mercoledì 29 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Moschee, ai musulmani il Tar dice sempre di sì - Ecco come gli islamici beffano i divieti dei sindaci: comprano gli stabili e mutano la destinazione d’uso con l’avallo dei tribunali amministrativi. Fondano un'associazione culturale e poi adibiscono la sede a luogo di preghiera… - Francesco De Remigis - Il Giornale n. 258 del 2008-10-26
2) Nelle "Opera omnia" di Ratzinger teologo, l'ouverture è tutta per la liturgia - E Benedetto XVI spiega perché, nella prefazione al volume che ha voluto far uscire per primo. Ricorda che cominciò così anche il Concilio Vaticano II. Dando il primo posto a Dio. E a proposito dell'orientamento della preghiera scrive... - di Sandro Magister
3) Per la prima volta, il Sinodo accoglie il magistero di un Patriarca ortodosso - Presentata al Papa una proposizione sull'intervento di Bartolomeo I
4) Benedetto XVI: siamo debitori del Concilio Vaticano II - Messaggio ai partecipanti a un Congresso su Giovanni Paolo II e il Concilio - di Inma Álvarez
5) Un carcerato racconta la sua esperienza del Cammino di Santiago - “Per me è più di una benedizione” - di Nieves San Martín
6) La Santa Sede invita gli indù a “vivere in armonia” con le altre religioni - In occasione della celebrazione del Diwali, la festa che dà inizio al nuovo anno
7) 30 ottobre 2008 - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008
8) Ironia: Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008
9) Se si sospendono le cure ai neonati prematuri - I cittadini più discriminati - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
10) Minori ed emergenza educativa Il dibattito in Inghilterra e Galles - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
11) Giovanni Paolo II e la sua visione del concilio Parliamo all'uomo in modo comprensibile - Si apre il 28 ottobre a Roma, presso la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura Seraphicum il convegno internazionale "Cristo, Chiesa, Uomo. Il vaticano II nel pontificato di Giovanni Paolo II". Pubblichiamo stralci dell'intervento di apertura del cardinale segretario di Stato. - di Tarcisio Bertone – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
12) Il laicismo fondamentalista minaccia l'America - di Mary Ann Glendon – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
13) Religione e società civile nel mondo contemporaneo - Stati Uniti ed Europa due libertà a confronto - Nel pomeriggio del 28 ottobre a Roma presso il Centro di orientamento politico Gaetano Rebecchini si svolge il convegno "La religione e la libertà: Stati Uniti ed Europa". Pubblichiamo ampi stralci degli interventi del cardinale vicario emerito della diocesi di Roma e dell'ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. - di Camillo Ruini – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
14) SCUOLA/ 1. Mauro: nel resto d’Europa più spazio alla libertà di educazione - Mario Mauro - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
15) SCUOLA/ 2. Nella sterile guerra fra governo, opposizione e sindacati chi ci perde sono le giovani generazioni - Giovanni Cominelli - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
16) USA/ L’ultimo asso nella manica di McCain per poter battere Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
17) INTERVISTA. Da venerdì teologi e scienziati si ritrovano in Vaticano per parlare del futuro dell’Universo e della cosmologia. Parla Cabibbo - Il boomerang di Einstein – Avvenire, 29 ottobre 2008
18) Su Eluana una serata tv (quasi) a senso unico - DI MIRELLA POGGIALINI - Non conta che, come insiste Euge­nia Roccella, Elua­na sia viva, anche se in co­ma.- Avvenire, 29 ottobre 2008


Moschee, ai musulmani il Tar dice sempre di sì - Ecco come gli islamici beffano i divieti dei sindaci: comprano gli stabili e mutano la destinazione d’uso con l’avallo dei tribunali amministrativi. Fondano un'associazione culturale e poi adibiscono la sede a luogo di preghiera… - Francesco De Remigis - Il Giornale n. 258 del 2008-10-26
È legittimo trasformare un laboratorio artigianale in una moschea? E utilizzare un magazzino come luogo di culto? Secondo il Tar del Veneto, sì. E pare non sia l’unico in Italia a pensarla in questo modo. Con una sentenza emessa la scorsa settimana il Tribunale amministrativo regionale ha infatti stabilito la riapertura del seminterrato veronese dove gli islamici pregavano senza autorizzazione dal 2003. E hanno continuato a farlo fino al 6 agosto scorso, quando il sindaco di Verona, Flavio Tosi, firmò un’ordinanza di chiusura per problemi di carattere igienico-sanitario. Si tratta di un normalissimo immobile ristrutturato per volontà dell’imam Mohamed Guerfi, che ha trasformato in una moschea il deposito destinato originariamente allo scarico delle merci.
Sfogliando le sentenze dei Tribunali regionali ci si accorge che anche altre associazioni islamiche hanno seguito un iter simile, trasformando lo stabile in un luogo di culto poco dopo il loro insediamento. La strategia in diversi casi ha permesso di aprire un centro di preghiera pur non essendo riconosciuto come tale. È successo a Salorno, in provincia di Bolzano, dove il Tar ha dato ragione agli islamici sospendendo l’ordinanza del sindaco che imponeva l’abbattimento delle pareti interne di un edificio nato come magazzino ortofrutticolo. Lì erano stati creati diversi ambienti occupati dall’associazione musulmana «Per la fratellanza». Erano sorte alcune stanze grazie alle nuove pareti e successivamente affittate all’associazione musulmana che ne aveva fatto un luogo di culto. Lo scorso gennaio il Comune ha imposto la demolizione delle pareti e il ripristino della funzione originaria dell’immobile. Ma il il 9 aprile il Tar ha sospeso l’ordinanza di demolizione autorizzando la preghiera e la permanenza della mini-moschea.
La stessa cosa è accaduta a Bergamo, dove il Tar ha consentito a un capannone di diventare «centro islamico». Lì i musulmani avevano comunicato il mutamento di destinazione d’uso: da laboratorio artigianale a luogo di culto. E avvalendosi della legge regionale 1 del 15 gennaio 2001 che liberalizza i mutamenti di destinazione senza opere edilizie, subordinandoli a una semplice comunicazione, avevano installato una piccola moschea. Dopo qualche mese il centro aveva ammodernato i servizi igienici, l’impianto elettrico, il riscaldamento e ritinteggiato i muri. Un lavoro significativo che il Comune ha considerato una vera e propria ristrutturazione per la quale era necessario chiedere una concessione. I lavori furono dunque fermati, ma il Tar ha dichiarato legittimo il cambio di destinazione dando ragione agli islamici.
Presentato formalmente o semplicemente minacciato, dunque il ricorso al Tar è divenuto parte di una strategia a cui ricorrono sempre più associazioni islamiche, rivendicando il diritto alla preghiera o all’insegnamento del Corano anche in assenza di autorizzazioni. Perfino i dirigenti della scuola italo-araba milanese intitolata allo scrittore egiziano Nagib Mahfuz hanno fatto ricorso al Tar, ma dopo giorni di polemiche l’istituto fu autorizzato dall’ex ministro Giuseppe Fioroni. In quel caso la chiusura fu disposta dal prefetto in mancanza del nulla osta comunale per la sicurezza e dell’autorizzazione dell’Ufficio Scolastico della Lombardia.
Proprio in questi giorni sono invece gli islamici di Sondrio, associati all’Unione delle comunità islamiche valtellinesi, a valutare la via del Tribunale amministrativo. La scorsa settimana l’organizzazione ha infatti incassato il no del Comune per trasformare in centro religioso l’ex palestra dove si ritrovavano per pregare, e sono dunque orientati a rivolgersi al Tar. L’augurio per loro è che il ricorso finisca sulla scrivania giusta, dato che non sempre la giustizia amministrativa ha dato ragione all’islam: specie in presenza di una mobilitazione massiccia della cittadinanza, il Tar è stato infatti meno accondiscendente. A Gardolo, in provincia di Trento, sono stati presentati decine di ricorsi dei residenti contro l’apertura di una moschea e il mese scorso il presidente del Tar ha bloccato i lavori. Agli islamici, però, resta sempre la via del Consiglio di stato.
Francesco De Remigis - Il Giornale n. 258 del 2008-10-26


Nelle "Opera omnia" di Ratzinger teologo, l'ouverture è tutta per la liturgia - E Benedetto XVI spiega perché, nella prefazione al volume che ha voluto far uscire per primo. Ricorda che cominciò così anche il Concilio Vaticano II. Dando il primo posto a Dio. E a proposito dell'orientamento della preghiera scrive... - di Sandro Magister
ROMA, 29 ottobre 2008 – Quando la scorsa settimana è stato presentato in Vaticano il primo volume delle "Opera omnia" di Joseph Ratzinger, una domanda è sorta naturale: perché il primo volume stampato, dei sedici previsti, ha per tema la liturgia?

Per rispondere a questa domanda basta leggere la prefazione che Benedetto XVI ha firmato in apertura del volume. Lì il papa scrive che la scelta del tema con cui cominciare è tutta sua. E spiega perché. Con passaggi di grande interesse, a tratti sorprendenti.

Curiosamente, però, in occasione della presentazione del volume, né la sala stampa vaticana, né l'editrice Herder che cura la pubblicazione dell'opera in tedesco hanno dato rilievo alla prefazione scritta dal papa, né tanto meno ne hanno distribuito il testo.

La lingua tedesca, un po' ostica per la gran parte dei vaticanisti di tutto il mondo, ha contribuito alla scarsa eco avuta dall'opera. Il primo a cogliere l'importanza della prefazione papale e a riferirne in un ampio servizio sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", è stato Gianni Cardinale, il 24 ottobre.

Più sotto la prefazione papale è riprodotta integralmente. Ma per meglio capirla è utile prima osservare il piano completo dei volumi che raccoglieranno gli scritti di Joseph Ratzinger teologo, editi e inediti.

I testi sono ordinati non per data di pubblicazione, ma per grandi temi. La scansione è stata decisa dal papa in persona, e così l'articolazione interna di ogni volume.

I tomi I e II raccoglieranno le tesi di laurea e di dottorato di Ratzinger, più altri scritti riguardanti Agostino e Bonaventura, i due dottori della Chiesa oggetto delle tesi.

Il tomo III aprirà con la conferenza inaugurale di Ratzinger professore: "Il Dio della fede e il Dio dei filosofi", tenuta a Bonn nel 1959, seguita dagli scritti riguardanti il binomio fede-ragione e i fondamenti storico-ideali dell'Europa.

Il tomo IV esordirà con la celebre "Introduzione al Cristianesimo" del 1968. Seguiranno altri testi riguardanti la professione di fede, il battesimo, la conversione, la sequela di Cristo e il compimento dell'esistenza cristiana.

Il tomo V riunirà gli scritti sulla creazione, l'antropologia, la dottrina della grazia, la mariologia.

Il tomo VI, cristologico, si aprirà con "Gesù di Nazareth", la sola opera di questa raccolta scritta e pubblicata dopo l'elezione a papa dell'autore.

Il tomo VII raccoglierà gli scritti relativi al Concilio Vaticano II, compresi gli appunti e i commenti dell'epoca.

Il tomo VIII riguarderà l'ecclesiologia e l'ecumenismo.

Il tomo IX raccoglierà i saggi di gnoseologia teologica e di ermeneutica, in particolare sull'intelligenza delle Scritture, la Rivelazione, la Tradizione.

Il tomo X si aprirà con "Escatologia", del 1977, seguito da altri scritti su speranza, morte, risurrezione, vita eterna.

Il tomo XI è quello che è stato pubblicato per primo, nei giorni scorsi. Col titolo "Teologia della liturgia".

Il tomo XII, dedicato alla dottrina dei sacramenti e al ministero, avrà come titolo "Annunciatori della parola e servitori della vostra gioia".

Il tomo XIII raccoglierà le numerose interviste di Joseph Ratzinger, comprese quelle pubblicate in forma di libro con Vittorio Messori nel 1984 e con Peter Seewald nel 1996 e nel 2000.

Il tomo XIV raccoglierà le omelie prima dell'elezione a papa, molte delle quali poco note e inedite.

