Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini
2) Discorso del Cardinale Bertone all'incontro su “Il secolo delle fedi”
3) I Vescovi italiani: né eutanasia né accanimento terapeutico - Respinto ogni cedimento alla cultura dell’autodeterminazione
4) 01/10/2008 09:05 - RUSSIA-GEORGIA-UE - Osservatori Ue cominciano la missione in Georgia - Mentre le truppe russe si ritirano, gli osservatori disarmati non potranno entrare nelle zone-cuscinetto attorno alla Sud Ossezia e all’Abkhazia. Si attende una conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione del Paese. La guerra ha fatto migliaia di morti e 200 mila profughi.
5) In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini - L'uomo supera infinitamente l'uomo, L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2008
6) 30 settembre 2008 - La rivolta di repubblicani e democratici affonda il piano di salvataggio pubblico di Wall Street -No al “socialismo in un solo paese” - La socializzazione delle perdite considerata unamerican. Le conseguenze, di Giuliano Ferrara
7) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: la legge deve garantire il diritto alla cura - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Il monito super partes di Napolitano: basta con la difesa dello status quo - Renato Farina - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) SOCIETÀ LIQUIDA/ Barcellona: dietro la maschera della falsa libertà si cela il pensiero unico - INT. Pietro Barcellona - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) Dai Banchi di solidarietà la storia di un'amicizia nata dalla condivisione di un bisogno - Redazione - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini
Il giovane Ratzinger lo ebbe come maestro e da allora non ha cessato di ispirarsi al suo pensiero. A quarant'anni dalla scomparsa del grande intellettuale italo-tedesco, un'analisi del suo influsso sull'attuale papa
di Sandro Magister
ROMA, 1 ottobre 2008 – In questo stesso giorno, quarant'anni fa giusti, a Monaco di Baviera moriva Romano Guardini (1885-1968), il filosofo e teologo italo-tedesco che la sua biografa Hanna-Barbara Gerl definì "un Padre della Chiesa del XX secolo".
I libri di Guardini hanno nutrito la parte più viva del pensiero cattolico del Novecento. E tra i suoi allievi ve ne fu uno speciale, oggi papa. È Joseph Ratzinger, che quand'era studente, poco più che ventenne, ebbe modo non solo di leggere ma anche di ascoltare dal vivo colui che elesse come suo grande "maestro".
Da teologo, da cardinale e anche da papa, Ratzinger ha confessato più volte, nei suoi libri, di voler proseguire sulle strade aperte da Guardini. In "Gesù di Nazareth" dichiara fin dalle prime righe d'avere in mente un classico del suo maestro: "Il Signore". E in "Introduzione allo spirito della liturgia" mostra fin dal titolo di ispirarsi a un capolavoro dello stesso Guardini, "Lo spirito della liturgia".
Nel quarantennale della scomparsa, in Italia, in Germania e in altri paesi europei saranno a lui dedicati simposi, seminari, convegni che cercheranno di analizzare il suo straordinario contributo al pensiero filosofico e teologico.
Ma uno dei campi più interessanti da esplorare è l'intreccio tra la biografia e il pensiero di Guardini e quelli dell'attuale pontefice.
È quanto fa nel saggio che segue uno dei maggiori esperti in materia, Silvano Zucal, professore di filosofia all'Università di Trento e curatore dell'edizione critica integrale delle opere di Guardini, edita in Italia dalla Morcelliana.
L'articolo è uscito sull'ultimo numero di "Vita e Pensiero", la rivista dell'Università Cattolica di Milano.
Ratzinger e Guardini, un incontro decisivo, di Silvano Zucal
In questo saggio vorremmo porre l'attenzione sul rapporto tra Romano Guardini e Joseph Ratzinger, ora papa Benedetto XVI. Il quale ha definito Guardini una "grande figura, interprete cristiano del mondo e del proprio tempo" e a Guardini torna spesso in quasi tutti i suoi scritti.
In realtà, per Ratzinger, quella di Guardini è una voce ancora attuale che semmai va resa nuovamente udibile. Il pensatore italo-tedesco infatti non ha scritto solamente molti libri tradotti in molte lingue, ma nel suo tempo è riuscito a plasmare un'intera generazione, la generazione alla quale lo stesso pontefice si sente di appartenere.
Prima di addentrarci compiutamente nella visione di Guardini, riproposta dall'attuale pontefice, soffermiamoci sul sorprendente intreccio biografico delle due personalità.
