lunedì 6 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) "La Bibbia giorno e notte" lettura non-stop - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 ottobre 2008 - Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. (Salmo 119)
2) Omelia di Benedetto XVI per l'apertura del Sinodo dei Vescovi - ROMA, domenica, 5 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica mattina nella Basilica di San Paolo fuori le Mura di Roma durante l'Eucaristia di apertura della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà in Vaticano fino al 26 ottobre sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa".
3) Il cristianesimo mette radici nelle culture - ROMA, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di don Piergiorgio Gianazza, missionario salesiano in Terra Santa, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
4) Il messaggio dell’Humanae vitae: aspetti teologico-dottrinali - Intervento del Card. Caffarra al Congresso internazionale sull'Enciclica
5) 05/10/2008 12:28 – IRAQ - Mosul, la strage senza fine dei cristiani iracheni
6) Il problema non è maestro unico o più maestri, ma che ci siano dei veri maestri - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 ottobre 2008
7) Eurobond: una soluzione alla crisi finanziaria, senza aumentare le tasse - Mario Mauro - lunedì 6 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ La vera razionalizzazione del sistema? Puntare sulla libertà di scelta delle famiglie - Redazione - lunedì 6 ottobre 2008 – IlSussidiario.net

"La Bibbia giorno e notte" lettura non-stop - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 ottobre 2008 - Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. (Salmo 119)
“La Bibbia giorno e notte” dal 5 all’11 ottobre la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, alle pendici del colle Esquilino sarà aperta giorno e notte per tutti, in occasione di un grande evento, la lettura non-stop della Bibbia.
Circa 139 ore senza interruzione, dalla Genesi all’Apocalisse, la lettura dei 73 libri che costituiscono la Bibbia sarà intervallata ogni 90 minuti da uno spazio musicale a tema.
L’evento sarà trasmesso integralmente da Rai Edu 2, mentre Rai Uno trasmetterà la prima e l’ultima ora.
Maggiori informazioni e orario delle letture su www.labibbiagiornoenotte.rai.it

La prima e l’ultima ora di “La Bibbia Giorno e Notte” andranno in onda su Rai Uno, ma ricordiamo che tutto l’evento può essere seguito per intero in diretta su Rai Edu 2, visibile al canale 806 del bouquet Sky.
Il canale Rai Edu2 è un canale free, accessibile da qualsiasi decoder satellitare digitale abilitato alla ricezione dei canali del satellite Hot Bird 2.
Il Palinsesto di Rai Edu 2 si può consultare alla pag. 519 del Televideo Rai.


Omelia di Benedetto XVI per l'apertura del Sinodo dei Vescovi - ROMA, domenica, 5 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica mattina nella Basilica di San Paolo fuori le Mura di Roma durante l'Eucaristia di apertura della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà in Vaticano fino al 26 ottobre sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa".
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Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle!
La prima Lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, come pure la pagina del Vangelo secondo Matteo, hanno proposto alla nostra assemblea liturgica una suggestiva immagine allegorica della Sacra Scrittura: l'immagine della vigna, di cui abbiamo già sentito parlare nelle domeniche precedenti. La pericope iniziale del racconto evangelico fa riferimento al "cantico della vigna" che troviamo in Isaia. Si tratta di un canto ambientato nel contesto autunnale della vendemmia: un piccolo capolavoro della poesia ebraica, che doveva essere assai familiare agli ascoltatori di Gesù e dal quale, come da altri riferimenti dei profeti (cfr Os 10,1; Ger 2,21; Ez 17,3-0; 19,10-14; Sal 79,9-17), si capiva bene che la vigna indicava Israele. Alla sua vigna, al popolo che si è scelto, Iddio riserva le stesse cure che uno sposo fedele prodiga alla sua sposa (cfr Ez 16,1-14; Ef 5,25-33).
L'immagine della vigna, insieme a quella delle nozze, descrive dunque il progetto divino della salvezza, e si pone come una commovente allegoria dell'alleanza di Dio con il suo popolo. Nel Vangelo, Gesù riprende il cantico di Isaia, ma lo adatta ai suoi ascoltatori e alla nuova ora della storia della salvezza. L'accento non è tanto sulla vigna quanto piuttosto sui vignaioli, ai quali i "servi" del padrone chiedono, a suo nome, il canone di affitto. I servi però vengono maltrattati e persino uccisi. Come non pensare alle vicende del popolo eletto e alla sorte riservata ai profeti inviati da Dio? Alla fine, il proprietario della vigna compie l'ultimo tentativo: manda il proprio figlio, convinto che ascolteranno almeno lui. Accade invece il contrario: i vignaioli lo uccidono proprio perché è il figlio, cioè l'erede, convinti di potersi così impossessare facilmente della vigna. Assistiamo pertanto ad un salto di qualità rispetto all'accusa di violazione della giustizia sociale, quale emerge dal cantico di Isaia. Qui vediamo chiaramente come il disprezzo per l'ordine impartito dal padrone si trasformi in disprezzo verso di lui: non è la semplice disubbidienza ad un precetto divino, è il vero e proprio rigetto di Dio: appare il mistero della Croce.
Quanto denuncia la pagina evangelica interpella il nostro modo di pensare e di agire. Non parla solo dell'"ora" di Cristo, del mistero della Croce in quel momento, ma della presenza della Croce in tutti i tempi. Interpella, in modo speciale, i popoli che hanno ricevuto l'annuncio del Vangelo. Se guardiamo la storia, siamo costretti a registrare non di rado la freddezza e la ribellione di cristiani incoerenti. In conseguenza di ciò, Dio, pur non venendo mai meno alla sua promessa di salvezza, ha dovuto spesso ricorrere al castigo. E' spontaneo pensare, in questo contesto, al primo annuncio del Vangelo, da cui scaturirono comunità cristiane inizialmente fiorenti, che sono poi scomparse e sono oggi ricordate solo nei libri di storia. Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca? Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l'influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna. Vi è chi, avendo deciso che "Dio è morto", dichiara "dio" se stesso, ritenendosi l'unico artefice del proprio destino, il proprietario assoluto del mondo. Sbarazzandosi di Dio e non attendendo da Lui la salvezza, l'uomo crede di poter fare ciò che gli piace e di potersi porre come sola misura di se stesso e del proprio agire. Ma quando l'uomo elimina Dio dal proprio orizzonte, dichiara Dio "morto", è veramente più felice? Diventa veramente più libero? Quando gli uomini si proclamano proprietari assoluti di se stessi e unici padroni del creato, possono veramente costruire una società dove regnino la libertà, la giustizia e la pace? Non avviene piuttosto - come la cronaca quotidiana dimostra ampiamente - che si estendano l'arbitrio del potere, gli interessi egoistici, l'ingiustizia e lo sfruttamento, la violenza in ogni sua espressione? Il punto d'arrivo, alla fine, è che l'uomo si ritrova più solo e la società più divisa e confusa.
Ma nelle parole di Gesù vi è una promessa: la vigna non sarà distrutta. Mentre abbandona al loro destino i vignaioli infedeli, il padrone non si distacca dalla sua vigna e l'affida ad altri suoi servi fedeli. Questo indica che, se in alcune regioni la fede si affievolisce sino ad estinguersi, vi saranno sempre altri popoli pronti ad accoglierla. Proprio per questo Gesù, mentre cita il Salmo 117 [118]: "La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo" (v. 22), assicura che la sua morte non sarà la sconfitta di Dio. Ucciso, Egli non resterà nella tomba, anzi, proprio quella che sembrerà essere una totale disfatta, segnerà l'inizio di una definitiva vittoria. Alla sua dolorosa passione e morte in croce seguirà la gloria della risurrezione. La vigna continuerà allora a produrre uva e sarà data in affitto dal padrone "ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo" (Mt 21,41).