Il tomo XV aprirà con il libro "La mia vita" uscito nel 1997, seguito da altri testi di carattere autobiografico e personale.

Il tomo XVI chiuderà la serie con una bibliografia completa delle opere di Joseph Ratzinger in lingua tedesca, più un indice sistematico di tutti i precedenti volumi. Anche i singoli tomi sono corredati a loro volta da indici dettagliati.

Le "Opera omnia" di Ratzinger sono pubblicate in tedesco dall'editore Herder di Friburgo. La versione italiana è curata dalla Libreria Editrice Vaticana. Il tomo XI, appena uscito in tedesco, uscirà in lingua italiana nel marzo del 2009, stampata in 3000 copie. Sovrintende alla pubblicazione italiana una commissione presieduta dall’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della congregazione delle cause dei santi, e comprendente Elio Guerriero, direttore dell'edizione italiana della rivista teologica "Communio", e padre Edmund Caruana. I traduttori sono Eulalia Biffi e Edmondo Coccia. Per la pubblicazione in altre lingue sono in corsa vari editori.

Ecco dunque, qui di seguito, la prefazione scritta dal papa al volume che ha voluto fosse pubblicato per primo, quello dedicato alla liturgia:


Prefazione al volume iniziale dei miei scritti di Joseph Ratzinger
Il Concilio Vaticano II iniziò i suoi lavori con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, che poi venne solennemente votato il 4 dicembre 1963 come primo frutto della grande assise della Chiesa, con il rango di una costituzione. Che il tema della liturgia si trovasse all’inizio dei lavori del Concilio e che la costituzione sulla liturgia divenisse il suo primo risultato venne considerato a prima vista piuttosto un caso. Papa Giovanni aveva convocato l'assemblea dei vescovi con una decisione da tutti condivisa con gioia, per ribadire la presenza del cristianesimo in una epoca di profondi cambiamenti, ma senza proporre un determinato programma. Dalla commissione preparatoria era stata messa insieme un’ampia serie di progetti. Ma mancava una bussola per poter trovare la strada in questa abbondanza di proposte. Fra tutti i progetti il testo sulla sacra liturgia sembrò quello meno controverso. Così esso apparve subito adatto: come una specie di esercizio, per così dire, con il quale i Padri potessero apprendere i metodi del lavoro conciliare.

Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema "liturgia", si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema "Dio". Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina "Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (43, 3: "Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio") valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera. È forse utile qui ricordare che nel termine "ortodossia" la seconda metà della parola, "doxa", non significa "opinione", ma "splendore", "glorificazione": non si tratta di una corretta "opinione" su Dio, ma di un modo giusto di glorificarlo, di dargli una risposta. Poiché questa è la domanda fondamentale dell’uomo che comincia a capire se stesso nel modo giusto: come debbo io incontrare Dio? Così, l’apprendere il modo giusto dell’adorazione – dell’ortodossia – è ciò che ci viene donato soprattutto dalla fede.

Quando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il progetto di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi il primo volume ad uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla liturgia. La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico. Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino. Proprio da qui debbono essere intesi i miei lavori sulla liturgia. Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia nell’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana.

Questo volume raccoglie ora tutti i miei lavori di piccola e media dimensione con i quali nel corso degli anni, in occasioni e da prospettive diverse, ho preso posizione su questioni liturgiche. Dopo tutti i contributi nati in questo modo, sono stato spinto infine a presentare una visione d'insieme che è apparsa nell'anno giubilare 2000 sotto il titolo "Lo spirito della liturgia. Un'introduzione" e che costituisce il testo centrale di questo libro.

Purtroppo, quasi tutte le recensioni si sono gettate su un unico capitolo: "L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia". I lettori delle recensioni hanno dovuto dedurne che l’intera opera abbia trattato solo dell’orientamento della celebrazione e che il suo contenuto si riduca a quello di voler reintrodurre la celebrazione della messa "con le spalle rivolte al popolo". In considerazione di questo travisamento ho pensato per un momento di sopprimere questo capitolo (di appena nove pagine su duecento) per poter ricondurre la discussione sul vero argomento che mi interessava e continua ad interessarmi nel libro. Questo sarebbe stato tanto più facilmente possibile per il fatto che nel frattempo sono apparsi due eccellenti lavori nei quali la questione dell’orientamento della preghiera nella Chiesa del primo millennio è stata chiarita in modo persuasivo. Penso innanzitutto all’importante piccolo libro di Uwe Michael Lang, "Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica" (traduzione italiana: Cantagalli, Siena, 2006), ed in modo del tutto particolare al grosso contributo di Stefan Heid, "Atteggiamento ed orientamento della preghiera nella prima epoca cristiana" (in "Rivista d’Archeologia Cristiana" 72, 2006), in cui fonti e bibliografia su tale questione risultano ampiamente illustrate e aggiornate.

Il risultato è del tutto chiaro: l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo.

Ma con questo ho forse detto troppo di nuovo su questo punto, che rappresenta appena un dettaglio del mio libro, e che potrei anche tralasciare. L’intenzione fondamentale dell’opera era quella di collocare la liturgia al di sopra delle questioni spesso grette circa questa o quella forma, nella sua importante relazione che ho cercato di descrivere in tre ambiti che sono presenti in tutti i singoli temi. C'è innanzitutto l'intimo rapporto tra Antico e Nuovo Testamento; senza la relazione con l'eredità veterotestamentaria la liturgia cristiana è assolutamente incomprensibile. Il secondo ambito è il rapporto con le religioni del mondo. E si aggiunge infine il terzo ambito: il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa di più della semplice riunione di una cerchia più o meno grande di esseri umani; la liturgia viene celebrata dentro l'ampiezza del cosmo, abbraccia creazione e storia allo stesso tempo. Questo è ciò che si intendeva nell'orientamento della preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e così nella liturgia rimane sempre l'amore anche per la creazione e la responsabilità nei suoi confronti. Sarei lieto se questa nuova edizione dei miei scritti liturgici potesse contribuire a far vedere le grandi prospettive della nostra liturgia e a far relegare nel loro giusto posto certe grette controversie su forme esteriori.

Infine, e soprattutto, sento il dovere di ringraziare. Il mio ringraziamento è dovuto innanzitutto al vescovo Gerhard Ludwig Muller, che ha preso nelle sue mani il progetto delle "Opera omnia" e ha creato le condizioni sia personali che istituzionali per la sua realizzazione. In modo del tutto particolare correi ringraziare il Prof. Dr. Rudolf Voderholzer, che ha investito tempo ed energie in misura straordinaria nella raccolta e nell'individuazione dei miei scritti. Ringrazio anche il Signor Dr. Christian Schaler, che lo assiste in maniera dinamica. Infine, il mio sincero ringraziamento va alla casa editrice Herder, che con grande amore e accuratezza si è assunta l'onere di questo difficile e faticoso lavoro. Possa tutto ciò contribuire a che la liturgia venga compresa in modo sempre più profondo e celebrata degnamente. "La gioia del Signore è la nostra forza" (Neemia 8,10).
Roma, festa dei santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2008


Per la prima volta, il Sinodo accoglie il magistero di un Patriarca ortodosso - Presentata al Papa una proposizione sull'intervento di Bartolomeo I
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 28 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio è diventato la prima assemblea con queste caratteristiche ad accogliere il magistero di un Patriarca ortodosso.
La proposizione 37 che il Sinodo ha adottato con almeno i due terzi dei voti (il risultato esatto della votazione è segreto) raccoglie l'insegnamento presentato ai Padri sinodali dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I.
Nella sua proposta al Papa, i Padri sinodali iniziano rendendo “grazie a Dio per la presenza e gli interventi dei Delegati Fraterni, rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali”.
In totale sono stati undici e hanno rappresentato il Patriarcato di Costantinopoli, quello di Russia, di Romania, di Serbia, la Chiesa ortodossa greca, la Chiesa apostolica armena, la Comunione Anglicana, la Federazione Luterana Mondiale, i Discepoli di Cristo e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.
I Padri sinodali si riferiscono in particolare alla preghiera dei Vespri presieduta dal Santo Padre Benedetto XVI insieme a Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, nella Cappella Sistina il 18 ottobre.
“Le parole del Patriarca Ecumenico rivolte ai Padri sinodali hanno permesso di sperimentare una profonda gioia spirituale ed avere una esperienza viva di comunione reale e profonda, anche se non ancora perfetta; in esse abbiamo gustato la bellezza della Parola di Dio, letta alla luce della Sacra Liturgia e dei Padri, una lettura spirituale fortemente contestualizzata nel nostro tempo”, dice la proposizione approvata dal Sinodo.
“In tal modo abbiamo visto che andando al cuore della Sacra Scrittura incontriamo realmente la Parola nelle parole; la quale apre gli occhi dei fedeli per rispondere alle sfide del mondo attuale”, proseguono i Padri sinodali.
“Inoltre, abbiamo condiviso l'esperienza gioiosa di avere per l'Oriente e l'Occidente Padri comuni. Questo incontro diventi stimolo per ulteriore testimonianza di comunione nell'ascolto della Parola di Dio e supplica fervente all'unico Signore affinché si realizzi quanto prima la preghiera di Gesù: 'Ut omnes unum sint'”.
E' sulle proposizioni approvate dal Sinodo che il Papa si basa nella redazione dell'esortazione apostolica post-sinodale. In caso in cui questa proposizione venga inclusa nel documento, sarà la prima volta che il magistero di un Patriarca ortodosso viene accolto esplicitamente da questo tipo di documenti magisteriali della Chiesa cattolica.


Benedetto XVI: siamo debitori del Concilio Vaticano II - Messaggio ai partecipanti a un Congresso su Giovanni Paolo II e il Concilio - di Inma Álvarez
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 28 ottobre 2008 (ZENIT.org).- “I documenti conciliari con il passare degli anni non hanno perso di attualità”, rivelandosi al contrario “particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata”.
Lo ha affermato questo martedì Benedetto XVI nel messaggio ai partecipanti al Congresso Internazionale “Il Vaticano II nel Pontificato di Giovanni Paolo II”, organizzato dalla Pontificia Facoltà Teologia San Bonaventura-Seraphicum e dall'Istituto di Documentazione e di Studio del Pontificato di Giovanni Paolo II.
Secondo il Papa, “noi tutti siamo davvero debitori di questo straordinario evento ecclesiale”, al quale ricorda che ebbe “l’onore di partecipare come esperto”.
“Rendere accessibile all’uomo di oggi la salvezza divina fu per Papa Giovanni il motivo fondamentale della convocazione del Concilio e fu questa la prospettiva con la quale i Padri hanno lavorato”.
In questo senso, il Pontefice ha elogiato la figura e l'opera di Papa Giovanni Paolo II, “che a quel Concilio recò un significativo contributo personale come Padre conciliare, divenendone poi, per volere divino, primario esecutore negli anni di pontificato”.
Giovanni Paolo II “ha accolto praticamente in ogni suo documento, ed ancor più nelle sue scelte e nel suo comportamento come Pontefice, le fondamentali istanze del Concilio Ecumenico Vaticano II, diventandone così qualificato interprete e coerente testimone”, ha affermato.
Il Concilio, ha aggiunto, “è scaturito dal cuore di Giovanni XXIII, ma più esatto sarebbe dire che esso ultimamente, come tutti i grandi avvenimenti della storia della Chiesa, scaturì dal cuore di Dio, dalla sua volontà salvifica”.
“La molteplice eredità dottrinale che ritroviamo nelle sue Costituzioni dogmatiche, nelle Dichiarazioni e nei Decreti, ci stimola tuttora ad approfondire la Parola del Signore per applicarla all’oggi della Chiesa, tenendo ben presenti le numerose necessità degli uomini e delle donne del mondo contemporaneo, estremamente bisognoso di conoscere e sperimentare la luce della speranza cristiana”.
Benedetto XVI ha augurato ai congressisti di avvicinarsi “ai documenti conciliari per cercarvi risposte soddisfacenti ai molti interrogativi del nostro tempo”, imitando San Bonaventura, patrono del Seraphicum.
“L’ansia per la salvezza dell’umanità, che animava i Padri del Concilio orientandone l’impegno nella ricerca di soluzioni ai tanti problemi odierni, non era meno viva nel cuore di San Bonaventura di fronte alle speranze e alle angosce degli uomini del suo tempo”, ha aggiunto.
“La meta ultima di tutte le nostre attività deve essere la nostra comunione col Dio vivente – ha concluso –. Così anche per i Padri del Concilio Vaticano II l’ultimo scopo di tutti i singoli elementi del rinnovamento della Chiesa fu guidare al Dio vivente rivelatosi in Gesù Cristo”.


