Nella rassegna stampa di oggi:
1) "MIO FRATELLO PAPA RATZINGER (CHE VOLEVA FARE L'IMBIANCHINO)" - L'infanzia, l'adolescenza, i ricordi dell'unico uomo al mondo che conosce i segreti di Benedetto XVI. "Ora si è abituato a essere Papa, lo vive come un volere di Dio"... - di Andrea Tornielli
2) "Come fedele indù provo vergogna..." - Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India. Prende le difese dei cristiani e accusa i loro aggressori di tradire lo spirito dell'induismo – di Sandro Magister
3) Impedire scuole speciali e sterilizzazione forzata dei gitani - Chiede il Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il documento finale del VI Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari ha chiesto di proibire le scuole speciali per i bambini gitani, così come i programmi di sterilizzazione per le donne zingare.
4) Fertilità e infertilità: testimoni di speranza - Un libro risponde all'appello dell'Humanae vitae - di Antonio Gaspari
5) Oggi “Il Tempo” scrive che sto per scendere in politica “al fianco del Cavaliere”. E’ assolutamente falso. - Magdi Cristiano Allam
6) 03/10/2008 08:46 – CINA - Pechino spia gli abbonati e i messaggi di Skype - Il partner cinese filtra testi compromettenti per il governo cinese e offre ad esso i nomi di abbonati e destinatari dei messaggi. Uno scandalo simile è avvenuto con Yahoo!, che ha rivelato l’identità di due suoi abbonati, giornalisti cinesi, condannati poi a 10 anni di lager.
7) 02/10/2008 15:04 – VATICANO - Papa: combattere terrorismo e fondamentalismo, ma senza limitare la libertà religiosa - Benedetto XVI riceve i vescovi dell’Asia centrale e li esorta a prendere esempio dalle primitive comunità cristiane, piccola, ma non chiuse in se stesse. Per la Chiesa “è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede”.
8) Omaggio a Malalai Kakar - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 ottobre 2008 - Domenica 28 settembre 2008 a Kandahar, Afghanistan è stata assassinata il Capitano di Polizia Malalai Kakar, l'unica donna poliziotto di una città e di un paese ancora sotto la minaccia del fanatismo religioso islamico, del tribalismo e di un maschilismo violento
9) I «preamboli della fede» - Il soprannaturale - è una persona in carne e ossa - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
10) Aspetti teologici e dottrinali dell'«Humanae vitae» - Veramente liberi e liberamente veri - "Humanae vitae: attualità e profezia di un'enciclica" è il titolo del congresso internazionale che si svolge il 3 ottobre nella sede romana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il cardinale arcivescovo di Bologna ha sintetizzato per noi i temi della sua lectio magistralis. - di Carlo Caffarra - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
11) Biopolitica e persona: una riflessione etica nell'epoca della globalizzazione - Il corpo, l'uomo e la sua dignità - di Adriano Pessina - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
12) Appunti per una società aperta. E laica - Maurizio Lupi - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
13) CILE/ Ecco come far fronte all’emergenza educativa - Redazione - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
14) UCCIDERE UNA DONNA INCINTA - QUELL’AGGRAVANTE EVIDENZA DEL DIRITTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 ottobre 2008
"MIO FRATELLO PAPA RATZINGER (CHE VOLEVA FARE L'IMBIANCHINO)" - L'infanzia, l'adolescenza, i ricordi dell'unico uomo al mondo che conosce i segreti di Benedetto XVI. "Ora si è abituato a essere Papa, lo vive come un volere di Dio"... - di Andrea Tornielli
«Dall’inizio della mia vita mio fratello è stato sempre per me non solo compagno, ma anche guida affidabile. È stato per me un punto di orientamento e di riferimento con la chiarezza, la determinazione delle sue decisioni. Mi ha mostrato sempre la strada da prendere, anche in situazioni difficili».
Con queste parole, lo scorso 22 agosto, Benedetto XVI ha ringraziato il sindaco di Castelgandolfo per aver concesso la cittadinanza onoraria a Georg Ratzinger, suo fratello maggiore. La «guida affidabile» del Papa, l’unico membro rimasto della sua famiglia, a dispetto della malattia agli occhi che ne ha ridotto di molto la vista, si muove ancora agilmente nell’abitazione di via Luzengasse, poco distante dal duomo di Ratisbona, dove per lungo tempo ha diretto il famoso coro di voci bianche dei «Domspatzen», i «passerotti del Duomo». Sulla città il cui nome nel 2006 è rimbalzato in tutto il mondo dopo il famoso discorso del Pontefice dedicato al rapporto tra fede e ragione, nuvole grigie scaricano una pioggia gelida e autunnale.
Monsignor Ratzinger, 84 anni, puntualissimo, aspetta l’intervistatore sulla porta all’ora prevista per l’appuntamento. Il piccolo salotto di casa, dove riceve i visitatori e dove ci introduce, è zeppo di pergamene e di immagini sacre. Al centro campeggia una foto sorridente del fratello Papa. L’unica condizione per l’intervista è «che sia breve». Ma accetterà di buon grado molte «ultime» domande.
Quale è il primo ricordo che ha di suo fratello Joseph?
Era il Sabato Santo del 1927. Già dall’alba c’era una gran confusione in casa, e io non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Volevo alzarmi, ma mio padre mi disse di continuare a dormire perché mi era nato un fratellino. Lo vidi solo dopo: era piccolo e delicato. Fu battezzato il giorno successivo nella chiesa parrocchiale di Marktl sull’Inn, il paese dove abitavamo. Quel giorno pioveva, nevicava e tirava vento, così i miei genitori decisero di lasciare a casa me e mia sorella per non correre il rischio che ci ammalassimo.
Che tipo di bambino era suo fratello?
«Era un bambino vivace, ma non un terremoto. Lo ricordo sempre allegro. Fin da piccolo mostrava una grande sensibilità nei confronti degli animali, dei fiori e, in generale, della natura. Forse anche per questo a Natale lui riceveva sempre in dono animali di pezza. La sua attenzione per la natura e gli esseri viventi è un suo tratto caratteristico».
Ci può raccontare qualcosa sulla vostra vita familiare e sui vostri genitori?
«Eravamo una famiglia molto unita. Nostro padre era commissario di polizia, proveniva da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera. Mia madre era figlia di artigiani, e prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca. Quando era possibile noi bambini andavamo alla messa quotidiana. Si faceva colazione a casa. Poi ci si vedeva di nuovo a pranzo. Secondo la tradizione bavarese mangiavamo prima una zuppa e poi il piatto principale. Il pomeriggio facevamo i compiti e poi con mio fratello andavamo a passeggiare per la città. Poi si cenava insieme. All’epoca non c’erano né radio né Tv e la sera nostro padre suonava la cetra e cantava canzoni. Poi si andava presto al letto».
Quale opinione aveva vostro padre del nazismo?
«Sin dall'inizio è stato un grande oppositore del nazismo. Capì subito che il nazionalsocialismo sarebbe stato una catastrofe e che non era solo un grande nemico della Chiesa ma più in generale di ogni fede e di ogni vita umana».
Lei e Joseph foste costretti ad arruolarvi nella «Hitlerjugend», la «Gioventù hitleriana»?
«Lo Stato aveva disposto che tutti i ragazzi delle scuole, in base alla loro età, dovessero iscriversi a determinati gruppi giovanili. Quando divenne obbligatorio, venimmo iscritti in blocco. Non c'era libertà di scelta e il non presentarsi avrebbe avuto certamente delle conseguenze negative. Mio fratello però non frequentava questi raduni e non si presentava agli appelli. Questo comportò un danno economico per la mia famiglia in quanto non beneficiò più dello sconto sulle tasse scolastiche».
È vero che un vostro parente finì ucciso nell’«Aktion T4», il progetto di eutanasia nazista?
«Era un nostro cugino, figlio di una sorella di mia madre. Era un ragazzo carino e allegro, ma soffriva di disturbi mentali. Non era in grado di dialogare correttamente o di partecipare alle conversazioni. Non so dire nulla di più preciso sulla sua malattia. Solo molto più tardi scoprimmo che i nazisti erano venuti a prenderlo a casa e che era stato ucciso in un campo di sterminio».
Nel 1935 lei entrò nel seminario arcivescovile di Traunstein. Joseph ha scritto nella sua autobiografia: «Io ne seguii le orme». Come nacque la vocazione di Joseph?
«Mio fratello ed io eravamo entrambi chierichetti, tutti e due servivamo Messa. Ci fu presto chiaro, prima a me e poi a lui, che la nostra vita sarebbe stata a servizio della Chiesa».
Già da prima però suo fratello aveva detto che da grande voleva fare «il cardinale»…
«A Tittmoning Joseph aveva ricevuto la cresima dal cardinale Michael Faulhaber, il grande arcicescovo di Monaco. Ne era rimasto impressionato e aveva detto che sarebbe voluto diventare anche lui cardinale. Ma, solo qualche giorno dopo quell’incontro, osservando il pittore che tinteggiava i muri di casa nostra, disse anche che da grande avrebbe voluto fare l’imbianchino…»
Nell’autobiografia Joseph racconta che riteneva una «vera tortura» lo sport e che non amava l’attività fisica.
«Posso dire con sicurezza che né io né mio fratello eravamo portati per lo sport. Forse era dovuto al fatto che non avevamo un fisico robusto anzi, eravamo i più piccoli e deboli delle nostre rispettive classi. Non riuscivamo a tenere il ritmo dei nostri compagni».
Come ha inciso la seconda guerra mondiale sulla sua vita e sulla vita di suo fratello?
«La guerra ci ha provati profondamente, anche quando eravamo a casa: il cibo bastava a malapena. Avevamo un biglietto per l’approvvigionamento mensile di cibo, con il quale si potevano comprare solo certi generi alimentari come lo zucchero, il burro, il grasso e un po’ di carne. La sera bisognava oscurare le finestre per non fare uscire la luce e non farsi vedere dagli aerei degli alleati. Sono stato chiamato prima al servizio di lavoro e poi al servizio militare. Mio fratello è stato richiamato qualche tempo dopo di me. Avevamo obiettivi e ideali che erano opposti a quelli di Hitler, ma eravamo nostro malgrado soldati. Non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno in cui la guerra sarebbe finita».
Come è nata la vostra passione per la musica?
«Nella nostra casa tutti amavano la musica. Nostro padre – l’ho già ricordato – aveva una cetra che suonava spesso la sera. Cantavamo insieme. Per noi era sempre un evento. A Marktl sull’Inn, poi, c'era una banda musicale che mi affascinava molto. Ho sempre pensato che la musica sia una delle cose più belle che Dio abbia creato. Anche mio fratello ha sempre amato la musica: forse l’ho contagiato io».
Lei e Suo fratello siete stati entrambi ordinati sacerdoti il 29 giugno 1951, nel duomo di Frisinga. Che ricordi ha di quel giorno?
«Fu un giorno molto gioioso, che ci commosse profondamente. Il bel tempo ci aveva messo di buon umore. Eravamo più di quaranta giovani e ci eravamo preparati insieme per la consacrazione. Eravamo tutti felici perché avremmo raggiunto l'obbiettivo per cui ci eravamo preparati per anni e che aspettavamo tanto. Ora tutto diventava realtà. Entrammo nel Duomo di Frisinga, la cui grande campana, che portava il nome di San Corbiniano, aveva, già dal mattino presto, svegliato tutta la città e creato un’atmosfera di festa. Tutta la famiglia era con noi: i nostri genitori, nostra sorella maggiore.
Fu un giorno indimenticabile».
Joseph Ratzinger, sia da cardinale che da Papa, ha parlato delle radici comuni che legano ebraismo e cristianesimo. Avevate contatti con ebrei nella vostra famiglia?
«È un dato teologico che gli ebrei sono il popolo prescelto da Dio e che da quel popolo nacque Gesù, generato dalla Vergine Maria. Ma devo ammettere che all’epoca sapevamo che esistevano gli ebrei solo dall'insegnamento di religione. Nella nostra regione non c’erano per cui non avevamo né contatti né esperienze vissute con loro. Non sapevamo nulla neanche dei pogrom contro gli ebrei e delle ingiustizie commesse nei loro confronti dai nazisti. Eravamo all’oscuro di tutto».
Suo fratello al tempo del Concilio venne definito un «teenager teologico», un teologo di area progressista, ed era il perito di fiducia del cardinal Frings. Che ricordi ha di questi eventi?
«Non so chi abbia coniato l’espressione “teenager della teologia” riferita a mio fratello. In quel periodo non sono stato a Roma: ci andai solo una volta insieme a Joseph e alcuni professori tedeschi che svolgevano il ruolo di esperti nell’ambito del concilio. Era chiaro che c’era la necessità di aperture, di uno sviluppo teologico. Mio fratello ha contribuito alla realizzazione di tutto questo con tutta la sua intensità spirituale e credo che parte del merito dell’introduzione di alcune nuove idee, che erano parte integrale delle nostre convinzioni e della nostra fede cattolica, vada dato a lui».
Nell’epoca del post concilio, il professor Ratzinger si trova a vivere a Tubinga, in una facoltà teologica trasformata in «centro ideologico» del marxismo. Suo fratello è cambiato in quegli anni?
«No, lui non è cambiato. I giovani in Germania vivevano uno stato di turbamento. La spinta al cambiamento che aveva avuto luogo nel Concilio, si manifestava con più forza tra i laici. I giovani tedeschi e degli altri paesi vivevano in un clima instabile, senza controllo. L’idea dominante era che tutto si doveva cambiare, si dovevano introdurre novità: mio fratello approvò quelle buone ma respinse quelle inconciliabili con la fede. L’idea che il Concilio dovesse portare solo novità non era corretta, poiché lo scopo era quello di presentare in modo adeguato ai tempi la fede cattolica di sempre».
Suo fratello allora lasciò Tubinga e venne ad insegnare qui a Ratisbona. Vi ritrovaste uniti tutti e tre fratelli.
«Ricordo ancora quella sera quando Joseph e mia sorella Maria giunsero a Ratisbona, all’hotel Kameliten. Dopo la prova con il mio coro Domspatzen, li raggiunsi in albergo: eravamo contenti di stare insieme, di esserci ritrovari. La domenica successiva tornai a trovarli: vissero in albergo finché non fu pronta la nuova casa. Per noi fu un bel periodo. Gli studenti accolsero bene mio fratello, lo consideravano un professore da cui apprendere molto».
A chi si ispirava suo fratello quando era professore?
«Nei suoi studi si ispirava ad alcuni teologi francesi, aveva come modelli soprattutto Henri de Lubac e il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Al centro del suo lavoro c’erano la Sacra Scrittura e gli scritti dei padri della Chiesa. Durante i suoi studi universitari aveva cercato di riscoprire questo patrimonio, di farlo uscire dal dimenticatoio e di ravvivarlo».
Che significato ha la liturgia per i fratelli Ratzinger?
«La liturgia, la Messa, rappresenta il fulcro della nostra fede e della nostra azione, è l’incontro personale con Dio. Questo naturalmente è al primo posto. Non potremmo immaginare un giorno senza la messa, senza la liturgia, sarebbe povero, privo dell’essenziale...».
Perché Benedetto XVI ha voluto liberalizzare l’antica liturgia preconciliare con il motu proprio «Summorum Pontificum»?
«All’epoca della riforma liturgica il cambiamento avvenne velocemente e non fu facile per tutti da accettare. Da un giorno all’altro l’antica liturgia fu sostituita con la nuova, alla quale ora siamo affezionati e con la quale celebriamo Messa con una partecipazione interiore piena di gioia. Ci furono, però, alcuni nella Chiesa che non accettarono completamente questo “salto”, poiché la perdita dell’antica liturgia li aveva privati di qualcosa e aveva sconvolto la loro fede. Per non lasciare sole queste persone, per reintegrarle pienamente nella comunità ecclesiale, mio fratello ha deciso di rendere libera l’antica liturgia preconciliare».
Si aspettava l’elezione di Joseph nel conclave dell’aprile 2005? Come ha reagito alla notizia?
«Devo ammettere che non me l’aspettavo, e sono rimasto un po’ deluso...».
Deluso? Con suo fratello diventato Papa?
«Glielo spiego subito. Dati i suoi gravosi impegni, ho capito che il nostro rapporto si sarebbe dovuto ridimensionare notevolmente. In ogni caso, dietro la decisione umana dei cardinali c’è la volontà di Dio, e a questa dobbiamo dire sì».
I rapporti tra di voi sono cambiati?
«Prima mio fratello trascorreva alcune settimane in Germania, nella sua casa di Pentling, a pochi chilometri da qui. Cosa che ora non può fare più. C’è stato per un paio di ore nel settembre 2006 quando ha visitato la Baviera. Spesso, la domenica vado in casa a Pentling e faccio un giro per le stanze, poi chiamo Joseph e gli descrivo ciò che ancora con i miei occhi indeboliti riesco a vedere, gli descrivo la casa e gli dico che lì è molto bello. È un pezzo di patria a cui lui adesso ha dovuto rinunciare».
Posso chiederLe quale è stata la prima cosa che il nuovo Papa le ha detto quando vi siete sentiti dopo l’elezione?
«Mi perdonerà, non glielo so dire con esattezza, ho dei ricordi confusi. In quei giorni il telefono e il campanello di casa suonavano in continuazione. Era terribile. Non rispondevo più alle telefonate. Così quando ha chiamato il nuovo Papa ha risposto la mia domestica, la signora Heindl. Era mio fratello che voleva parlare con me, ma è stata la signora Heindl a congratularsi per prima dell’elezione».
Può raccontarci come avete trascorso insieme, quest’anno, le vacanze estive a Bressanone. Dicono che passeggiavate insieme e che vi vedevano spesso sorridere.
«Abbiamo trascorso tanti periodi di vacanza a Bressanone e abbiamo vissuto nel seminario dove siamo stati anche quest’anno. Le altre volte però potevamo uscire, girare tranquilli per la città e visitare le chiese. Adesso che mio fratello è il Papa tutto ciò non è più possibile. Così siamo dovuti stare dentro e fare le passeggiate nel giardino del seminario. Queste passeggiate sono state comunque belle, anche se io ho problemi a camminare. Ho grossi problemi sia con la vista che con le gambe».
Suo fratello si è abituato a essere il Papa?
«Si, si è abituato velocemente alla sua nuova condizioni. Deve semplicemente dire di sì al nuovo ordine di cose. Lo vive come il volere di Dio e si impegna con tutte le sue capacità».
Avevate una qualche predilezione in famiglia per il nome Benedetto?
«Per questo nome no. Anni fa, però, mio fratello mi disse: “Benedetto sarebbe un bel nome per un nuovo Papa”. Lui ora non ricorda di averlo detto, ma io l’ho ben presente».
Le parole che il Papa ripete più spesso sono «gioia», «amore» e «bellezza». Contrastano con l’immagine del «panzerkardinal» con cui è stato descritto per anni.
«Sì, penso che questa immagine lo descriva male e non corrisponda alla realtà. Non è mai stato un uomo brusco, con l’intenzione di offendere gli altri. Ha avuto sempre molto rispetto dell’opinione altrui. Spesso i media creano immagini sbagliate delle persone».
Quale Papa, secondo lei, suo fratello ha amato di più?
«Il suo diretto predecessore Giovanni Paolo II, con il quale ha lavorato a stretto contatto. Gli è stato di grande aiuto e grazie alle sue conoscenze teologiche l’ha potuto consigliare molto bene. Tra i due c’era una solida intesa, un comune orientamento. La loro visione della fede ha fatto sì che chiamassero le cose con il loro nome».
Suo fratello le ha mai parlato di Papa Luciani?
«Una volta il futuro Giovanni Paolo I aveva fatto visita a mio fratello, che allora era arcivescovo e si trovava in vacanza a Bressanone. Luciani era un uomo pieno di cuore, molto valido, e mio fratello amava questa sua umanità».
Posso chiederle come ci si sente ad essere il fratello del Papa?
«È una situazione ha delle ripercussioni, delle conseguenze... Quando vado in città, incontro sempre delle persone che mi rivolgono la parola in modo gentile. Soprattutto i turisti italiani. Mi dicono “Fratello del Papa” e mi salutano gentilmente. In tutto questo, però, io non ho alcun mio».
L’avrebbe mai immaginato?
«No, non me l’aspettavo, non ce lo potevamo immaginare. Era decisamente insolito che un tedesco divenisse Papa, da secoli non si avevano Papi tedeschi. Non abbiamo mai pensato di ricevere questo onore, era completamente al di fuori alle nostre aspettative».
Il Giornale 28 settembre 2008
"Come fedele indù provo vergogna..." - Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India. Prende le difese dei cristiani e accusa i loro aggressori di tradire lo spirito dell'induismo – di Sandro Magister
ROMA, 3 ottobre 2008 – In poco più di un mese, le vittime dell'ondata di violenze anticristiane iniziata il 24 agosto in India sono salite a 60. Alle quali vanno aggiunti più di 18.000 feriti, 178 chiese distrutte, oltre 4.600 case bruciate e 13 scuole e centri sociali devastati. Almeno 50.000 cristiani sono inoltre fuggiti dai propri villaggi cercando riparo in campi profughi e nelle foreste.
Questo allarmante bilancio è stato fornito due giorni fa dall'All India Christian Council. Invece che diminuire, gli attacchi da sporadici sono diventati sistematici, quasi quotidiani, e si sono estesi in vari stati, coinvolgendo, oltre all'Orissa, il Kerala, il Karnataka, l'Andra Pradesh, il Madhya Pradesh, il Chattisgarh e il Tamil Nadu.
Induisti fanatici hanno preso di mira soprattutto i villaggi rurali, accusando i cristiani di fare proselitismo forzato tra i ceti poveri, i tribali e i fuori casta. Ma che l'accusa sia pretestuosa è dimostrato dai censimenti ufficiali, che danno il cristianesimo non in crescita ma in decrescita. In India, i cristiani erano nel 1971 il 2,6 per cento della popolazione, nel 1981 il 2, 44, nel 1991 il 2,32 e nel 2001 il 2,3, con segnali di ulteriore diminuzione negli anni successivi.
Più che le conversioni, ciò che scatena le violenze è l'azione dei cristiani a sostegno dei ceti poveri che costituiscono la base schiavistica del sistema piramidale sul quale è tradizionalmente organizzata la società indù. La vera "colpa" dei cristiani è di predicare e praticare l'uguale dignità di tutti, contro il sistema delle caste.
In ripetuti appelli i vescovi cattolici dell'India hanno denunciato "l'apatia e l'indifferenza del governo, a livello centrale e nei singoli stati", nel fermare le aggressioni ai cristiani. Le misure di sicurezza sono apparse ogni volta tardive e sporadiche. Altrettanta apatia può essere imputata ai governi stranieri, ampiamente disinteressati a ciò che accade contro i cristiani dell'India.