L'immagine della vigna, con le sue implicazioni morali, dottrinali e spirituali, ritornerà nel discorso dell'Ultima Cena, quando, congedandosi dagli Apostoli, il Signore dirà: "Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv 15,1-2). A partire dall'evento pasquale la storia della salvezza conoscerà dunque una svolta decisiva, e ne saranno protagonisti quegli "altri contadini" che, innestati come scelti germogli in Cristo, vera vite, porteranno frutti abbondanti di vita eterna (cfr Orazione colletta). Tra questi "contadini" ci siamo anche noi, innestati in Cristo, che volle divenire Egli stesso la "vera vite". Preghiamo che il Signore che ci dà il suo sangue, Se stesso, nell'Eucaristia, ci aiuti a "portare frutto" per la vita eterna e per questo nostro tempo.
Il consolante messaggio che raccogliamo da questi testi biblici è la certezza che il male e la morte non hanno l'ultima parola, ma a vincere alla fine è Cristo. Sempre! La Chiesa non si stanca di proclamare questa Buona Novella, come avviene anche quest'oggi, in questa Basilica dedicata all'Apostolo delle genti, che per primo diffuse il Vangelo in vaste regioni dell'Asia minore e dell'Europa. Rinnoveremo in modo significativo questo annuncio durante la XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che ha come tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Vorrei qui salutare con affetto cordiale tutti voi, venerati Padri sinodali, e quanti prendete parte a questo incontro come esperti, uditori e invitati speciali. Sono lieto inoltre di accogliere i Delegati fraterni delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Al Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi ed ai suoi collaboratori va l'espressione della riconoscenza di tutti noi per l'impegnativo lavoro svolto in questi mesi, insieme con un augurio per le fatiche che li attendono nelle prossime settimane.
Quando Dio parla, sollecita sempre una risposta; la sua azione di salvezza richiede l'umana cooperazione; il suo amore attende corrispondenza. Che non debba mai accadere, cari fratelli e sorelle, quanto narra il testo biblico a proposito della vigna: "Aspettò che producesse uva, produsse, invece, acini acerbi" (cfr Is 5,2). Solo la Parola di Dio può cambiare in profondità il cuore dell'uomo, ed è importante allora che con essa entrino in una intimità sempre crescente i singoli credenti e le comunità. L'Assemblea sinodale volgerà la sua attenzione a questa verità fondamentale per la vita e la missione della Chiesa. Nutrirsi della Parola di Dio è per essa il compito primo e fondamentale. In effetti, se l'annuncio del Vangelo costituisce la sua ragione d'essere e la sua missione, è indispensabile che la Chiesa conosca e viva ciò che annuncia, perché la sua predicazione sia credibile, nonostante le debolezze e le povertà degli uomini che la compongono. Sappiamo, inoltre, che l'annuncio della Parola, alla scuola di Cristo, ha come suo contenuto il Regno di Dio (cfr Mc 1,14-15), ma il Regno di Dio è la stessa persona di Gesù, che con le sue parole e le sue opere offre la salvezza agli uomini di ogni epoca. Interessante è al riguardo la considerazione di san Girolamo: "Colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo" (Prologo al commento del profeta Isaia: PL 24,17).
In questo Anno Paolino sentiremo risuonare con particolare urgenza il grido dell'Apostolo delle genti: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor 9,16); grido che per ogni cristiano diventa invito insistente a porsi al servizio di Cristo. "La messe è molta" (Mt 9,37), ripete anche oggi il Divin Maestro: tanti non Lo hanno ancora incontrato e sono in attesa del primo annuncio del suo Vangelo; altri, pur avendo ricevuto una formazione cristiana, si sono affievoliti nell'entusiasmo e conservano con la Parola di Dio un contatto soltanto superficiale; altri ancora si sono allontanati dalla pratica della fede e necessitano di una nuova evangelizzazione. Non mancano poi persone di retto sentire che si pongono domande essenziali sul senso della vita e della morte, domande alle quali solo Cristo può fornire risposte appaganti. Diviene allora indispensabile per i cristiani di ogni continente essere pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro (cfr 1 Pt 3,15), annunciando con gioia la Parola di Dio e vivendo senza compromessi il Vangelo.
Venerati e cari Fratelli, ci aiuti il Signore ad interrogarci insieme, durante le prossime settimane di lavori sinodali, su come rendere sempre più efficace l'annuncio del Vangelo in questo nostro tempo. Avvertiamo tutti quanto sia necessario porre al centro della nostra vita la Parola di Dio, accogliere Cristo come unico nostro Redentore, come Regno di Dio in persona, per far sì che la sua luce illumini ogni ambito dell'umanità: dalla famiglia alla scuola, alla cultura, al lavoro, al tempo libero e agli altri settori della società e della nostra vita. Partecipando alla Celebrazione eucaristica, avvertiamo sempre lo stretto legame che esiste tra l'annuncio della Parola di Dio e il Sacrificio eucaristico: è lo stesso Mistero che viene offerto alla nostra contemplazione. Ecco perché "la Chiesa - come pone in luce il Concilio Vaticano II - ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli". Giustamente il Concilio conclude: "Come dall'assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall'accresciuta venerazione della Parola di Dio, che «permane in eterno»" (Dei Verbum, 21.26).
Ci conceda il Signore di accostarci con fede alla duplice mensa della Parola e del Corpo e Sangue di Cristo. Ci ottenga questo dono Maria Santissima, che "serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (Lc 2,19). Sia Lei ad insegnarci ad ascoltare le Scritture e a meditarle in un processo interiore di maturazione, che mai separi l'intelligenza dal cuore. Vengano in nostro aiuto anche i Santi, in particolare l'Apostolo Paolo, che durante quest'anno andiamo sempre più scoprendo come intrepido testimone e araldo della Parola di Dio. Amen!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Il cristianesimo mette radici nelle culture - ROMA, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di don Piergiorgio Gianazza, missionario salesiano in Terra Santa, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
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«Guai a me se non evangelizzassi» (1Cor 9,16): questo è l’anelito supremo di Paolo. Per il vangelo egli mette in gioco la sua vita. Convertito, dona alla sua vita un solo scopo: amare Gesù e farlo amare. Libero da tutti, si fa schiavo di tutti, perché è stato «conquistato da Cristo» (Fil 3,12). Eccolo allora spogliarsi di tutto per rivestirsi di Cristo. Sa adattarsi ai gruppi, ai popoli, alle loro tradizioni. A cominciare dal nome stesso! Se il suo nome ebreo era Sha’ùl/Saul, datogli dal padre appartenente alla tribù di Beniamino, cui apparteneva appunto il re Saul, il suo nome acquisito, con il quale volutamente sempre si presenta e si firma, sarà Pàulos, versione grecizzata del latino Paulus. In occasione dell’incontro missionario con il governatore romano di Cipro, Sergio Paolo, passa dal nome Sàulos a quello di Paulos (cfr. At 13,9). Dobbiamo leggere, in questo cambiamento, non un semplice adattamento convenzionale, ma una scelta convinta, un ampliamento di prospettiva in ordine al vangelo, da predicarsi in tutto il mondo. È la manifestazione esteriore d’una doppia appartenenza culturale, quasi un ponte gettato tra aree linguistiche.