Un carcerato racconta la sua esperienza del Cammino di Santiago - “Per me è più di una benedizione” - di Nieves San Martín
ESTELLA, martedì, 28 ottobre 2008 (ZENIT.org).- “Dopo tutto quello che ho passato, questo per me è una benedizione e più di una benedizione, dopo cinque anni e qualcosa senza uscire”.
Ad affermarlo questo martedì a ZENIT è I.H, un giovane 27enne delle Canarie che percorre sei tappe del Cammino di Santiago in compagnia di altri undici compagni del Centro Penitenziario di Nanclares de Oca, a Vitoria (Paesi Baschi, Spagna), su iniziativa della Pastorale Penitenziaria della Diocesi di Vitoria e del sacerdote Txarly Martínez de Bujanda.
Come si fa da sette anni, un gruppo di reclusi sta percorrendo varie tappe del Cammino. Si tratta di un'attività consolidata per il suo successo.
Padre Txarly ha spiegato a ZENIT che nel 2002 lavorava con i giovani a Santiago de Compostela e dal carcere il cappellano gli propose questa attività, che si svolge in genere a ottobre. Nel mese di maggio si propone un altro pellegrinaggio da Nanclares a Santiago, e questo tragitto è stato compiuto anche da donne, passando per Álava.
L'obiettivo del progetto è rispondere al mandato costituzionale di orientare la pena che priva della libertà verso la rieducazione e il reinserimento sociale del recluso.
La scelta dei dodici carcerati della prigione di Nanclares è stata lasciata da padre Txarly ai dirigenti del centro penitenziario, che hanno proposto fino a venti nomi perché la Junta de Tratamiento ne selezionasse dodici.
Incidenti? “Quasi mai – ha affermato il sacerdote –, ma che caso, se qualche volta viene il direttore ci sono piccoli problemi, ma senza importanza, come il fatto di non pranzare, di intrattenersi a fare compere, ma alla fine della tappa sono lì ad aspettarci e hanno avvisato l'hotel che stiamo arrivando!”. Nulla che sia usuale nei gruppi di pellegrini o di turisti.
Naturalmente al sacerdote viene la pelle d'oca quando avviene, ma alla fine tutto si risolve in una risata. E' il rischio della libertà.
I.H. è felice. “Sono molto orgoglioso di venire dalle Canarie e di vedere tutto questo: la natura, tutto... stiamo iniziando, lo consiglio a tutti i giovani, si conosce altra gente...”.
“Ti è servito anche per la tua anima?”. “Sì, molto – riconosce –, dopo tutto quello che ho passato, questo per me è una benedizione e più di una benedizione, dopo cinque anni e qualcosa senza uscire”.
A I.H mancano solo 73 giorni per tornare nelle Canarie e rivedere i figli, i genitori e i nonni.
L'iniziativa cerca di raggiungere il suo obiettivo mettendo a disposizione dei carcerati le risorse necessarie per superare gli aspetti della loro personalità e del loro ambiente sociale e familiare che li hanno portati a contravvenire alle regole, e preparare il ritorno alla vita in libertà.
“Per questo abbiamo bisogno che vivano esperienze positive in quanto a valori, forme di relazione pro-sociale e l'imparare a rispettare le norme che reggono ogni collettività. Crediamo fermamente che questo progetto promuova tutto ciò che è stato descritto e puntiamo sul cambiamento di quegli aspetti negativi che li hanno portati a delinquere”, sottolineano i responsabili della Pastorale Penitenziaria della Diocesi di Vitoria.
Il progetto equipara la tappa del carcere a “iniziare un cammino”, la cui meta è preparare il successivo rientro nella società. Per questo, si è scelto di percorrere alcune tappe del Cammino di Santiago.
I destinatari del progetto sono reclusi in secondo grado di trattamento (regime ordinario). La partecipazione all'attività è volontaria.
Altri obiettivi sono promuovere valori positivi, rafforzare le relazioni interpersonali in un ambiente diverso dal penitenziario, migliorare le capacità sociali, potenziare il rispetto di se stessi (autostima) e del gruppo (coesione), osservazione e conoscenza in modo più approfondito dei problemi specifici dei reclusi, promuovere la conoscenza dell'ambiente culturale e artistico delle zone che si visitano, migliorare le capacità fisiche e potenziare abitudini salutari (miglioramento della salute attraverso lo sport), convivenza tra reclusi e personale.
Dal 27 ottobre al 1° novembre partecipano a questa esperienza, oltre ai dodici reclusi, il cappellano del centro, vari volontari della Pastorale Penitenziaria e membri dell'Équipe di Trattamento. L'associazione Gizabidea collabora all'esperienza con due camion di sostegno per le tappe. In ciascuna delle città del Cammino si realizzano visite a luoghi di rilievo culturale e storico.
Le tappe sono così organizzate: il 27 ottobre da Lorca a Estella (10 km), il 28 da Estella a Los Arcos (21 km), il 29 da Los Arcos a Viana (20 km), il 30 da Viana a Navarrete (23 km), il 31 da Navarrete ad Azofra (21 km), il 1° da Azofra a Santo Domingo (16 km). Il ritorno avverrà poi in autobus.
In totale si tratta di circa 100 chilometri, un dono per chi finora ha avuto la prospettiva di cento passi, avanti e indietro, vedendo sempre gli stessi volti, in un cortile di fronte al muro di una libertà sognata.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


La Santa Sede invita gli indù a “vivere in armonia” con le altre religioni - In occasione della celebrazione del Diwali, la festa che dà inizio al nuovo anno
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 28 ottobre 2008 (ZENIT.org).- In occasione della celebrazione della festa indù di Diwali, o “della luce”, che dà inizio al nuovo anno, la Santa Sede ha diffuso un messaggio del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso intitolato “Cristiani e Indù: insieme per la non-violenza”.
Nel testo, il presidente del dicastero, il Cardinale Jean-Louis Tauran, invita il mondo indù a considerare “come possiamo vivere in armonia nell’odierna società, rendendo testimonianza alla verità, alla luce ed alla speranza celebrate dal Diwali”.
Il porporato ha sottolineato che nella tradizione indù “la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti” e ha ricordato a questo proposito il Mahatma Gandhi, che sviluppò il concetto della non violenza, della quale “è stato una guida con l’esempio fino al punto di sacrificare la propria vita”.
Dall'altro lato, ha aggiunto, “per i cristiani, nel Discorso della Montagna Gesù ha esortato i suoi discepoli ad amare i propri nemici, a pregare per coloro che li odiano, a fare il bene a quelli che li maltrattano, a percorrere un miglio in più con chi li ostacola”.
“La non-violenza non è solo un espediente tattico ma è l’atteggiamento di colui che, come ha detto il Papa, 'è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza' che non teme di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità”, ha aggiunto.
Secondo il cardinal Tauran, l’amore per i propri nemici “è la rivoluzione dell’amore, un amore che fondamentalmente non dipende dalle capacità umane ma è un dono di Dio”.
La non-violenza, inoltre, “è incoraggiata da tante altre religioni”. “In quanto leaders religiosi, chiamati ad affermare la verità che si trova nelle nostre rispettive religioni, adoperiamoci per incoraggiare la non-violenza fra i nostri seguaci e sostenerla nelle loro azioni”, ha proposto.
“Facciamo tutto il possibile per promuovere la sacralità della vita umana, il bene dei poveri e dei deboli in mezzo a noi e per collaborare, attraverso il dialogo, perché sia rispettata la dignità di ogni essere umano senza distinzioni di razza o casta, credo o classe”.
Per questo, il porporato ha esortato indù e cristiani, soprattutto nella situazione attuale, a lasciarsi vincere “dall’amore senza riserve, con la convinzione che la non-violenza è l’unica via per costruire una società globale più compassionevole, più giusta e più attenta ai bisognosi”.


30 ottobre 2008 - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008
In questi giorni si è letto e si è ascoltato un po’ di tutto sul Decreto Gelmini, sulla situazione della scuola italiana. Viene da chiedersi per quanto tempo ancora la scuola riuscirà a far parlare di sé e catalizzare l’attenzione. Quanto durerà la protesta e la rabbia di chi, responsabile dei fallimenti e delle gravi e macroscopiche incongruenze della scuola di oggi, è pronto a scendere in piazza utilizzando tutti i mezzi, tranne una corretta e completa informazione dei fatti?
Sul tavolo della sala professori della mia scuola, tutto sommato tranquilla e periferica, sono comparsi tanti volantini firmati dai vari sindacati e da colleghi che si definiscono “di sinistra”, in cui si voleva spiegare la realtà. Non entro in merito ai contenuti, voglio solo rilevare un dato comune a tutti: l’incompletezza delle informazioni fornite. Come se, in fondo, si avesse paura a guardare in faccia la realtà nella sua totalità, e come se, se si ammettesse anche il dato trascurato, il problema potesse essere risolto più facilmente, in modo non ideologico e più proficuo. Come se non si volesse cambiare nulla.
La scuola deve essere di stato, controllata da un potere centrale, non dei docenti e degli studenti, tanto meno delle famiglie, si afferma.
Non solo. Il grande dimenticato è il diritto allo studio e alla libertà di insegnamento. La scuola non si regge sul diritto allo sciopero, ma sulla passione per l’educazione e la trasmissione di un sapere. Nessuna delle voci che oggi alzano la protesta mi ha dato l’impressione di prendere in seria considerazione questi temi. Ho visto strumentalizzazioni, che fanno leva sul timore di tanti di perdere il posto, di altri di vedere compromesso uno status quo che fa così comodo etc … etc … Nessuno che ammetta, tra l’altro, che qualche sacrificio occorrerà farlo e il problema è, caso mai, dove e come farlo.
Oggi un alunno, in classe, mi ha detto, con una certa enfasi nella voce, che lo sciopero è un diritto degli studenti! Forse gli agitatori della piazza devono farsi un esame di coscienza. I giovani non vanno mai strumentalizzati. A loro va spiegato che il loro diritto è allo studio. Invece di diritto allo studio si parla solo in certe occasioni e per porsi contro il governo, non per contribuire a costruire una società in cui ai giovani sia garantito di usare bene il tempo scuola, coltivare la loro formazione umana e culturale.
Ho cercato di spiegare a questo ragazzo che giovedì sarò a scuola e che anche quel giorno gli garantirò il diritto che gli spetta.