Ma non meno gravi sono il silenzio e l'inazione dei leader religiosi e intellettuali indù. Le voci che si sono levate in difesa dei cristiani e della pace interreligiosa sono rare.
Qui di seguito è riportato uno di questi interventi, apparso il 28 settembre 2008 sul quotidiano in lingua inglese "Times of India".
L'autore, Shashi Tharoor, è di fede induista. Saggista e scrittore affermato, è stato candidato nel 2006 a segretario generale delle Nazioni Unite, dopo aver ricoperto nel Palazzo di Vetro la carica di sottosegretario. Ha studiato in scuole cristiane e si è laureato in legge e diplomazia alla Fletcher School della Tufts University, negli Stati Uniti. Scrive su importanti testate, come il "New York Times" e "Newsweek". È editorialista del "Times of India".
Non sorprende che il cardinale Jean-Louis Tauran abbia dato la priorità all'induismo nella prossima agenda del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, di cui è presidente.
I fondamenti dell'india sono sotto attacco
di Shashi Tharoor
Ci sono fondamentalmente due tipi di politica in India: la politica della divisione e la politica dell'unità. La prima è di gran lunga la più diffusa, con politici che fanno a gara nel tagliare e spezzettare l'elettorato in sempre più piccole configurazioni di casta, di lingua e di religione, nel migliore dei casi per chiamare tali identità particolaristiche a portare i loro voti.
Ma ciò che è accaduto nelle scorse settimane nell'Orissa e poi nel Karnataka, e che minaccia di scatenarsi nei distretti tribali del Gujarat, è un ulteriore degrado della nostra vita politica. Le aggressioni alle famiglie cristiane, le devastazioni vandaliche dei loro luoghi di preghiera, la distruzione delle case e dei mezzi di sussistenza, gli stupri brutali, le mutilazioni e le persone bruciate vive di cui si è avuta notizia, non hanno niente a che fare con le credenze religiose, né quelle delle vittime, né quelle degli aggressori. Tutto ciò è invece parte di uno spregevole progetto politico il cui più vicino equivalente può essere trovato nelle bombe fatte esplodere da mujahiddin indiani a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, in ospedali, in mercati e in campi di gioco. Entrambi gli atti sono antinazionali; entrambi mirano a dividere il paese contrapponendo le persone secondo le rispettive identità religiose; ed entrambi calcolano di ricavare profitto politico da una simile polarizzazione.
Abbiamo il dovere di non lasciare che l'una o l'altra forma di terrorismo vinca.
Le bande criminali dell'Orissa cercano di uccidere i cristiani e di distruggere le loro case e chiese per terrorizzare la gente e per trasmettere il messaggio: "Questo non è il tuo posto". Come siamo arrivati a far sì che una terra che è stata rifugio di tolleranza per le minoranze religiose nel corso della sua storia sia caduta così in basso? Quella dell'India è una civiltà che, per millenni, ha offerto riparo e soprattutto libertà religiosa e culturale a ebrei, parsi, musulmani e cristiani di tante confessioni. Il cristianesimo è arrivato in india con san Tommaso apostolo, il famoso Tommaso "del dubbio". Egli approdò sulle coste del Kerala prima del 52 dopo Cristo e fu accolto sulla riva dal suono del flauto di una fanciulla ebrea. Egli fece molti convertiti, così che oggi vi sono degli indiani i cui antenati divennero cristiani molto prima che tanti europei scoprissero il cristianesimo, e anche prima che i banditori dell'odierno sciovinismo indù prendessero coscienza di essere essi stessi indù. L'India in cui il richiamo del muezzin abitualmente si mescola col canto dei mantra nei templi, e in cui il rintocco delle campane delle chiese accompagna la recita dei versi del guru Granth Sahib, è l'India di cui tutti possiamo essere fieri. Ma c'è anche l'India che ha raso al suolo la moschea di Ayodhya, che ha scatenato i pogrom nel Gujarat e che ora rovescia il suo odio su quel 2 per cento di popolazione che è fatto di cristiani.
Come fedele indù provo vergogna per ciò che stanno facendo persone che dichiarano di agire a nome della mia fede. Sono sempre stato orgoglioso di appartenere a una religione di straordinario respiro ed ampiezza di visione; una religione che riconosce tutte le vie di adorazione di Dio come ugualmente valide, anzi, la sola grande religione nel mondo che non pretende di essere l'unica vera religione. Il fondamentalismo induista è una contraddizione in termini, dal momento che l'induismo è una religione senza "fondamentali", in cui non esiste qualcosa di simile all'eresia. Come osa un manipolo di santoni immiserire la sublime maestà dei Veda e delle Upanisad con il ristretto fanatismo del loro marchio identitario politico? Perché gli indù dovrebbero consentire loro di ridurre l'induismo a vociante autoesaltazione di hooligan da stadio, di prendere una religione di immensa tolleranza e ridurla a violenza sciovinista?
L'induismo, con la sua apertura, è rispetto per la diversità, è accettazione di tutte le altre fedi, è l'unica religione che è sempre stata capace di affermare se stessa senza minacciare le altre. Ma questo non è ciò che l'Hindutva vomita nelle diatribe piene d'odio dei suoi politici. Induismo autentico è quello di Swami Vivekananda, il quale, al Parlamento Mondiale delle Religioni a Chicago nel 1893, argomentò meravigliosamente l'umanesimo liberale che sta nel cuore del suo e del mio credo. Vivekananda affermò che l'induismo sta "sia per la tolleranza che per l'accettazione universale, perché non solo noi crediamo in un universale rispetto, ma accettiamo tutte le religioni come vere". Egli citò un inno: "Come le diverse correnti che hanno le loro sorgenti in luoghi diversi mescolano le loro acque nel mare, così, o Dio, i differenti sentieri che gli uomini percorrono secondo le loro differenti tendenze, per quanto diversi appaiano, tortuosi o diritti, tutti guidano a Te". La visione di Vivekananda – riassunta nel credo Sarva Dharma Sambhava – è in realtà il genere di induismo praticato dalla grande maggioranza degli indù, la cui istintiva accettazione delle altre fedi e forme di adorazione è da tempo l'impronta vitale dell'indianità.
Vivekananda non ha fatto nessuna distinzione tra le azioni degli indù come popolo (ad esempio il garantire asilo) e le loro azioni come comunità religiosa (tolleranza delle altre fedi): per lui, la distinzione era irrilevante poiché l'induismo è sia una civilizzazione, sia un insieme di credenze religiose. "Gli indù hanno le loro colpe – aggiungeva Vivekananda – ma sono sempre per punire i loro corpi e mai per tagliare le gole dei loro vicini. Se un indù fanatico brucia se stesso sulla pira, egli mai accenderà il fuoco dell'Inquisizione".
È triste che queste tesi di Vivekananda siano contraddette nelle strade da coloro che gridano di far rivivere la sua fede nel suo nome. "Questi indù militanti", ha osservato Amartya Sen, presentano l'India come "un paese di idolatri intolleranti, di fanatici deliranti, di devoti agguerriti e di assassini religiosi". Discriminare l'altro, aggredire l'altro, uccidere l'altro, distruggere il luogo di culto dell'altro non fa parte del dharma indù così meravigliosamente predicato da Vivekananda. Perché mai le voci dei capi religiosi indù non si alzano in difesa di questi fondamenti dell'induismo?
Impedire scuole speciali e sterilizzazione forzata dei gitani - Chiede il Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il documento finale del VI Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari ha chiesto di proibire le scuole speciali per i bambini gitani, così come i programmi di sterilizzazione per le donne zingare.
La richiesta fa parte del documento finale – pubblicato questo giovedì – dell'evento, svoltosi dal 1° al 4 settembre nella città tedesca di Freising su iniziativa del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in collaborazione con la Conferenza Episcopale Tedesca
All'incontro, sul tema “I giovani zingari nella Chiesa e nella società”, hanno partecipato 150 delegati (Arcivescovi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, agenti di pastorale, laici e rappresentanti degli zingari), provenienti da 26 Paesi europei, dall'America Latina e dall'Asia.
In questo senso, il documento nelle sue raccomandazioni finali considera che uno degli elementi chiave è attualmente l'istruzione, soprattutto dei bambini e dei giovani gitani.
“L’istruzione è il processo fondamentale per la realizzazione del potenziale personale ed è necessaria per l’integrazione nella società”, afferma il documento, inviato a ZENIT dal dicastero vaticano, il cui presidente è il Cardinale Renato R. Martino.
Per questo motivo, aggiunge, “deve essere vietato l’inserimento degli zingari in 'scuole speciali' che generano umiliazione”.
“L’istruzione è condizione della partecipazione alla vita politica, sociale ed economica, in posizione di uguaglianza nei confronti degli altri – spiega il testo –. Essa deve, inoltre, incoraggiare il pensiero giustamente critico e la responsabilità, che, a loro volta, sono necessari per edificare una società sempre più umana, basata su principi di giustizia, uguaglianza e fraternità”.
La formazione al lavoro è stata una delle principali preoccupazioni manifestate dal Congresso, visto che “i giovani devono superare le barriere, dovute anche alle debolezze del sistema educativo, che ne impediscono l’ingresso nel mondo lavorativo”.
Per quanto riguarda la situazione delle donne zingare, il Congresso condanna “le sterilizzazioni forzate e le campagne che tendono a destabilizzare la concezione della famiglia presso gli zingari”.
“Deve essere assicurata l’educazione delle donne per quanto riguarda i diritti fondamentali, come pure il dialogo interculturale, l’inserimento dei giovani nella cittadinanza democratica, la coesione sociale e lo sviluppo delle politiche giovanili”, afferma.
Secondo il documento, sarebbe utile “chiedere alle organizzazioni umanitarie e alla Caritas di istituire, controllandoli in seguito, dei microcrediti per quelle famiglie e comunità che si mostrano maggiormente in grado di saperli utilizzare a favore della loro etnia”.
Nella pastorale degli zingari, afferma il testo, “un ruolo particolare può essere svolto dai movimenti ecclesiali e dalle nuove comunità che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa”.
Allo stesso modo, il documento finale chiede che le congregazioni religiose, le associazioni cattoliche e le comunità ecclesiali di base si impegnino nella pastorale specifica dei giovani zingari.
“Esclusi, relegati ai margini dell’umanità, umiliati nella loro dignità, gli zingari hanno bisogno di una Chiesa viva, di una Chiesa-comunione, capace di formare e aiutare a superare le difficoltà che la politica non riesce a superare”, afferma il testo.
“Tuttavia, il fatto di presentarsi con amore e con il desiderio di proclamare la Buona Novella non basta a creare un rapporto di fiducia tra gli zingari e i gağé [non zingari, ndr.], a causa del peso della storia e dei torti che essi hanno subito”.
“La popolazione zingara, dunque, continua a mostrare sfiducia nei riguardi delle iniziative di coloro che cercano di penetrare nel suo mondo – conclude –. È possibile superare quest’atteggiamento iniziale soltanto a partire da gesti concreti di solidarietà, anche attraverso una condivisione di vita, e sviluppando progetti a dimensione umana che favoriscano una partecipazione e un’adesione dei giovani zingari”.
Fertilità e infertilità: testimoni di speranza - Un libro risponde all'appello dell'Humanae vitae - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 3 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Per rispondere all'appello dell'Enciclica Humanae vitae a una paternità e maternità responsabile coerente con i disegni del Creatore, la bioeticista Angela Maria Cosentino ha scritto e pubblicato il libro "Testimoni di speranza- Fertilità e infertilità: dai segni ai significati" (Cantagalli Siena, 2008, pp. 256, 17 euro).
Con la Prefazione di Monsignor Sergio Nicolli, Direttore dell'Ufficio Famiglia CEI e la Presentazione di Medua Bodoni Dedé, già Presidente della Confederazione Italiana Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità, il libro raccoglie cinquanta testimonianze provenienti da diverse aree (educativa, familiare, culturale, socio-formativa e pastorale) che evidenziano alcuni frutti del servizio di educazione alla procreazione responsabile con l'applicazione dei metodi naturali, in ordine sia alla fertilità che all'infertilità.
A quarant'anni dall'Humanae vitae di Paolo VI, Angela Maria Cosentino, docente ai Corsi estivi di pastorale familiare, all'Istituto Giovanni Paolo II e delegata per la Confederazione Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità al Forum delle Associazioni Familiari, riserva particolare attenzione alle coppie che, "ricercando la gravidanza, hanno sperimentato come l'educazione alla procreazione responsabile apra a prospettive di fecondità anche diverse dalla procreazione".
"Le coppie che hanno vissuto problemi di fertilità - ha spiegato la Cosentino a ZENIT - testimoniano che è possibile non essere travolti dal ‘miraggio' del figlio a tutti i costi e la loro esperienza può incoraggiare altre coppie in analoghe situazioni".
"A conferma che, in un tempo difficile ma collocato in un orizzonte di speranza, il mondo contemporaneo - come ha segnalato Paolo VI - ha bisogno non solo di maestri ma anche di testimoni", ha affermato la bioeticista.
Le coppie che hanno applicato i metodi naturali riportate nel volume sono divise in 5 gruppi: coppie che hanno ottenuto la gravidanza; che si sono rivolte all'adozione; che si sono aperte ad un servizio di volontariato; che hanno accettato l'infertilità; che hanno applicato la conoscenza della fertilità per distanziare/evitare la gravidanza.
Ogni gruppo è caratterizzato da un albero-simbolo e da una poesia (che si ispira alla prima testimonianza riportata). Ogni storia, che valorizza la sofferenza e la gioia, è preceduta da una breve sintesi che accompagna a cogliere lo specifico significato del contributo.
"Le esperienze raccolte, segni credibili di una fede amica dell'intelligenza, rappresentano alcuni frutti di un servizio nato in risposta all'appello dell'Humanae vitae di valutare la natalità nel rispetto dei valori in gioco", ha sostenuto la Cosentino, aggiungendo che si tratta di "un richiamo che appare particolarmente attuale ancora oggi, alla luce degli interrogativi sollevati sia dalle tecniche applicate alla procreazione umana sia dall'urgente emergenza educativa".
Le testimonianze, ha precisato la bioeticista, "segnalano alcuni indicatori della valenza di un servizio che, con oltre 1000 insegnanti della Confederazione (www.confederazionemetodinaturali.it), accompagna a risalire dai segni ai significati (tra i quali, essere immagine e somiglianza di Dio), contribuendo a contrastare alcune frammentazioni degli attacchi incrociati contro la famiglia e la vita che caratterizzano l'onda lunga del '68".
Il testo, che richiama la continuità del Magistero di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è consigliato non solo agli studenti di pastorale familiare, morale speciale, agli operatori impegnati nella tutela della vita e della salute procreativa, tra i quali gli insegnanti dei metodi naturali, ma anche alle coppie e a tutti coloro che si interessano dei valori non negoziabili della famiglia e della vita.
Il volume è corredato da ricchi riferimenti bibliografici e da un glossario contenente spunti di riflessione su alcune attuali questioni bioetiche, per valorizzare la portata antropologica del messaggio dell'Humanae vitae.
Oggi “Il Tempo” scrive che sto per scendere in politica “al fianco del Cavaliere”. E’ assolutamente falso. - Magdi Cristiano Allam
Sulla base dei contenuti dell’intervista pubblicata, il titolo corretto è : "I tempi sono maturi per un nuovo soggetto politico che abbia al centro i valori, le regole, l'identità e la civiltà cristiana". Altro che “Scendo in politica con Silvio”! Ecco perché il 68% degli italiani considera i giornalisti dei bugiardi. Mai fidarsi dei giornalisti!
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Oggi, il quotidiano romano “Il Tempo”, ha un piccolo titolo in prima pagina che recita: Magdi Allam, “Entro in politica al fianco del Cavaliere”. A pagina 9 il servizio di apertura riporta questo titolo a caratteri cubitali: “Scendo in politica con Silvio”. Nel sommario si legge: Parla Magdi Allam: “I tempi sono maturi per passare all’azione”. Ebbene si tratta di un mastodontico errore: io non ho mai detto che intendo scendere in politica con il Cavaliere Silvio Berlusconi. Ho segnalato subito l’errore all’amico e direttore editoriale del Tempo, Roberto Arditti, con un sms in cui ho scritto: “Grazie per l’intervista. Il titolo è forzato ma comprendo”. Comprendo le logiche aberranti che porta a forzare i titoli per adeguarli al proprio orientamento ideologico e politico. Ecco perché d’ora in poi non rilascerò più interviste telefonicamente e pretenderò di vedere il testo definitivo e i titoli dell’intervista prima della pubblicazione. Non mi sorprende affatto che da un sondaggio, reso noto proprio oggi, emerge che il 68% degli italiani considera i giornalisti dei bugiardi. Vi do un consiglio, cari amici: mai fidarsi dei giornalisti!
L’intervista al “Tempo” (il testo pubblicato lo potete leggere nella rubrica “L’Intervista” all’interno del nostro sito) l’ho rilasciata telefonicamente alla giornalista Giancarla Rondinelli (g.rondinelli@iltempo.it) mentre ero in viaggio per Como nella tarda mattinata di mercoledì 1 ottobre. Abbiamo parlato per circa un quarto d’ora dei contenuti del mio libro autobiografico “Grazie Gesù, La mia conversione dall’islam al cattolicesimo” e, soltanto verso la fine, mi ha rivolto alcune domande sul mio impegno politico. Nel testo riportato dal “Tempo” si riporta solo una sintesi, non sempre fedele, delle mie dichiarazioni. Comunque mi limito a proporvi il testo pubblicato.
Dopo aver affermato che i tempi sono maturi per «Per passare ad un'azione concreta in campo politico», Giancarla mi ha chiesto: Ne ha già parlato con qualcuno? Io rispondo:
“Beh, io ne avevo già parlato con Berlusconi nel 2006, in quel caso però non si arrivò ad un'intesa. Di certo, per quanto mi riguarda non ci sono spazi di dialogo con l'attuale sinistra, ammalata di buonismo, multiculturalità, una sinistra agli antipodi dei valori e delle regole fondanti della civiltà cristiana”.
Come potete constatare, qui di Berlusconi parlo al passato, faccio riferimento a un evento del 2006, anche se per la verità è del 2005, ma non importa, l’importante è che si tratta di un evento che si è concluso.
Di Berlusconi torno a parlare successivamente in chiave critica. Dopo aver sostenuto “la necessità di far sì che la politica metta al centro i valori veri, abbia nell'etica il suo elemento fondante e si proponga l'obiettivo di realizzare il bene comune”, e dopo aver chiarito che “tutto questo, attualmente manca. A destra come a sinistra, e anche al centro”, mi si attribuiscono queste parole: “È ardua ma è l'unica via giusta. Altrimenti si arriverà al punto in cui Berlusconi, leader politico dalla straordinaria dote della franchezza, ci dirà magari che su alcuni ddl, riguardanti il piano dei valori, ci può essere un regime anarchico, dove ognuno esprime quello che meglio crede. Per un cattolico questo non è accettabile”.
Ed è a questo punto che Giancarla mi domanda: “Per questo lei più volte ha invocato la nascita di un nuovo soggetto politico”? A cui rispondo: “Sì. È necessario che nasca e anche al più presto. Un nuovo soggetto politico che abbia al centro il bene comune”.
Ecco perché, cari amici, il titolo corretto alla mia intervista a “Il Tempo” è "I tempi sono maturi per un nuovo soggetto politico che abbia al centro i valori, le regole, l'identità e la civiltà cristiana". Altro che “Scendo in politica con Silvio”!
Purtroppo non si tratta di un fatto isolato. La tendenza della stampa a snaturare non solo i titoli ma anche ad alterare i testi delle interviste, e ancor di più dei servizi descrittivi di eventi che concernono un personaggio sgradito, è assai diffusa. Ad esempio. Oggi, il quotidiano “La Provincia” di Como, dove ieri ho tenuto un affollato incontro pubblico con monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo emerito di Como ed uno dei portabandiera del cattolicesimo affrancato dal relativismo, dall’islamicamente corretto e dal buonismo, pubblica un sottotitolo che recita: “Il giornalista non fa sconti ai fedeli dell’Islam (con la “I” maiuscola in accondiscendenza all’islamicamente corretto!): con loro dialogo impossibile”.
Ebbene io mi sono sgolato, anche nel corso dell’incontro con Maggiolini, a chiarire che pur essendo convinto che non esista un islam moderato, con i musulmani è invece possibile, anzi doveroso, dialogare e costruire insieme una civile convivenza e una comune civiltà dell’uomo, a condizione che rispettino i diritti fondamentali dell’uomo e condividano i valori fondanti della nostra civiltà giudaico-cristiana.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam
03/10/2008 08:46 – CINA - Pechino spia gli abbonati e i messaggi di Skype - Il partner cinese filtra testi compromettenti per il governo cinese e offre ad esso i nomi di abbonati e destinatari dei messaggi. Uno scandalo simile è avvenuto con Yahoo!, che ha rivelato l’identità di due suoi abbonati, giornalisti cinesi, condannati poi a 10 anni di lager.
New York (AsiaNews/ Agenzie) – La Cina controlla e censura i messaggi e le chat-line inviati attraverso Skype. Lo ha dichiarato la stessa compagnia internet accusando la sua partner in Cina, la Tom-Skype, di aver infranto la privacy dei suoi abbonati.
La Tom-Skype infatti non solo censura messaggi contenenti parole sensibili per il governo cinese, ma immagazzina i testi, che investigati possono portare a identificare l’abbonato che li ha immessi nel web.
Già nel 2006 Skype aveva ammesso che per entrare nel mercato cinese aveva accettato di porre una censura preventiva su internet che bloccava messaggi contenenti parole come “Falun Gong”, “Taiwan” o frasi di critica ed opposizione al Partito comunista cinese. La Tom-Skype è andata oltre offrendo al governo cinese anche i nomi degli autori dei messaggi e perfino i nomi di tutti i destinatari.
La Skype scarica tutte le responsabilità sul suo partner cinese, accusandolo di aver cambiato la policy senza avvertirli. La Tom-Skype si difende dicendo che “In quanto compagnia cinese, noi aderiamo a metodi e regolamenti della Cina, dove noi operiamo”.
La “confessione” del servizio web viene dopo che un gruppo canadese di ricerca, il Citizen Lab, ha scoperto sul web un database contenente almeno 150 mila messaggi con parole politicamente sensibili bloccati dalla Cina.
Da anni le maggiori compagnie di internet, per operare in Cina, hanno accettato la condizione di filtraggio preventivo di informazioni e per e-mail. L’anno scorso Yahoo! È stata al centro di uno scandalo internazionale per aver dato alla polizia cinese i nomi di alcuni suoi abbonati che avevano pubblicato articoli sulla democrazia su internet. Almeno due suoi abbonati, i giornalisti Shi Tao e Weng Xiaoning, sono stati condannati a 10 anni di prigione per aver divulgato “segreti di stato su internet”.