Quanto all’adattamento linguistico, di cui abbiamo già detto [cfr. Paulus 3/pp. 23], Paolo sapeva maneggiare arti oratorie come la discussione, la diatriba, la retorica. Ripeteva a memoria frammenti di poesie, proverbi e detti popolari. Egli cita, ad esempio, il comico greco Menandro (cfr. 1Cor 15,33), il poeta cretese Epimenide (cfr. Tit 1,12 e At 17,18) e il conterraneo di Cilicia, Arato di Soli (cfr. At 17,28). Familiarizzatosi con la lingua greca della Settanta – la traduzione delle Scritture ebraiche –, ma anche con il linguaggio dei pagani dell’Asia Minore, Paolo sa attingere all’una e all’altra fonte la terminologia per la teologia cristiana, in modo da essere meglio capito. Termini greci come: amartolòs e amartìa (“peccatore”, “peccato”), sperma (“discendenza”), krites (“giudice”), kleronomìa (“eredità”), paroikìa (“dimora”, “passaggio”), ekklesìa (“assemblea”, “convocazione”), synérgheia (“sinergia”, “collaborazione”), koinonìa (“partecipazione”), e altri termini del linguaggio sociale, religioso, giudiziario e commerciale, sono presenti in vari discorsi di Paolo e più ancora nelle sue lettere (cfr. At 13,17-41).
In particolare egli sente il fascino dell’ideale della libertà, ben presente nel mondo greco, e ciò lo spinge, unico autore degli scritti neotestamentari, ad elaborare una teologia cristiana della libertà e della liberazione. La eleutherìa (“libertà”) era centrale nella tradizione politica delle città greche, tendenti alla democrazia, alla libertà politica, di pensiero e di espressione. In Paolo emerge non solo la libertà del parlare, dello scrivere e del pensare (la parresìa: cfr. 1Ts 2,2; 2Cor 3,12; Fil 1,20), ma soprattutto la libertà esistenziale, certo illuminata e mossa dallo Spirito. Egli si sente «libero da tutti, fatto servo di tutti» (1Cor 9,19). Questo perché «Cristo ci ha liberati perché potessimo vivere nella libertà» (Gal 5,1). Una libertà però che «non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma [che] mediante la carità sia a servizio gli uni degli altri» (5,14). In questo quadro di morale personalistica è da inserirsi anche il frequente richiamo alla “coscienza” (synèidesis: cfr. At 23,1; Rm 2,15; 1Tm 1,5) come riferimento all’agire morale, molto comune nel mondo ellenistico (cfr. 1Cor 8,7; 10,25).
Inoltre Paolo usa categorie mentali appartenenti alla visione del mondo greca-latina. Così impiega le distinzioni tra cittadino e straniero, magistrato e privato, libero e schiavo, città di nascita e città di adozione: tutte parole dell’amministrazione civile greco-romana. Persino nella geografia fa propria la concezione romana del mondo: ha una visione geografica dell’Asia Minore e dei Balcani, basata sull’organizzazione amministrativa dell’Impero romano. Prende infatti in considerazione, non le regioni o gli stati, e tanto meno le città, ma soltanto le divisioni in Province (Siria, Cilicia, Galazia, Asia, Macedonia, Acaia). I suoi stessi itinerari di viaggio sono programmati e compiuti lungo le strade romane e le capitali amministrative dell’Impero. Qui egli studia le caratteristiche che rendono rinomato quel luogo, oltre alle scene di vita o ai monumenti più tipici.
Volentieri ne fa uso per la sua catechesi, ritenendo che rimarrà ancor più impressa nel cuore dei suoi ascoltatori. La città di Corinto, per esempio, era famosa a quel tempo per i suoi giochi che attiravano non solo atleti, ma spettatori da ogni. L’immagine delle gare e dell’atleta vittorioso è ben sfruttata da Paolo nel suo parlare ai Corinti (cfr. 1Cor 9,24-27). Sempre a Corinto, era famoso il santuario della salute in onore del dio della medicina, Asclepio. Non solo Paolo rinfrescò laggiù le sue nozioni mediche, già apprese nella sua formazione a Gerusalemme, ma le sviluppò lungo la sua predicazione sul tema del corpo umano, simbolo di ogni collaborazione organica e vitale (cfr. 1Cor 9,12-27).
La metafora del corpo umano era già usata nel mondo ellenistico in versione politica e in prospettiva cosmica. Da un lato essa mostrava bene l’unità dello Stato o della città (pòlis) integrante i singoli cittadini e le parti sociali; dall’altro sottolineava l’unità del genere umano e persino dell’universo (kòsmos). Paolo sfrutta questa ottima immagine per presentare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, ove tutti formano un unico corpo e ove ognuno riceve e svolge il suo proprio ministero o carisma. Gli ascoltatori, oltre che al proprio corpo, potevano richiamare alla memoria gli ex-voto plasmati sulle forme delle varie membra appesi alle pareti del santuario come testimonianza della grazia ricevuta.
Trovandosi ad Atene, egli si lasciò certamente prendere dall’interesse artistico e culturale, se lui stesso, parlando ai cittadini, si descrive come uno che «passa ed osserva i monumenti del vostro culto» (At 17,23) e fra questi dice di «aver trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto» (ivi). È vero che era stato «preso dal fremito nel vedere la città piena di idoli», ma, nel suo desiderio di dialogo e di avvicinamento, non sottolinea questa divergenza (pluralità di dèi), ma parte da ciò che unisce: la pietà, il culto, il timore degli dèi. Paolo si lancia per annunciare la buona notizia.
Nei giorni precedenti aveva preso a discutere non solo nella sinagoga con i giudei e i pagani credenti in Dio, ma anche nella piazza principale, con filosofi epicurei e stoici (cfr. 17,17-18). Il che induce a pensare che avesse le cognizioni adatte per discutere con loro, benché qualcuno l’aveva tacciato di essere un ciarlatano! Il giorno stabilito volle dare prova della sua sophía o sapienza al modo dei predicatori pagani, anzi dei retori e più ancora dei filosofi.
Tutti ci attenderemmo un successo da quel gioiello di discorso che fa leva non solo sulle argomentazioni razionali, ma tocca le corde dell’inquietudine umana, desiderosa di un dio che si faccia vicino. Eppure conosciamo l’esito: chi lo derise come stravagante per la sua predicazione della risurrezione dai morti e chi più educatamente espresse il proprio disappunto. In una parola, lo scacco di Paolo fu totale. Un vero fallimento su scala professionale, perché egli non aveva saputo convincere un pubblico esigente e difficile.
Da allora egli rifiuterà di appoggiarsi agli argomenti della sophía/sapienza greca. Andando, più tardi, a evangelizzare i Corinti, dichiarerà loro che «la mia parola e il mio messaggio non si basano su discorsi persuasivi di sapienza» (1Cor 2,4). Una sconfitta della cultura, dunque? Un rifiuto della discussione e del dialogo? No, soltanto la maturazione della convinzione che i soli discorsi intellettuali, per quanto persuasivi, condurrebbero al massimo a un’adesione umana. Mentre invece solo la rivalazione divina conduce all’adesione di fede, ed essa è basata «sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non sia fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,4-5). Non rifiuto, dunque, ma uso appropriato della cultura al servizio del vangelo e del primato dello Spirito.