Ironia: Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008
Qualche giorno fa La Stampa riportava la notizia di una pubblicità affissa sugli autobus di Londra. “Dio probabilmente non esiste, quindi smettila di preoccuparti e goditi la vita”. La campagna, ad opera di associazione atee, ha raccolto offerte record. La presenza dell’avverbio, “probabilmente”, è fondamentale. Neppure la più accanita campagna di ateismo, con tanto di raccolta fondi, può affermare assolutamente che Dio non esiste. Infatti la frase è costruita su un dubbio. Non è certo che Dio non esista, è solo probabile. In una cultura che ha esaltato il dubbio sistematico fino a considerarlo espressione di estrema razionalità, questa affermazione acquista un carattere dogmatico nel momento in cui da essa si fa ricadere un imperativo etico, comportamentale. Non preoccuparti e divertiti. Bisognerebbe almeno conoscere la percentuale di probabilità della non esistenza di Dio. Il suo valore potrebbe essere anche dello 0,01%. Pertanto si correrebbe un grande rischio e si abbandonerebbe una posizione di dubbio, quindi si diventerebbe in qualche modo irrazionali. Fahrenheit 451 è un bellissimo romanzo ambientato nel XXIV sec. in America, dove una società dittatoriale proibisce la lettura. Non bisogna pensare, riflettere, le coscienze devono essere addormentate, così che, come dice un protagonista del romanzo, “La vita diventa un’immensa cicalata senza costrutto, tutto diviene un’interiezione sonora e vuota”. La felicità che tutti ricercano è ridotta a piacere e ai più “svariati titillamenti”. Pensare e leggere tolgono la serenità. Meglio bruciare tutti i libri. E’ la stessa logica dello slogan di Londra. L’antico adagio del “carpe diem” è superato da una visione cupa dove neppure la nostalgia trova posto. Fantascienza, si dirà. Ci sentiamo così estranei a questo pericolo di obnubilamento? Nel migliore dei casi avvertiamo un disagio in un mondo che ci vuole appiattiti sulla materialità del vivere, raramente siamo in grado di dare “le ragioni della nostra speranza”. In questo senso aveva ragione lo scorso editoriale di questo giornale che auspicava una consapevolezza culturale del mondo laico. Che non è un progetto, ma la traduzione della fede in giudizio consapevole fondato sulla presenza di Cristo vivo nella storia. Meno male che c’è la Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, “di perdurante attualità”, e meno male che c’è la Chiesa a difendere la ragione, a dare fiducia all’uomo. Sottrarre la ragione dalla ricerca della verità ultima delle cose per limitarla e soddisfarla dentro l’ambito della verità contingente delle leggi di natura, come dice il Papa, porta alla separazione di Fede e Ragione. Questo non giova né alla fede né alla scienza. “E’ la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione” (n.56). Se non fosse così tanto varrebbe divertirsi e godere.


Se si sospendono le cure ai neonati prematuri - I cittadini più discriminati - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
Una recente rassegna sulla prestigiosa rivista "Archives of Disease in Childhood" sintetizza le linee-guida sulla rianimazione neonatale in auge in molti Paesi, un tema che ora è molto dibattuto. Lo studio è dovizioso in particolari e mostra un fenomeno tipicamente postmoderno in cui il diritto alla vita cede il passo alla sua "qualità": a un aumento delle nascite di bambini prematuri corrisponde una costante spinta a non rianimare i più gravi tra loro, nonostante essi abbiano delle possibilità di sopravvivere.
È un fenomeno allarmante, perché non solo finisce col privare di una chance chi potrebbe averla - uno studio svedese di Stellån Hakansson e altri ("Pediatrics", giugno 2004) mostra infatti che le unità di rianimazione che non fanno una selezione alla nascita su chi curare, finiscono con avere in percentuale meno bambini disabili delle altre - ma soprattutto perché rischia di porre la futura disabilità o "l'interesse di terzi" (così Michael L. Gross in "Bioethics", giugno 2002) come criterio per rianimare.
Probabilmente questi non sono i principi di tutti i protocolli, ma in molti Paesi occidentali la nascita sotto le 25 settimane di gestazione è considerata una "zona grigia" in cui le cure dovrebbero avvenire eccezionalmente, secondo alcuni solo con l'accordo dei genitori, nonostante che sin dalla ventiduesima settimana sia possibile in misura sempre maggiore la sopravvivenza. Si dice che rianimare bambini che hanno il 10 per cento di possibilità di sopravvivere è "accanimento terapeutico": fortuna che nessuno la pensava così negli anni Sessanta del Novecento quando se un bambino pesava meno di un chilo aveva appunto il 10 per cento di possibilità di farcela, mentre oggi - non avendo smesso di curare i piccoli sotto il chilo - le possibilità sono del 90 per cento.
Ma la non rianimazione del piccolo paziente genera problemi anche a livello scientifico. In primo luogo, perché al momento della nascita non si può avere certezza sulla prognosi. Dunque quando si propone di non assistere i bambini di una certa età gestazionale, lo si fa su base probabilistica e non sul singolo caso, sapendo oltretutto che l'età esatta dal concepimento è spesso per lo meno discutibile.
In secondo luogo, allo stato attuale delle cose sopravvive circa l'8 per cento dei bambini nati dopo 22 settimane dal concepimento, una percentuale pari a quella degli adulti sopravvissuti ad arresto cardiaco, che nessuno - per il momento - propone di non assistere. Già a 23 settimane ne sopravvive il 25 per cento e a 24 settimane il 50. Ma addirittura le conseguenze neurologiche, pur essendoci in molti casi dei gravi handicap come conseguenza della nascita prematura, non sono sempre disastrose, come mostra uno studio di Neil Marlow ("New England Journal of Medicine", 2005), secondo cui il 22 per cento dei sopravvissuti sotto le 25 settimane avrà una disabilità grave, il 24 una disabilità media e il 34 una disabilità lieve. Uno studio tedesco di Jochen Steinmacher ("Journal of Pediatrics", 2008) mostra che il 57 per cento dei sopravvissuti tra i nati a 23-25 settimane va a scuola regolarmente. Sono dati molto migliori della prognosi di un adulto colpito da ictus cerebrale che il medico ha l'obbligo - e non l'opzione - di curare.
In terzo luogo, molti propongono che i genitori partecipino con un peso determinante alla decisione sulla vita del bambino. Evidentemente chi sostiene questa tesi non sa che i parti sono molto spesso precipitosi: la donna è in preda alle doglie e il padre è ovviamente sconvolto, tanto da non lasciare a nessuno dei due la serenità per pensare. Ma soprattutto, molti invocano che la decisione sulla rianimazione tenga conto anche dei desideri dei genitori, cosa che non sarebbe mai pensabile se il paziente fosse un adulto: in questo caso, la decisione sulla sospensione delle cure riguarderebbe solo la loro inutilità, non il peso che il paziente costituirebbe per i familiari.
Insomma, su molte riviste mediche ci si sta domandando perché il modo di trattare i neonati sia diverso da quello degli altri pazienti, quasi che i primi abbiano uno status differente. Infatti nessun adulto si vedrebbe sospendere le cure se la prognosi non fosse certa, e nessuno penserebbe di non provare ad assisterlo se le possibilità di successo fossero le stesse dei bambini prematuri. Nessuno infine penserebbe di non rianimare un adulto per "alleggerire" il peso ai familiari. Almeno per ora.
Ma l'analisi degli studi scientifici mostra qualcosa di più. Infatti emerge chiaro che dietro un apparente razionale criterio di sospensione delle cure nel "miglior interesse del paziente" ci possano essere le paure e le ansie del medico stesso, piuttosto che un quadro distaccato e clinicamente oggettivo. Uno studio australiano del 2004 ha mostrato come i neonatologi che rianimano di meno sono quelli che più hanno paura di ammalarsi e di morire. E molti altri studi mostrano che l'età del medico, il sesso, l'etnia, la presenza di disabili in famiglia influiscono in maniera fortissima sulle decisioni di vita o morte che il medico prenderà. Uno studio francese di Annie Janvier e collaboratori ("Acta Pediatrica", marzo 2008) mostra il livello di questo pregiudizio: domandando a un gruppo di medici se rianimerebbero un neonato di 24 settimane, solo il 21 per cento risponde affermativamente; alla domanda se rianimerebbero un paziente col 50 per cento di rischio di morte e il 25 per cento di rischio di handicap, la percentuale sale al 51 per cento, pur essendo il secondo quadro esattamente equivalente alla prognosi dei bimbi nati a 24 settimane.
Insomma, si tratta di scegliere se trattare i neonati come cittadini oppure subordinare il loro trattamento alle nostre ansie o al mito della "qualità della vita", facendo bene attenzione a un fatto: le ansie sono spesso irrazionali, ma il mito della "qualità della vita" finisce per diventare un alibi per la politica, che invece dovrebbe favorire il benessere dei disabili e delle loro famiglie.
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)


La questione dell'educazione sessuale e relazionale nelle scuole
Minori ed emergenza educativa Il dibattito in Inghilterra e Galles - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008

Coinvolgere i genitori nell'educazione sessuale dei minori e degli adolescenti ed evitare al tempo stesso una precoce e alienante sessualizzazione. Il Catholic Education Service (Ces) di Inghilterra e Galles interviene sul dibattito in corso in Gran Bretagna in merito alla Personal, Social and Health Education (Pshe) nelle scuole del Paese, ovvero l'educazione degli studenti in merito a temi che coinvolgono il corretto sviluppo della loro personalità, della loro sessualità e delle loro capacità relazionali. L'Office for standards in Education, (Ofsted), l'istituto governativo che si occupa di verificare i livelli d'istruzione nelle scuole inglesi, ha condotto infatti nei mesi scorsi un esame su questo aspetto particolare dell'insegnamento. Si tratta chiaramente di un tema chiave nell'ottica dell'emergenza educativa riscontrabile in molti Paesi sviluppati, alle prese con i problemi legati alle tossicodipendenze, all'alcolismo, ai fenomeni di bullismo oltre che a una sempre più precoce sessualizzazione dei rapporti personali fra gli adolescenti.
Al dossier realizzato dall'Ofsted è seguita una valutazione complessiva da parte dell'amministrazione con indicazioni e proposte sulle quali il Ces, ha appunto voluto fornire un parere. Rispetto alle valutazioni fatte, afferma il Ces, "ci sono molti elementi che possono essere condivisivi così come molti elementi sui quali occorre intervenire. Le circostanze che hanno condotto alla realizzazione del dossier includono - si afferma nel documento - un'evoluzione evidentemente dannosa dei comportamenti sessuali di un gran numero di giovani; la mancanza di una matrice di valori attorno alle conoscenze e ai comportamenti sessuali; genitori e tutori che non sempre si sentono a loro agio nell'educazione dei loro bambini e anche con la Personal, Social and Health Education così come viene condotta nella scuola".
Il Catholic Education Service condivide alcune proposte che l'amministrazione ha formulato. Per esempio la priorità data allo stabilire un "contesto di valori" per chi è responsabile dell'educazione sessuale e relazionale degli studenti. Inoltre è da sostenere un maggiore coinvolgimento del ruolo dei genitori come primi educatori dei loro figli. Questo aspetto, afferma il Ces, dovrà essere maggiormente sviluppato, anche se è apprezzabile il ruolo e l'assunzione di responsabilità da parte degli organi amministrativi. Un'altra proposta particolarmente apprezzata è il pieno rispetto per le scuole a carattere religioso e per l'esigenza che tali temi educativi siano affrontati nelle scuole cattoliche da insegnanti cattolici.
La Sex and Relationship Education, si legge nel documento, "è giustamente un tema sensibile ed è di grande significato che nella sua valutazione, l'amministrazione abbia affermato la necessità che la Personal, Social and Health Education sia obbligatoria in tutte le scuole pubbliche dell'Inghilterra, primarie e secondarie. I programmi di studi devono ancora essere delineati ma nuove assicurazioni sono state date sul fatto che questi non saranno così prescrittivi da comportare conflitti con l'insegnamento cattolico. È importante che sia mantenuto il coinvolgimento dei genitori. Ma è anche importante comprendere che una buona educazione, così come effettuata in molte scuole cattoliche, non vuole dire una precoce sessualizzazione dei bambini e dei giovani. In una scuola cattolica significa che i bambini apprendono la loro unicità come parte della creazione di Dio, il suo amore per ogni persona, e come ciò comporti il rispetto degli uni per gli altri. Aiuta i bambini a stabilire relazioni di amicizia e contribuisce alla loro protezione".
Nel dossier inoltre si chiedono risorse addizionali in modo che gli insegnanti possano essere dedicati specificatamente e addestrati a questo compito educativo. "Ci attendiamo - si legge nel documento - che i college universitari cattolici, gli istituti di istruzione superiori e le università a carattere religioso giochino un ruolo fondamentale in questa iniziativa. La Chiesa cattolica in Inghilterra e Galles lavorerà con i responsabili diocesani per assicurarsi che venga fornito il necessario supporto ai genitori, agli amministratori e al personale scolastico in modo che i bambini e i ragazzi possano crescere apprendendo e comprendendo gli insegnamenti della Chiesa e con le informazioni pratiche e le capacità di cui hanno bisogno per la loro salute e per il loro benessere, liberi dallo sfruttamento e in modo tale da essere in grado di condurre una vita piena, nella quale per molti di loro sarà inclusa la gioia di un'amorevole relazione matrimoniale".
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)