Grazie a un decreto passato al parlamento americano, che vieta alle ditte di aiutare la censura cinese, Yahoo è stata costretta a pagare un’ingente somma ai familiari dei due imprigionati.
02/10/2008 15:04 – VATICANO - Papa: combattere terrorismo e fondamentalismo, ma senza limitare la libertà religiosa - Benedetto XVI riceve i vescovi dell’Asia centrale e li esorta a prendere esempio dalle primitive comunità cristiane, piccola, ma non chiuse in se stesse. Per la Chiesa “è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Nella lotta a violenza, terrorismo, estremismo e fondamentalismo “mai la forza del diritto può trasformarsi essa stessa in iniquità; né può essere limitato il libero esercizio delle religioni”. Evangelizzazione e libertà religiosa sono questioni ricorrenti nella vita delle piccole comunità cattoliche dell’Asia centrale, ancora oggi esistenti “nonostante le dure pressioni esercitate durante gli anni del regime ateo e comunista” e proprio tali temi sono stati al centro del discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi a vescovi e ordinari di Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tadjikistan e Turkmenistan ricevuti in Vaticano - in occasione della quinquennale visita “ad Limina Apostolorum”.
In Asia centrale, ha osservato il Papa, ci sono pochi cattolici, ma ciò non deve scoraggiare. “Guardate alle prime comunità dei discepoli del Signore, che, pur essendo piccole, non si chiudevano in se stesse, ma, sospinte dall’amore di Cristo, non esitavano a farsi carico delle difficoltà dei poveri, ad andare incontro ai malati, annunciando e testimoniando a tutti con gioia il Vangelo”. Oggi ciò significa da un lato tenere vive le tradizioni di fede esistenti, dall’altro cercare “con pazienza e coraggio, nuove forme e metodi di apostolato”, da attualizzare “secondo le odierne esigenze, tenendo conto della lingua e della cultura dei fedeli”.
L’evangelizzazione e la costruzione di solide comunità cristiane è dunque la prima preoccupazione che il Papa raccomanda ai vescovi dell’Asia centrale. “Tutto ciò appare ancor più necessario per affrontare le sfide che l’odierna società globalizzata pone all’annuncio e alla coerente pratica della vita cristiana anche nelle vostre regioni. Vorrei qui ricordare come, oltre alle difficoltà a cui sopra facevo cenno, si registrano quasi dappertutto nel mondo fenomeni preoccupanti, che pongono in serio pericolo la sicurezza e la pace. Mi riferisco, in particolare, alla piaga della violenza e del terrorismo, al diffondersi dell’estremismo e del fondamentalismo. Occorre, certo, contrastare tali flagelli con interventi legislativi. Mai però la forza del diritto può trasformarsi essa stessa in iniquità; né può essere limitato il libero esercizio delle religioni, poiché professare la propria fede liberamente è uno dei diritti umani fondamentali e universalmente riconosciuti”.
“Mi pare poi utile ribadire – ha aggiunto Benedetto XVI - che la Chiesa non impone, ma propone liberamente la fede cattolica, ben sapendo che la conversione è il frutto misterioso dell’azione dello Spirito Santo. La fede è dono ed opera di Dio. Proprio per questo è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede (cfr Ad gentes, n. 13). Una persona può aprirsi alla fede dopo matura e responsabile riflessione, e deve poter realizzare liberamente questa intima ispirazione. Ciò va a vantaggio non solo dell’individuo, bensì dell’intera società, poiché la fedele osservanza dei precetti divini aiuta a costruire una convivenza più giusta e solidale”.
Omaggio a Malalai Kakar - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 ottobre 2008 - Domenica 28 settembre 2008 a Kandahar, Afghanistan è stata assassinata il Capitano di Polizia Malalai Kakar, l'unica donna poliziotto di una città e di un paese ancora sotto la minaccia del fanatismo religioso islamico, del tribalismo e di un maschilismo violento
E' stata uccisa dai talebani, che ne avevano fatto un loro bersaglio personale. Malalai Kakar era un simbolo per le donne afghane e per tutte le donne musulmane. Lei, vissuta nell'epoca dei talebani, gli studenti analfabeti i quali avevano riportato l'Afghanistan a condizioni di vita che definire medievali è dir poco, aveva scelto una professione difficile e pericolosa e che molti anche in Occidente reputano inadatta alle donne, vale a dire la poliziotta. Aveva scelto di difendere la sua gente entrando nelle Forze dell'Ordine, di cercare di aiutare chi voleva portare un po' di ordine in una nazione sprofondata nel caos. E' stata uccisa dai talebani, i qual hanno gridato che Malalai era un loro bersaglio. Quei talebani che imposero la ribellione contro ogni cosa sapesse di moderno, dal cinema alla musica, eccezion fatta, significativamente, per quelle armi moderne che sono mille volte più foriere di morte rispetto alle spade dei guerrieri del deserto. E' stata uccisa da quei talebani che hanno ridotto le donne a degli spettri velati, imponendo quel burqa di cui non c'è traccia nel Corano ma solo nelle tradizioni tribali dell'entroterra pakistano e afghano. E dietro il burqa c'era il divieto di ogni cosa per le donne: di uscire se non accompagnate da un parente stretto, di battere troppo forte i piedi per terra, di parlare a voce alta, persino di ridere. Quei talebani che hanno impedito alle donne di lavorare e spesso anche di farsi curare se malate. Malalai invece non si vergognava del suo volto, della bellezza del suo volto che Dio le aveva dato e che proprio per questo non andava nascosta. Ancora oggi troppe donne hanno paura a mostrare il loro volto, ma Malalai non temeva questo. Sicuramente sapeva quello cui andava incontro. Proveniva da una famiglia di poliziotti, gli studenti analfabeti le impedirono di lavorare, e, alla loro caduta, fu la prima donna ad arruolarsi. E sapeva che lo spettro di quei talebani non era certo svanito nel nulla. Oggi non si parla quasi più dei talebani, oppure qualcuno riesce persino a giustificarli. Bisogna quindi parlare di Malalai, rendere omaggio al suo coraggio e al suo sacrificio di donna morta nel compiere il suo dovere per assicurare un destino più sicura alla sua tormentata terra. Bisogna rendere omaggio ad una donna morta perché per amore del suo Paese ha sfidato i pregiudizi e si è esposta a bersaglio di uomini che hanno rubato la vita a tutte le donne afghane riducendole a fantasmi senza diritto ad una vita di un essere umano. Cara Malalai, che Dio ti accolga. E che renda il tuo sacrificio come il seme che morendo dà molto frutto. E che quel frutto possa essere la possibilità per le donne musulmane, pe tutte le donne che ancora soffrono a causa di tradizioni tribali, di potersi vedere restituita la loro vita.
I «preamboli della fede» - Il soprannaturale - è una persona in carne e ossa - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
Per praeambula fidei - troviamo questa espressione in Tommaso d'Aquino - metafisici, intendiamo qui anzitutto la struttura dell'uomo capace di raggiungere e di riconoscere l'oggettività dell'essere e quindi la verità come un dato che non rifluisce nella soggettività dell'uomo stesso, coincidendovi.
O anche: la radicale e immanente apertura dell'uomo alla "intuizione" dei primi principi - principia nobis innata, come li chiama san Tommaso - fondati sulle esigenze dell'essere, a partire dal principio di non-contraddizione e dell'identità, e alla sua capacità di formulare dei giudizi sia universali e analitici, sia sintetici o in base all'esperienza, che egli sa criticamente e veritativamente interpretare.
Una teoria che contestasse questa capacità intenzionale dell'uomo nei confronti della verità, vanificando un autentico discorso di ragione, e relativizzando il soggetto a se stesso, fino a contestare che sia in grado di avere una conoscenza oggettiva e di attingere la res, tramite gli enuntiabilia, renderebbe da subito vano ogni discorso riguardante il soprannaturale, la fede e quindi la figura di Cristo, che del soprannaturale è la forma storica.
Tale teoria non solo estranierebbe il soggetto dal soprannaturale, ma dissolverebbe il soggetto, che si troverebbe umanamente stemperato, e persino del tutto spento, per rifarci ancora all'immagine di san Tommaso, che parla di lumen naturaliter inditum.
Questi praeambula fidei, "che è necessario conoscere nella fede" - quae necesse est in fide scire - sono presupposti o, si direbbe meglio, sono inclusi per la conoscenza e nella conoscenza del soprannaturale, o conoscenza teologica.
Essi - precisa san Tommaso - sono disposti ancillarmente e preambularmente sul piano della temporalità - in via generationis - e tuttavia vengono dopo quanto a valore - dignitate posteriores.
Quanto, poi, al loro contenuto, gli stessi praeambula comprendono "quello che di Dio è provato mediante le ragioni naturali, come la sua esistenza, la sua unità e altre cose del genere, riguardanti Dio e le creature, provate nella filosofia e presupposte dalla fede - ea quae naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum esse, Deum esse unum, et alia huiusmodi vel de Deo vel de creaturis, in philosophia probata, quae fides praesupponit."
Senza queste premesse strutturali, gnoseologiche e ontologiche, e senza i contenuti fondamentali che si risolvono nel riconoscimento del Deum esse, con quanto ne consegue, il linguaggio elementare della fede e il suo discorso mancherebbero della loro primaria - ossia linguistica e concettuale - plausibilità. E neppure sarebbe ipotizzabile un soprannaturale: una concezione della ragione afflitta da radicale debolezza, per cui il suo giudizio non riesce a cogliere la realtà e a riconoscerne la trascendenza, ne pregiudica la possibilità di qualsiasi discorso.
Ma con l'affermazione della disponibilità trascendentale veritativa e teologica (di teologia filosofica), siamo ancora - direbbe san Tommaso - sub metis philosophiae - e non abbiamo ancora realmente varcato il confine o l'eccedenza (excessus) per l'ingresso nel soprannaturale. Di esso possiamo unicamente ammettere la possibilità, che in ogni caso potrebbe solo configurarsi come un itinerarium Dei in mentem, totalmente lasciato, nel suo "avvenire", alla libertà di Dio e, nella sua conoscibilità, al lumen fidei, al novum lumen, o nova lux intelligibilis, o al divinum lumen o lumen inspirationis divinae.
È come dire che il soprannaturale è concepibile non come una realtà necessaria, avente evidenza metafisica, che risulterebbe confinata nell'area filosofica, ma come evento, o anche "contingenza", che appunto "avviene", "appare", presentandosi con i segni del suo esserci e della sua soprannaturalità, così che sia possibile accorgersi della sua storicità, e riconoscerlo nella sua compiuta identità.
In altre parole, senza alcuna premessa metafisicamente e storicamente necessaria: - il soprannaturale deve offrirsi, in modo tale da giustificare un giudizio storico o proveniente dall'esperienza, quindi da una "visione": senza apparizione storica, senza "visione" e senza esperienza il soprannaturale resterebbe inaccessibile.
- Ma questo non basta per il riconoscimento e il consenso: occorre che ci sia la facoltà adeguata al riconoscimento, e questa non potrebbe essere la "pura" ragione o il lumen naturaliter inditum, che non vi sarebbe consono e proporzionato.
Tommaso parlava di nova lux intelligibilis, o di divinum lumen, o lumen inspirationis divinae, in virtù del quale l'uomo è in grado non di bypassare, l'apparizione e la consistenza storica del soprannaturale, ma di riconoscere e di "giudicare" integralmente l'evento storico, e di aderirvi o consentirvi.
Questa adesione e questo consenso, possibili per la grazia di quella nova lux, è esattamente l'atto di fede.
E a proposito di tale nova lux importa osservare: che essa si diffonde e si insinua in tutto quanto abbiamo detto a proposito delle premesse strutturali, gnoseologiche e ontologiche, e dei praembula fidei, senza di cui la stessa nova lux resterebbe come "spiazzata", senza soggetto, e nell'impotenza a giudicare; non solo, ma che tale nova lux, invece di ridurre e di pregiudicare la capacità del giudizio, la potenzia, secondo la luminosa affermazione dell'Angelico: "I doni di grazia in questo modo aggiunti alla natura, non tolgono la stessa natura, bensì la perfezionano ulteriormente. Per cui il lume della fede, che ci viene gratuitamente infuso, non distrugge il lume della ragione naturale, che ci è dato da Dio - Dona gratiarum hoc modo nature adduntur, quod eam non tollunt set magis perficiunt; unde lumen fidei, quod nobis gratis infunditur, non destruit lumen naturalis rationis divinius nobis inditum."
In sintesi: senza la gratuita deliberazione divina il soprannaturale non c'è; il soprannaturale non può, quindi, che essere un "evento", un fatto, fenomenologicamente attingibile: senza questa storicità o fenomenologia, esso non sarebbe accessibile. Questo evento, poi, è un evento "complesso": in quanto costituito appunto di fenomenologia accessibile alla percezione e alla valutazione storica, ma nella quale è dato "il mistero" o la trascendenza oltre la natura: senza questa trascendenza si ridurrebbe a un dato filosofico o storico naturale, e non di grazia. Per l'accessibilità al soprannaturale e, di conseguenza, per il giudizio ad esso adeguato e pertinente, è imprescindibile il lumen divinae inspirationis che conformi la mente all'evento. E questa è la fede, o sono gli "occhi della fede", o gli "occhi illuminati del cuore" (Efesini, 1, 18), che permettono il giudizio "complessivo" e l'adesione. In Tommaso è diffusa la dottrina sugli occhi della fede: egli parla di oculi fidei; afferma: per oculum intelligitur fides.
Senza quindi la fede "oculata", come ancora si esprime l'Angelico, - fides oculata - resta disponibile la fenomenologia del soprannaturale, che verrebbe, tuttavia, inevitabilmente assunta in modo parziale e alla fine fraintesa e non obiettivamente interpretata. Il soprannaturale vive ed è percepibile e giudicabile nella fede.
Ma ora è inevitabile ormai la definizione e la denominazione concreta di questo soprannaturale: esso coincide con Gesù Cristo, con la storia che in lui trova la sua ragione iniziale e conclusiva, con i suoi "confini". È da lui che il soprannaturale irraggia ed in lui che esso quale tutto conviene.
Tutto quanto siamo venuti dicendo finora sul percorso al soprannaturale, sulle sue condizioni e le sue forme in concreto di riferisce a Gesù Cristo.
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Aspetti teologici e dottrinali dell'«Humanae vitae» - Veramente liberi e liberamente veri - "Humanae vitae: attualità e profezia di un'enciclica" è il titolo del congresso internazionale che si svolge il 3 ottobre nella sede romana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il cardinale arcivescovo di Bologna ha sintetizzato per noi i temi della sua lectio magistralis. - di Carlo Caffarra
L'enciclica Humanae vitae ha avuto in questi quarant'anni trascorsi dalla pubblicazione un destino singolare: a una discussione di intensità sconosciuta per qualsiasi documento pontificio precedente è seguito un silenzio pressoché totale. (...) Nel primo ventennio dopo la pubblicazione, la riflessione e/o la contestazione riguardava la praticabilità della norma morale insegnata da Humanae vitae e l'autorevolezza dell'insegnamento. (...) Questo approccio presupponeva comunque la verità di ciò che l'enciclica prescriveva. Meglio: il bene che la norma difendeva era ritenuto vero bene. È precisamente a questo livello che nel secondo ventennio è avvenuta la "crisi dell'Humanae vitae". Mi spiego.
La materia del contendere non è più la praticabilità della norma insegnata, e/o l'obbligatorietà dell'assenso del credente alla medesima in ragione del soggetto docente. La materia del contendere è costituita dalla domanda circa la verità del bene che l'Humanae vitae intende difendere. Cioè: è vero o è falso che la connessione fra capacità unitiva e capacità procreativa unite nella sessualità è un bene propriamente morale? Si passa dal pensare: "ciò che la Chiesa insegna non è praticabile o comunque non obbliga semper et pro semper", al pensare: "ciò che la Chiesa insegna è falso". La domanda sulla verità è il nodo "problematico attuale".
La radicalizzazione del confronto con l'Humanae vitae è uno dei molti aspetti del confronto che la proposta evangelica oggi vive con la post-modernità occidentale. Esso non avviene più, almeno principalmente, sul piano della prassi: è ragionevole, è possibile praticare ciò che la proposta cristiana esige o proibisce?
Lo scontro avviene sul piano veritativo. Il cristianesimo non dice la verità circa il bene dell'uomo, poiché il discorso religioso come tale non ha rilevanza veritativa. Il cristianesimo, allo stesso modo di ogni altra proposta religiosa, fa parte ad uguale diritto del "supermarket delle religioni": ciascuno prende il prodotto secondo le sue preferenze, senza possibilità di una ragionevole argomentazione capace di giustificare la scelta in modo condivisibile. (...) Verità e cristianesimo sono due categorie di genere essenzialmente diverso. L'uso della ragione, come facoltà del vero, non è da ritenersi conditio sine qua non di individuazione, comprensione e libera accoglienza del Dono divino. Questo si ritiene per lo più oggi.
Non voglio ora però procedere in una riflessione di carattere generale su questo che costituisce uno dei grandi temi e delle "grandi sfide" del magistero di Benedetto XVI.
Vorrei piuttosto verificare come tutti i presupposti veritativi di carattere antropologico alla base dell'Humanae vitae siano stati progressivamente erosi. Questa erosione ha reso l'Humanae vitae non impraticabile, ma impensabile; ne ha dimostrato la (supposta!) falsità.
L'affermazione centrale dell'Humanae vitae si fonda sulla (percezione della) presenza di un bene morale nel fatto che l'atto sessuale coniugale fertile sia al contempo unitivo e procreativo. La compresenza delle due capacità non è un mero dato di fatto, ma ha in se stessa una preziosità di carattere etico che esige di essere rispettata. Questo atto di intelligenza si fonda su alcuni presupposti antropologici che devo solo telegraficamente richiamare.
Il primo. La persona umana è sostanzialmente una nella sua composizione di materia e spirito (cfr. Costituzione pastorale Gaudium et spes, 14, 1, EV 1/1363). Pertanto il rapporto fra l'io-persona ed il corpo non è solo di proprietà [ho il mio corpo] e quindi di uso.
Il secondo. La dimensione biologica della sessualità umana è linguaggio della persona, dotato di un suo significato proprio, di una sua grammatica.
Il terzo. La grammatica che regge il linguaggio della persona che è la sessualità, è la grammatica del dono di sé. Da ciò deriva che il rispetto di questa grammatica esige una profonda, intima integrazione fra èros e agàpe, fra pàthos, èros e lògos.
Ora, la mia convinzione è che tutti e tre questi presupposti sono stati nella postmodernità occidentale completamente erosi.
Il primo è stato demolito in una duplice direzione, affermando una natura senza libertà o una libertà senza una natura. (...) Il secondo è stato demolito dalla vittoria che l'etica utilitaristica ha ottenuto nell'èthos occidentale. Essa nega l'esistenza di ragioni incondizionatamente e universalmente capaci di giustificare una scelta libera. (...) Il terzo presupposto appare ampiamente demolito nel vissuto attuale in cui pàthos, lògos, èthos sono ormai completamente separati. Ed è questo il nodo che l'etica contemporanea si dimostra sempre più incapace di sciogliere.
Perciò l'Humanae vitae nella postmodernità è diventata ormai incomprensibile perché è diventata completamente impensabile.
A una lettura più profonda di tutta la vicenda tuttavia risulta che l'insegnamento dell'Humanae vitae è la risposta, è l'indicazione della via d'uscita da una sorta di prigione in cui l'uomo stava chiudendo se stesso. Parlare dunque di attualità dell'Humanae vitae, della sua rilevanza profetica non è retorica.
Che l'uomo oggi sia in pericolo nella sua propria umanità, è difficile negare. Ed allora mi chiedo: che cosa oggi mette in pericolo l'humanitas della persona come tale? La mia risposta è: l'avere sradicato l'esercizio della libertà dalla [consapevolezza della] verità circa l'uomo. Posso formulare questa stessa risposta nel modo seguente: è la negazione che esista una natura della persona come criterio valutativo delle scelte della nostra libertà.
Che questa posizione metta a rischio l'humanum di ogni persona risulta dalle seguenti considerazioni.
Se prendiamo in considerazione la produzione delle norme di cui necessita ogni società (ubi societas ibi jus) e partiamo dal presupposto della negazione della natura nel senso suddetto, si deve pensare che la condizione sufficiente per costituire tutte le norme è esclusivamente il consenso delle parti, che normalmente si manifesta attraverso la votazione.
La difesa della persona è affidata alla buona disposizione di chi esercita il potere (in tutti i sensi: anche il potere del politically correct), e viene tolta dalle coscienze la scriminante fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fra ciò che è prevaricazione morale dell'altro e riconoscimento dell'altro.
Possiamo prendere in considerazione anche la condizione della singola persona nel contesto della negazione di una sua natura.
È ancora pensabile la possibilità del male morale? Del male morale inteso come il modo di esercitare la propria libertà contro il bene di chi la esercita. Se infatti è la libertà stessa a decidere non di compiere il bene o il male, ma a stabilire che cosa è bene o che cosa è male; se attribuisco alla libertà il potere di determinare la verità delle sue scelte, parlare di male morale non ha senso. Il dramma della libertà - possibilità di negare colle proprie scelte ciò che si è affermato vero colla propria ragione - si trasforma in una farsa. Ciò che sembra essere esaltazione suprema della libertà è in realtà la sua degradazione a mero spontaneismo.
Quanto detto finora acquista un significato più profondo se pensiamo al potere tecnico di cui l'uomo è venuto in possesso in questi ultimi quarant'anni. Sradicare la libertà dalla verità, negare che esista una natura umana nel contesto di possibilità tecniche sempre più estese, rischia di consegnare l'humanum a prevaricazioni senza limiti. Affermare la relatività di ogni forma di umanità rischia di privare il potere tecnico di ogni criterio di giustizia. Ciò che sto dicendo non significa che dobbiamo scegliere fra tecnica ed etica. Ma che non possiamo radicare la tecnica in un'etica senza verità. O - il che equivale - umiliare e degradare la ragione a una mera ratio technica. È una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI sta lanciando al mondo: o si allargano gli spazi della ragione o l'uomo è in pericolo mortale.
Che cosa ha a che fare tutta questa riflessione, qualcuno potrebbe chiedersi, con l'Humanae vitae? Essa mostra in quale condizione oggi si trova l'Humanae vitae: quale è il suo permanente significato; il suo permanente significato profetico.
Ho parlato di "natura della persona umana". Secondo l'antropologia giudaico-cristiana, il corpo entra nella costituzione della persona. La persona umana è persona-corpo (persona corporea). Ne deriva che lo statuto ontologico della persona appartiene anche al suo corpo. La coscienza di sé non è disincarnata: è la coscienza di sé come soggetto-corpo. Ho la coscienza che è lo stesso io che comprende un teorema di matematica, e che mangia. Così come l'altro è conosciuto e ri-conosciuto nel e mediante il suo corpo. È il corpo il linguaggio della persona.