A Efeso, altra città cosmopolita dell’Asia Minore sulle rive dell’Egeo, Paolo affina lo strumento epistolario giungendo a una dimensione letteraria. Le sue lettere, anche se testimonianze di corrispondenze personali (cfr. il “biglietto” a Filemone) o scritti di circostanza (cfr. le due lettere ai Tessalonicesi e ai Corinti), assurgono sempre a veri trattati dottrinali, sintesi del suo pensiero e della sua teologia. Ma anche nel suo intento centrale di comunicare il vangelo in tale forma, Paolo non tralascia di compiere un grande sforzo di stile e di composizione, nella sollecitudine di far arrivare l’annuncio a lettori di culture diverse.
Analizzando le lettere e confrontandole con l’epistolografia greco-romana del tempo, gli studiosi notano, dal punto di vista formale, una struttura comune e una più complessa derivata dalla retorica classica. Esse infatti sono costituite da indirizzo, introduzione, corpo epistolare, per terminare con saluti e auguri conclusivi. Inoltre vengono impiegati stereotipi quali ringraziamenti, richieste, raccomandazioni, notificazioni, ricordi, progetti, ammonizioni. Paolo adotta uno stile letterario, ma allo stesso tempo lo arricchisce con formule cristologiche.
Quanto alle regole della retorica classica, Paolo si mostra abile nel proporre argomentazioni, strutturate secondo tesi, confutazioni, perorazioni. Sa fare largo uso di vari tipi dimostrativi: si serve della mozione degli affetti (cfr. Gal 4,13-16), ricorre alle narrazioni autobiografiche al fine di ottenere o confermarsi la fiducia delle sue comunità (cfr. 1Ts 2,1-10) e dimostra di saper argomentare (cfr. 1Cor 15). Ma egli sfrutta questo quadro culturale tutto e solo in funzione del servizio del vangelo. A proprio appoggio non porta la sua parola, ma quella di Dio, manifestata nelle Scritture (cfr. Rm 1,1-2), attualizzata e compiuta da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e a lui stesso comunicata per rivelazione (cfr. Gal 1,16; 1Cor 12,1.7). Riassumendo, egli sa disporre la forma a servizio del contenuto che è «la sublime conoscenza di Cristo» (cfr. Fil 3,8), «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3).
Nei suoi anni di apostolato, Paolo, solerte lavoratore (cfr. At 18,3; 1Cor 4,12), ma anche perenne studioso che non sa staccarsi dai suoi libri e dalle sue pergamene (cfr. 2Tm 4,13), ha modo di approfondire la sua cultura greca. Adotta il concetto filosofico di «pienezza» (plèroma) per descrivere la Divinità (cfr. Col 1,19; 2,9). Il crescente utilizzo del vocabolario mistico e della stessa parola mystérion (“mistero”) rivela che Paolo non è insensibile all’atmosfera religiosa dell’ambiente circostante, specialmente a Efeso, all’ombra del tempio della dea Artemide. Egli infatti parla di palingenesìa (“rigenerazione”, “rinascita”: Tt 3,5) e anche di «passare la soglia» (in greco embatéuein: Col 2,18) per indicare l’accesso al luogo d’iniziazione. A Efeso ebbe probabilmente contatti anche con l’essenismo, da cui ha potuto assumere immagini di contrapposizione, quali luce-tenebre, Cristo-Beliar (Satana), Dio-idoli (cfr. 2Cor 6,14-16).
Tutto questo adattamento è fatto in vista della proclamazione del vangelo. Ciò non significa che Paolo baratti o tanto meno rinunci a presentare la dottrina rivelata nella sua nella sua novità dirompente ed esigente. Il vangelo è irrinunciabile. L’apostolo intende consegnare la tradizione come egli l’ha ricevuta, particolarmente nei suoi nuclei essenziali e centrali, quali la risurrezione del Signore e la sua Cena (cfr. 1Cor 15,1-3 e 11,23-25). Di fronte alle fortissime resistenze e difficoltà incontrate in campo giudaico e pagano per l’annuncio della risurrezione di Cristo, Paolo non recede e non addomestica il suo messaggio. E similmente per il mistero dell’eucaristia, «corpo e sangue del Signore» (1Cor 11,27). Il messaggio di cui è fedelissimo portatore e testimone non è a disposizione del gusto degli uditori né adattabile alle loro aspettative, ma è divina rivelazione da comunicare integralmente.
Per questo annuncia cose assolutamente inaudite, contrarie al senso comune e inaccettabili per alcune concezioni religiose, compresa quella in cui lui stesso era stato educato. Ai giudei presenta lo scandalo di un Messia crocifisso. Ai greci la stoltezza di un Dio debole. Ai cristiani di Corinto, città di pessima reputazione in fatto di costumi, parla nientemeno che di verginità come possibile scelta di vita (1Cor 7). A tutti non esita a presentare la morte come un guadagno (cfr. Fil 1,21.23). Ai pagani annuncia non che un uomo è diventato dio, ma che Dio è diventato uomo (cfr. Gal 4,4). A tutti proclama che Dio è unico, ma anche che Egli ha inviato il suo Figlio e che con lui ci da dato il suo Spirito (cfr. Rm 5,5).
Attento a tutte le culture incontrate, Paolo non si lega ad alcuna di esse, per vivere la libertà del vangelo. Anzi, di fronte alle pretese di sapienza dei greci e di giustizia dei giudei, di fronte alla repressione della voce della coscienza nei pagani e alle loro deviazioni morali (cfr. 1Cor 1,18-25; Rm 1,23-30), egli non teme di smascherare i fallimenti di una cultura avulsa dal Dio di Gesù. Sfidato da rigurgiti provenienti da culture paganeggianti anteriori alla conversione (cfr. 1Cor 1-2) e persino da inutili applicazioni di pesi giudaici alla libertà di Cristo, Paolo si scaglia contro coloro che «snaturano il vangelo» (Gal 1,7) o rinunciano allo scandalo della croce.


Il messaggio dell’Humanae vitae: aspetti teologico-dottrinali - Intervento del Card. Caffarra al Congresso internazionale sull'Enciclica
ROMA, domenica, 5 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica la lezione magistrale pronunciata il 3 ottobre dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, nel corso del Congresso internazionale “Humanae vitae: attualità di un'Enciclica”, organizzato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

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L'Enciclica Humanae Vitae [HV] ha avuto in questi quarant'anni trascorsi dalla sua pubblicazione un destino singolare: ad una discussione di intensità sconosciuta per qualsiasi documento pontificio precedente è seguito un silenzio pressoché totale. Il percorso - dalla discussione al silenzio - può essere sinteticamente narrato nel modo seguente.
Nel primo ventennio dopo la pubblicazione, la riflessione e/o la contestazione riguardava la praticabilità della norma morale insegnata da HV e l'autorevolezza dell'insegnamento. In tale contesto venne elaborato la teoria della gradualità della legge, progressivamente supportata dalle teorie etiche del consequenzialismo e del teleologismo. La discussione sull'HV si è progressivamente, e logicamente, approfondita fino all'elaborazione di teorie etiche generali dalle quali derivava un'interpretazione del testo, che negava l'incondizionatezza della norma ivi insegnata.
L'altro aspetto del dibattito che caratterizzò il primo ventennio era di carattere ecclesiologico. Riguardava la competenza del Magistero di insegnare con autorità norme morali che esso stesso dice essere di legge naturale. E anche riguardava il grado di autorevolezza con cui il Magistero insegna ciò che insegna in HV.
Questo approccio ad HV presupponeva comunque la verità di ciò che l'Enciclica prescriveva. Meglio: il bene che la norma difendeva era ritenuto vero bene. È precisamente a questo livello che nel secondo ventennio è avvenuta la "crisi dell'HV". Mi spiego.