Giovanni Paolo II e la sua visione del concilio Parliamo all'uomo in modo comprensibile - Si apre il 28 ottobre a Roma, presso la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura Seraphicum il convegno internazionale "Cristo, Chiesa, Uomo. Il vaticano II nel pontificato di Giovanni Paolo II". Pubblichiamo stralci dell'intervento di apertura del cardinale segretario di Stato. - di Tarcisio Bertone – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
Negli anni del dopo-concilio due interpretazioni, due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto: l'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. La prima, "l'ermeneutica della discontinuità e della rottura", che a tratti si è avvalsa della simpatia dei mass-media, e di non pochi esponenti della teologia moderna, la seconda, l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità. L'ermeneutica della discontinuità - mette in guardia Benedetto XVI - rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Vale la pena citare qui testualmente le parole di Benedetto XVI: "Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del concilio, ma negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l'intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del concilio, ma il suo spirito" (Insegnamenti, i, 2005, pp. 1024-1025).
Ma in che consiste veramente lo spirito conciliare? Ampio è qui lo spazio d'interpretazione e, di conseguenza, ampia è la possibilità di essere estrosi nell'applicarlo. Il concilio - è sempre il Papa a dirlo - "viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo, al quale la costituzione deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna. I vescovi, mediante il sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore e "amministratori dei misteri di Dio"". (Insegnamenti, i, 2005, p. 1024).
All'ermeneutica della discontinuità si oppone invece quella che Sua Santità chiama "l'ermeneutica della riforma", che ben traduce le intenzioni di Giovanni xxiii espresse nel suo discorso d'apertura del concilio l'11 ottobre 1962 e poi di Papa Paolo vi manifestate con chiarezza nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Giovanni xxiii - proprio oggi ricordiamo il cinquantesimo di inizio del suo pontificato - affermava che il concilio intendeva "trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti". E continuava: "Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige(...) È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo". (Sacri Oecumenici Concilii Vaticani ii Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). Se si vuole esprimere in modo nuovo una determinata verità occorre certo una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; occorre inoltre tener conto che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d'altra parte, la riflessione sulla fede esige - precisa Benedetto XVI - che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni xxiii era estremamente esigente, come esigente è la sintesi di fedeltà e dinamismo creativo. Ma ovunque questa interpretazione ha orientato il lavoro di "aggiornamento" secondo il concilio, si sono registrati tanti frutti di santità e di vita apostolica.
Continua ancora Benedetto XVI: "Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia" (Insegnamenti, vol. i, 2005, p. 1026). Esso stesso doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna, un rapporto iniziato in maniera problematica con il processo a Galileo; rapporto spezzatosi in seguito quando Immanuel Kant definì la "religione entro la sola ragione" e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che in pratica non concedeva più spazio alla Chiesa ed alla fede. Nell'Ottocento si era registrato un duro scontro tra un liberalismo radicale alleato con la pretesa delle scienze naturali di abbracciare tutta la realtà, rendendo superflua l'"ipotesi Dio" e la Chiesa che, sotto Pio ix, condannò lo spirito dell'età moderna. Seguirono anni di reciproca diffidenza e chiusura, ma con il passare degli anni, e siamo al secolo xx, l'elaborazione della dottrina sociale della Chiesa e la progressiva apertura a Dio delle scienze naturali, che lavorando con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non poteva comprendere la totalità della realtà, segnarono un processo di reciproco avvicinamento. Vennero così a chiarirsi tre ambiti di domande a cui il concilio doveva rispondere: definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; chiarire il rapporto tra Chiesa e Stato moderno e, collegato con questo tema, approfondire il problema della tolleranza religiosa, questione questa che esigeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo.
Mi chiedo ora: quale era la visione che del concilio aveva Karol Wojtyla? Da ogni suo intervento sia da arcivescovo di Cracovia, e ancor più da Pontefice, si comprende facilmente che per lui i decreti conciliari non segnano una rottura con il passato, ma sono un invito ai pastori a tradurre il messaggio evangelico in modi comprensibili all'età contemporanea; un lavoro questo che non tocca l'essenza delle verità di fede immutabili, bensì la maniera di presentarle agli uomini di ogni epoca. Che questo sia il modo con cui recepì il concilio vaticano II il servo di Dio Giovanni Paolo II lo si comprende da tanti significativi interventi. Mi limiterò qui a citarne qualcuno.
Nel 1985, per ricordare i venti anni della chiusura del concilio, egli convocò un sinodo straordinario dei vescovi, ed in quella circostanza i padri sinodali non mancarono di evidenziare le "luci e ombre" che avevano caratterizzato il periodo post conciliare. Riprese le considerazioni del sinodo nella Lettera Tertio Millennio adveniente, in preparazione al grande Giubileo del 2000, affermando che "l'esame di coscienza non può non riguardare anche la ricezione del Concilio" (n. 36). La preoccupazione di Papa Wojtyla fu dunque sempre quella di salvaguardare la genuina intenzione dei padri conciliari, recuperando, anzi superando quelle "interpretazioni prevenute e parziali" che di fatto impedirono di esprimere al meglio la novità del magistero conciliare.
C'è poi il discorso che egli tenne il 27 febbraio del 2000, al convegno internazionale di studio proprio sull'attuazione del concilio. In quella circostanza affermò che anzitutto il concilio fu "un'esperienza di fede per la Chiesa", anzi - disse testualmente - "un atto di abbandono a Dio che, da un esame sereno degli Atti, emerge sovrano". E continuò asserendo che chi volesse avvicinare il concilio prescindendo da questa chiave di lettura "si priverebbe della possibilità di penetrarne l'anima profonda". Inoltre - egli proseguì - il concilio fu una vera sfida per i padri conciliari, che consisteva - e cito ancora testualmente - "nell'impegno di comprendere più intimamente, in un periodo di rapidi cambiamenti, la natura della Chiesa e il suo rapporto con il mondo per provvedere all'opportuno "aggiornamento". Ed aggiunse, facendo leva su ricordi personali: "Abbiamo raccolto quella sfida - c'ero anch'io tra i padri conciliari - e vi abbiamo dato risposta cercando un'intelligenza più coerente della fede. Ciò che abbiamo compiuto al concilio è stato di rendere manifesto che anche l'uomo contemporaneo, se vuole comprendere a fondo se stesso, ha bisogno di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la quale permane nel mondo come segno di unità e di comunione" (Insegnamenti, xxiii, 1, 2000, p. 274). E pertanto, una lettura del concilio come rottura col passato è decisamente fuorviante.
Sempre in questo memorabile discorso, egli fece sue le parole di Paolo vi che, aprendo la quarta sessione, definì il concilio: "Un grande e triplice atto d'amore": un atto d'amore "verso Dio, verso la Chiesa, verso l'umanità" (Insegnamenti, iii, 1965, p. 475). Ed aggiunse Giovanni Paolo II che l'efficacia di quell'atto non si era esaurita, ma continuava ad operare attraverso la ricca dinamica dei suoi insegnamenti.
Torno ora brevemente alla già citata assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi. Aprendola, il 24 novembre del 1985, Giovanni Paolo II affermò: "Il concilio, che ci ha donato una ricca dottrina ecclesiologica, ha collegato organicamente il suo insegnamento sulla Chiesa con quello sulla vocazione dell'uomo in Cristo" (Insegnamenti, viii, 2, 1985, p. 1371). Cristo - Chiesa - Uomo: ritorna dunque il tema di questo vostro convegno. La costituzione pastorale Gaudium et spes, molto cara a questo Pontefice - ponendo gli interrogativi fondamentali a cui ogni persona è chiamata a rispondere, non cessa di ripetere queste parole sempre attuali: "Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (n. 22), parole che Papa Wojtyla volle riproporre nei passaggi fondamentali del suo magistero perché segnano come la "vera sintesi a cui la Chiesa deve sempre guardare nel momento in cui dialoga con l'uomo di questo come di ogni altro tempo". Il vescovo Karol Wojtyla, appena terminato il concilio, aveva scritto che "prendendo in esame l'insieme del magistero conciliare, ci accorgiamo che i pastori della Chiesa si prefiggevano non tanto e non soltanto di dare una risposta all'interrogativo: in che cosa bisogna credere, quale è il genuino senso di questa o quella verità di fede o simili, ma cercavano piuttosto di rispondere alla domanda più complessa, che cosa vuol dire essere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa?". Per lui, dunque, il concilio vaticano II fu il concilio "della Chiesa", "di Cristo", "dell'uomo", parole che descrivono lo stretto rapporto esistente tra l'ecclesiologia, la cristologia e l'antropologia del vaticano II. Parlare di Gesù, è parlare della Chiesa e quindi dell'uomo: l'uno richiama necessariamente l'altro perché non si può dividere la storia della redenzione in categorie che non abbiano a che fare con la nostra storia e personale e comunitaria.
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)