Da ciò deriva una conseguenza d'importanza fondamentale.
La conseguenza riguarda la concezione della sessualità umana: del suo lògos e del suo èthos. La sua ratio - il suo lògos - consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità è linguaggio della persona, e quindi espunge da sé ogni separazione fra biologia (del sesso) e relazionalità (della persona). È l'unità di biologia e relazionalità che definisce la natura della sessualità umana; e la custodia di questa unità definisce l'èthos della sessualità umana.
La possibilità tecnica di separare la fertilità dall'esercizio della sessualità fu chiaramente intuita da Paolo VI e come la negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana e, soprattutto, come una "svolta epocale" nel rapporto fra l'uomo e la tecnica. In questo sta il permanente valore profetico di quel documento. Vediamo le cose più in particolare.
Ho parlato di negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana. La contraccezione chimica rendeva pensabile e praticabile un (supposto) vero atto di amore coniugale manipolando sostanzialmente la sua biologia. Veicolava nella coscienza dell'uomo e della donna l'idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo un qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una "misura di uso" che ora la tecnica poteva stabilire.
Se l'atto di porre le condizioni del concepimento di una persona non entrava nella costituzione della libera relazionalità intra-coniugale, era solo questione di tempo per dedurre che lo stesso atto poteva prescinderne completamente: dieci anni dopo, esattamente, nacque la prima bambina per fecondazione artificiale. La separazione della biologia dalla relazionalità era completa. Ho parlato di svolta epocale nella costituzione del rapporto tra uomo e tecnica. Il concepimento di una nuova persona si trasforma da "mistero" degno di venerazione in "problema" da risolvere. Paolo VI intuì che questa trasformazione rischiava di consegnare l'humanum come tale ad un destino tecnologico; rischiava di mettere l'humanum a disposizione di un potere di fatto senza limiti. La persona umana era a rischio di perdere la sua assoluta indisponibilità; di perdere la sua non negoziabilità.
Ci siamo chiesti: in quale condizione versa oggi l'Humanae vitae? Mi sento di rispondere: di drammatica attualità.
Come ogni profezia, anche l'Humanae vitae è dotata e di una grande forza e di una grande fragilità. La sua fragilità fu dovuta all'impreparazione e all'inadeguatezza del pensiero etico teologico a sostenerne l'insegnamento.
Il grande magistero di Giovanni Paolo II espresso nel ciclo di catechesi sull'amore umano, ha risposto a queste esigenze. Che ora il profondo magistero di Benedetto XVI sull'agàpe e sul suo rapporto con l'èros ha ulteriormente approfondito.
La forza della profezia dell'Humanae vitae consiste precisamente nel suo mettere in guardia l'uomo da un potere che potrebbe devastarne la dignità; dal mettere la propria umanità "a disposizione" e di una libertà e di una deliberazione pubblica che non riconosce più l'esistenza di una verità circa l'uomo.
Ed allora la sfida più urgente è quella educativa: aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, ad essere veramente liberi e liberamente veri.
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Biopolitica e persona: una riflessione etica nell'epoca della globalizzazione - Il corpo, l'uomo e la sua dignità - di Adriano Pessina
Il termine biopolitica è ambiguo e bisognerebbe discutere sulla legittimità di una politica della vita che pretende di essere una politica sulla vita. Oggi nell'epoca della globalizzazione dei mercati e della caduta, in Occidente, delle ideologie totalitarie, la biopolitica rischia di costituirsi nei termini di una macro-ideologia, tesa ad influenzare, le legislazioni dei singoli Paesi. Qual è la differenza tra una biopolitica autoritaria - come quella che già emergeva secondo Popper dalle pagine della Repubblica di Platone e che poi ha trovato il suo apice nel biologismo salutista e razziale del nazismo - e una biopolitica liberale, che parla il linguaggio dei diritti dell'individuo, che spesso coincidono, però, con i diritti e le rivendicazioni del cittadino consumatore?
Non si può parlare di biopolitica senza fare i conti con la questione della giustizia. Cittadinanza e riconoscimento della dignità sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, perché la relazione tra gli uomini sia giusta, cioè sia in grado di garantire, all'interno di una comune e pacifica convivenza, ciò che spetta a ognuno. Dopo la seconda guerra mondiale si è consolidato il convincimento che si dovesse allargare il concetto di cittadinanza e bisognasse attribui-re diritti all'uomo non più, e non soltanto, in quanto cittadino, ma in quanto persona. L'introduzione, in politica, di questa nozione, cara alla tradizione cristiana, che l'ha privilegiata per esprimere la fede nel Dio Trinitario, sta però sortendo effetti opposti a quelli auspicati e sta producendo forme di discriminazione tra gli uomini nelle società occidentali ispirati al modello della neo cultura liberale. È già nel cuore ambiguo della nozione di persona così come è posta nella modernità che si situano le condizioni per capovolgere il progetto di inclusione di tutti gli uomini, al di là di condizione, razza, età, salute, ricchezza, in uno spazio comune di riconoscimento, tutela, promozione. Non c'è uguaglianza se non sulla base del riconoscimento della dignità come qualità intrinseca al puro essere uomo: se la dignità indica una qualità che si può perdere o possedere, se non è pensata in termini ontologici, ma nei termini morali dell'esercizio della ragione e della volontà umane, allora non vi è dubbio che la dignità varia e l'uguaglianza si frantuma.
Avere diritti perché persone e non perché uomini, stabilendo già così una dualità uomo/persona, significa porre dentro l'esistenza concreta una frattura che nel tempo produrrà gli stessi effetti presenti nel dualismo (per certi versi meno grave) posto tra uomo e cittadino. Infatti, il dualismo uomo/cittadino resta pur sempre un dualismo estrinseco, che può essere sanato, allargando la cittadinanza, che differenzia gli uomini tra di loro, ma che non frantuma l'uomo in se stesso. Porre, invece, dentro la condizione umana, una differenza tra essere uomo e essere persona significa dividere l'uomo in due.
La manipolazione degli esseri umani allo stato embrionale o fetale, l'eutanasia come progetto di estensione del suicidio assistito, il progetto di perfezionare l'uomo con un'eugenetica migliorativa, nel contesto della biopolitica liberale, sono di fatto permessi in nome della sovranità che l'essere umano persona - cioè chi è adulto, capace di intendere e volere, cittadino dell'Occidente, consumatore e produttore, cioè protagonista del mutuo scambio contrattualistico su cui si fonda una società liberale - può esercitare sull'essere umano non ancora, o non più persona. Questa grande divisione - che evoca la grande divisione tra essere e dover essere che ha tentato di eliminare la categoria della verità dall'ambito dell'etica - non attraversa gli uomini, ma l'uomo. Il ritorno dell'antica formula, che echeggiò nel nazismo, della vita non degna di essere vissuta oggi viene interiorizzata dall'individuo stesso, che instaura uno strano rapporto di odio e amore con quella corporeità che egli è e che, invece, pensa di avere. Un amore e odio con il proprio corpo nel quale si mima l'antica dialettica servo-padrone. Ma proprio perché si è corpo umano e non si ha un corpo umano, è difficile quell'astratta signoria vagheggiata da un'antropologia irrealistica: le malattie, la vecchiaia, le relazioni difficili, rendono faticosa la signoria della persona sul proprio corpo e rendono difficili i tempi della malattia, laddove il corpo diventa una sorta di estraneo ai progetti della persona. Da qui l'idea che sia meglio non far continuare a vivere quei figli che sono affetti da malattie e che non godranno forse dello statuto di persona perché dovranno vivere nella dipendenza da altri, dovranno subire la tirannia del loro corpo malato: da qui l'idea di programmare, con direttive anticipate, la propria fine quando non si potrà più esercitare la signoria sul proprio corpo, si perderà la coscienza di sé e ci si dovrà affidare ad altri.
Questo dualismo, consacrato dalla nozione di persona, è anche all'origine del nuovo modo di pensare la sessualità e i suoi "diritti". Se la persona ha un corpo, allora la persona non è di fatto né maschio né femmina e quindi il suo essere maschio o femmina non dipenderà soltanto dal suo corpo, ma dalla sua scelta libera. L'invenzione dell'identità e della personalità come progetto e desiderio si alimenta di questa scissione: l'omosessualità, come scelta e diritto, e non più come fatto o destino, è teorizzabile dentro questa scissione tra persona e essere umano, tra mente e corpo, tra desiderio e identità fisiologica. La persona diventa il neutro che, mentre sancisce il linguaggio politicamente corretto, nell'illusione di evitare discriminazioni sulla base del genere maschile o femminile, di fatto dissolve il carattere proprio della persona umana, che non è mai neutra, non è mai senza corpo. Diventare donne o diventare maschi oggi non significa più sviluppare nel tempo le condizioni dell'essere persona umana, cioè maschio o femmina, ma significa decidere rispetto a un neutro, plasmabile dalle scelte e dai desideri.
Paradossalmente, per un'astuzia della storia o per una stupidità dell'uomo, si torna al problema che si voleva risolvere: non basta più la nuda qualità dell'essere umano per godere del riconoscimento altrui.
Si può ripetere quello che diceva Hannah Arendt a proposito dei prigionieri nei campi di concentramento, privati della cittadinanza e di ogni diritto: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell'astratta nudità dell'essere uomo" (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, pagina 415). Secondo la Arendt, "Un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile". Separare l'uomo dalla persona significa di fatto introdurre dei gravi problemi di giustizia sociale e minare il principio politico dell'uguaglianza.
Ha messo in luce con chiarezza questa situazione la filosofa americana Eva Kittay che, partendo dall'esperienza diretta di una figlia affetta da paralisi cerebrale congenita, ha posto in evidenza i problemi di cura e di presa in carico delle persone con disabilità. Ad uno sguardo superficiale questi problemi sembrerebbero riguardare una speciale categoria di persone, i disabili appunto. E nel nostro immaginario pensiamo, per esempio, a bambini affetti da sindrome di Down, a persone paraplegiche, a persone in stato vegetativo, oppure ad anziani non autosufficienti. In realtà non si tratta di categorie antropologiche o sociali perché le forme della dipendenza, più o meno estrema, che alcuni di loro esperimentano fanno parte della condizione umana e sono perciò aspetti dell'esistenza che in modo differente e per tempi differenti ci riguardano tutti, direttamente o indirettamente. Ma i problemi di queste persone rischiano di essere considerate politicamente marginali se pensiamo a una teoria liberale della giustizia che si ispiri al modello del mutuo scambio tra cittadini, dove gli attori del contratto sociale sono persone libere, uguali ed indipendenti.
Per correggere questa impostazione, Nussbaum è ricorsa a due fonti, l'antropologia aristotelica e le teorie dei bisogni di Marx. In questo modo ha cercato di allargare il concetto di dignità umana anche a quella che lei definisce la dimensione animale dell'uomo. Ma nell'uomo non c'è un'animalità su cui egli avrebbe una sorte di dominio. Nell'uomo tutto è umano, anche quegli aspetti che lo mettono in analogia con l'animale. Soltanto perché l'uomo ha umanizzato l'animale è stato possibile animalizzare l'uomo: ma in questo modo, ancora una volta, si è persa la consapevolezza di quella nuda qualità dell'essere uomo di cui parla Arendt. Una qualità ben espressa dalla lapidaria definizione di persona umana posta da Tommaso d'Aquino: "Perciò la persona, in qualsiasi natura indica ciò che è distinto in quella natura: cioè nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono principio di individuazione per l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana" (Tommaso, Summa Theologiae, i, q. 29, a. 24).
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Appunti per una società aperta. E laica - Maurizio Lupi - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Viviamo nell’era della comunicazione ma, paradossalmente, è proprio una delle parole che usiamo di più ad essere anche una delle più fraintese. Tutti parlano di laicità, ma cos’è veramente la laicità? Tenterò di rispondere prendendo a prestito le parole che il presidente francese Sarkozy ha pronunciato lo scorso 12 settembre, ricevendo all’Eliseo Papa Benedetto XVI quando – difendendo una nozione di laicità “positiva” – ha detto che «è legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero».
Queste parole ci dimostrano come la laicità non sia solo un problema linguistico. Dietro la comprensione di questo concetto si nasconde l’alternativa secca tra una società aperta al contributo delle religioni e una società basata sull’esclusione. La storia è piena di esempi: basterebbe citare ciò che sta accadendo nel dibattito sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Ma se si escludono dal dibattito politico le religioni come portatrici di senso, l’alternativa è il relativismo. Si cede al dubbio, al ripiegamento in se stessi, alla cultura del “ma anche” per cui tutto ha uguale valore.
La politica non può rimanere indifferente davanti a questa sfida. La domanda da cui dobbiamo partire è quindi: cosa dobbiamo fare? Ha qualche fondamento la contrapposizione tra laico e credente? Benedetto XVI, rispondendo a Sarkozy in quell’occasione, ha ricordato che il primo a trovare una giusta soluzione sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa è stato Gesù Cristo, quando affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). «È fondamentale infatti, da una parte – ha aggiunto il Papa – insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
La democrazia, che come ha detto don Giussani può essere definita come “esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi”, è possibile solo in presenza di una consapevolezza di uomo così rispondente alla sua natura, così rispettosa del valore dell’uomo perché è. La possibilità di convivenza, di dialogo e quindi di democrazia, è frutto dell’ideale di uomo che si vive, della presenza di un ideale. Non è sufficiente, infatti, scartare ciò che non è condiviso o divide, poiché questo, di per sé, non è affatto garanzia di democrazia, di dialogo o di costruzione del bene comune.
Nulla di più lontano dalla ricerca di uno Stato etico, ma al contrario la ricerca, nel confronto tra identità e tradizioni religiose diverse, di risposte concrete ai bisogni dei cittadini. È possibile questo? Io dico di sì, ma non in astratto. Ci sono esempi di come questo sia possibile: penso alla legge 40, alla sussidiarietà – difesa dalla dottrina sociale della Chiesa come dalla Costituzione -, al dibattito sul testamento biologico, alle carceri, dove più che altrove si gioca un’idea di giustizia rispettosa dell’uomo. Si tratta di battaglie in cui cattolici e non si sono confrontati, anche duramente, ognuno partendo dalle proprie posizioni per cercare di trovare un compromesso positivo che salvaguardasse quei valori non negoziabili che sono patrimonio di tutta l’umanità.
Non si tratta, quindi, di ragionare sull’opportunità o meno di dar vita a un partito dei cattolici e neppure di costituire un fronte cattolico all’interno del Parlamento. Come ha recentemente auspicato il Santo Padre, «il nostro paese non ha bisogno di scontri, né di battaglie di religione, ha bisogno di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». È questa, mi pare, la laicità di cui la nostra vita pubblica non può più fare a meno.
CILE/ Ecco come far fronte all’emergenza educativa - Redazione - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In Cile l’educazione si è trasformata da molto tempo in un tema che coinvolge l’intera società. Professori e assistenti universitari si danno da fare ogni giorno per avere un’educazione di qualità per tutti gli studenti.
Su questo tema, si sono confrontati diversi organismi politici ed educativi in cerca di una proposta che possa soddisfare ciascuno dei settori educativi del Pase.
Di fronte a questa situazione, i professori di Comunione e Liberazione hanno deciso di riunirsi una volta al mese per comprendere qual è il vero problema e come affrontarlo. Tra questi incontri, ve n’è uno con Pedro Morandé, decano della facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Cattolica, per parlare di educazione di qualità.
Nel 2003, in Cile c’è stata una politica di rafforzamento della classe docente, sorta come risposta a una riforma iniziata a metà degli anni ’90, con la quale si sperava di ottenere la tanto ambita qualità di educazione. Tuttavia questa iniziativa non riuscì a diminuire lo storico divario tra le scuole private (che sono molto costose) e pubbliche (che sono gratuite o a basso costo), dato che le prime continuavano ad ottenere risultati accademici migliori.
Dopo questa riforma, i cui risultati non riuscirono a invertire la situazione in cui si trovava il Paese, fu creato un documento chiamato Marco para la Buena Enseñanza (letteralmente Cornice per il Buon Insegnamento), per garantire che l’educazione in Cile fosse di qualità per ogni studente. Nel documento si stabilisce ciò che ogni docente deve sapere, conoscere e fare, in modo da poter determinare in che misura lo fa nelle aule e in che misura lo fanno le scuole. In sostanza, il documento cerca di descrivere tutte le responsabilità di un Professore nel suo lavoro giornaliero con gli studenti.
Morandé ha tenuto una relazione sul Marco para la Buena Enseñanza e sui documenti di Benedetto XVI dedicati all’emergenza educativa, aiutandoci a comprendere cosa essi intendessero per qualità. «Se voi confrontate questi due documenti, entrambi parlano di qualità, ma in termini completamente diversi: non necessiariamente contradditori, ma differenti, ed è bene chiarire qual è il punto di vista di ciascuno di essi».
«Il Marco para la Buena Enseñanza parla da un punto di vista tecnologico, cioè: garantiamo procedimenti e metodi affinché l’educazione sia più o meno uguale per tutti. Quando parliamo di qualità nel senso tecnologico, parliamo fondamentalmente di rendimento scolastico; rendimento in relazione o comparazione con quello di altri. Non è descritto il sistema per unire l’apprendimento di uno studente con il modo in cui questo gli ha cambiato la vita».
«Il documento del Papa (Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008) dice una cosa esattamente diversa. Egli scrive: “A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni”. Il che vuol dire, che non possiamo usare come criterio guida l’omogeneizzazione del rendimento, ma dobbiamo educare la libertà delle diverse generazioni, perché prendano nuovamente le proprie decisioni, sia che seguano un’eredità del passato, sia che credano in altre cose. Più avanti il Papa dice quali sarebbero i requisiti comuni per un’autentica educazione: “Essa ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall'amore […]. Ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso”. In sostanza, ciò di cui ci si deve curare è ogni persona; fortunatamente - e grazie a Dio -, l’amore non è standardizzabile, non lo possiamo misurare con numeri dicendo: io amo questa persona 5 o 10. L’amore, giustamente, è l’assenza di misura, è la gratuità, quello che non si lascia standardizzare e quindi mostra ogni persona - tanto il professore quanto ognuno dei suoi alunni - come qualcosa di unico, che ha la propria vocazione e che merita di essere amato per quello che è, perché Dio lo ama. Ogni persona è un progetto in se stesso, non è il progetto nazionale del sistema educativo. Ogni persona è un progetto e l’unico modo di avvicinarsi a questa persona è donare se stessi».
Queste parole non sono vuote per noi, vogliamo andarci a fondo per essere educatori migliori, perché lo scopo dell’educazione non è solamente delle istituzioni a essa dedicate, ma si forma grazie a una persona che ne incontra un’altra.
(Alejandro León, Assistente alla Pontificia Università Cattolica del Cile)
UCCIDERE UNA DONNA INCINTA - QUELL’AGGRAVANTE EVIDENZA DEL DIRITTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 ottobre 2008
Era una questione di evidenza. Qualunque persona di buon senso, insomma, qualunque persona libera di pensare e di sentire, capiva che si trattava di una specie di evidenza. Ora sta diventando anche un’evidenza del diritto. Il giudice che a Milano ha riconosciuto un’aggravante – come procurato aborto – a colui che ha ucciso una donna incinta, Veronica, e il procuratore generale di Venezia che ha presentato appello con motivazioni analoghe per il delitto di Jennifer, hanno dato spazio a quella evidenza. Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé.
Uccidere una donna incinta non è – se così terribilmente è possibile parlare, ma così si deve, quando la vita chiede alla ragione e al cuore, supplica d’esser riconosciuta, e rispettata – insomma, uccidere una donna incinta non è come uccidere una donna che non lo è. C’è 'qualcosa' in più che entra in gioco. C’è qualcun altro a cui viene fatto un torto. Il torto immenso di portar via la vita. In un omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo. Come accade per il dolore, per la pena che proviamo quando ci raggiungono notizie così dure, d’una donna che muore con il bambino dentro di lei. E allora si ha una pena aumentata, se così si può dire, moltiplicata. Più infinita di infinita, se avessero senso le parole che riusciamo a dire. Ma è così, è evidente, è buon senso, è misura larga della vita. E se gli uomini e le donne di questa Italia fossero ancora liberi di pensare, e di sentire, vedrebbero che la giustizia disponendo queste sentenze, non fa che seguire una evidenza. È infatti evidente e anche naturale che il diritto, nel suo esercizio di sanzionare le colpe, riconosca che se la morte raggiunge la madre e anche il figlio che è in lei sia più dura la pena.
Poiché così lo chiamava la povera madre: mio figlio, il figlio che sto aspettando. Non 'il figlio che non c’è', ma 'che sto aspettando', che c’è e sta arrivando. E così dicevano le sue amiche, e così i parenti. E dunque è naturale, è evidente quel che, se pur ancora timidamente, alcuni giudici stanno ammettendo. Sarà compito dei Signori della giustizia trovare le parole, trovare le formule che riescano a portare questa evidenza che di fronte a certi fatti ci fa restare senza parole, e ci fa sentire vuote le formule, le frasi fatte… Ora che certe sentenze, per così dire, si sono accorte di lui, del figlio, oltre che di lei, della povera madre, la prima ad esserne felice nel cielo delle madri sarà lei. E poi ne sono convinti i liberi di pensare e di sentire. Coloro che non si perdono in strani e sinistri distinguo. Perché sulla scena del delitto c’era il demente assassino, e c’era lei, sì, ma lei sapeva benissimo, e anche l’assassino a volte sapeva benissimo che c’era anche lui, il figlio. E non è giusto dimenticarlo. Non sarebbe giustizia fare finta di niente. Non sarebbe né materno né giusto. Non sarebbe civile. Sappiamo che in Italia, su tanti argomenti, capita che azioni e decisioni di singoli magistrati hanno teso a colpire l’evidenza. A volte circumnavigando le norme e i dettati costituzionali. A volte forzando di proposito o creando nodi interpretativi. Può capitare, laddove si tocchino vicende delicate, difficilmente afferrabili con definizioni certe. Specie in questo tempo dove febbrili e affascinanti sono le ricerche e le tensioni intorno all’inizio e alla fine della vita. Ma in casi come questi, dove l’evidenza è disponibile, e occorre solo esser liberi ancora di pensare e di sentire, allora il compito del giudice che dispone le sentenze è di prendere atto, di cercare quali leggi, se ci sono o se creare si devono, siano più adeguate a riconoscere i fatti. E invece di una forzatura per contrastare l’evidenza, si sono fatti dei passi per riconoscerla.