La materia del contendere non è più la praticabilità della norma insegnata [difficile, impossibile, comunque non ineccepibile], e/o l'obbligatorietà dell'assenso del credente alla medesima in ragione del soggetto docente. La materia del contendere è costituita dalla domanda circa la verità del bene che HV intende difendere. Cioè: è vero/è falso che la connessione fra capacità unitiva e capacità procreativa unite nella sessualità è un bene propriamente morale? Si passa dal pensare: "ciò che la Chiesa insegna non è praticabile o comunque non obbliga semper et pro semper", al pensare: "ciò che la Chiesa insegna è falso". La domanda sulla verità è il nodo problematico attuale.
La mia riflessione seguente parte da questa constatazione, da questo "capolinea" cui è giunto il percorso di questi quarant'anni. E cercherò di rispondere alle seguenti domande: come e perché si è giunti a questa radicalizzazione del confronto/scontro? In quale condizione si trova oggi [l'insegnamento di] HV?
1. Ragioni della radicalizzazione
La radicalizzazione del confronto con l'HV è uno dei molti aspetti del confronto che la proposta evangelica oggi vive con la post-modernità occidentale.
Esso non avviene più, almeno principalmente, sul piano della prassi: è ragionevole, è possibile praticare ciò che la proposta cristiana esige o proibisce.
Lo scontro avviene sul piano veritativo. Il cristianesimo non dice la verità circa il bene dell'uomo, poiché il discorso religioso come tale non ha rilevanza veritativa. Il cristianesimo, allo stesso modo di ogni altra proposta religiosa, fa parte ad uguale diritto del "super-market delle religioni": ciascuno prende il prodotto secondo le sue preferenze, senza possibilità di una ragionevole argomentazione capace di giustificare la scelta in modo condivisibile. La proposta cristiana non ha, perché non può avere, possibilità di stringere amicizia colla ragione. La domanda: il cristianesimo è una religione vera? Ha lo stesso senso che la domanda: di che colore sono le sinfonie di Mozart? Verità e cristianesimo sono due categorie di genere essenzialmente diverso. L'uso della ragione, come facoltà del vero, non è da ritenersi conditio sine qua non di individuazione, comprensione e libera accoglienza del Dono divino.
Non voglio ora però procedere in una riflessione di carattere generale su questo tema che costituisce uno dei grandi temi e delle "grandi sfide" del Magistero di Benedetto XVI.
Vorrei piuttosto verificare come tutti i presupposti veritativi di carattere antropologico che sono alla base di HV siano stati progressivamente erosi. Questa erosione ha reso l'HV non impraticabile, ma impensabile; ne ha dimostrato la (supposta!) falsità.
Come è a voi noto, l'affermazione centrale di HV si fonda sulla (percezione della) presenza di un bene morale nel fatto che l'atto sessuale coniugale fertile sia al contempo unitivo e procreativo. La compresenza delle due capacità non è un mero dato di fatto, ma ha in se stessa una preziosità di carattere etico che esige di essere rispettata.
Questo atto di intelligenza si fonda su alcuni presupposti antropologici che devo solo telegraficamente richiamare.
Il primo. La persona umana è sostanzialmente una nella sua composizione di materia e spirito [«corpore et anima unus», dice il Concilio Vaticano II parlando dell'uomo] (cfr. Cost. past. Gaudium et spes 14,1, EV 1/1363). Pertanto il rapporto fra l'io-persona ed il corpo non è solo di proprietà [ho il mio corpo] e quindi di uso.
Il secondo. La dimensione biologica della sessualità umana è linguaggio della persona, dotato di un suo significato proprio, di una sua grammatica. Esistono gesti e comportamenti che nella loro dimensione fisica veicolano un senso spirituale. Se il bacio di Giuda ci sconvolge tanto profondamente, è perché il gesto del baciare ha un suo significato proprio: compierlo dandole un altro senso è avvertito come immorale e riprovevole.
Il terzo. La grammatica che regge il linguaggio della persona che è la sessualità, è la grammatica del dono di sé. Da ciò deriva che il rispetto di questa grammatica esige una profonda, intima integrazione fra eros e agape, fra pathos, eros e logos.
Ora, la mia convinzione è che tutti e tre questi presupposti sono stati nella post-modernità occidentale completamente erosi.
Il primo è stato demolito in una duplice direzione, affermando una natura senza libertà o una libertà senza una natura. È stato un processo molto complesso che ha visto e la progressiva riduzione della libertà a spontaneità e una visione della persona tendenzialmente materialista.
Il secondo è stato demolito dalla vittoria che l'etica utilitaristica ha ottenuto nell'Ethos occidentale. Essa nega l'esistenza di ragioni incondizionatamente e universalmente capaci di giustificare una scelta libera. La scelta libera è giustificabile solo "in relazione a..." []situazione storica, condizione personale ...]. La conseguenza di questa vittoria è che nell'ambito dell'esercizio della sessualità tutto alla fine è diventato giustificabile, purché sia liberamente voluto.
Il terzo presupposto appare ampiamente demolito nel vissuto attuale in cui pathos, logos, ethos sono ormai completamente separati. Ed è questo il nodo che l'etica contemporanea si dimostra sempre più incapace di sciogliere.
Concludo questo secondo punto. Esso ha sostenuto la seguente tesi: l'HV nella post-modernità è diventata ormai incomprensibile perché è diventata completamente impensabile.
2. Condizione attuale di HV
Ad una lettura più profonda di tutta la vicenda tuttavia risulta che l'insegnamento di HV è la risposta, è l'indicazione della via d'uscita da una sorta di prigione in cui l'uomo stava chiudendo se stesso. Parlare dunque di attualità dell'HV, della sua rilevanza profetica non è retorica. È ciò che cercherò di mostrare in questo secondo punto della mia relazione.
Che l'uomo oggi sia in pericolo nella sua propria umanità, è difficile negare. Ed allora mi chiedo: che cosa oggi mette in pericolo l'humanitas della persona come tale? La mia risposta è: l'avere sradicato l'esercizio della libertà dalla [consapevolezza della] verità circa l'uomo. Posso formulare questa stessa risposta nel modo seguente: è la negazione che esista una natura della persona come criterio valutativo delle scelte della nostra libertà.
Che questa posizione metta a rischio l'humanum di ogni persona risulta dalle seguenti considerazioni.
Se prendiamo in considerazione la produzione delle norme di cui necessità ogni società [ubi societas ibi jus], se partiamo dal presupposto della negazione della natura nel senso suddetto, si deve pensare che la condizione sufficiente per costituire tutte le norme è esclusivamente il consenso delle parti, che normalmente si manifesta attraverso la votazione.
Inoltre l'iter che porta al consenso, sempre all'interno di quella negazione, può essere pensato e realizzato solo come una controversia tra rivali. Nel senso che i partecipanti alla deliberazione pubblica non hanno alcun referente che li obblighi preventivamente alla discussione pubblica. La controversia sulle ragioni proprie di ciascuno o è risolta sulla base che tutti e ciascuno sono radicati in un verum circa l'uomo, che li fa oltrepassare se stessi verso un bene umano comune, oppure è risolta con l'imposizione del proprio punto di vista, e alla fine dei propri interessi. Come disse il Santo Padre Benedetto XVI all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 aprile 2008: «il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l'applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti..... Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo».
La difesa della persona è affidata alla buona disposizione di chi esercita il potere [in tutti i sensi: anche il potere del "politically correct"], e viene tolta dalle coscienze la scriminante fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fra ciò che è prevaricazione morale dell'altro e riconoscimento dell'altro.
Possiamo prendere in considerazione anche la condizione della singola persona nel contesto della negazione di una sua natura.