Il laicismo fondamentalista minaccia l'America - di Mary Ann Glendon – L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
Per affrontare i temi della religione e della libertà, non è possibile cominciare senza rendere omaggio a Tocqueville. Dopo la sua visita negli Stati Uniti nel 1831, ha lanciato due asserzioni sorprendenti nella prefazione de La democrazia in America. La prima asserzione - che la libertà sarebbe un bene per la religione - avrebbe sorpreso molto sua madre cattolica. La seconda - che la religione sarebbe un bene per la libertà - sarebbe sembrata assurda a quegli cettici illuminati dei suoi amici.
A loro Tocqueville diceva: "Tutti quelli che amano la libertà dovrebbero affrettarsi a chiamare la religione in loro aiuto. Poiché dovrebbero sapere che non si può stabilire il regno della libertà senza quello dei buoni costumi, né creare buoni costumi senza la fede".
Oggi è molto interessante notare che queste proposte di Tocqueville sono anche temi centrali nei recenti discorsi di Papa Benedetto XVI. Come americana, confesso che ho sentito una certa fierezza la prima volta che ho ascoltato il Santo Padre lodare il modo americano di organizzare i rapporti tra lo Stato e la religione. Sua Santità ha detto che questo modello (che chiama "un concetto positivo di laicità") - non solamente permette la coesistenza pacifica tra molte religioni, ma permette loro anche di prosperare.
Durante il suo viaggio a Washington in aprile, il Papa ha trovato "affascinante" il fatto che i padri fondatori americani avessero volutamente creato uno stato laico - non perché erano ostili alla religione, ma "per amore della religione nella sua autenticità che può essere vissuta solo liberamente". Poi, il Pontefice ha sottolineato che gli americani non esitano "ad introdurre nei loro discorsi pubblici ragioni morali radicate nella fede biblica".
Pensiamo, per esempio, al discorso del presidente Bush all'arrivo del Pontefice alla Casa Bianca - un discorso pieno di sentimenti religiosi. O pensiamo allo straordinario colloquio dell'agosto scorso quando i due candidati americani alla presidenza hanno accettato di essere interrogati da un pastore evangelico davanti a milioni di telespettatori.
Mi sembra un po' difficile immaginare qualsiasi candidato inglese, francese o italiano che accetti di parlare di se stesso su questi argomenti; Tony Blair ha detto recentemente che un uomo politico in Inghilterra è considerato weird, strano, se parla della religione.
Il Papa ha descritto l'America come un paese "dove la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non soltanto tollerata, ma apprezzata come l'anima della nazione e come una garanzia fondamentale dei diritti e doveri umani".
Ma, come coloro che conoscono il pensiero di Papa Benedetto hanno già capito, queste parole cortesi erano accompagnate da altre parole, parole di avvertimento. Il Papa è un osservatore troppo acuto per non aver notato che c'è una lotta tra coloro che si sforzano di mantenere il laicismo positivo e coloro che sperano di sostituirlo con il genere di laicità che egli ha lungamente deplorato.
Nel suo incontro con i vescovi americani, il Santo Padre ebbe modo di spiegare loro, mettendoli in guardia, che l'erosione della forma positiva della laicità ha implicazioni gravi anche per il sistema politico. "Il mantenimento della libertà", ha ricordato a loro, "richiede la coltivazione delle virtù, l'autodisciplina, i sacrifici per il bene comune, e un senso di responsabilità verso le persone meno fortunate. Richiede anche il coraggio di partecipare alla vita pubblica, e di contribuire con le nostre convinzioni (...) ai dibattiti pubblici. Insomma, la libertà è sempre nuova. È una sfida per ogni generazione, e deve essere conquistata costantemente per il bene comune".
Questa proposta del Papa sarà il punto di partenza per le mie riflessioni questa sera. Comincerò con una breve descrizione del "modello americano" come era al tempo della fondazione della repubblica. Poi, spiegherò come questo modello sia andato via via trasformandosi nel ventesimo secolo. E concluderò con qualche osservazione sulla attuale lotta tra modelli rivali, e sulle implicazioni che questo tema comporta per il mantenimento della libertà.
Riguardo al modello americano originale, potremo domandarci: Che cosa vide Tocqueville da convincerlo così decisamente a promuovere un'idea tanto opposta a tutte le opinioni dei suoi pur illuminati contemporanei?
In primo luogo, aveva visto una società dove la maggioranza della popolazione era dispersa tra molte forme di protestantesimo. Aveva osservato anche un sistema giuridico disegnato per affrontare questa diversità - e anche per affrontare il fatto che ciascuna delle tredici colonie aveva già il suo proprio sistema di rapporti tra le chiese e il governo. La decisione dei padri fondatori era di non cambiare il sistema creatosi, vietando al governo federale di ingerirsi negli schemi locali.
Ciò che deve essere messo in risalto è che questo sistema era destinato a proteggere la religione e le chiese dal Congresso nazionale - e non viceversa per proteggere il governo dalla religione o dalle chiese. In altre parole, il ramo anti-ecclesiastico dell'Illuminismo ebbe poco influsso sulla vita politica americana in quel tempo.
Tocqueville fu molto colpito da questo sistema tanto decentralizzato dove questioni di religione, di moralità, e di educazione erano lasciate al controllo locale. Insistette comunque, che il successo dell'esperimento democratico americano era meno dovuto alla costituzione, o alle leggi, che alle consuetudini dei popoli - che chiamava les moeurs. La religione, ha scritto, "è la salvaguardia dei costumi ed i costumi sono i garanti delle leggi ed il pegno per il mantenimento della sua stessa libertà".
Senza dubbio, voi avete già compreso che questo sistema decentralizzato non poteva continuare all'infinito; è rimasto così per 150 anni, con molte diversità regionali, e molti tipi di cooperazione tra chiese e Stati. Comunque, cominciando dagli anni '40, e continuando fino al tempo presente, il "modello americano" è stato trasformato da un succedersi di decisioni della Corte Suprema. All'inizio queste decisioni non hanno attirato molto l'attenzione del pubblico. Ma, nel 1962, la Corte vietò l'abitudine - abbastanza universale nelle scuole pubbliche - di fare precedere le lezioni con una preghiera. Questa decisione fu uno choc per molti protestanti tradizionalisti. Avevano, per la prima volta, realizzato che stavano affrontando una forma di laicità molto diversa da quella che avevano sempre conosciuto - una laicità che voleva eliminare quasi tutte le vestigia di religiosità dalle istituzioni pubbliche in America.
Va ricordato che, in quel tempo, negli anni Sessanta, gli Stati Uniti, come molti altri paesi, stavano entrando in un periodo di grandi cambiamenti sociali. Quindi, non sembra una coincidenza l'allora aumento degli atteggiamenti relativisti e ostili alle religioni. E non sembra nemmeno adesso una coincidenza che quel periodo di cosiddetta "liberazione" fosse accompagnato da molti cambiamenti legali - nei campi, per esempio, dall'aborto, dalla riproduzione assistita, o dal comportamento sessuale.
Per quanto riguarda i rapporti tra chiese e stato, la legittimità di ogni forma di cooperazione tra le chiese e gli stati è stata oggi posta in dubbio. Quindi gli ospedali, le scuole, ed i diversi servizi sociali che sono affiliati alle istituzioni religiose si trovano a dover affrontare scelte difficili. Nel Massachusetts, per esempio, nel 2006, Catholic Charities ha dovuto abbandonare il proprio impegno nel settore dell'adozione dopo che lo Stato ha ordinato loro di permettere l'adozione anche a persone omosessuali. Le pressioni sulle organizzazioni a sacrificare i propri principii evidentemente sono forti.
La migliore descrizione della situazione giuridica attuale è probabilmente quella del professore Philip Hamburger (autore di un libro magistrale sulla storia della libertà religiosa negli Stati Uniti): "Il primo emendamento, originalmente disegnato a limitare il governo, è stato interpretato dalla Corte in modo crescente a limitare la religione ed a confinarla nella sfera privata". Questa interpretazione - basata su un concetto molto individualistico della libertà - ha per effetto di limitare la libertà religiosa di molte persone - persone per le quali la comunità del culto è importante.
Naturalmente, ci sono eccezioni a queste tendenze. Ma non è un'esagerazione dire che, nella situazione attuale, il "modello positivo" di laicità sta lottando per la sua vita.
È forse adesso per voi più chiaro per quale motivo ho dovuto ri-esaminare la mia reazione iniziale alla lode che il Papa Benedetto ha benevolmente rivolto al "modello americano". È meglio, penso, vedere le sue parole di lode come elementi di una saggia strategia pastorale. Il Papa ha provato a farci ricordare le cose migliori delle nostre tradizioni, ed incoraggiarci a ricuperare la nostra eredità. Quello che da prima sembrava essere una lode era in realtà un'esortazione!
Nessuno contesta, penso, che una società libera richieda cittadini che abbiano la capacità di regolare il loro amore della libertà per convivere al meglio nella società. Ma, nel tardo 20mo secolo, alcuni filosofi politici come John Rawls hanno fortemente contestato l'idea di Tocqueville che la libertà dipenda da alcune istituzioni pre-moderne - come la religione, sostenendo che l'esperienza di vivere nella società libera è sufficiente da sola a produrre le virtù repubblicane.
Ma riporre, come Rawls, così tanta fiducia nelle istituzioni come le scuole pubbliche è sottostimare quanto queste istituzioni dipendano a loro volta dal sostegno delle famiglie e dalla comunità circostante.
La preservazione della società libera può dipendere - paradossalmente - dalla protezione di certe istituzioni che non sono organizzate sui principi liberali, cioè, famiglie, scuole, chiese, e tutti gli altri corpi intermediari della società civile.
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)


Religione e società civile nel mondo contemporaneo - Stati Uniti ed Europa due libertà a confronto - Nel pomeriggio del 28 ottobre a Roma presso il Centro di orientamento politico Gaetano Rebecchini si svolge il convegno "La religione e la libertà: Stati Uniti ed Europa". Pubblichiamo ampi stralci degli interventi del cardinale vicario emerito della diocesi di Roma e dell'ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. - di Camillo Ruini - L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2008
Tema del nostro convegno sono i rapporti tra religione e libertà, come si sono diversamente configurati negli Stati Uniti d'America e in Europa. Prima di prendere in esame queste differenze, sembra giusto ricordare alcuni grandi elementi comuni, solo all'interno dei quali trovano il loro senso anche le differenze. Sul versante della religione l'elemento comune e decisivo è che fondamentalmente si tratta sempre della medesima religione, il cristianesimo. Sul versante della libertà vi è anche almeno un decisivo elemento comune: sia negli Stati Uniti che in Europa si è sviluppata quella che possiamo chiamare una grande "storia della libertà".
In Europa la rivendicazione della libertà, per affermarsi storicamente, ha avuto bisogno di contrapporsi a valori e istanze che di fatto ostacolavano il suo cammino e sembravano non compatibili con essa. Tra queste in primo luogo le preesistenti strutture veritative, etiche, giuridiche, politiche, in quanto intese come valide indipendentemente ed antecedentemente rispetto alle nostre scelte, e in ultima analisi Dio stesso, in quanto riconosciuto come supremo garante di tali strutture.
Perciò, soprattutto in Francia, l'illuminismo e la Rivoluzione del 1989 hanno assunto un volto ostile alla Chiesa e anche, non di rado, chiuso alla trascendenza. A sua volta la Chiesa stessa ha faticato e tardato a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente.
Ne è nato così, nei paesi latini, tra la fine del XVIii secolo e l'inizio del xix, quello che l'allora cardinale Ratzinger ha chiamato "un nuovo scisma", tra cattolici e "laici", dove la stessa parola "laico" assumeva un significato di opposizione alla religione che prima non aveva. Nasceva pertanto lo "Stato secolare", che abbandona e mette da parte la garanzia e la legittimazione divina dell'ordine politico e riduce Dio a questione privata (cfr. Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Milano, Mondadori, 2004).
Qualcosa di analogo non è accaduto invece nel protestantesimo, che fin dall'inizio ha concepito se stesso come un movimento di emancipazione, liberazione e purificazione, e che quindi ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l'illuminismo, con il rischio però, in parte tradottosi in atto, di svuotare dall'interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico. Ad ogni modo, per concrete ragioni storiche in Europa le chiese nate dalla Riforma si sono costituite come chiese di stato, avvicinandosi sotto questo profilo alla tradizione bizantina e poi ortodossa, nella quale, a differenza che nel cattolicesimo, impero e Chiesa appaiono quasi identificati l'uno con l'altra e l'imperatore è capo anche della Chiesa.
Nell'Europa del Settecento e dell'Ottocento non esisteva nulla di analogo a quel tipo di rapporti che si è affermato negli Stati Uniti d'America e che anzi è stato determinante nella stessa formazione della società nordamericana. Quest'ultima infatti è stata costruita in gran parte da gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema di chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali è essenziale non essere chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione delle persone. In questo senso si può dire che alla base della società americana c'è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi reclamata dalla religione: ben diversamente motivata e strutturata, perciò, rispetto alla separazione "ostile" imposta dalla rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito. (...)Due grandi novità profilatesi negli ultimi decenni sono il risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico ed il porsi di grandi questioni etiche che hanno anch'esse una chiara dimensione non soltanto personale e privata ma pubblica, e che non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell'uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l'uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell'evoluzione cosmica e biologica, o abbia invece anche una dimensione trascendente, irriducibile all'universo fisico. Contestualmente ha preso nuovo vigore una contestazione radicale del cristianesimo, che si sviluppa principalmente su due fronti: quello della morale cristiana, concepita - nella linea indicata da Nietzsche - come mortificatrice della spontaneità naturale dell'uomo e pertanto come preclusiva della gioia di vivere, e quello della visione cristiana del mondo, ritenuta ormai superata dagli sviluppi delle scienze e della loro "razionalità", che confermerebbero pressoché definitivamente il carattere soltanto "naturale" dell'uomo ed avrebbero individuato nell'evoluzione una spiegazione autosufficiente dell'universo, tale da precludere un discorso razionale su Dio. (...) I cattolici oggi contribuiscono notevolmente a tenere viva quella funzione civile della religione che caratterizza la vicenda storica degli Stati Uniti d'America.
Al tempo stesso però sono fortemente presenti ed influenti nel Nordamerica tendenze e orientamenti che vanno nel senso di un modello "francese" di laicità, sostanzialmente chiuso ed ostile al ruolo pubblico delle religioni, e oggi proteso di fatto a promuovere un'etica relativista e naturalista, aliena dall'umanesimo cristiano.
(...) In Europa sono all'opera però anche tendenze opposte, apparentate in qualche modo alla tradizione americana, di cui riconoscono espressamente la maggiore validità ed attualità. Sintomatiche di tali tendenze sono le prese di posizione del presidente francese Sarkozy a proposito della laicità. L'Italia rappresenta, in questo quadro, un caso speciale, che potrebbe non costituire - come spesso si dice - una posizione di retroguardia, ma al contrario essere indicativo di sviluppi destinati ad allargarsi.
Da noi infatti la Chiesa ed i cattolici stanno esercitando con vigore una funzione di coscienza civile e pubblica e - cosa particolarmente interessante - lo stanno facendo non da soli ma in sostanziale sintonia con molti laici preoccupati di non disperdere la sostanza dell'umanesimo europeo e pertanto favorevoli al ruolo pubblico del cristianesimo.
L'allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito la motivazione storica e teologica di questa sintonia, sostenendo che "la distinzione tra cattolici e laici dev'essere relativizzata", dato che i laici non costituiscono un blocco rigido, una specie di "anti-confessione" contraria al cattolicesimo, ma sono spesso uomini che, pur non sentendosi in grado di fare il passo della fede ecclesiale con tutto ciò che essa comporta, cercano appassionatamente la verità e soffrono per la mancanza di verità riguardo all'uomo. Essi riprendono così i contenuti essenziali della cultura nata dalla fede e la rendono, con il loro impegno, più luminosa di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta.
Come negli Stati Uniti così anche in Europa, al fine di un efficace esercizio del ruolo pubblico del cristianesimo, è molto importante una leale collaborazione tra le diverse chiese e confessioni cristiane. Significativo e interessante in tal senso è l'atteggiamento della Chiesa ortodossa russa, che proprio su queste tematiche intende costruire un fecondo rapporto con la Chiesa cattolica. Allargando lo sguardo alla scena internazionale e mondiale, il ruolo pubblico delle religioni sembra costituire il terreno più favorevole e più urgente per il dialogo inter-religioso.
La rilevanza pubblica delle religioni - in particolare del cristianesimo - e la loro efficacia nel promuovere ordinamenti di libertà non sono mai, d'altronde, fenomeni soltanto culturali, storici o sociologici: dipendono infatti in primo luogo dalla qualità e vitalità propriamente religiosa delle comunità dei credenti. Da una parte queste comunità devono essere non ripiegate su se stesse, bensì aperte, capaci di intessere rapporti, di cogliere e di interpretare le istanze delle società in cui vivono, così da poter immettere in tali società i valori di cui sono portatrici. Dall'altra parte ciò richiede che le comunità religiose siano intimamente convinte del proprio credo ed affascinate da esso, così da viverlo con gioia oltre che con coerenza: è questa la condizione fondamentale perché siano in grado di animare la più ampia società, infondendole energia vitale, ragioni di vivere. In questo senso trovo molto pertinenti le integrazioni apportate da Rémi Brague, nel numero di "Aspenia" dedicato a religione e politica, alla celebre tesi di Böckenförde secondo la quale lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire.
Nella situazione attuale, caratterizzata dalla ripresa delle religioni ma anche da un attacco radicale al cristianesimo, il confronto tra il "modello francese", per il quale la religione e in particolare il cattolicesimo è di ostacolo alla libertà, ed il "modello americano", che vede invece nel cristianesimo una sorgente e un presidio della libertà, richiederebbe di prendere in esame la grande questione della verità e validità del cristianesimo (...) Solitamente il cristianesimo è presentato, a titolo più che giusto, come religione dell'amore e come religione del Lògos, della razionalità e della verità. Assai meno frequentemente viene qualificato come religione della libertà. Eppure già nell'Antico Testamento Dio si rivela come il liberatore del popolo di Israele e nel Nuovo Testamento leggiamo l'affermazione di Gesù: "Se rimanete nella mia parola, (...) conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Giovanni, 8, 31-32).
Il rapporto tra Dio e l'uomo è pertanto, da entrambe le parti, contrassegnato dalla libertà: Dio è totalmente libero già nella sua decisione di creare il mondo, liberrimo consilio come afferma il concilio Vaticano i, mentre l'uomo solo volontariamente e liberamente può credere a Dio che gli si rivela e affidare a lui la propria vita, come insegna ancora il Vaticano i e poi il vaticano II. Non è dunque una forzatura qualificare la fede cristiana come religione della libertà, anche se non sempre i cristiani, nella storia, sono stati fedeli a questa ispirazione originaria del loro credo. Non consentire che siano separate la causa del cristianesimo e la causa della libertà è pertanto un imperativo concreto ed essenziale per il presente e per il futuro.
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)


