia personale non passa per l’arbitrio delle scelte ma per la co­stituzione di una rete di sostegno che accompagni alla morte in modo degno di una persona.
La convinzione che possiamo disporre liberamente di noi stessi in modo assoluto, come pretendono i fautori dell’«autodeterminazione», è irrealistica e non appartiene alla vita vera