È ancora pensabile la possibilità del male morale? Del male morale inteso come il modo di esercitare la propria libertà contro il bene di chi la esercita. Se infatti è la libertà stessa a decidere non di compiere il bene o il male, ma a stabilire che cosa è bene / che cosa è male; se attribuisco alla libertà il potere di determinare la verità delle sue scelte, parlare di male morale non ha senso. Il dramma della libertà - possibilità di negare colle proprie scelte ciò che si è affermato vero colla propria ragione - si trasforma in una farsa. Ciò che sembra essere esaltazione suprema della libertà è in realtà la sua degradazione a mero spontaneismo.
Quanto detto finora acquista un significato più profondo se pensiamo al potere tecnico di cui l'uomo è venuto in possesso in questi quarant'anni dalla pubblicazione di HV. Sradicare la libertà dalla verità, negare che esista una natura umana nel contesto di possibilità tecniche sempre più estese, rischia di consegnare l'humanum a prevaricazioni senza limiti. Affermare la relatività di ogni forma di umanità rischia di privare il potere tecnico di ogni criterio di giustizia. Ciò che sto dicendo non significa che dobbiamo scegliere fra tecnica ed etica. Ma che non possiamo radicare la tecnica in un'etica senza verità. O - il che equivale - umiliare e degradare la ragione a una mera "ratio technica". È una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI sta lanciando al mondo: o si allargano gli spazi della ragione o l'uomo è in pericolo mortale.
Che cosa ha a che fare tutta questa riflessione, qualcuno potrebbe chiedersi, con l'HV? Essa mostra in quale condizione oggi si trova [l'insegnamento di] HV: quale è il suo permanente significato; il suo permanente significato profetico. HV cioè si trova cioè nella condizione delle "sentinelle della città umana", della profezia.
Ho parlato di "natura della persona umana". Secondo l'antropologia giudaico - cristiana, il corpo entra nella costituzione della persona. La persona umana è persona - corpo [persona corporea]. Ne deriva che lo statuto ontologico della persona appartiene anche al suo corpo. La coscienza di sé non è disincarnata: è la coscienza di sé come soggetto - corpo. Ho la coscienza che è lo stesso io che comprende un teorema di matematica, e che mangia. Così come l'altro è conosciuto e ri-conosciuto nel e mediante il suo corpo. È il corpo il linguaggio della persona.
Da questa visione della persona - corpo e del corpo - persona, che ovviamente meriterebbe ben altro approfondimento, deriva una conseguenza di importanza fondamentale. Il corpo umano, mio e dell'altro, non è mai riducibile completamente ad un «oggetto»: da studiare, da manipolare. Se dal punto di vista metodologico mettere fra parentesi la qualità propriamente umana del corpo può essere fruttuoso di risultati cognitivi, non possiamo trasformare una scelta metodologica in una scelta di contenuto.
L'altra conseguenza di non minore importanza riguarda la concezione della sessualità umana: del suo logos e del suo ethos. La sua ratio - il suo logos - consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità è linguaggio della persona, e quindi espunge da sé ogni separazione fra biologia [del sesso] e relazionalità [della persona]. È l'unità di biologia e relazionalità che definisce la natura della sessualità umana; e la custodia di questa unità definisce l'ethos della sessualità umana.
La possibilità tecnica di separare nel versante della fertilità - scoperta della contraccezione chimica - fu chiaramente intuita da Paolo VI e come la negazione radicale del logos - ethos della sessualità umana e, soprattutto e come una "svolta epocale" nella costituzione del rapporto fra l'uomo e la tecnica. In questo sta il permanente valore profetico di quel documento. Vediamo le cose più in particolare.
Ho parlato di negazione radicale del logos - ethos della sessualità umana. La contraccezione chimica rendeva pensabile e praticabile un [supposto] vero atto di amore coniugale manipolando sostanzialmente la sua biologia. Veicolava nella coscienza dell'uomo e della donna l'idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo un qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una "misura di uso" che ora la tecnica poteva stabilire.
Se l'atto di porre le condizioni del concepimento di una persona non entrava nella costituzione della libera relazionalità intra-coniugale, era solo questione di tempo per dedurre che lo stesso atto poteva prescinderne completamente: dieci anni dopo, esattamente, nacque la prima bambina per fecondazione artificiale. La separazione della biologia dalla relazionalità era completa, ed un fatto compiuto.
Ho parlato di svolta epocale nella costituzione del rapporto uomo - tecnica. Il concepimento di una nuova persona si trasforma da «mistero» degno di venerazione in «problema» da risolvere. Paolo VI intuì che questa trasformazione rischiava di consegnare l'humanum come tale ad un destino tecnologico; rischiava di mettere l'humanum a disposizione di un potere di fatto senza limiti. La persona umana era a rischio di perdere la sua assoluta indisponibilità; di perdere la sua non negoziabilità.
Ci siamo chiesti: in quale condizione versa oggi l'HV? Mi sento di rispondere: di drammatica attualità.
3. Conclusione
Come ogni profezia, anche HV è dotata e di una grande forza e di una grande fragilità.
La sua fragilità fu dovuta dall'impreparazione e dalla inadeguatezza del pensiero etico teologico a sostenerne l'insegnamento. La problematica avrebbe dovuto essere affrontata con un'antropologia adeguata, una vera e proprio teologia del corpo, un ripensamento personalista della categoria di legge naturale: di tutto questo difettava l'etica teologica del tempo.
Il grande Magistero di Giovanni Paolo II espresso nel ciclo di catechesi sull'amore umano, ha risposto a queste esigenze. Che ora il profondo Magistero di Benedetto XVI sull'agape e sul suo rapporto con l'eros ha ulteriormente approfondito. Ma di tutto questo parlerà il prof. Melina.
La forza della profezia di HV consiste precisamente nel suo mettere in guardia l'uomo da un potere che potrebbe devastarne la dignità; dal mettere la propria umanità "a disposizione" e di una libertà e di una deliberazione pubblica che non riconosce più l'esistenza di una verità circa l'uomo.
La forza di HV potrà mostrare la sua efficacia solo se uomini e donne non vorranno congedarsi dalla condizione drammatica in cui l'uomo si trova: poter negare colla sua scelta la verità circa se stesso affermata dalla ragione. E il "foglio di congedo" può essere o la negazione della libertà ridotta a spontaneità o la negazione della verità circa l'uomo.
Ed allora la sfida più urgente è quella educativa: aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, ad essere veramente liberi e liberamente veri.


05/10/2008 12:28 – IRAQ - Mosul, la strage senza fine dei cristiani iracheni
Ieri altri due nuovi attacchi contro la comunità cristiana: uccisi il proprietario di un negozio di abbigliamento e un ragazzo di soli 15 anni. Una fonte di AsiaNews denuncia il clima di “panico” che si respira in città e “l’indifferenza dei media” che fanno passare “sotto silenzio” le stragi.

Mosul (AsiaNews) – Nuovo attacco contro i cristiani a Mosul: ieri pomeriggio un gruppo armato ha assassinato Hazim Thomaso Youssif, di 40 anni. L’agguato è avvenuto di fronte al negozio di abbigliamento di sua proprietà, a Bab Sarray; non si conosce ancora l’identità del commando omicida, ma si sospetta che vi sia la mano dei fondamentalisti islamici, in una città da tempo teatro di uccisioni contro la comunità cristiana.