1) "MIO FRATELLO PAPA RATZINGER (CHE VOLEVA FARE L'IMBIANCHINO)" - L'infanzia, l'adolescenza, i ricordi dell'unico uomo al mondo che conosce i segreti di Benedetto XVI. "Ora si è abituato a essere Papa, lo vive come un volere di Dio"... - di Andrea Tornielli
2) "Come fedele indù provo vergogna..." - Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India. Prende le difese dei cristiani e accusa i loro aggressori di tradire lo spirito dell'induismo – di Sandro Magister
3) Impedire scuole speciali e sterilizzazione forzata dei gitani - Chiede il Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il documento finale del VI Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari ha chiesto di proibire le scuole speciali per i bambini gitani, così come i programmi di sterilizzazione per le donne zingare.
4) Fertilità e infertilità: testimoni di speranza - Un libro risponde all'appello dell'Humanae vitae - di Antonio Gaspari
5) Oggi “Il Tempo” scrive che sto per scendere in politica “al fianco del Cavaliere”. E’ assolutamente falso. - Magdi Cristiano Allam
6) 03/10/2008 08:46 – CINA - Pechino spia gli abbonati e i messaggi di Skype - Il partner cinese filtra testi compromettenti per il governo cinese e offre ad esso i nomi di abbonati e destinatari dei messaggi. Uno scandalo simile è avvenuto con Yahoo!, che ha rivelato l’identità di due suoi abbonati, giornalisti cinesi, condannati poi a 10 anni di lager.
7) 02/10/2008 15:04 – VATICANO - Papa: combattere terrorismo e fondamentalismo, ma senza limitare la libertà religiosa - Benedetto XVI riceve i vescovi dell’Asia centrale e li esorta a prendere esempio dalle primitive comunità cristiane, piccola, ma non chiuse in se stesse. Per la Chiesa “è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede”.
8) Omaggio a Malalai Kakar - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 ottobre 2008 - Domenica 28 settembre 2008 a Kandahar, Afghanistan è stata assassinata il Capitano di Polizia Malalai Kakar, l'unica donna poliziotto di una città e di un paese ancora sotto la minaccia del fanatismo religioso islamico, del tribalismo e di un maschilismo violento
9) I «preamboli della fede» - Il soprannaturale - è una persona in carne e ossa - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
10) Aspetti teologici e dottrinali dell'«Humanae vitae» - Veramente liberi e liberamente veri - "Humanae vitae: attualità e profezia di un'enciclica" è il titolo del congresso internazionale che si svolge il 3 ottobre nella sede romana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il cardinale arcivescovo di Bologna ha sintetizzato per noi i temi della sua lectio magistralis. - di Carlo Caffarra - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
11) Biopolitica e persona: una riflessione etica nell'epoca della globalizzazione - Il corpo, l'uomo e la sua dignità - di Adriano Pessina - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
12) Appunti per una società aperta. E laica - Maurizio Lupi - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
13) CILE/ Ecco come far fronte all’emergenza educativa - Redazione - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
14) UCCIDERE UNA DONNA INCINTA - QUELL’AGGRAVANTE EVIDENZA DEL DIRITTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 ottobre 2008
"MIO FRATELLO PAPA RATZINGER (CHE VOLEVA FARE L'IMBIANCHINO)" - L'infanzia, l'adolescenza, i ricordi dell'unico uomo al mondo che conosce i segreti di Benedetto XVI. "Ora si è abituato a essere Papa, lo vive come un volere di Dio"... - di Andrea Tornielli
«Dall’inizio della mia vita mio fratello è stato sempre per me non solo compagno, ma anche guida affidabile. È stato per me un punto di orientamento e di riferimento con la chiarezza, la determinazione delle sue decisioni. Mi ha mostrato sempre la strada da prendere, anche in situazioni difficili».
Con queste parole, lo scorso 22 agosto, Benedetto XVI ha ringraziato il sindaco di Castelgandolfo per aver concesso la cittadinanza onoraria a Georg Ratzinger, suo fratello maggiore. La «guida affidabile» del Papa, l’unico membro rimasto della sua famiglia, a dispetto della malattia agli occhi che ne ha ridotto di molto la vista, si muove ancora agilmente nell’abitazione di via Luzengasse, poco distante dal duomo di Ratisbona, dove per lungo tempo ha diretto il famoso coro di voci bianche dei «Domspatzen», i «passerotti del Duomo». Sulla città il cui nome nel 2006 è rimbalzato in tutto il mondo dopo il famoso discorso del Pontefice dedicato al rapporto tra fede e ragione, nuvole grigie scaricano una pioggia gelida e autunnale.
Monsignor Ratzinger, 84 anni, puntualissimo, aspetta l’intervistatore sulla porta all’ora prevista per l’appuntamento. Il piccolo salotto di casa, dove riceve i visitatori e dove ci introduce, è zeppo di pergamene e di immagini sacre. Al centro campeggia una foto sorridente del fratello Papa. L’unica condizione per l’intervista è «che sia breve». Ma accetterà di buon grado molte «ultime» domande.
Quale è il primo ricordo che ha di suo fratello Joseph?
Era il Sabato Santo del 1927. Già dall’alba c’era una gran confusione in casa, e io non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Volevo alzarmi, ma mio padre mi disse di continuare a dormire perché mi era nato un fratellino. Lo vidi solo dopo: era piccolo e delicato. Fu battezzato il giorno successivo nella chiesa parrocchiale di Marktl sull’Inn, il paese dove abitavamo. Quel giorno pioveva, nevicava e tirava vento, così i miei genitori decisero di lasciare a casa me e mia sorella per non correre il rischio che ci ammalassimo.
Che tipo di bambino era suo fratello?
«Era un bambino vivace, ma non un terremoto. Lo ricordo sempre allegro. Fin da piccolo mostrava una grande sensibilità nei confronti degli animali, dei fiori e, in generale, della natura. Forse anche per questo a Natale lui riceveva sempre in dono animali di pezza. La sua attenzione per la natura e gli esseri viventi è un suo tratto caratteristico».
Ci può raccontare qualcosa sulla vostra vita familiare e sui vostri genitori?
«Eravamo una famiglia molto unita. Nostro padre era commissario di polizia, proveniva da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera. Mia madre era figlia di artigiani, e prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca. Quando era possibile noi bambini andavamo alla messa quotidiana. Si faceva colazione a casa. Poi ci si vedeva di nuovo a pranzo. Secondo la tradizione bavarese mangiavamo prima una zuppa e poi il piatto principale. Il pomeriggio facevamo i compiti e poi con mio fratello andavamo a passeggiare per la città. Poi si cenava insieme. All’epoca non c’erano né radio né Tv e la sera nostro padre suonava la cetra e cantava canzoni. Poi si andava presto al letto».
Quale opinione aveva vostro padre del nazismo?
«Sin dall'inizio è stato un grande oppositore del nazismo. Capì subito che il nazionalsocialismo sarebbe stato una catastrofe e che non era solo un grande nemico della Chiesa ma più in generale di ogni fede e di ogni vita umana».
Lei e Joseph foste costretti ad arruolarvi nella «Hitlerjugend», la «Gioventù hitleriana»?
«Lo Stato aveva disposto che tutti i ragazzi delle scuole, in base alla loro età, dovessero iscriversi a determinati gruppi giovanili. Quando divenne obbligatorio, venimmo iscritti in blocco. Non c'era libertà di scelta e il non presentarsi avrebbe avuto certamente delle conseguenze negative. Mio fratello però non frequentava questi raduni e non si presentava agli appelli. Questo comportò un danno economico per la mia famiglia in quanto non beneficiò più dello sconto sulle tasse scolastiche».
È vero che un vostro parente finì ucciso nell’«Aktion T4», il progetto di eutanasia nazista?
«Era un nostro cugino, figlio di una sorella di mia madre. Era un ragazzo carino e allegro, ma soffriva di disturbi mentali. Non era in grado di dialogare correttamente o di partecipare alle conversazioni. Non so dire nulla di più preciso sulla sua malattia. Solo molto più tardi scoprimmo che i nazisti erano venuti a prenderlo a casa e che era stato ucciso in un campo di sterminio».
Nel 1935 lei entrò nel seminario arcivescovile di Traunstein. Joseph ha scritto nella sua autobiografia: «Io ne seguii le orme». Come nacque la vocazione di Joseph?
«Mio fratello ed io eravamo entrambi chierichetti, tutti e due servivamo Messa. Ci fu presto chiaro, prima a me e poi a lui, che la nostra vita sarebbe stata a servizio della Chiesa».
Già da prima però suo fratello aveva detto che da grande voleva fare «il cardinale»…
«A Tittmoning Joseph aveva ricevuto la cresima dal cardinale Michael Faulhaber, il grande arcicescovo di Monaco. Ne era rimasto impressionato e aveva detto che sarebbe voluto diventare anche lui cardinale. Ma, solo qualche giorno dopo quell’incontro, osservando il pittore che tinteggiava i muri di casa nostra, disse anche che da grande avrebbe voluto fare l’imbianchino…»
Nell’autobiografia Joseph racconta che riteneva una «vera tortura» lo sport e che non amava l’attività fisica.
«Posso dire con sicurezza che né io né mio fratello eravamo portati per lo sport. Forse era dovuto al fatto che non avevamo un fisico robusto anzi, eravamo i più piccoli e deboli delle nostre rispettive classi. Non riuscivamo a tenere il ritmo dei nostri compagni».
Come ha inciso la seconda guerra mondiale sulla sua vita e sulla vita di suo fratello?
«La guerra ci ha provati profondamente, anche quando eravamo a casa: il cibo bastava a malapena. Avevamo un biglietto per l’approvvigionamento mensile di cibo, con il quale si potevano comprare solo certi generi alimentari come lo zucchero, il burro, il grasso e un po’ di carne. La sera bisognava oscurare le finestre per non fare uscire la luce e non farsi vedere dagli aerei degli alleati. Sono stato chiamato prima al servizio di lavoro e poi al servizio militare. Mio fratello è stato richiamato qualche tempo dopo di me. Avevamo obiettivi e ideali che erano opposti a quelli di Hitler, ma eravamo nostro malgrado soldati. Non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno in cui la guerra sarebbe finita».
Come è nata la vostra passione per la musica?
«Nella nostra casa tutti amavano la musica. Nostro padre – l’ho già ricordato – aveva una cetra che suonava spesso la sera. Cantavamo insieme. Per noi era sempre un evento. A Marktl sull’Inn, poi, c'era una banda musicale che mi affascinava molto. Ho sempre pensato che la musica sia una delle cose più belle che Dio abbia creato. Anche mio fratello ha sempre amato la musica: forse l’ho contagiato io».
Lei e Suo fratello siete stati entrambi ordinati sacerdoti il 29 giugno 1951, nel duomo di Frisinga. Che ricordi ha di quel giorno?
«Fu un giorno molto gioioso, che ci commosse profondamente. Il bel tempo ci aveva messo di buon umore. Eravamo più di quaranta giovani e ci eravamo preparati insieme per la consacrazione. Eravamo tutti felici perché avremmo raggiunto l'obbiettivo per cui ci eravamo preparati per anni e che aspettavamo tanto. Ora tutto diventava realtà. Entrammo nel Duomo di Frisinga, la cui grande campana, che portava il nome di San Corbiniano, aveva, già dal mattino presto, svegliato tutta la città e creato un’atmosfera di festa. Tutta la famiglia era con noi: i nostri genitori, nostra sorella maggiore.
Fu un giorno indimenticabile».
Joseph Ratzinger, sia da cardinale che da Papa, ha parlato delle radici comuni che legano ebraismo e cristianesimo. Avevate contatti con ebrei nella vostra famiglia?
«È un dato teologico che gli ebrei sono il popolo prescelto da Dio e che da quel popolo nacque Gesù, generato dalla Vergine Maria. Ma devo ammettere che all’epoca sapevamo che esistevano gli ebrei solo dall'insegnamento di religione. Nella nostra regione non c’erano per cui non avevamo né contatti né esperienze vissute con loro. Non sapevamo nulla neanche dei pogrom contro gli ebrei e delle ingiustizie commesse nei loro confronti dai nazisti. Eravamo all’oscuro di tutto».
Suo fratello al tempo del Concilio venne definito un «teenager teologico», un teologo di area progressista, ed era il perito di fiducia del cardinal Frings. Che ricordi ha di questi eventi?
«Non so chi abbia coniato l’espressione “teenager della teologia” riferita a mio fratello. In quel periodo non sono stato a Roma: ci andai solo una volta insieme a Joseph e alcuni professori tedeschi che svolgevano il ruolo di esperti nell’ambito del concilio. Era chiaro che c’era la necessità di aperture, di uno sviluppo teologico. Mio fratello ha contribuito alla realizzazione di tutto questo con tutta la sua intensità spirituale e credo che parte del merito dell’introduzione di alcune nuove idee, che erano parte integrale delle nostre convinzioni e della nostra fede cattolica, vada dato a lui».
Nell’epoca del post concilio, il professor Ratzinger si trova a vivere a Tubinga, in una facoltà teologica trasformata in «centro ideologico» del marxismo. Suo fratello è cambiato in quegli anni?
«No, lui non è cambiato. I giovani in Germania vivevano uno stato di turbamento. La spinta al cambiamento che aveva avuto luogo nel Concilio, si manifestava con più forza tra i laici. I giovani tedeschi e degli altri paesi vivevano in un clima instabile, senza controllo. L’idea dominante era che tutto si doveva cambiare, si dovevano introdurre novità: mio fratello approvò quelle buone ma respinse quelle inconciliabili con la fede. L’idea che il Concilio dovesse portare solo novità non era corretta, poiché lo scopo era quello di presentare in modo adeguato ai tempi la fede cattolica di sempre».
Suo fratello allora lasciò Tubinga e venne ad insegnare qui a Ratisbona. Vi ritrovaste uniti tutti e tre fratelli.
«Ricordo ancora quella sera quando Joseph e mia sorella Maria giunsero a Ratisbona, all’hotel Kameliten. Dopo la prova con il mio coro Domspatzen, li raggiunsi in albergo: eravamo contenti di stare insieme, di esserci ritrovari. La domenica successiva tornai a trovarli: vissero in albergo finché non fu pronta la nuova casa. Per noi fu un bel periodo. Gli studenti accolsero bene mio fratello, lo consideravano un professore da cui apprendere molto».
A chi si ispirava suo fratello quando era professore?
«Nei suoi studi si ispirava ad alcuni teologi francesi, aveva come modelli soprattutto Henri de Lubac e il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Al centro del suo lavoro c’erano la Sacra Scrittura e gli scritti dei padri della Chiesa. Durante i suoi studi universitari aveva cercato di riscoprire questo patrimonio, di farlo uscire dal dimenticatoio e di ravvivarlo».
Che significato ha la liturgia per i fratelli Ratzinger?
«La liturgia, la Messa, rappresenta il fulcro della nostra fede e della nostra azione, è l’incontro personale con Dio. Questo naturalmente è al primo posto. Non potremmo immaginare un giorno senza la messa, senza la liturgia, sarebbe povero, privo dell’essenziale...».
Perché Benedetto XVI ha voluto liberalizzare l’antica liturgia preconciliare con il motu proprio «Summorum Pontificum»?
«All’epoca della riforma liturgica il cambiamento avvenne velocemente e non fu facile per tutti da accettare. Da un giorno all’altro l’antica liturgia fu sostituita con la nuova, alla quale ora siamo affezionati e con la quale celebriamo Messa con una partecipazione interiore piena di gioia. Ci furono, però, alcuni nella Chiesa che non accettarono completamente questo “salto”, poiché la perdita dell’antica liturgia li aveva privati di qualcosa e aveva sconvolto la loro fede. Per non lasciare sole queste persone, per reintegrarle pienamente nella comunità ecclesiale, mio fratello ha deciso di rendere libera l’antica liturgia preconciliare».
Si aspettava l’elezione di Joseph nel conclave dell’aprile 2005? Come ha reagito alla notizia?
«Devo ammettere che non me l’aspettavo, e sono rimasto un po’ deluso...».
Deluso? Con suo fratello diventato Papa?
«Glielo spiego subito. Dati i suoi gravosi impegni, ho capito che il nostro rapporto si sarebbe dovuto ridimensionare notevolmente. In ogni caso, dietro la decisione umana dei cardinali c’è la volontà di Dio, e a questa dobbiamo dire sì».
I rapporti tra di voi sono cambiati?
«Prima mio fratello trascorreva alcune settimane in Germania, nella sua casa di Pentling, a pochi chilometri da qui. Cosa che ora non può fare più. C’è stato per un paio di ore nel settembre 2006 quando ha visitato la Baviera. Spesso, la domenica vado in casa a Pentling e faccio un giro per le stanze, poi chiamo Joseph e gli descrivo ciò che ancora con i miei occhi indeboliti riesco a vedere, gli descrivo la casa e gli dico che lì è molto bello. È un pezzo di patria a cui lui adesso ha dovuto rinunciare».
Posso chiederLe quale è stata la prima cosa che il nuovo Papa le ha detto quando vi siete sentiti dopo l’elezione?
«Mi perdonerà, non glielo so dire con esattezza, ho dei ricordi confusi. In quei giorni il telefono e il campanello di casa suonavano in continuazione. Era terribile. Non rispondevo più alle telefonate. Così quando ha chiamato il nuovo Papa ha risposto la mia domestica, la signora Heindl. Era mio fratello che voleva parlare con me, ma è stata la signora Heindl a congratularsi per prima dell’elezione».
Può raccontarci come avete trascorso insieme, quest’anno, le vacanze estive a Bressanone. Dicono che passeggiavate insieme e che vi vedevano spesso sorridere.
«Abbiamo trascorso tanti periodi di vacanza a Bressanone e abbiamo vissuto nel seminario dove siamo stati anche quest’anno. Le altre volte però potevamo uscire, girare tranquilli per la città e visitare le chiese. Adesso che mio fratello è il Papa tutto ciò non è più possibile. Così siamo dovuti stare dentro e fare le passeggiate nel giardino del seminario. Queste passeggiate sono state comunque belle, anche se io ho problemi a camminare. Ho grossi problemi sia con la vista che con le gambe».
Suo fratello si è abituato a essere il Papa?
«Si, si è abituato velocemente alla sua nuova condizioni. Deve semplicemente dire di sì al nuovo ordine di cose. Lo vive come il volere di Dio e si impegna con tutte le sue capacità».
Avevate una qualche predilezione in famiglia per il nome Benedetto?
«Per questo nome no. Anni fa, però, mio fratello mi disse: “Benedetto sarebbe un bel nome per un nuovo Papa”. Lui ora non ricorda di averlo detto, ma io l’ho ben presente».
Le parole che il Papa ripete più spesso sono «gioia», «amore» e «bellezza». Contrastano con l’immagine del «panzerkardinal» con cui è stato descritto per anni.
«Sì, penso che questa immagine lo descriva male e non corrisponda alla realtà. Non è mai stato un uomo brusco, con l’intenzione di offendere gli altri. Ha avuto sempre molto rispetto dell’opinione altrui. Spesso i media creano immagini sbagliate delle persone».
Quale Papa, secondo lei, suo fratello ha amato di più?
«Il suo diretto predecessore Giovanni Paolo II, con il quale ha lavorato a stretto contatto. Gli è stato di grande aiuto e grazie alle sue conoscenze teologiche l’ha potuto consigliare molto bene. Tra i due c’era una solida intesa, un comune orientamento. La loro visione della fede ha fatto sì che chiamassero le cose con il loro nome».
Suo fratello le ha mai parlato di Papa Luciani?
«Una volta il futuro Giovanni Paolo I aveva fatto visita a mio fratello, che allora era arcivescovo e si trovava in vacanza a Bressanone. Luciani era un uomo pieno di cuore, molto valido, e mio fratello amava questa sua umanità».
Posso chiederle come ci si sente ad essere il fratello del Papa?
«È una situazione ha delle ripercussioni, delle conseguenze... Quando vado in città, incontro sempre delle persone che mi rivolgono la parola in modo gentile. Soprattutto i turisti italiani. Mi dicono “Fratello del Papa” e mi salutano gentilmente. In tutto questo, però, io non ho alcun mio».
L’avrebbe mai immaginato?
«No, non me l’aspettavo, non ce lo potevamo immaginare. Era decisamente insolito che un tedesco divenisse Papa, da secoli non si avevano Papi tedeschi. Non abbiamo mai pensato di ricevere questo onore, era completamente al di fuori alle nostre aspettative».
Il Giornale 28 settembre 2008
"Come fedele indù provo vergogna..." - Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India. Prende le difese dei cristiani e accusa i loro aggressori di tradire lo spirito dell'induismo – di Sandro Magister
ROMA, 3 ottobre 2008 – In poco più di un mese, le vittime dell'ondata di violenze anticristiane iniziata il 24 agosto in India sono salite a 60. Alle quali vanno aggiunti più di 18.000 feriti, 178 chiese distrutte, oltre 4.600 case bruciate e 13 scuole e centri sociali devastati. Almeno 50.000 cristiani sono inoltre fuggiti dai propri villaggi cercando riparo in campi profughi e nelle foreste.
Questo allarmante bilancio è stato fornito due giorni fa dall'All India Christian Council. Invece che diminuire, gli attacchi da sporadici sono diventati sistematici, quasi quotidiani, e si sono estesi in vari stati, coinvolgendo, oltre all'Orissa, il Kerala, il Karnataka, l'Andra Pradesh, il Madhya Pradesh, il Chattisgarh e il Tamil Nadu.
Induisti fanatici hanno preso di mira soprattutto i villaggi rurali, accusando i cristiani di fare proselitismo forzato tra i ceti poveri, i tribali e i fuori casta. Ma che l'accusa sia pretestuosa è dimostrato dai censimenti ufficiali, che danno il cristianesimo non in crescita ma in decrescita. In India, i cristiani erano nel 1971 il 2,6 per cento della popolazione, nel 1981 il 2, 44, nel 1991 il 2,32 e nel 2001 il 2,3, con segnali di ulteriore diminuzione negli anni successivi.
Più che le conversioni, ciò che scatena le violenze è l'azione dei cristiani a sostegno dei ceti poveri che costituiscono la base schiavistica del sistema piramidale sul quale è tradizionalmente organizzata la società indù. La vera "colpa" dei cristiani è di predicare e praticare l'uguale dignità di tutti, contro il sistema delle caste.
In ripetuti appelli i vescovi cattolici dell'India hanno denunciato "l'apatia e l'indifferenza del governo, a livello centrale e nei singoli stati", nel fermare le aggressioni ai cristiani. Le misure di sicurezza sono apparse ogni volta tardive e sporadiche. Altrettanta apatia può essere imputata ai governi stranieri, ampiamente disinteressati a ciò che accade contro i cristiani dell'India.