SCUOLA/ 1. Mauro: nel resto d’Europa più spazio alla libertà di educazione - Mario Mauro - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Nessuna delle decine di migliaia di persone che nei giorni scorsi hanno partecipato alle manifestazioni anti-Governo e anti-Gelmini intonando i consueti slogan in favore della non libertà di educazione sa di aver manifestato contro tagli che colpiscono esattamente il loro bersaglio preferito: la scuola libera.
Con il decreto legge approvato a fine luglio, ai ministeri è stata data la piena discrezionalità rispetto alla scelta di come attuare i tagli di spesa previsti dal decreto.
Questa discrezionalità ha avuto come risultato che nel Bilancio di previsione dello Stato lo stanziamento previsto per il 2009 per le scuole paritarie viene ridotto di oltre 133 milioni di euro. Si passa da 535.318.000 a 401.924.000 euro, con un taglio del 25%.
Nei due anni successivi (2010 e 2011) lo stanziamento per le scuole paritarie prevede per il 2010 406 milioni di euro e nel 2011 la cifra viene tagliata ancora drasticamente di altri 94 milioni di euro: si passa da 406.100.000 a 312.410.000 euro. Un ulteriore taglio di quasi il 25%. In quattro anni dal (2008 al 2011) la cifra investita dallo Stato per le scuole paritarie viene dunque tagliata in totale di oltre il 40%. Da 535 milioni di euro si arriva a 312.
Un taglio che ricadrà esclusivamente sulle famiglie che scelgono la scuola paritaria, indebolendo fortemente la libertà di educazione nel nostro Paese.
Ancora più paradossale e preoccupante è il fatto che nel “Bilancio di previsione dello Stato per il 2009" la spesa complessiva riguardo il funzionamento dell’istruzione viene aumentata di 656 milioni di euro, con un forte aumento delle spese per l’istruzione primaria, secondaria di primo e di secondo grado.
Il problema può essere risolto in due modi: approvando l'emendamento dell'On. Toccafondi firmato anche da altri trenta deputati della maggioranza tra cui Maurizio Lupi, Valentina Aprea, Raffaello Vignali, Renato Farina e Antonio Palmieri, nel quale si prevede il reintegro dei fondi tagliati, oppure con un maxiemendamento del Governo che appone fiducia alla legge finanziaria e alla legge di bilancio di previsione.
Preoccupa altresì il fatto che sono dati assolutamente discordanti con la tendenza verso la strada dell'autonomia intrapresa dalla più parte dei paesi dell'Unione Europea, nei quali si è arrivati a capire quali sono i nemici da combattere per migliorare l'efficienza e la libertà di educazione dei cittadini: questi nemici sono i "malati di ideologia", chi vede cioè nello strapotere dello Stato il dispensatore supremo dei diritti e dei servizi per i cittadini, chi crede che la cosa giusta sia essere forti con i deboli e deboli con i forti.
Un sistema scolastico ancora fortemente centralistico non può che rispondere a una logica della rendita politica tutta tesa a salvaguardare il tornaconto di burocrazie ministeriali e sindacati a dispetto dell’emergenza educativa del Paese.
Bisogna invece avere il coraggio di liberalizzare l’intero meccanismo, altrimenti lo scontro ideologico produrrà ulteriori danni a quello che è già una mastodontica e inefficiente struttura al servizio soltanto della corporazione che vi lavora.
Dobbiamo evitare che la scuola italiana ritorni a compiere gli stessi errori che comporterebbero un ulteriore abbassamento della qualità della scuola pubblica, ma soprattutto un impietoso "affamamento" della scuola libera.


SCUOLA/ 2. Nella sterile guerra fra governo, opposizione e sindacati chi ci perde sono le giovani generazioni - Giovanni Cominelli - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Dentro lo sciopero generale della scuola si incrociano almeno due “piattaforme”: quella delle sigle sindacali, che l’hanno promosso ufficialmente (Flc-CGIL, CISL-Scuola, UIL-Scuola, SNALS-Confsal, GILDA-Unams), quella delle sigle politiche di tutta l’opposizione (PD, IDV).
Il comunicato congiunto delle sigle sindacali lamenta “i tagli” di quasi 8 miliardi di euro «che destrutturano il nostro sistema pubblico di istruzione e mettono a rischio il diritto allo studio e la qualità dell'offerta formativa». Rivendica: l’abrogazione dell’articolo del Decreto legge n. 137 (Gelmini) che ripristina il maestro unico e introduce l'orario di 24 ore settimanali nella scuola primaria; l’apertura di un tavolo negoziale con il Governo in merito al Piano Programmatico e ai regolamenti attuativi di cui all'articolo 64 del decreto-legge 112/08; il rinnovo del contratto collettivo nazionale, il mantenimento delle prerogative contrattuali e garanzie contro le incursioni legislative nella disciplina del rapporto di lavoro; la garanzia di organici di istituto funzionali, stabili e pluriennali per il personale docente ed ATA al fine di dare certezze al personale e continuità didattica ed organizzativa alle scuole; tutele per il personale precario.
La piattaforma politica di Veltroni e Di Pietro annunciata il 25 ottobre denuncia i tagli relativi a scuola e Università, la privatizzazione selvaggia del sistema educativo nazionale (ma intanto il Ministro Gelmini taglia del 40% entro il 2011 i finanziamenti alle scuole paritarie!), l’emergere di “un razzismo di governo” a proposito delle classi-ponte proposte da una mozione parlamentare, non ancora trasformata in atto ufficiale di governo.
I sindacati non nascondono per nulla il continuismo corporativo degli ultimi decenni, malamente mascherato dalla retorica della difesa della scuola per tutti. Da sempre gli interessi particolari degli addetti vengono transustanziati in interessi universali degli utenti. È un vecchio spot pseudo-marxiano. Una volta erano gli operai “la classe generale”, ora sono gli insegnanti e il pubblico impiego. Sballottata nel mezzo sta una massa ingente di persone coinvolte: 819.000 docenti in servizio, circa 200.000 docenti precari, circa 200.000 collaboratori. Al di sotto ancora, le loro famiglie. Più in basso stanno 8 milioni di studenti della scuola di ogni ordine e grado, di cui circa 2 milioni nelle scuole superiori. Quanto alle Università, sono coinvolti 1.799.000 studenti e 62.000 docenti, dei quali 23.500 sono ricercatori. Un calcolo grezzo porta a circa 4 milioni di giovani dai 16 ai 27 anni.
Di fronte al collasso del sistema educativo nazionale e di quello universitario e di ricerca, questa generazione si interroga e si mette in movimento. Di essa, una minoranza sta catafratta in vecchi eskimo, ereditati dai padri; una maggioranza, invece, è mossa da eloquenti passioni, interessi, valori. Perché, infine, soprattutto le giovani generazioni si muovono, guidate dalla cura di sé e del proprio destino. A costoro i sindacati forniscono una risposta corporativa, l’opposizione offre il consueto bagaglio politico-ideologico conservatore.
Ma la risposta del governo è debole sul piano culturale e ideale. Chi si aspettava la ripresa di un forte slancio riformistico, si è trovato davanti, dopo la politica del “cacciavite” di Fioroni, quella della “manutenzione”. Ma quale “riforma”? I “tagli” e i sacrifici si giustificano, se si intravede davanti una politica di cambiamento. Solo riforme radicali consentono l’efficienza della spesa e perciò anche la sua efficacia. “Lacrime e sangue” sì, ma per difendere l’Inghilterra! Non per meno. Una risposta debole rischia di mettere la giovane generazione di fronte a un cattivo futuro: andarsene dall’Italia, per chi può; rivendicare un posto sicuro dallo stato e dal governo di turno; infilarsi in un tunnel di rabbia, delusione, rivolta. Discutere costantemente con loro sembra essere il compito attuale della generazione adulta e, perciò, del governo.