Nello stesso giorno è stato ucciso un altro ragazzo di soli 15 anni, Ivan Nuwya, anch’egli di fede cristiana. Il giovane è stato freddato a colpi di arma da fuoco davanti alla sua abitazione nel quartiere di Tahrir, di fronte alla locale moschea di Alzhara.
Una fonte di AsiaNews a Mosul denuncia ad “il clima di panico” nel quale vive la comunità cristiana, le cui stragi continuano “nell’indifferenza” dei media che “non riportano nemmeno i crimini che vengono commessi". Parlando della realtà di Mosul, la fonte sottolinea che la città “è diventata l’olocausto dei cristiani” e non si vedono segni di miglioramento nonostante gli sforzi compiuti nella lotta al terrorismo.
Si fa sempre più grande il tributo di sangue versato dalla diocesi di Mosul in questi ultimi anni, a partire dal tragico rapimento di mons. Paulo Farj Rahho, il cui corpo è stato rinvenuto privo di vita il 13 marzo scorso in un terreno abbandonato poco fuori la città. Durante l’agguato che ha preceduto il sequestro del presule sono morti i tre uomini che erano con lui e fungevano da scorta, massacrati dai terroristi.
Nel 2007 i morti registrati nella comunità cristiana irachena sono stati 47, di cui almeno 13 solo a Mosul: fra di loro ricordiamo p. Ragheed Gani trucidato il 3 giugno, e altri due preti.
Tra il 6 e il 17 gennaio di quest’anno, inoltre, si sono succeduti una serie di attacchi contro beni e proprietà cristiani, quando un’ondata di attacchi bomba ha colpito: la chiesa caldea della Vergine Immacolata, quella caldea di San Paolo, quasi distrutta, l’entrata dell’orfanotrofio gestito dalle suore caldee ad al Nour, una chiesa nestoriana e il convento delle suore domenicane di Mosul Jadida.
L’ultimo episodio di violenza risale invece al 2 settembre scorso, quando si è concluso in maniera tragica il rapimento di un medico 65enne Tariq Qattan, rapito e ucciso nonostante la famiglia avesse sborsato una somma di 20mila dollari per il rilascio. Due giorni prima era stato rapito e ucciso un altro cristiano, Nafi Haddad. (DS)


Il problema non è maestro unico o più maestri, ma che ci siano dei veri maestri - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 ottobre 2008
Il dibattito di questi giorni sulla riforma Gelmini rischia, come sempre, di non centrare la questione decisiva dell’esperienza educativa, riducendosi a una sterile contrapposizione ideologico-politica.
L’altra mattina un’insegnante di liceo, entrando in classe tutta infuriata col Ministro Gelmini e la sua proposta di riforma della scuola, è sbottata: “Ma cosa pretende da noi insegnanti questo ministro, che diventiamo educatori? Ma noi non siamo educatori, siamo dei professionisti della nostra disciplina!”
Io vorrei dire a questa collega: quando tu dici a uno studente: “Studia, perché rischi”, o “Stai attento, non disturbare!”, “Ma vuoi ascoltare quello che spiego?”, svolgi il tuo ruolo di professionista della materia, o operi un intervento sulla persona? Suggerire che vale la pena studiare e ascoltare, piuttosto che essere distratto o indifferente non è un atto educativo?
La situazione della scuola oggi è drammatica, non perché il Ministro vuole fare dei tagli dell’organico, vuole introdurre il voto in condotta che fa media, o il maestro unico, ma perché vive una crisi di identità che è la più grave da quando la scuola moderna esiste.
L’altro giorno una alunna mi diceva: “Prof, mi è tornata la voglia di studiare da quando mi sono sentita stimata come persona”.
Vorrei dire a quell’insegnante: ma la passione per la tua materia ti è nata ascoltando un registratore, davanti a un computer o perché qualcuno, dimostrandoti la sua stima, te l’ha spiegata con intensità, passione, autorevolezza, aiutandoti a cogliere il senso di quello che ti diceva, a scoprire il senso di te e delle cose che ci circondano, a scoprire la grandezza del tuo io, così come emerge dalla millenaria cultura che abbiamo ereditato dai “giganti” del passato?
Nella scuola c’è bisogno di adulti che desiderano continuare, sviluppare il proprio cammino di conoscenza che avviene solo in un rapporto, non è mai qualcosa di asettico, di neutrale, è la mia umanità che si incontra con l’umanità di chi è giovane, e si incontra e confronta con l’umanità di Dante, di Foscolo, di Leopardi, di Montale.
Io insegno italiano e la scoperta che faccio ogni giorno è entusiasmante: gli studenti desiderano capire la loro umanità, il loro io: desideri, attese, domande spesso drammatiche (che senso ha la morte, il dolore? Esiste la felicità?), dubbi, contraddizioni, paragonandosi all’umanità del loro insegnante, provocati e sfidati dall’umanità dei “giganti” del passato.
La scuola di oggi è in crisi perché molti che la frequentano paradossalmente è come se la negassero, come se negassero la sua identità e il suo scopo, è come se per assurdo la scuola insegnasse che non deve esserci scuola, cioè incontro fra l’umanità dell’insegnante e l’umanità del giovane. Dove il rapporto è reale, vero, la gente diventa grande!
E’ incredibile quel che succede normalmente, perché ogni giorno lo studente ci chiede questo, anche il più distratto, il più menefreghista, il più superficiale, perché non è possibile cancellare del tutto il proprio io.
Tra i giovani di oggi serpeggia una fame incredibile di maestri, di qualcuno che abbia qualcosa da dire in merito alle questioni più vive e pressanti dell’esistenza, di un insegnamento che lasci realmente un segno nella loro vita. Questo tanto più oggi, in cui ogni comunicazione sembra banale!
Il dibattito di questi giorni sulla riforma Gelmini rischia, come sempre, di non centrare la questione decisiva dell’esperienza educativa, riducendosi a una sterile contrapposizione ideologico-politica.
Per dirla con uno slogan che riprende uno dei temi più dibattuti: “Il problema non è maestro unico o più maestri, ma che ci siano dei veri maestri”, come si diceva.
In questi giorni, assieme ad alcuni studenti di Varese, abbiamo diffuso un volantino: “La riforma comincia da te”, da te studente, da te insegnante. Di fronte alla sterile contrapposizione: maestro unico sì o no, voto di condotta sì o no, tagli sì o no, abbiamo voluto dire che c’è ancora gente che non è disposta a delegare la propria vita, le proprie scelte e in particolare la sete di conoscenza e di capacità di giudizio, a un potere che non vuole fare i conti con persone che hanno una identità, una storia, un ideale, che non hanno rinunciato ai loro desideri e alle loro domande anche sui banchi di scuola. Speriamo che anche altri si mobilitino in questa azione di resistenza a un tentativo di svuotare totalmente la scuola della sua identità. Il punto di partenza di questa resistenza non sono degli slogan ideologici contrapposti, ma una esperienza quotidiana in atto che continuamente interessa, affascina e aggrega persone giovani e adulte.
Questi sono i luoghi di resistenza a una deriva ideologica e insensata della scuola italiana.
Sono grato a “Culturacattolica” che diffonde queste esperienze. Se il ministro della P.I. le volesse conoscere e incontrare assisteremmo anche a un cambiamento dell’azione politica... Speriamo!


Eurobond: una soluzione alla crisi finanziaria, senza aumentare le tasse - Mario Mauro - lunedì 6 ottobre 2008
Dopo la preoccupazione espressa dal Presidente della Commissione europea Barroso e il grido d'allarme arrivato dal Presidente della BCE, Jean Claude Trichet, che per la prima volta ha ammesso che «l'economia di Eurolandia si sta indebolendo», è ormai più di una minaccia il fatto che la crisi finanziaria avrà un forte impatto sull'economia europea.