Ma non meno gravi sono il silenzio e l'inazione dei leader religiosi e intellettuali indù. Le voci che si sono levate in difesa dei cristiani e della pace interreligiosa sono rare.
Qui di seguito è riportato uno di questi interventi, apparso il 28 settembre 2008 sul quotidiano in lingua inglese "Times of India".
L'autore, Shashi Tharoor, è di fede induista. Saggista e scrittore affermato, è stato candidato nel 2006 a segretario generale delle Nazioni Unite, dopo aver ricoperto nel Palazzo di Vetro la carica di sottosegretario. Ha studiato in scuole cristiane e si è laureato in legge e diplomazia alla Fletcher School della Tufts University, negli Stati Uniti. Scrive su importanti testate, come il "New York Times" e "Newsweek". È editorialista del "Times of India".
Non sorprende che il cardinale Jean-Louis Tauran abbia dato la priorità all'induismo nella prossima agenda del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, di cui è presidente.
I fondamenti dell'india sono sotto attacco
di Shashi Tharoor
Ci sono fondamentalmente due tipi di politica in India: la politica della divisione e la politica dell'unità. La prima è di gran lunga la più diffusa, con politici che fanno a gara nel tagliare e spezzettare l'elettorato in sempre più piccole configurazioni di casta, di lingua e di religione, nel migliore dei casi per chiamare tali identità particolaristiche a portare i loro voti.
Ma ciò che è accaduto nelle scorse settimane nell'Orissa e poi nel Karnataka, e che minaccia di scatenarsi nei distretti tribali del Gujarat, è un ulteriore degrado della nostra vita politica. Le aggressioni alle famiglie cristiane, le devastazioni vandaliche dei loro luoghi di preghiera, la distruzione delle case e dei mezzi di sussistenza, gli stupri brutali, le mutilazioni e le persone bruciate vive di cui si è avuta notizia, non hanno niente a che fare con le credenze religiose, né quelle delle vittime, né quelle degli aggressori. Tutto ciò è invece parte di uno spregevole progetto politico il cui più vicino equivalente può essere trovato nelle bombe fatte esplodere da mujahiddin indiani a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, in ospedali, in mercati e in campi di gioco. Entrambi gli atti sono antinazionali; entrambi mirano a dividere il paese contrapponendo le persone secondo le rispettive identità religiose; ed entrambi calcolano di ricavare profitto politico da una simile polarizzazione.
Abbiamo il dovere di non lasciare che l'una o l'altra forma di terrorismo vinca.
Le bande criminali dell'Orissa cercano di uccidere i cristiani e di distruggere le loro case e chiese per terrorizzare la gente e per trasmettere il messaggio: "Questo non è il tuo posto". Come siamo arrivati a far sì che una terra che è stata rifugio di tolleranza per le minoranze religiose nel corso della sua storia sia caduta così in basso? Quella dell'India è una civiltà che, per millenni, ha offerto riparo e soprattutto libertà religiosa e culturale a ebrei, parsi, musulmani e cristiani di tante confessioni. Il cristianesimo è arrivato in india con san Tommaso apostolo, il famoso Tommaso "del dubbio". Egli approdò sulle coste del Kerala prima del 52 dopo Cristo e fu accolto sulla riva dal suono del flauto di una fanciulla ebrea. Egli fece molti convertiti, così che oggi vi sono degli indiani i cui antenati divennero cristiani molto prima che tanti europei scoprissero il cristianesimo, e anche prima che i banditori dell'odierno sciovinismo indù prendessero coscienza di essere essi stessi indù. L'India in cui il richiamo del muezzin abitualmente si mescola col canto dei mantra nei templi, e in cui il rintocco delle campane delle chiese accompagna la recita dei versi del guru Granth Sahib, è l'India di cui tutti possiamo essere fieri. Ma c'è anche l'India che ha raso al suolo la moschea di Ayodhya, che ha scatenato i pogrom nel Gujarat e che ora rovescia il suo odio su quel 2 per cento di popolazione che è fatto di cristiani.
Come fedele indù provo vergogna per ciò che stanno facendo persone che dichiarano di agire a nome della mia fede. Sono sempre stato orgoglioso di appartenere a una religione di straordinario respiro ed ampiezza di visione; una religione che riconosce tutte le vie di adorazione di Dio come ugualmente valide, anzi, la sola grande religione nel mondo che non pretende di essere l'unica vera religione. Il fondamentalismo induista è una contraddizione in termini, dal momento che l'induismo è una religione senza "fondamentali", in cui non esiste qualcosa di simile all'eresia. Come osa un manipolo di santoni immiserire la sublime maestà dei Veda e delle Upanisad con il ristretto fanatismo del loro marchio identitario politico? Perché gli indù dovrebbero consentire loro di ridurre l'induismo a vociante autoesaltazione di hooligan da stadio, di prendere una religione di immensa tolleranza e ridurla a violenza sciovinista?
L'induismo, con la sua apertura, è rispetto per la diversità, è accettazione di tutte le altre fedi, è l'unica religione che è sempre stata capace di affermare se stessa senza minacciare le altre. Ma questo non è ciò che l'Hindutva vomita nelle diatribe piene d'odio dei suoi politici. Induismo autentico è quello di Swami Vivekananda, il quale, al Parlamento Mondiale delle Religioni a Chicago nel 1893, argomentò meravigliosamente l'umanesimo liberale che sta nel cuore del suo e del mio credo. Vivekananda affermò che l'induismo sta "sia per la tolleranza che per l'accettazione universale, perché non solo noi crediamo in un universale rispetto, ma accettiamo tutte le religioni come vere". Egli citò un inno: "Come le diverse correnti che hanno le loro sorgenti in luoghi diversi mescolano le loro acque nel mare, così, o Dio, i differenti sentieri che gli uomini percorrono secondo le loro differenti tendenze, per quanto diversi appaiano, tortuosi o diritti, tutti guidano a Te". La visione di Vivekananda – riassunta nel credo Sarva Dharma Sambhava – è in realtà il genere di induismo praticato dalla grande maggioranza degli indù, la cui istintiva accettazione delle altre fedi e forme di adorazione è da tempo l'impronta vitale dell'indianità.
Vivekananda non ha fatto nessuna distinzione tra le azioni degli indù come popolo (ad esempio il garantire asilo) e le loro azioni come comunità religiosa (tolleranza delle altre fedi): per lui, la distinzione era irrilevante poiché l'induismo è sia una civilizzazione, sia un insieme di credenze religiose. "Gli indù hanno le loro colpe – aggiungeva Vivekananda – ma sono sempre per punire i loro corpi e mai per tagliare le gole dei loro vicini. Se un indù fanatico brucia se stesso sulla pira, egli mai accenderà il fuoco dell'Inquisizione".
È triste che queste tesi di Vivekananda siano contraddette nelle strade da coloro che gridano di far rivivere la sua fede nel suo nome. "Questi indù militanti", ha osservato Amartya Sen, presentano l'India come "un paese di idolatri intolleranti, di fanatici deliranti, di devoti agguerriti e di assassini religiosi". Discriminare l'altro, aggredire l'altro, uccidere l'altro, distruggere il luogo di culto dell'altro non fa parte del dharma indù così meravigliosamente predicato da Vivekananda. Perché mai le voci dei capi religiosi indù non si alzano in difesa di questi fondamenti dell'induismo?
Impedire scuole speciali e sterilizzazione forzata dei gitani - Chiede il Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il documento finale del VI Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari ha chiesto di proibire le scuole speciali per i bambini gitani, così come i programmi di sterilizzazione per le donne zingare.
La richiesta fa parte del documento finale – pubblicato questo giovedì – dell'evento, svoltosi dal 1° al 4 settembre nella città tedesca di Freising su iniziativa del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in collaborazione con la Conferenza Episcopale Tedesca
All'incontro, sul tema “I giovani zingari nella Chiesa e nella società”, hanno partecipato 150 delegati (Arcivescovi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, agenti di pastorale, laici e rappresentanti degli zingari), provenienti da 26 Paesi europei, dall'America Latina e dall'Asia.
In questo senso, il documento nelle sue raccomandazioni finali considera che uno degli elementi chiave è attualmente l'istruzione, soprattutto dei bambini e dei giovani gitani.
“L’istruzione è il processo fondamentale per la realizzazione del potenziale personale ed è necessaria per l’integrazione nella società”, afferma il documento, inviato a ZENIT dal dicastero vaticano, il cui presidente è il Cardinale Renato R. Martino.
Per questo motivo, aggiunge, “deve essere vietato l’inserimento degli zingari in 'scuole speciali' che generano umiliazione”.
“L’istruzione è condizione della partecipazione alla vita politica, sociale ed economica, in posizione di uguaglianza nei confronti degli altri – spiega il testo –. Essa deve, inoltre, incoraggiare il pensiero giustamente critico e la responsabilità, che, a loro volta, sono necessari per edificare una società sempre più umana, basata su principi di giustizia, uguaglianza e fraternità”.
La formazione al lavoro è stata una delle principali preoccupazioni manifestate dal Congresso, visto che “i giovani devono superare le barriere, dovute anche alle debolezze del sistema educativo, che ne impediscono l’ingresso nel mondo lavorativo”.
Per quanto riguarda la situazione delle donne zingare, il Congresso condanna “le sterilizzazioni forzate e le campagne che tendono a destabilizzare la concezione della famiglia presso gli zingari”.
“Deve essere assicurata l’educazione delle donne per quanto riguarda i diritti fondamentali, come pure il dialogo interculturale, l’inserimento dei giovani nella cittadinanza democratica, la coesione sociale e lo sviluppo delle politiche giovanili”, afferma.
Secondo il documento, sarebbe utile “chiedere alle organizzazioni umanitarie e alla Caritas di istituire, controllandoli in seguito, dei microcrediti per quelle famiglie e comunità che si mostrano maggiormente in grado di saperli utilizzare a favore della loro etnia”.
Nella pastorale degli zingari, afferma il testo, “un ruolo particolare può essere svolto dai movimenti ecclesiali e dalle nuove comunità che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa”.
Allo stesso modo, il documento finale chiede che le congregazioni religiose, le associazioni cattoliche e le comunità ecclesiali di base si impegnino nella pastorale specifica dei giovani zingari.
“Esclusi, relegati ai margini dell’umanità, umiliati nella loro dignità, gli zingari hanno bisogno di una Chiesa viva, di una Chiesa-comunione, capace di formare e aiutare a superare le difficoltà che la politica non riesce a superare”, afferma il testo.
“Tuttavia, il fatto di presentarsi con amore e con il desiderio di proclamare la Buona Novella non basta a creare un rapporto di fiducia tra gli zingari e i gağé [non zingari, ndr.], a causa del peso della storia e dei torti che essi hanno subito”.
“La popolazione zingara, dunque, continua a mostrare sfiducia nei riguardi delle iniziative di coloro che cercano di penetrare nel suo mondo – conclude –. È possibile superare quest’atteggiamento iniziale soltanto a partire da gesti concreti di solidarietà, anche attraverso una condivisione di vita, e sviluppando progetti a dimensione umana che favoriscano una partecipazione e un’adesione dei giovani zingari”.
Fertilità e infertilità: testimoni di speranza - Un libro risponde all'appello dell'Humanae vitae - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 3 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Per rispondere all'appello dell'Enciclica Humanae vitae a una paternità e maternità responsabile coerente con i disegni del Creatore, la bioeticista Angela Maria Cosentino ha scritto e pubblicato il libro "Testimoni di speranza- Fertilità e infertilità: dai segni ai significati" (Cantagalli Siena, 2008, pp. 256, 17 euro).
Con la Prefazione di Monsignor Sergio Nicolli, Direttore dell'Ufficio Famiglia CEI e la Presentazione di Medua Bodoni Dedé, già Presidente della Confederazione Italiana Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità, il libro raccoglie cinquanta testimonianze provenienti da diverse aree (educativa, familiare, culturale, socio-formativa e pastorale) che evidenziano alcuni frutti del servizio di educazione alla procreazione responsabile con l'applicazione dei metodi naturali, in ordine sia alla fertilità che all'infertilità.
A quarant'anni dall'Humanae vitae di Paolo VI, Angela Maria Cosentino, docente ai Corsi estivi di pastorale familiare, all'Istituto Giovanni Paolo II e delegata per la Confederazione Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità al Forum delle Associazioni Familiari, riserva particolare attenzione alle coppie che, "ricercando la gravidanza, hanno sperimentato come l'educazione alla procreazione responsabile apra a prospettive di fecondità anche diverse dalla procreazione".
"Le coppie che hanno vissuto problemi di fertilità - ha spiegato la Cosentino a ZENIT - testimoniano che è possibile non essere travolti dal ‘miraggio' del figlio a tutti i costi e la loro esperienza può incoraggiare altre coppie in analoghe situazioni".
"A conferma che, in un tempo difficile ma collocato in un orizzonte di speranza, il mondo contemporaneo - come ha segnalato Paolo VI - ha bisogno non solo di maestri ma anche di testimoni", ha affermato la bioeticista.
Le coppie che hanno applicato i metodi naturali riportate nel volume sono divise in 5 gruppi: coppie che hanno ottenuto la gravidanza; che si sono rivolte all'adozione; che si sono aperte ad un servizio di volontariato; che hanno accettato l'infertilità; che hanno applicato la conoscenza della fertilità per distanziare/evitare la gravidanza.
Ogni gruppo è caratterizzato da un albero-simbolo e da una poesia (che si ispira alla prima testimonianza riportata). Ogni storia, che valorizza la sofferenza e la gioia, è preceduta da una breve sintesi che accompagna a cogliere lo specifico significato del contributo.
"Le esperienze raccolte, segni credibili di una fede amica dell'intelligenza, rappresentano alcuni frutti di un servizio nato in risposta all'appello dell'Humanae vitae di valutare la natalità nel rispetto dei valori in gioco", ha sostenuto la Cosentino, aggiungendo che si tratta di "un richiamo che appare particolarmente attuale ancora oggi, alla luce degli interrogativi sollevati sia dalle tecniche applicate alla procreazione umana sia dall'urgente emergenza educativa".
Le testimonianze, ha precisato la bioeticista, "segnalano alcuni indicatori della valenza di un servizio che, con oltre 1000 insegnanti della Confederazione (www.confederazionemetodinaturali.it), accompagna a risalire dai segni ai significati (tra i quali, essere immagine e somiglianza di Dio), contribuendo a contrastare alcune frammentazioni degli attacchi incrociati contro la famiglia e la vita che caratterizzano l'onda lunga del '68".
Il testo, che richiama la continuità del Magistero di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è consigliato non solo agli studenti di pastorale familiare, morale speciale, agli operatori impegnati nella tutela della vita e della salute procreativa, tra i quali gli insegnanti dei metodi naturali, ma anche alle coppie e a tutti coloro che si interessano dei valori non negoziabili della famiglia e della vita.
Il volume è corredato da ricchi riferimenti bibliografici e da un glossario contenente spunti di riflessione su alcune attuali questioni bioetiche, per valorizzare la portata antropologica del messaggio dell'Humanae vitae.
Oggi “Il Tempo” scrive che sto per scendere in politica “al fianco del Cavaliere”. E’ assolutamente falso. - Magdi Cristiano Allam
Sulla base dei contenuti dell’intervista pubblicata, il titolo corretto è : "I tempi sono maturi per un nuovo soggetto politico che abbia al centro i valori, le regole, l'identità e la civiltà cristiana". Altro che “Scendo in politica con Silvio”! Ecco perché il 68% degli italiani considera i giornalisti dei bugiardi. Mai fidarsi dei giornalisti!
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Oggi, il quotidiano romano “Il Tempo”, ha un piccolo titolo in prima pagina che recita: Magdi Allam, “Entro in politica al fianco del Cavaliere”. A pagina 9 il servizio di apertura riporta questo titolo a caratteri cubitali: “Scendo in politica con Silvio”. Nel sommario si legge: Parla Magdi Allam: “I tempi sono maturi per passare all’azione”. Ebbene si tratta di un mastodontico errore: io non ho mai detto che intendo scendere in politica con il Cavaliere Silvio Berlusconi. Ho segnalato subito l’errore all’amico e direttore editoriale del Tempo, Roberto Arditti, con un sms in cui ho scritto: “Grazie per l’intervista. Il titolo è forzato ma comprendo”. Comprendo le logiche aberranti che porta a forzare i titoli per adeguarli al proprio orientamento ideologico e politico. Ecco perché d’ora in poi non rilascerò più interviste telefonicamente e pretenderò di vedere il testo definitivo e i titoli dell’intervista prima della pubblicazione. Non mi sorprende affatto che da un sondaggio, reso noto proprio oggi, emerge che il 68% degli italiani considera i giornalisti dei bugiardi. Vi do un consiglio, cari amici: mai fidarsi dei giornalisti!
L’intervista al “Tempo” (il testo pubblicato lo potete leggere nella rubrica “L’Intervista” all’interno del nostro sito) l’ho rilasciata telefonicamente alla giornalista Giancarla Rondinelli (g.rondinelli@iltempo.it) mentre ero in viaggio per Como nella tarda mattinata di mercoledì 1 ottobre. Abbiamo parlato per circa un quarto d’ora dei contenuti del mio libro autobiografico “Grazie Gesù, La mia conversione dall’islam al cattolicesimo” e, soltanto verso la fine, mi ha rivolto alcune domande sul mio impegno politico. Nel testo riportato dal “Tempo” si riporta solo una sintesi, non sempre fedele, delle mie dichiarazioni. Comunque mi limito a proporvi il testo pubblicato.
Dopo aver affermato che i tempi sono maturi per «Per passare ad un'azione concreta in campo politico», Giancarla mi ha chiesto: Ne ha già parlato con qualcuno? Io rispondo:
“Beh, io ne avevo già parlato con Berlusconi nel 2006, in quel caso però non si arrivò ad un'intesa. Di certo, per quanto mi riguarda non ci sono spazi di dialogo con l'attuale sinistra, ammalata di buonismo, multiculturalità, una sinistra agli antipodi dei valori e delle regole fondanti della civiltà cristiana”.
Come potete constatare, qui di Berlusconi parlo al passato, faccio riferimento a un evento del 2006, anche se per la verità è del 2005, ma non importa, l’importante è che si tratta di un evento che si è concluso.
Di Berlusconi torno a parlare successivamente in chiave critica. Dopo aver sostenuto “la necessità di far sì che la politica metta al centro i valori veri, abbia nell'etica il suo elemento fondante e si proponga l'obiettivo di realizzare il bene comune”, e dopo aver chiarito che “tutto questo, attualmente manca. A destra come a sinistra, e anche al centro”, mi si attribuiscono queste parole: “È ardua ma è l'unica via giusta. Altrimenti si arriverà al punto in cui Berlusconi, leader politico dalla straordinaria dote della franchezza, ci dirà magari che su alcuni ddl, riguardanti il piano dei valori, ci può essere un regime anarchico, dove ognuno esprime quello che meglio crede. Per un cattolico questo non è accettabile”.
Ed è a questo punto che Giancarla mi domanda: “Per questo lei più volte ha invocato la nascita di un nuovo soggetto politico”? A cui rispondo: “Sì. È necessario che nasca e anche al più presto. Un nuovo soggetto politico che abbia al centro il bene comune”.
Ecco perché, cari amici, il titolo corretto alla mia intervista a “Il Tempo” è "I tempi sono maturi per un nuovo soggetto politico che abbia al centro i valori, le regole, l'identità e la civiltà cristiana". Altro che “Scendo in politica con Silvio”!
Purtroppo non si tratta di un fatto isolato. La tendenza della stampa a snaturare non solo i titoli ma anche ad alterare i testi delle interviste, e ancor di più dei servizi descrittivi di eventi che concernono un personaggio sgradito, è assai diffusa. Ad esempio. Oggi, il quotidiano “La Provincia” di Como, dove ieri ho tenuto un affollato incontro pubblico con monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo emerito di Como ed uno dei portabandiera del cattolicesimo affrancato dal relativismo, dall’islamicamente corretto e dal buonismo, pubblica un sottotitolo che recita: “Il giornalista non fa sconti ai fedeli dell’Islam (con la “I” maiuscola in accondiscendenza all’islamicamente corretto!): con loro dialogo impossibile”.
Ebbene io mi sono sgolato, anche nel corso dell’incontro con Maggiolini, a chiarire che pur essendo convinto che non esista un islam moderato, con i musulmani è invece possibile, anzi doveroso, dialogare e costruire insieme una civile convivenza e una comune civiltà dell’uomo, a condizione che rispettino i diritti fondamentali dell’uomo e condividano i valori fondanti della nostra civiltà giudaico-cristiana.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam
03/10/2008 08:46 – CINA - Pechino spia gli abbonati e i messaggi di Skype - Il partner cinese filtra testi compromettenti per il governo cinese e offre ad esso i nomi di abbonati e destinatari dei messaggi. Uno scandalo simile è avvenuto con Yahoo!, che ha rivelato l’identità di due suoi abbonati, giornalisti cinesi, condannati poi a 10 anni di lager.
New York (AsiaNews/ Agenzie) – La Cina controlla e censura i messaggi e le chat-line inviati attraverso Skype. Lo ha dichiarato la stessa compagnia internet accusando la sua partner in Cina, la Tom-Skype, di aver infranto la privacy dei suoi abbonati.
La Tom-Skype infatti non solo censura messaggi contenenti parole sensibili per il governo cinese, ma immagazzina i testi, che investigati possono portare a identificare l’abbonato che li ha immessi nel web.
Già nel 2006 Skype aveva ammesso che per entrare nel mercato cinese aveva accettato di porre una censura preventiva su internet che bloccava messaggi contenenti parole come “Falun Gong”, “Taiwan” o frasi di critica ed opposizione al Partito comunista cinese. La Tom-Skype è andata oltre offrendo al governo cinese anche i nomi degli autori dei messaggi e perfino i nomi di tutti i destinatari.
La Skype scarica tutte le responsabilità sul suo partner cinese, accusandolo di aver cambiato la policy senza avvertirli. La Tom-Skype si difende dicendo che “In quanto compagnia cinese, noi aderiamo a metodi e regolamenti della Cina, dove noi operiamo”.
La “confessione” del servizio web viene dopo che un gruppo canadese di ricerca, il Citizen Lab, ha scoperto sul web un database contenente almeno 150 mila messaggi con parole politicamente sensibili bloccati dalla Cina.
Da anni le maggiori compagnie di internet, per operare in Cina, hanno accettato la condizione di filtraggio preventivo di informazioni e per e-mail. L’anno scorso Yahoo! È stata al centro di uno scandalo internazionale per aver dato alla polizia cinese i nomi di alcuni suoi abbonati che avevano pubblicato articoli sulla democrazia su internet. Almeno due suoi abbonati, i giornalisti Shi Tao e Weng Xiaoning, sono stati condannati a 10 anni di prigione per aver divulgato “segreti di stato su internet”.