USA/ L’ultimo asso nella manica di McCain per poter battere Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 29 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
A circa una settimana dalle elezioni negli Stati Uniti, la vittoria di Obama sembra inevitabile, almeno secondo la maggioranza dei sondaggi.
Il risultato nelle elezioni presidenziali non dipende tuttavia dai voti che riceveranno Obama e McCain nell’intera nazione, ma dal numero di voti in cinque stati, o giù di lì, i cui voti elettorali stabiliscono il vincitore e il perdente: non importa quindi quali siano i risultati a livello nazionale.
Sotto questo profilo, una vittoria di McCain non può essere completamente esclusa, anche perchè McCain è famoso per queste sue vittorie sul filo di lana e lui conta di riuscirci ancora una volta.
La scelta del prossimo presidente non è comunque l’unico risultato importante di questa tornata. Lo è altrettanto, infatti, l’elezione di una nuova assemblea legislativa, perché un presidente può fare ben poco per realizzare il suo programma politico senza un appoggio sufficiente della Camera dei Rappresentanti e del Senato. Dall’altra parte, con questo supporto, un presidente ha una grande possibilità di modellare la vita degli americani nei prossimi quattro anni.
Per questo motivo, uno degli argomenti più forti della campagna di McCain in questi ultimi giorni è che il probabile controllo del Congresso da parte dei Democratici consentirà a Obama e al suo partito di spostare a sinistra il paese, molto più di quanto sia a sinistra la maggioranza degli americani. Questa è la ragione per la quale la campagna di McCain ha sostenuto che Obama è un socialista e che la sua vittoria risulterebbe una rivoluzione socialista.
Non sono però solo le questioni di politica economica che preoccupano chi è incline a votare per Obama, ma non è sicuro tuttora di conoscere abbastanza di lui per affidargli tutto questo potere. Questo è il timore, per esempio, anche dei cosiddetti “conservatori culturali” (specialmente elettori pro-life).
Sembra che i leader del Partito Democratico si siano finalmente resi conto che l’identificazione totale del partito con il programma in favore dell’aborto li offende e che questa è la probabile spiegazione delle molte sconfitte elettorali subite negli ultimi decenni.
Per la prima volta, i leader del partito hanno scelto di far realmente correre candidati che si presentano pro-life in aree ritenute sicure dai Repubblicani. Quest’anno ci sono almeno dodici di questi candidati la cui campagna è finanziata totalmente dal Partito Democratico. Obama stesso ha insistito sul fatto di aver ammorbidito la posizione pro-aborto del partito e fatto spazio a candidati pro-life che corressero per i Democratici.
Chiunque vinca le elezioni per la presidenza, sarà interessante vedere se questa nuova tattica del Partito Democratico ha avuto successo. Se sì, il risultato sarà l’inizio del distacco del partito dalla quasi totale dipendenza dagli attivisti pro-aborto e dai loro sostenitori finanziari.


INTERVISTA. Da venerdì teologi e scienziati si ritrovano in Vaticano per parlare del futuro dell’Universo e della cosmologia. Parla Cabibbo - Il boomerang di Einstein – Avvenire, 29 ottobre 2008
DI LUIGI DELL’AGLIO

S i apre venerdì 31 ottobre la sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, che ha per tema «Approcci scientifici sull’evoluzione dell’universo e della vita». Argomento che è al centro di una vivace disputa scientifica, filosofica e teologica.
Intervengono, fra gli altri, i cardinali Carlo Maria Martini e Christoph Schonborn, il fisico Stephen W. Hawking e l’antropologo Yves Coppens. «Non è la prima volta che l’Accademia tratta la questione. La precedente sessione si tenne nel 1996 e in quell’occasione Giovanni Paolo II affermò che la teoria dell’evoluzione 'è ormai da considerare più di un’ipotesi'. Noi abbiamo il compito di presentare alla Chiesa qual è lo stato del pensiero scientifico sull’argomento», spiega il professor Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze e ordinario di fisica delle particelle all’Università La Sapienza di Roma.
Professore, questa sessione dell’Accademia precede di alcuni mesi il mega-convegno sull’evoluzione che si terrà in primavera.
«Abbiamo deciso di tornare su questo tema soprattutto perché negli Stati Uniti fa molto parlare di sé il creazionismo. Questo movimento non afferma soltanto che l’universo e il mondo sono stati creati da Dio – su ciò tutti i credenti concordano – ma che la creazione è un fatto dimostrato scientificamente e che, in quanto tale, va insegnata nelle scuole quasi in alternativa alle materia scientifiche e, in particolare, alla teoria dell’evoluzione».
La discussione riguarderà anche il disegno intelligente, cioè la tesi secondo la quale l’universo rivela un progetto superiore o comunque un finalismo?
«Da alcuni anni il creazionismo ha cercato di darsi un’impostazione scientifica e si è trasformato nel 'disegno intelligente'. In realtà si è trattato di un tentativo di sfuggire alle leggi americane che vietano l’insegnamento della religione – come tale – nelle scuole. Il disegno intelligente è considerato da molti una riedizione del creazionismo ammantato di una veste di scienza».
Per un tema critico come l’evoluzione, la Pontificia Accademia delle Scienze è la sede più indicata perché al di sopra delle parti.
«Come al solito, la nostra sarà una libera discussione, in cui ciascuno porterà il proprio parere in base alla propria esperienza. Ma, a livello scientifico, non ci sono più dubbi: l’evoluzione è storia, e la conferma viene da due punti di vista completamente indipendenti. Da un lato, i fossili ci hanno permesso di seguire l’evoluzione dell’uomo per qualche milione di anni, a partire dai primi ominidi, che camminavano in piedi. Dall’altro lato, c’è la storia del Dna, che permette di analizzare e comparare il patrimonio genetico delle varie specie. Questi due metodi ci dicono che la separazione tra i primati e gli uomini risale a dieci milioni di anni fa. Non discendiamo dalle scimmie, abbiamo antenati comuni».
Nella vostra discussione si parlerà di creazione dal nulla ('creatio ex nihilo') ma anche della creazione continua ('creatio continua') che gli antropologi cattolici ritengono perfettamente compatibile con l’evoluzione.
«Nelle nostre sessioni daremo la parola anche ai teologi. È nostro desiderio avere uno scambio di idee su questi delicati temi.
Sant’Agostino ha detto che la Bibbia non è un manuale scientifico. Una cosa è l’evoluzione come fatto scientifico e un’altra cosa è la fede. C’è il livello della fede e della salvezza e c’è il livello delle cose come si sono succedute nel tempo. Problemi come questi sono stati risolti grazie a san Tommaso e sant’Agostino. Un conto è il processo verso la salvezza, e un altro è la conoscenza dell’evoluzione come fatto aperto all’indagine scientifica. La creazione è un atto di fede, non è da indagare come evento scientifico».
Sull’evoluzione dell’universo il clima della discussione è più sereno. Quali novità usciranno rafforzate?
«Faremo il punto su nascita, storia e futuro dell’universo. Nell’ultimo decennio si è appreso moltissimo, grazie a scoperte di notevole portata, le quali dimostrano che l’universo è in espansione accelerata. A questa conclusione si è arrivati anche con un esperimento italiano, che ha avuto considerevoli riconoscimenti internazionali. Mi riferisco all’'effetto boomerang', realizzato non su un satellite ma su un pallone stratosferico. L’équipe era guidata da Paolo de Bernardis, astrofisico della Sapienza. La prova che l’universo è in espansione accelerata rappresenta un test rivoluzionario rispetto alla teoria di Albert Einstein. Lui aveva intravisto la possibilità di un universo accelerato ma poi l’aveva esclusa. L’universo in espansione accelerata pone grossi problemi anche alla fisica delle particelle.
Presuppone che, anche in assenza di materia, il vuoto contenga una certa quantità di energia, quella che viene definita 'energia oscura' e che promuove l’espansione accelerata. La scoperta degli ultimi anni ha proprio cambiato il modo di vedere la storia dell’Universo».
L’evoluzione del cosmo ha un futuro?
«Molto probabilmente l’universo continuerà a espandersi a velocità crescente. Ma, per quanto ne sappiamo ora, la velocità di espansione si raddoppia ogni 10­15 miliardi di anni. Perciò non è una prospettiva che debba preoccupare gli esseri umani di oggi».
Possiamo prevedere come si evolverà ancora l’uomo, sia morfologicamente che geneticamente?
«Nel mondo scientifico la discussione è aperta. Molti sostengono che l’evoluzione dell’uomo sia finita. Medicina, macchine e organizzazione sociale hanno smorzato la pressione evolutiva; questa presuppone infatti la necessità e la capacità di cacciare, di salvarsi in situazioni di pericolo».
«Il creazionismo fa molto discutere negli Usa, invece l’evoluzione è storia, Molto oggi è cambiato, dopo che un’équipe italiana ha provato che il cosmo è in forte accelerazione»


Su Eluana una serata tv (quasi) a senso unico - DI MIRELLA POGGIALINI - N on conta che, co­me insiste Euge­nia Roccella, Elua­na sia viva, anche se in co­ma.- Avvenire, 29 ottobre 2008
L’infedele di lunedì se­ra, su La 7, ha ampiamen­te discusso sulla necessità di eliminarla definitiva­mente, di cancellare quel­la vita che, sia pur in modo crudelmente anomalo, continua a pulsa­re nelle sue vene e nel suo cuore. E un Gad Lerner più che mai infervorato si accende, passando la parola ai suoi ospiti, per so­stenere la causa del padre, Beppino En­glaro, che si batte per annullare l’alimen­tazione della figlia, dopo quasi diciassette anni di un dolore che forse è più forte per lui che per la figlia. Dolore: come in quel­la frase, «Mia figlia è prigioniera!», che gli fa invocare la sua morte come una liberazione. Si intrecciano parole decisi­ve: «dignità», «libertà», «ri­spetto ». E ognuno, con­vinto, porta la sua voce a testimoniare quella che sarebbe la sua volontà – di sano e cosciente – di fronte a un destino come quello di Elua­na: che è tuttavia in un’altra situazione, non prevedibile o immaginabile quando si sta bene e si rabbrividisce pensando a un possibile e deprecabile futuro, e si chiede l’approvazione del «testamento biologi­co ». Un medico, Defanti, distingue fra «vi­ta che è degna di vivere» e «vita che non è degna di essere vissuta»; un altro, Gigli, re­plica con forza. Mancuso, teologo cattoli­co che si rifà al cardinal Martini, nota il di­saccordo che esiste anche fra due cattoli­ci del Pd, Binetti e Marino, e riflette sulla evoluzione della morale e del diritto, così veloce negli ultimi decenni. E considera, ricordando «sora morte corporale» di san Francesco, che si è perduta ora «la concilia­zione profonda del mori­re », in una Chiesa che di­ce troppi «no» (già aveva notato, Mancu­so, come la Chiesa non avesse rispettato per secoli la libertà religiosa, sostenendo una «unica» fede e negando così la capa­cità di autodeterminazione che caratte­rizza ogni essere umano). Il discorso si al­larga, con interventi sempre più profondi, spaziando dal singolo caso umano alla leg­ge, alla filosofia, alla morale, alla religione: Riccio, il medico che sedò Welby per aiu­tarlo a morire senza dolore, ricorda che o­gni anno in Italia «ci sono tredicimila E­luane » alle quali i medici risparmiano di vi­vere ancora, e si ricorda che spesso i ma­lati in coma, affidati alle famiglie, vengo­no lasciati morire. Un’ombra cupa aleggia su un confronto che vede, in apparente se­renità di dibattito, confluire due conce­zioni opposte del vivere e del morire: e il richiamo alla vita neonatale, che fa Euge­nia Roccella, cade nel vuoto, in sala, ma resta sospeso nella coscienza di chi ascol­ta. Si evita la parola «morte», si parla di «processo del morire» o di «commiato»: ma allo spettatore torna alla memoria un articolo apparso su Avvenire, domenica scorsa, con la testimonianza di un uomo uscito da un lungo coma e che ora ricor­da quanto di crudele sentiva dai medici al suo capezzale, mentre sembrava inco­sciente. E si rabbrividisce, osservando il volto disperato e determinato del padre Englaro, pensando che – una possibilità su un miliardo? – Eluana possa averlo sen­tito invocare la sua fine.
Acceso ma sbilanciato dibattito a «L’infedele» su La7 tra tesi a favore dell’eutanasia e strenua difesa del diritto alla vita