Il piano di salvataggio americano darà certamente un po' di respiro al sistema finanziario mondiale, ma da solo non basterà per uscire da una crisi profonda, che partita dagli Stati uniti ha interessato anche il mondo finanziario europeo, con il crollo di alcuni colossi bancari come la belga Fortis e la britannica B&B.
Occorre che l'Europa si assuma la responsabilità della ripresa, nella quale la Commissione europea, insieme alla Banca europea degli investimenti e alla Banca Centrale europea devono dimostrare serietà, ma anche coraggio per evitare che la crisi si ripercuota sulle pensioni, sull'occupazione e sulla crescita.
Dati i vincoli della politica monetaria, che il Trattato lega al mantenimento della stabilità dei prezzi, e la situazione eterogenea dei bilanci pubblici degli Stati membri, che impediscono uno stimolo di politica fiscale comune, abbiamo bisogno di strumenti nuovi, che diano vita a risorse nuove, altrimenti difficilmente si riusciranno ad evitare contraccolpi sugli obiettivi contenuti nella "Strategia di Lisbona". Strategia varata con l'obiettivo espressamente dichiarato di fare dell'Unione Europea la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010.
Nell'odierno contesto di crisi l'obiettivo sembra allontanarsi e si rivela necessario rilanciare la competitività dell'Unione Europea e della zona euro nel contesto internazionale, attraverso l'Introduzione di nuovi strumenti finanziari che possano dare un nuovo slancio alla crescita e alla produttività europea. Nuovi strumenti che ci permettano di colmare le lacune e superare le difficoltà attuali. L'Europa ha bisogno di una nuova partenza.
Per questo motivo, insieme al collega Gianni Pittella, ho presentato una Dichiarazione scritta al Parlamento europeo dal titolo "Eurobond, nuova strategia per la crescita", con la quale chiediamo alle Istituzioni europee di dare nuovi strumenti, e quindi nuovo impulso, agli investimenti strategici europei con priorità a quelli indirizzati all'ambito delle energie alternative, nella ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano, reti trans-europee di trasporto, banda larga.
Sarebbero immediatamente percepibili i vantaggi di questa proposta, che a dire il vero affonda le sue radici nello storico "Piano Delors" concepito tra il 1993 e il 1994. Una proposta avanzata poi a più riprese, seppur con formulazioni differenti, dai ministri Tremonti e Brunetta.
Cosa sono gli Eurobond? Storicamente, la definizione originaria di Eurobond è quella di un’obbligazione denominata nella valuta di un paese ma emessa al di fuori del paese.
Ad esempio, pensiamo ad un Eurobond denominato in dollari che sia stato emesso al di fuori degli Stati Uniti, oppure si pensi alle obbligazioni in dollari e marchi tedeschi emessi dalla Russia; un’altra possibilità sono le obbligazioni in lire emesse dalla Repubblica Argentina.
In questo contesto, la definizione di Eurobond va invece intesa come uno strumento di raccolta di capitale di debito che, a differenza delle altre fonti di finanziamento comunitario come la risorsa Iva, o il prodotto nazionale lordo, non presenta un legame "nazionale" evidente, in quanto collegato al bilancio comunitario. Caratteristica quest'ultima che li esclude dalle battaglie tra i Paesi europei sui saldi netti. Considerando che la sottoscrizione degli Eurobond è volontaria, il loro utilizzo permetterebbe di effettuare di volta in volta una sorta di "test di mercato" dell'iniziativa europea che finanziano. In pratica servirebbero anche da "cartina di tornasole" rispetto alla qualità dei progetti proposti dall'Unione europea.
Per introdurre gli Eurobond, come fonte di finanziamento collegata al bilancio comunitario, si potrebbe pensare a strumenti di garanzia, simili al già esistente strumento di garanzia dei prestiti per i progetti della rete transeuropea dei trasporti finanziato per 1 miliardo di euro da Banca europea degli Investimenti e Bilancio Europeo (al 50%), oppure a strumenti di debito veri e propri. In questa seconda ipotesi la garanzia del debito sarebbe offerta dallo stesso bilancio comunitario con la Banca Centrale Europea a fare da "controllore" dall'attività.
A farsi carico dell'emissione dell'Eurobond potrebbero essere o la Commissione europea o la Banca europea degli investimenti (BEI). Quest'ultima è senz'altro da considerarsi l'ipotesi più probabile, se non addirittura la strada maestra.
Per entrambe queste ipotesi non si tratterebbe di introdurre una nuova "tassa europea". Non sarebbero, infatti, i contribuenti ad essere interessati da tale operazione, ma i risparmiatori.
È il momento giusto per dare seguito ad una soluzione che si sta rivelando sempre più indispensabile per la crescita dell'Economia europea.


SCUOLA/ La vera razionalizzazione del sistema? Puntare sulla libertà di scelta delle famiglie - Redazione - lunedì 6 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Il dibattito parlamentare in corso sul decreto del Ministro Gelmini, con il possibile ricorso al voto di fiducia, rischia di avere conseguenze negative sul mondo della scuola. Una situazione resa ancora più grave dal fatto che i mezzi di informazione, al posto di fare chiarezza, soffiano sul fuoco alimentandolo ideologicamente. Senza una decisa marcia indietro che riporti il confronto sulla questione scuola dentro i binari di una collaborazione critica e costruttiva, quelli che ci aspettano saranno mesi di muro contro muro; le conseguenze negative saranno gli studenti a pagarle, non certo i sindacati, e tanto meno gli editorialisti che parlano spesso di scuola senza sapere di che si tratta.
Urge chiarire che in gioco c'è il futuro della scuola, non come la voglia la destra né come la voglia la sinistra, ma della scuola in quanto tale con la sua funzione didattica ed educativa. Per lavorare per la scuola e non per la propria idea di scuola si impone una svolta decisiva: il mondo politico si deve mettere nell'ottica non di imporre la sua concezione pedagogica, come ha fatto per anni provocando un'altalena dannosissima, ma di fare in modo che dentro la scuola ci sia libertà per tutti.
La cosiddetta questione del maestro unico - di fatto maestro prevalente - è un esempio significativo in tal senso. Il mondo politico e sindacale non può continuare nella direzione di imporre l'una o l'altra scelta, gli uni sostenendo che la miglior pedagogia dell'universo sia il maestro unico, gli altri la pluralità di riferimenti e il tempo pieno come conquista popolar-democratica.
Altro grave errore è quello di voler indire referendum tra gli insegnanti chiedendo loro se sia meglio un riferimento o più riferimenti. È una strada vecchia, questa, ed è quella della pedagogia di stato che tanto male ha fatto alla scuola italiana. Bisogna da subito andare in direzione opposta e garantire ai genitori il tipo di scuola che preferiscono per i loro figli: tra loro c'è chi vuole il maestro unico, c'è chi vuole più riferimenti, c'è chi vuole un accorciamento del tempo scuola, chi vuole invece il tempo pieno. Ebbene, la politica non ha il diritto di stabilire quale sia la miglior scuola possibile, ma di garantire una pluralità di scelte così che i genitori che vogliono per i loro figli il maestro unico lo possano avere,come possano avere più maestri quei genitori che ritengano questa soluzione il meglio per i loro figli.
In tempi di razionalizzazione come quello cui stiamo andando incontro la scelta più ragionevole è quella di reimpostare la scuola in termini di libertà; altrimenti ci perderemo tutti.
(Gianni Mereghetti)