Grazie a un decreto passato al parlamento americano, che vieta alle ditte di aiutare la censura cinese, Yahoo è stata costretta a pagare un’ingente somma ai familiari dei due imprigionati.
02/10/2008 15:04 – VATICANO - Papa: combattere terrorismo e fondamentalismo, ma senza limitare la libertà religiosa - Benedetto XVI riceve i vescovi dell’Asia centrale e li esorta a prendere esempio dalle primitive comunità cristiane, piccola, ma non chiuse in se stesse. Per la Chiesa “è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Nella lotta a violenza, terrorismo, estremismo e fondamentalismo “mai la forza del diritto può trasformarsi essa stessa in iniquità; né può essere limitato il libero esercizio delle religioni”. Evangelizzazione e libertà religiosa sono questioni ricorrenti nella vita delle piccole comunità cattoliche dell’Asia centrale, ancora oggi esistenti “nonostante le dure pressioni esercitate durante gli anni del regime ateo e comunista” e proprio tali temi sono stati al centro del discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi a vescovi e ordinari di Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tadjikistan e Turkmenistan ricevuti in Vaticano - in occasione della quinquennale visita “ad Limina Apostolorum”.
In Asia centrale, ha osservato il Papa, ci sono pochi cattolici, ma ciò non deve scoraggiare. “Guardate alle prime comunità dei discepoli del Signore, che, pur essendo piccole, non si chiudevano in se stesse, ma, sospinte dall’amore di Cristo, non esitavano a farsi carico delle difficoltà dei poveri, ad andare incontro ai malati, annunciando e testimoniando a tutti con gioia il Vangelo”. Oggi ciò significa da un lato tenere vive le tradizioni di fede esistenti, dall’altro cercare “con pazienza e coraggio, nuove forme e metodi di apostolato”, da attualizzare “secondo le odierne esigenze, tenendo conto della lingua e della cultura dei fedeli”.
L’evangelizzazione e la costruzione di solide comunità cristiane è dunque la prima preoccupazione che il Papa raccomanda ai vescovi dell’Asia centrale. “Tutto ciò appare ancor più necessario per affrontare le sfide che l’odierna società globalizzata pone all’annuncio e alla coerente pratica della vita cristiana anche nelle vostre regioni. Vorrei qui ricordare come, oltre alle difficoltà a cui sopra facevo cenno, si registrano quasi dappertutto nel mondo fenomeni preoccupanti, che pongono in serio pericolo la sicurezza e la pace. Mi riferisco, in particolare, alla piaga della violenza e del terrorismo, al diffondersi dell’estremismo e del fondamentalismo. Occorre, certo, contrastare tali flagelli con interventi legislativi. Mai però la forza del diritto può trasformarsi essa stessa in iniquità; né può essere limitato il libero esercizio delle religioni, poiché professare la propria fede liberamente è uno dei diritti umani fondamentali e universalmente riconosciuti”.
“Mi pare poi utile ribadire – ha aggiunto Benedetto XVI - che la Chiesa non impone, ma propone liberamente la fede cattolica, ben sapendo che la conversione è il frutto misterioso dell’azione dello Spirito Santo. La fede è dono ed opera di Dio. Proprio per questo è proibita ogni forma di proselitismo che costringa o induca e attiri qualcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede (cfr Ad gentes, n. 13). Una persona può aprirsi alla fede dopo matura e responsabile riflessione, e deve poter realizzare liberamente questa intima ispirazione. Ciò va a vantaggio non solo dell’individuo, bensì dell’intera società, poiché la fedele osservanza dei precetti divini aiuta a costruire una convivenza più giusta e solidale”.
Omaggio a Malalai Kakar - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 ottobre 2008 - Domenica 28 settembre 2008 a Kandahar, Afghanistan è stata assassinata il Capitano di Polizia Malalai Kakar, l'unica donna poliziotto di una città e di un paese ancora sotto la minaccia del fanatismo religioso islamico, del tribalismo e di un maschilismo violento
E' stata uccisa dai talebani, che ne avevano fatto un loro bersaglio personale. Malalai Kakar era un simbolo per le donne afghane e per tutte le donne musulmane. Lei, vissuta nell'epoca dei talebani, gli studenti analfabeti i quali avevano riportato l'Afghanistan a condizioni di vita che definire medievali è dir poco, aveva scelto una professione difficile e pericolosa e che molti anche in Occidente reputano inadatta alle donne, vale a dire la poliziotta. Aveva scelto di difendere la sua gente entrando nelle Forze dell'Ordine, di cercare di aiutare chi voleva portare un po' di ordine in una nazione sprofondata nel caos. E' stata uccisa dai talebani, i qual hanno gridato che Malalai era un loro bersaglio. Quei talebani che imposero la ribellione contro ogni cosa sapesse di moderno, dal cinema alla musica, eccezion fatta, significativamente, per quelle armi moderne che sono mille volte più foriere di morte rispetto alle spade dei guerrieri del deserto. E' stata uccisa da quei talebani che hanno ridotto le donne a degli spettri velati, imponendo quel burqa di cui non c'è traccia nel Corano ma solo nelle tradizioni tribali dell'entroterra pakistano e afghano. E dietro il burqa c'era il divieto di ogni cosa per le donne: di uscire se non accompagnate da un parente stretto, di battere troppo forte i piedi per terra, di parlare a voce alta, persino di ridere. Quei talebani che hanno impedito alle donne di lavorare e spesso anche di farsi curare se malate. Malalai invece non si vergognava del suo volto, della bellezza del suo volto che Dio le aveva dato e che proprio per questo non andava nascosta. Ancora oggi troppe donne hanno paura a mostrare il loro volto, ma Malalai non temeva questo. Sicuramente sapeva quello cui andava incontro. Proveniva da una famiglia di poliziotti, gli studenti analfabeti le impedirono di lavorare, e, alla loro caduta, fu la prima donna ad arruolarsi. E sapeva che lo spettro di quei talebani non era certo svanito nel nulla. Oggi non si parla quasi più dei talebani, oppure qualcuno riesce persino a giustificarli. Bisogna quindi parlare di Malalai, rendere omaggio al suo coraggio e al suo sacrificio di donna morta nel compiere il suo dovere per assicurare un destino più sicura alla sua tormentata terra. Bisogna rendere omaggio ad una donna morta perché per amore del suo Paese ha sfidato i pregiudizi e si è esposta a bersaglio di uomini che hanno rubato la vita a tutte le donne afghane riducendole a fantasmi senza diritto ad una vita di un essere umano. Cara Malalai, che Dio ti accolga. E che renda il tuo sacrificio come il seme che morendo dà molto frutto. E che quel frutto possa essere la possibilità per le donne musulmane, pe tutte le donne che ancora soffrono a causa di tradizioni tribali, di potersi vedere restituita la loro vita.
I «preamboli della fede» - Il soprannaturale - è una persona in carne e ossa - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano 3 ottobre 2008
Per praeambula fidei - troviamo questa espressione in Tommaso d'Aquino - metafisici, intendiamo qui anzitutto la struttura dell'uomo capace di raggiungere e di riconoscere l'oggettività dell'essere e quindi la verità come un dato che non rifluisce nella soggettività dell'uomo stesso, coincidendovi.
O anche: la radicale e immanente apertura dell'uomo alla "intuizione" dei primi principi - principia nobis innata, come li chiama san Tommaso - fondati sulle esigenze dell'essere, a partire dal principio di non-contraddizione e dell'identità, e alla sua capacità di formulare dei giudizi sia universali e analitici, sia sintetici o in base all'esperienza, che egli sa criticamente e veritativamente interpretare.
Una teoria che contestasse questa capacità intenzionale dell'uomo nei confronti della verità, vanificando un autentico discorso di ragione, e relativizzando il soggetto a se stesso, fino a contestare che sia in grado di avere una conoscenza oggettiva e di attingere la res, tramite gli enuntiabilia, renderebbe da subito vano ogni discorso riguardante il soprannaturale, la fede e quindi la figura di Cristo, che del soprannaturale è la forma storica.
Tale teoria non solo estranierebbe il soggetto dal soprannaturale, ma dissolverebbe il soggetto, che si troverebbe umanamente stemperato, e persino del tutto spento, per rifarci ancora all'immagine di san Tommaso, che parla di lumen naturaliter inditum.
Questi praeambula fidei, "che è necessario conoscere nella fede" - quae necesse est in fide scire - sono presupposti o, si direbbe meglio, sono inclusi per la conoscenza e nella conoscenza del soprannaturale, o conoscenza teologica.
Essi - precisa san Tommaso - sono disposti ancillarmente e preambularmente sul piano della temporalità - in via generationis - e tuttavia vengono dopo quanto a valore - dignitate posteriores.
Quanto, poi, al loro contenuto, gli stessi praeambula comprendono "quello che di Dio è provato mediante le ragioni naturali, come la sua esistenza, la sua unità e altre cose del genere, riguardanti Dio e le creature, provate nella filosofia e presupposte dalla fede - ea quae naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum esse, Deum esse unum, et alia huiusmodi vel de Deo vel de creaturis, in philosophia probata, quae fides praesupponit."
Senza queste premesse strutturali, gnoseologiche e ontologiche, e senza i contenuti fondamentali che si risolvono nel riconoscimento del Deum esse, con quanto ne consegue, il linguaggio elementare della fede e il suo discorso mancherebbero della loro primaria - ossia linguistica e concettuale - plausibilità. E neppure sarebbe ipotizzabile un soprannaturale: una concezione della ragione afflitta da radicale debolezza, per cui il suo giudizio non riesce a cogliere la realtà e a riconoscerne la trascendenza, ne pregiudica la possibilità di qualsiasi discorso.
Ma con l'affermazione della disponibilità trascendentale veritativa e teologica (di teologia filosofica), siamo ancora - direbbe san Tommaso - sub metis philosophiae - e non abbiamo ancora realmente varcato il confine o l'eccedenza (excessus) per l'ingresso nel soprannaturale. Di esso possiamo unicamente ammettere la possibilità, che in ogni caso potrebbe solo configurarsi come un itinerarium Dei in mentem, totalmente lasciato, nel suo "avvenire", alla libertà di Dio e, nella sua conoscibilità, al lumen fidei, al novum lumen, o nova lux intelligibilis, o al divinum lumen o lumen inspirationis divinae.
È come dire che il soprannaturale è concepibile non come una realtà necessaria, avente evidenza metafisica, che risulterebbe confinata nell'area filosofica, ma come evento, o anche "contingenza", che appunto "avviene", "appare", presentandosi con i segni del suo esserci e della sua soprannaturalità, così che sia possibile accorgersi della sua storicità, e riconoscerlo nella sua compiuta identità.
In altre parole, senza alcuna premessa metafisicamente e storicamente necessaria: - il soprannaturale deve offrirsi, in modo tale da giustificare un giudizio storico o proveniente dall'esperienza, quindi da una "visione": senza apparizione storica, senza "visione" e senza esperienza il soprannaturale resterebbe inaccessibile.
- Ma questo non basta per il riconoscimento e il consenso: occorre che ci sia la facoltà adeguata al riconoscimento, e questa non potrebbe essere la "pura" ragione o il lumen naturaliter inditum, che non vi sarebbe consono e proporzionato.
Tommaso parlava di nova lux intelligibilis, o di divinum lumen, o lumen inspirationis divinae, in virtù del quale l'uomo è in grado non di bypassare, l'apparizione e la consistenza storica del soprannaturale, ma di riconoscere e di "giudicare" integralmente l'evento storico, e di aderirvi o consentirvi.
Questa adesione e questo consenso, possibili per la grazia di quella nova lux, è esattamente l'atto di fede.
E a proposito di tale nova lux importa osservare: che essa si diffonde e si insinua in tutto quanto abbiamo detto a proposito delle premesse strutturali, gnoseologiche e ontologiche, e dei praembula fidei, senza di cui la stessa nova lux resterebbe come "spiazzata", senza soggetto, e nell'impotenza a giudicare; non solo, ma che tale nova lux, invece di ridurre e di pregiudicare la capacità del giudizio, la potenzia, secondo la luminosa affermazione dell'Angelico: "I doni di grazia in questo modo aggiunti alla natura, non tolgono la stessa natura, bensì la perfezionano ulteriormente. Per cui il lume della fede, che ci viene gratuitamente infuso, non distrugge il lume della ragione naturale, che ci è dato da Dio - Dona gratiarum hoc modo nature adduntur, quod eam non tollunt set magis perficiunt; unde lumen fidei, quod nobis gratis infunditur, non destruit lumen naturalis rationis divinius nobis inditum."
In sintesi: senza la gratuita deliberazione divina il soprannaturale non c'è; il soprannaturale non può, quindi, che essere un "evento", un fatto, fenomenologicamente attingibile: senza questa storicità o fenomenologia, esso non sarebbe accessibile. Questo evento, poi, è un evento "complesso": in quanto costituito appunto di fenomenologia accessibile alla percezione e alla valutazione storica, ma nella quale è dato "il mistero" o la trascendenza oltre la natura: senza questa trascendenza si ridurrebbe a un dato filosofico o storico naturale, e non di grazia. Per l'accessibilità al soprannaturale e, di conseguenza, per il giudizio ad esso adeguato e pertinente, è imprescindibile il lumen divinae inspirationis che conformi la mente all'evento. E questa è la fede, o sono gli "occhi della fede", o gli "occhi illuminati del cuore" (Efesini, 1, 18), che permettono il giudizio "complessivo" e l'adesione. In Tommaso è diffusa la dottrina sugli occhi della fede: egli parla di oculi fidei; afferma: per oculum intelligitur fides.
Senza quindi la fede "oculata", come ancora si esprime l'Angelico, - fides oculata - resta disponibile la fenomenologia del soprannaturale, che verrebbe, tuttavia, inevitabilmente assunta in modo parziale e alla fine fraintesa e non obiettivamente interpretata. Il soprannaturale vive ed è percepibile e giudicabile nella fede.
Ma ora è inevitabile ormai la definizione e la denominazione concreta di questo soprannaturale: esso coincide con Gesù Cristo, con la storia che in lui trova la sua ragione iniziale e conclusiva, con i suoi "confini". È da lui che il soprannaturale irraggia ed in lui che esso quale tutto conviene.
Tutto quanto siamo venuti dicendo finora sul percorso al soprannaturale, sulle sue condizioni e le sue forme in concreto di riferisce a Gesù Cristo.
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Aspetti teologici e dottrinali dell'«Humanae vitae» - Veramente liberi e liberamente veri - "Humanae vitae: attualità e profezia di un'enciclica" è il titolo del congresso internazionale che si svolge il 3 ottobre nella sede romana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il cardinale arcivescovo di Bologna ha sintetizzato per noi i temi della sua lectio magistralis. - di Carlo Caffarra
L'enciclica Humanae vitae ha avuto in questi quarant'anni trascorsi dalla pubblicazione un destino singolare: a una discussione di intensità sconosciuta per qualsiasi documento pontificio precedente è seguito un silenzio pressoché totale. (...) Nel primo ventennio dopo la pubblicazione, la riflessione e/o la contestazione riguardava la praticabilità della norma morale insegnata da Humanae vitae e l'autorevolezza dell'insegnamento. (...) Questo approccio presupponeva comunque la verità di ciò che l'enciclica prescriveva. Meglio: il bene che la norma difendeva era ritenuto vero bene. È precisamente a questo livello che nel secondo ventennio è avvenuta la "crisi dell'Humanae vitae". Mi spiego.
La materia del contendere non è più la praticabilità della norma insegnata, e/o l'obbligatorietà dell'assenso del credente alla medesima in ragione del soggetto docente. La materia del contendere è costituita dalla domanda circa la verità del bene che l'Humanae vitae intende difendere. Cioè: è vero o è falso che la connessione fra capacità unitiva e capacità procreativa unite nella sessualità è un bene propriamente morale? Si passa dal pensare: "ciò che la Chiesa insegna non è praticabile o comunque non obbliga semper et pro semper", al pensare: "ciò che la Chiesa insegna è falso". La domanda sulla verità è il nodo "problematico attuale".
La radicalizzazione del confronto con l'Humanae vitae è uno dei molti aspetti del confronto che la proposta evangelica oggi vive con la post-modernità occidentale. Esso non avviene più, almeno principalmente, sul piano della prassi: è ragionevole, è possibile praticare ciò che la proposta cristiana esige o proibisce?
Lo scontro avviene sul piano veritativo. Il cristianesimo non dice la verità circa il bene dell'uomo, poiché il discorso religioso come tale non ha rilevanza veritativa. Il cristianesimo, allo stesso modo di ogni altra proposta religiosa, fa parte ad uguale diritto del "supermarket delle religioni": ciascuno prende il prodotto secondo le sue preferenze, senza possibilità di una ragionevole argomentazione capace di giustificare la scelta in modo condivisibile. (...) Verità e cristianesimo sono due categorie di genere essenzialmente diverso. L'uso della ragione, come facoltà del vero, non è da ritenersi conditio sine qua non di individuazione, comprensione e libera accoglienza del Dono divino. Questo si ritiene per lo più oggi.
Non voglio ora però procedere in una riflessione di carattere generale su questo che costituisce uno dei grandi temi e delle "grandi sfide" del magistero di Benedetto XVI.
Vorrei piuttosto verificare come tutti i presupposti veritativi di carattere antropologico alla base dell'Humanae vitae siano stati progressivamente erosi. Questa erosione ha reso l'Humanae vitae non impraticabile, ma impensabile; ne ha dimostrato la (supposta!) falsità.
L'affermazione centrale dell'Humanae vitae si fonda sulla (percezione della) presenza di un bene morale nel fatto che l'atto sessuale coniugale fertile sia al contempo unitivo e procreativo. La compresenza delle due capacità non è un mero dato di fatto, ma ha in se stessa una preziosità di carattere etico che esige di essere rispettata. Questo atto di intelligenza si fonda su alcuni presupposti antropologici che devo solo telegraficamente richiamare.
Il primo. La persona umana è sostanzialmente una nella sua composizione di materia e spirito (cfr. Costituzione pastorale Gaudium et spes, 14, 1, EV 1/1363). Pertanto il rapporto fra l'io-persona ed il corpo non è solo di proprietà [ho il mio corpo] e quindi di uso.
Il secondo. La dimensione biologica della sessualità umana è linguaggio della persona, dotato di un suo significato proprio, di una sua grammatica.
Il terzo. La grammatica che regge il linguaggio della persona che è la sessualità, è la grammatica del dono di sé. Da ciò deriva che il rispetto di questa grammatica esige una profonda, intima integrazione fra èros e agàpe, fra pàthos, èros e lògos.
Ora, la mia convinzione è che tutti e tre questi presupposti sono stati nella postmodernità occidentale completamente erosi.
Il primo è stato demolito in una duplice direzione, affermando una natura senza libertà o una libertà senza una natura. (...) Il secondo è stato demolito dalla vittoria che l'etica utilitaristica ha ottenuto nell'èthos occidentale. Essa nega l'esistenza di ragioni incondizionatamente e universalmente capaci di giustificare una scelta libera. (...) Il terzo presupposto appare ampiamente demolito nel vissuto attuale in cui pàthos, lògos, èthos sono ormai completamente separati. Ed è questo il nodo che l'etica contemporanea si dimostra sempre più incapace di sciogliere.
Perciò l'Humanae vitae nella postmodernità è diventata ormai incomprensibile perché è diventata completamente impensabile.
A una lettura più profonda di tutta la vicenda tuttavia risulta che l'insegnamento dell'Humanae vitae è la risposta, è l'indicazione della via d'uscita da una sorta di prigione in cui l'uomo stava chiudendo se stesso. Parlare dunque di attualità dell'Humanae vitae, della sua rilevanza profetica non è retorica.
Che l'uomo oggi sia in pericolo nella sua propria umanità, è difficile negare. Ed allora mi chiedo: che cosa oggi mette in pericolo l'humanitas della persona come tale? La mia risposta è: l'avere sradicato l'esercizio della libertà dalla [consapevolezza della] verità circa l'uomo. Posso formulare questa stessa risposta nel modo seguente: è la negazione che esista una natura della persona come criterio valutativo delle scelte della nostra libertà.
Che questa posizione metta a rischio l'humanum di ogni persona risulta dalle seguenti considerazioni.
Se prendiamo in considerazione la produzione delle norme di cui necessita ogni società (ubi societas ibi jus) e partiamo dal presupposto della negazione della natura nel senso suddetto, si deve pensare che la condizione sufficiente per costituire tutte le norme è esclusivamente il consenso delle parti, che normalmente si manifesta attraverso la votazione.
La difesa della persona è affidata alla buona disposizione di chi esercita il potere (in tutti i sensi: anche il potere del politically correct), e viene tolta dalle coscienze la scriminante fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fra ciò che è prevaricazione morale dell'altro e riconoscimento dell'altro.
Possiamo prendere in considerazione anche la condizione della singola persona nel contesto della negazione di una sua natura.
È ancora pensabile la possibilità del male morale? Del male morale inteso come il modo di esercitare la propria libertà contro il bene di chi la esercita. Se infatti è la libertà stessa a decidere non di compiere il bene o il male, ma a stabilire che cosa è bene o che cosa è male; se attribuisco alla libertà il potere di determinare la verità delle sue scelte, parlare di male morale non ha senso. Il dramma della libertà - possibilità di negare colle proprie scelte ciò che si è affermato vero colla propria ragione - si trasforma in una farsa. Ciò che sembra essere esaltazione suprema della libertà è in realtà la sua degradazione a mero spontaneismo.
Quanto detto finora acquista un significato più profondo se pensiamo al potere tecnico di cui l'uomo è venuto in possesso in questi ultimi quarant'anni. Sradicare la libertà dalla verità, negare che esista una natura umana nel contesto di possibilità tecniche sempre più estese, rischia di consegnare l'humanum a prevaricazioni senza limiti. Affermare la relatività di ogni forma di umanità rischia di privare il potere tecnico di ogni criterio di giustizia. Ciò che sto dicendo non significa che dobbiamo scegliere fra tecnica ed etica. Ma che non possiamo radicare la tecnica in un'etica senza verità. O - il che equivale - umiliare e degradare la ragione a una mera ratio technica. È una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI sta lanciando al mondo: o si allargano gli spazi della ragione o l'uomo è in pericolo mortale.
Che cosa ha a che fare tutta questa riflessione, qualcuno potrebbe chiedersi, con l'Humanae vitae? Essa mostra in quale condizione oggi si trova l'Humanae vitae: quale è il suo permanente significato; il suo permanente significato profetico.
Ho parlato di "natura della persona umana". Secondo l'antropologia giudaico-cristiana, il corpo entra nella costituzione della persona. La persona umana è persona-corpo (persona corporea). Ne deriva che lo statuto ontologico della persona appartiene anche al suo corpo. La coscienza di sé non è disincarnata: è la coscienza di sé come soggetto-corpo. Ho la coscienza che è lo stesso io che comprende un teorema di matematica, e che mangia. Così come l'altro è conosciuto e ri-conosciuto nel e mediante il suo corpo. È il corpo il linguaggio della persona.
Da ciò deriva una conseguenza d'importanza fondamentale.
La conseguenza riguarda la concezione della sessualità umana: del suo lògos e del suo èthos. La sua ratio - il suo lògos - consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità è linguaggio della persona, e quindi espunge da sé ogni separazione fra biologia (del sesso) e relazionalità (della persona). È l'unità di biologia e relazionalità che definisce la natura della sessualità umana; e la custodia di questa unità definisce l'èthos della sessualità umana.
La possibilità tecnica di separare la fertilità dall'esercizio della sessualità fu chiaramente intuita da Paolo VI e come la negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana e, soprattutto, come una "svolta epocale" nel rapporto fra l'uomo e la tecnica. In questo sta il permanente valore profetico di quel documento. Vediamo le cose più in particolare.
Ho parlato di negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana. La contraccezione chimica rendeva pensabile e praticabile un (supposto) vero atto di amore coniugale manipolando sostanzialmente la sua biologia. Veicolava nella coscienza dell'uomo e della donna l'idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo un qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una "misura di uso" che ora la tecnica poteva stabilire.
Se l'atto di porre le condizioni del concepimento di una persona non entrava nella costituzione della libera relazionalità intra-coniugale, era solo questione di tempo per dedurre che lo stesso atto poteva prescinderne completamente: dieci anni dopo, esattamente, nacque la prima bambina per fecondazione artificiale. La separazione della biologia dalla relazionalità era completa. Ho parlato di svolta epocale nella costituzione del rapporto tra uomo e tecnica. Il concepimento di una nuova persona si trasforma da "mistero" degno di venerazione in "problema" da risolvere. Paolo VI intuì che questa trasformazione rischiava di consegnare l'humanum come tale ad un destino tecnologico; rischiava di mettere l'humanum a disposizione di un potere di fatto senza limiti. La persona umana era a rischio di perdere la sua assoluta indisponibilità; di perdere la sua non negoziabilità.
Ci siamo chiesti: in quale condizione versa oggi l'Humanae vitae? Mi sento di rispondere: di drammatica attualità.
Come ogni profezia, anche l'Humanae vitae è dotata e di una grande forza e di una grande fragilità. La sua fragilità fu dovuta all'impreparazione e all'inadeguatezza del pensiero etico teologico a sostenerne l'insegnamento.
Il grande magistero di Giovanni Paolo II espresso nel ciclo di catechesi sull'amore umano, ha risposto a queste esigenze. Che ora il profondo magistero di Benedetto XVI sull'agàpe e sul suo rapporto con l'èros ha ulteriormente approfondito.
La forza della profezia dell'Humanae vitae consiste precisamente nel suo mettere in guardia l'uomo da un potere che potrebbe devastarne la dignità; dal mettere la propria umanità "a disposizione" e di una libertà e di una deliberazione pubblica che non riconosce più l'esistenza di una verità circa l'uomo.
Ed allora la sfida più urgente è quella educativa: aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, ad essere veramente liberi e liberamente veri.
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Biopolitica e persona: una riflessione etica nell'epoca della globalizzazione - Il corpo, l'uomo e la sua dignità - di Adriano Pessina
Il termine biopolitica è ambiguo e bisognerebbe discutere sulla legittimità di una politica della vita che pretende di essere una politica sulla vita. Oggi nell'epoca della globalizzazione dei mercati e della caduta, in Occidente, delle ideologie totalitarie, la biopolitica rischia di costituirsi nei termini di una macro-ideologia, tesa ad influenzare, le legislazioni dei singoli Paesi. Qual è la differenza tra una biopolitica autoritaria - come quella che già emergeva secondo Popper dalle pagine della Repubblica di Platone e che poi ha trovato il suo apice nel biologismo salutista e razziale del nazismo - e una biopolitica liberale, che parla il linguaggio dei diritti dell'individuo, che spesso coincidono, però, con i diritti e le rivendicazioni del cittadino consumatore?
Non si può parlare di biopolitica senza fare i conti con la questione della giustizia. Cittadinanza e riconoscimento della dignità sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, perché la relazione tra gli uomini sia giusta, cioè sia in grado di garantire, all'interno di una comune e pacifica convivenza, ciò che spetta a ognuno. Dopo la seconda guerra mondiale si è consolidato il convincimento che si dovesse allargare il concetto di cittadinanza e bisognasse attribui-re diritti all'uomo non più, e non soltanto, in quanto cittadino, ma in quanto persona. L'introduzione, in politica, di questa nozione, cara alla tradizione cristiana, che l'ha privilegiata per esprimere la fede nel Dio Trinitario, sta però sortendo effetti opposti a quelli auspicati e sta producendo forme di discriminazione tra gli uomini nelle società occidentali ispirati al modello della neo cultura liberale. È già nel cuore ambiguo della nozione di persona così come è posta nella modernità che si situano le condizioni per capovolgere il progetto di inclusione di tutti gli uomini, al di là di condizione, razza, età, salute, ricchezza, in uno spazio comune di riconoscimento, tutela, promozione. Non c'è uguaglianza se non sulla base del riconoscimento della dignità come qualità intrinseca al puro essere uomo: se la dignità indica una qualità che si può perdere o possedere, se non è pensata in termini ontologici, ma nei termini morali dell'esercizio della ragione e della volontà umane, allora non vi è dubbio che la dignità varia e l'uguaglianza si frantuma.
Avere diritti perché persone e non perché uomini, stabilendo già così una dualità uomo/persona, significa porre dentro l'esistenza concreta una frattura che nel tempo produrrà gli stessi effetti presenti nel dualismo (per certi versi meno grave) posto tra uomo e cittadino. Infatti, il dualismo uomo/cittadino resta pur sempre un dualismo estrinseco, che può essere sanato, allargando la cittadinanza, che differenzia gli uomini tra di loro, ma che non frantuma l'uomo in se stesso. Porre, invece, dentro la condizione umana, una differenza tra essere uomo e essere persona significa dividere l'uomo in due.
La manipolazione degli esseri umani allo stato embrionale o fetale, l'eutanasia come progetto di estensione del suicidio assistito, il progetto di perfezionare l'uomo con un'eugenetica migliorativa, nel contesto della biopolitica liberale, sono di fatto permessi in nome della sovranità che l'essere umano persona - cioè chi è adulto, capace di intendere e volere, cittadino dell'Occidente, consumatore e produttore, cioè protagonista del mutuo scambio contrattualistico su cui si fonda una società liberale - può esercitare sull'essere umano non ancora, o non più persona. Questa grande divisione - che evoca la grande divisione tra essere e dover essere che ha tentato di eliminare la categoria della verità dall'ambito dell'etica - non attraversa gli uomini, ma l'uomo. Il ritorno dell'antica formula, che echeggiò nel nazismo, della vita non degna di essere vissuta oggi viene interiorizzata dall'individuo stesso, che instaura uno strano rapporto di odio e amore con quella corporeità che egli è e che, invece, pensa di avere. Un amore e odio con il proprio corpo nel quale si mima l'antica dialettica servo-padrone. Ma proprio perché si è corpo umano e non si ha un corpo umano, è difficile quell'astratta signoria vagheggiata da un'antropologia irrealistica: le malattie, la vecchiaia, le relazioni difficili, rendono faticosa la signoria della persona sul proprio corpo e rendono difficili i tempi della malattia, laddove il corpo diventa una sorta di estraneo ai progetti della persona. Da qui l'idea che sia meglio non far continuare a vivere quei figli che sono affetti da malattie e che non godranno forse dello statuto di persona perché dovranno vivere nella dipendenza da altri, dovranno subire la tirannia del loro corpo malato: da qui l'idea di programmare, con direttive anticipate, la propria fine quando non si potrà più esercitare la signoria sul proprio corpo, si perderà la coscienza di sé e ci si dovrà affidare ad altri.
Questo dualismo, consacrato dalla nozione di persona, è anche all'origine del nuovo modo di pensare la sessualità e i suoi "diritti". Se la persona ha un corpo, allora la persona non è di fatto né maschio né femmina e quindi il suo essere maschio o femmina non dipenderà soltanto dal suo corpo, ma dalla sua scelta libera. L'invenzione dell'identità e della personalità come progetto e desiderio si alimenta di questa scissione: l'omosessualità, come scelta e diritto, e non più come fatto o destino, è teorizzabile dentro questa scissione tra persona e essere umano, tra mente e corpo, tra desiderio e identità fisiologica. La persona diventa il neutro che, mentre sancisce il linguaggio politicamente corretto, nell'illusione di evitare discriminazioni sulla base del genere maschile o femminile, di fatto dissolve il carattere proprio della persona umana, che non è mai neutra, non è mai senza corpo. Diventare donne o diventare maschi oggi non significa più sviluppare nel tempo le condizioni dell'essere persona umana, cioè maschio o femmina, ma significa decidere rispetto a un neutro, plasmabile dalle scelte e dai desideri.
Paradossalmente, per un'astuzia della storia o per una stupidità dell'uomo, si torna al problema che si voleva risolvere: non basta più la nuda qualità dell'essere umano per godere del riconoscimento altrui.
Si può ripetere quello che diceva Hannah Arendt a proposito dei prigionieri nei campi di concentramento, privati della cittadinanza e di ogni diritto: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell'astratta nudità dell'essere uomo" (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, pagina 415). Secondo la Arendt, "Un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile". Separare l'uomo dalla persona significa di fatto introdurre dei gravi problemi di giustizia sociale e minare il principio politico dell'uguaglianza.
Ha messo in luce con chiarezza questa situazione la filosofa americana Eva Kittay che, partendo dall'esperienza diretta di una figlia affetta da paralisi cerebrale congenita, ha posto in evidenza i problemi di cura e di presa in carico delle persone con disabilità. Ad uno sguardo superficiale questi problemi sembrerebbero riguardare una speciale categoria di persone, i disabili appunto. E nel nostro immaginario pensiamo, per esempio, a bambini affetti da sindrome di Down, a persone paraplegiche, a persone in stato vegetativo, oppure ad anziani non autosufficienti. In realtà non si tratta di categorie antropologiche o sociali perché le forme della dipendenza, più o meno estrema, che alcuni di loro esperimentano fanno parte della condizione umana e sono perciò aspetti dell'esistenza che in modo differente e per tempi differenti ci riguardano tutti, direttamente o indirettamente. Ma i problemi di queste persone rischiano di essere considerate politicamente marginali se pensiamo a una teoria liberale della giustizia che si ispiri al modello del mutuo scambio tra cittadini, dove gli attori del contratto sociale sono persone libere, uguali ed indipendenti.
Per correggere questa impostazione, Nussbaum è ricorsa a due fonti, l'antropologia aristotelica e le teorie dei bisogni di Marx. In questo modo ha cercato di allargare il concetto di dignità umana anche a quella che lei definisce la dimensione animale dell'uomo. Ma nell'uomo non c'è un'animalità su cui egli avrebbe una sorte di dominio. Nell'uomo tutto è umano, anche quegli aspetti che lo mettono in analogia con l'animale. Soltanto perché l'uomo ha umanizzato l'animale è stato possibile animalizzare l'uomo: ma in questo modo, ancora una volta, si è persa la consapevolezza di quella nuda qualità dell'essere uomo di cui parla Arendt. Una qualità ben espressa dalla lapidaria definizione di persona umana posta da Tommaso d'Aquino: "Perciò la persona, in qualsiasi natura indica ciò che è distinto in quella natura: cioè nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono principio di individuazione per l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana" (Tommaso, Summa Theologiae, i, q. 29, a. 24).
(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)
Appunti per una società aperta. E laica - Maurizio Lupi - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Viviamo nell’era della comunicazione ma, paradossalmente, è proprio una delle parole che usiamo di più ad essere anche una delle più fraintese. Tutti parlano di laicità, ma cos’è veramente la laicità? Tenterò di rispondere prendendo a prestito le parole che il presidente francese Sarkozy ha pronunciato lo scorso 12 settembre, ricevendo all’Eliseo Papa Benedetto XVI quando – difendendo una nozione di laicità “positiva” – ha detto che «è legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero».
Queste parole ci dimostrano come la laicità non sia solo un problema linguistico. Dietro la comprensione di questo concetto si nasconde l’alternativa secca tra una società aperta al contributo delle religioni e una società basata sull’esclusione. La storia è piena di esempi: basterebbe citare ciò che sta accadendo nel dibattito sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Ma se si escludono dal dibattito politico le religioni come portatrici di senso, l’alternativa è il relativismo. Si cede al dubbio, al ripiegamento in se stessi, alla cultura del “ma anche” per cui tutto ha uguale valore.
La politica non può rimanere indifferente davanti a questa sfida. La domanda da cui dobbiamo partire è quindi: cosa dobbiamo fare? Ha qualche fondamento la contrapposizione tra laico e credente? Benedetto XVI, rispondendo a Sarkozy in quell’occasione, ha ricordato che il primo a trovare una giusta soluzione sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa è stato Gesù Cristo, quando affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). «È fondamentale infatti, da una parte – ha aggiunto il Papa – insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
La democrazia, che come ha detto don Giussani può essere definita come “esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi”, è possibile solo in presenza di una consapevolezza di uomo così rispondente alla sua natura, così rispettosa del valore dell’uomo perché è. La possibilità di convivenza, di dialogo e quindi di democrazia, è frutto dell’ideale di uomo che si vive, della presenza di un ideale. Non è sufficiente, infatti, scartare ciò che non è condiviso o divide, poiché questo, di per sé, non è affatto garanzia di democrazia, di dialogo o di costruzione del bene comune.
Nulla di più lontano dalla ricerca di uno Stato etico, ma al contrario la ricerca, nel confronto tra identità e tradizioni religiose diverse, di risposte concrete ai bisogni dei cittadini. È possibile questo? Io dico di sì, ma non in astratto. Ci sono esempi di come questo sia possibile: penso alla legge 40, alla sussidiarietà – difesa dalla dottrina sociale della Chiesa come dalla Costituzione -, al dibattito sul testamento biologico, alle carceri, dove più che altrove si gioca un’idea di giustizia rispettosa dell’uomo. Si tratta di battaglie in cui cattolici e non si sono confrontati, anche duramente, ognuno partendo dalle proprie posizioni per cercare di trovare un compromesso positivo che salvaguardasse quei valori non negoziabili che sono patrimonio di tutta l’umanità.
Non si tratta, quindi, di ragionare sull’opportunità o meno di dar vita a un partito dei cattolici e neppure di costituire un fronte cattolico all’interno del Parlamento. Come ha recentemente auspicato il Santo Padre, «il nostro paese non ha bisogno di scontri, né di battaglie di religione, ha bisogno di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». È questa, mi pare, la laicità di cui la nostra vita pubblica non può più fare a meno.
CILE/ Ecco come far fronte all’emergenza educativa - Redazione - venerdì 3 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In Cile l’educazione si è trasformata da molto tempo in un tema che coinvolge l’intera società. Professori e assistenti universitari si danno da fare ogni giorno per avere un’educazione di qualità per tutti gli studenti.
Su questo tema, si sono confrontati diversi organismi politici ed educativi in cerca di una proposta che possa soddisfare ciascuno dei settori educativi del Pase.
Di fronte a questa situazione, i professori di Comunione e Liberazione hanno deciso di riunirsi una volta al mese per comprendere qual è il vero problema e come affrontarlo. Tra questi incontri, ve n’è uno con Pedro Morandé, decano della facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Cattolica, per parlare di educazione di qualità.
Nel 2003, in Cile c’è stata una politica di rafforzamento della classe docente, sorta come risposta a una riforma iniziata a metà degli anni ’90, con la quale si sperava di ottenere la tanto ambita qualità di educazione. Tuttavia questa iniziativa non riuscì a diminuire lo storico divario tra le scuole private (che sono molto costose) e pubbliche (che sono gratuite o a basso costo), dato che le prime continuavano ad ottenere risultati accademici migliori.
Dopo questa riforma, i cui risultati non riuscirono a invertire la situazione in cui si trovava il Paese, fu creato un documento chiamato Marco para la Buena Enseñanza (letteralmente Cornice per il Buon Insegnamento), per garantire che l’educazione in Cile fosse di qualità per ogni studente. Nel documento si stabilisce ciò che ogni docente deve sapere, conoscere e fare, in modo da poter determinare in che misura lo fa nelle aule e in che misura lo fanno le scuole. In sostanza, il documento cerca di descrivere tutte le responsabilità di un Professore nel suo lavoro giornaliero con gli studenti.
Morandé ha tenuto una relazione sul Marco para la Buena Enseñanza e sui documenti di Benedetto XVI dedicati all’emergenza educativa, aiutandoci a comprendere cosa essi intendessero per qualità. «Se voi confrontate questi due documenti, entrambi parlano di qualità, ma in termini completamente diversi: non necessiariamente contradditori, ma differenti, ed è bene chiarire qual è il punto di vista di ciascuno di essi».
«Il Marco para la Buena Enseñanza parla da un punto di vista tecnologico, cioè: garantiamo procedimenti e metodi affinché l’educazione sia più o meno uguale per tutti. Quando parliamo di qualità nel senso tecnologico, parliamo fondamentalmente di rendimento scolastico; rendimento in relazione o comparazione con quello di altri. Non è descritto il sistema per unire l’apprendimento di uno studente con il modo in cui questo gli ha cambiato la vita».
«Il documento del Papa (Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008) dice una cosa esattamente diversa. Egli scrive: “A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni”. Il che vuol dire, che non possiamo usare come criterio guida l’omogeneizzazione del rendimento, ma dobbiamo educare la libertà delle diverse generazioni, perché prendano nuovamente le proprie decisioni, sia che seguano un’eredità del passato, sia che credano in altre cose. Più avanti il Papa dice quali sarebbero i requisiti comuni per un’autentica educazione: “Essa ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall'amore […]. Ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso”. In sostanza, ciò di cui ci si deve curare è ogni persona; fortunatamente - e grazie a Dio -, l’amore non è standardizzabile, non lo possiamo misurare con numeri dicendo: io amo questa persona 5 o 10. L’amore, giustamente, è l’assenza di misura, è la gratuità, quello che non si lascia standardizzare e quindi mostra ogni persona - tanto il professore quanto ognuno dei suoi alunni - come qualcosa di unico, che ha la propria vocazione e che merita di essere amato per quello che è, perché Dio lo ama. Ogni persona è un progetto in se stesso, non è il progetto nazionale del sistema educativo. Ogni persona è un progetto e l’unico modo di avvicinarsi a questa persona è donare se stessi».
Queste parole non sono vuote per noi, vogliamo andarci a fondo per essere educatori migliori, perché lo scopo dell’educazione non è solamente delle istituzioni a essa dedicate, ma si forma grazie a una persona che ne incontra un’altra.
(Alejandro León, Assistente alla Pontificia Università Cattolica del Cile)
UCCIDERE UNA DONNA INCINTA - QUELL’AGGRAVANTE EVIDENZA DEL DIRITTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 ottobre 2008
Era una questione di evidenza. Qualunque persona di buon senso, insomma, qualunque persona libera di pensare e di sentire, capiva che si trattava di una specie di evidenza. Ora sta diventando anche un’evidenza del diritto. Il giudice che a Milano ha riconosciuto un’aggravante – come procurato aborto – a colui che ha ucciso una donna incinta, Veronica, e il procuratore generale di Venezia che ha presentato appello con motivazioni analoghe per il delitto di Jennifer, hanno dato spazio a quella evidenza. Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé.
Uccidere una donna incinta non è – se così terribilmente è possibile parlare, ma così si deve, quando la vita chiede alla ragione e al cuore, supplica d’esser riconosciuta, e rispettata – insomma, uccidere una donna incinta non è come uccidere una donna che non lo è. C’è 'qualcosa' in più che entra in gioco. C’è qualcun altro a cui viene fatto un torto. Il torto immenso di portar via la vita. In un omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo. Come accade per il dolore, per la pena che proviamo quando ci raggiungono notizie così dure, d’una donna che muore con il bambino dentro di lei. E allora si ha una pena aumentata, se così si può dire, moltiplicata. Più infinita di infinita, se avessero senso le parole che riusciamo a dire. Ma è così, è evidente, è buon senso, è misura larga della vita. E se gli uomini e le donne di questa Italia fossero ancora liberi di pensare, e di sentire, vedrebbero che la giustizia disponendo queste sentenze, non fa che seguire una evidenza. È infatti evidente e anche naturale che il diritto, nel suo esercizio di sanzionare le colpe, riconosca che se la morte raggiunge la madre e anche il figlio che è in lei sia più dura la pena.
Poiché così lo chiamava la povera madre: mio figlio, il figlio che sto aspettando. Non 'il figlio che non c’è', ma 'che sto aspettando', che c’è e sta arrivando. E così dicevano le sue amiche, e così i parenti. E dunque è naturale, è evidente quel che, se pur ancora timidamente, alcuni giudici stanno ammettendo. Sarà compito dei Signori della giustizia trovare le parole, trovare le formule che riescano a portare questa evidenza che di fronte a certi fatti ci fa restare senza parole, e ci fa sentire vuote le formule, le frasi fatte… Ora che certe sentenze, per così dire, si sono accorte di lui, del figlio, oltre che di lei, della povera madre, la prima ad esserne felice nel cielo delle madri sarà lei. E poi ne sono convinti i liberi di pensare e di sentire. Coloro che non si perdono in strani e sinistri distinguo. Perché sulla scena del delitto c’era il demente assassino, e c’era lei, sì, ma lei sapeva benissimo, e anche l’assassino a volte sapeva benissimo che c’era anche lui, il figlio. E non è giusto dimenticarlo. Non sarebbe giustizia fare finta di niente. Non sarebbe né materno né giusto. Non sarebbe civile. Sappiamo che in Italia, su tanti argomenti, capita che azioni e decisioni di singoli magistrati hanno teso a colpire l’evidenza. A volte circumnavigando le norme e i dettati costituzionali. A volte forzando di proposito o creando nodi interpretativi. Può capitare, laddove si tocchino vicende delicate, difficilmente afferrabili con definizioni certe. Specie in questo tempo dove febbrili e affascinanti sono le ricerche e le tensioni intorno all’inizio e alla fine della vita. Ma in casi come questi, dove l’evidenza è disponibile, e occorre solo esser liberi ancora di pensare e di sentire, allora il compito del giudice che dispone le sentenze è di prendere atto, di cercare quali leggi, se ci sono o se creare si devono, siano più adeguate a riconoscere i fatti. E invece di una forzatura per contrastare l’evidenza, si sono fatti dei passi per riconoscerla.