Nel viaggio di Benedetto XVI a Verona del 19 ottobre 2006 si è disvelato un "incontro" particolare tra i due. Non si può infatti dimenticare che Verona è la città che il 17 febbraio 1885 ha dato i natali a Guardini. E con grande commozione il papa ha ricevuto in dono proprio a Verona una copia dell'atto battesimale di Guardini, il cui battesimo era avvenuto nella chiesa di San Nicolò all'Arena. C'è in tal senso un singolare incrocio di destini tra Romano Guardini e Joseph Ratzinger. Guardini se ne andrà fin dalla primissima infanzia dall'Italia e diventerà "tedesco" per formazione intellettuale e spirituale. Dopo gli anni dell'insegnamento a Berlino dal 1923 al 1939, nel secondo dopoguerra, dopo i tre anni di docenza a Tubinga dal 1945 al 1948, egli insegnerà ininterrottamente "christliche Weltanschauung", visione cristiana del mondo, a Monaco di Baviera. La città elettiva di Guardini è quindi proprio Monaco, dove appunto morirà nel 1968.
Ratzinger compirà esattamente il cammino inverso. Dopo l'insegnamento di dogmatica e di teologia fondamentale presso la Scuola superiore di Frisinga, egli continuerà la sua attività di insegnamento a Bonn (1959-1969), la città della formazione e degli esordi di Guardini, a Münster (1963-1966) e infine a Tubinga per un triennio (1966-1969) come accadrà proprio allo stesso Guardini. Dal 1969 Ratzinger insegna invece dogmatica e storia dei dogmi presso l'Università di Ratisbona, ma il 25 marzo 1977 papa Paolo VI lo nominerà arcivescovo di Monaco e Frisinga. Come già per Guardini, Monaco sembrava anche per Ratzinger la tappa definitiva.
Invece le due strade si divaricano. Se il filosofo veronese sarà chiamato per sempre al Nord, in quella Monaco che egli tanto amava perché la sentiva come una sorta di città-sintesi in cui anche la sua anima italiana poteva trovarsi a casa, il teologo tedesco vedrà invece il Sud come destino. E non tornerà più a casa anche quando il desiderio del ritorno alla sua Baviera era impellente e sembrava poter essere soddisfatto. Roma e l'Italia diventeranno la sua definitiva "patria" spirituale.
Al di là di questi itinerari insieme incrociati e opposti nelle direzioni, queste due figure straordinarie avranno modo di incontrarsi anche personalmente. Ratzinger sarà non solo lettore di Guardini ma anche in qualche occasione "uditore", come lo era stato a Berlino anche il grande teologo Hans Urs von Balthasar. Negli anni che vanno dal 1946 al 1951 – proprio gli stessi anni in cui Ratzinger studiava presso la Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga, nelle immediate vicinanze della capitale bavarese, e poi all'Università di Monaco – Guardini assume in quella stessa città, nell'università e nella Chiesa di Monaco, quel ruolo di leadership intellettuale e spirituale che tutti gli riconoscono. Per Ratzinger, allora poco più che ventenne, il fascino di una figura come quella di Guardini è indiscutibile e ne segnerà fortemente il suo stesso profilo intellettuale. Quando, a partire dal 1952, egli inizia la sua attività didattica nella medesima Scuola di Frisinga dove era stato studente, l'eco delle lezioni di Guardini arrivava ben forte nella cittadina, che respirava quanto di culturale e intellettuale accadeva nella vicina capitale bavarese. E il rapporto intellettuale tra il futuro Papa e il "maestro" Guardini si fece straordinariamente intenso.
Sono infatti molteplici gli elementi che accomunano i due pensatori, che diventeranno poi figure decisive della Chiesa del Novecento. Se l'uno diventerà cardinale e poi papa, anche a Guardini verrà offerto il cardinalato a cui poi rinuncerà. Entrambi sono preoccupati di ritrovare l'essenziale del cristianesimo cercando di rispondere alla provocazione di Feuerbach. Su questo Guardini scriverà nel 1938 la splendida opera che porta il titolo "L'essenza del cristianesimo", mentre Ratzinger dedicherà al tema la sua "Introduzione al cristianesimo" scritta nel 1968, indubbiamente la sua opera più celebre e anche, con ogni probabilità, la più importante.
Egualmente accomuna i due la preoccupazione per la Chiesa, il suo senso e il suo destino. Se Guardini profetizzava nel 1921 che "un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze", in modo più drammatico Ratzinger si poneva con eguale radicalità il problema ecclesiologico a partire da quello che egli riteneva l'avvenuto capovolgimento della tesi guardiniana: "Il processo di grande portata è che la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità".
Basti pensare, in tal senso, alla vastissima risonanza che ebbe l'accorato intervento pronunciato da Ratzinger il 4 giugno 1970 all'Accademia cattolica bavarese di Monaco davanti a mille persone sul tema "Perché oggi sono ancora nella Chiesa?". Egli disse allora: "Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano: poiché non si può credere da soli. Si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa".
Analoga anche la preoccupazione dei due per il futuro di un'Europa che tende a ripudiare il suo passato. Basti pensare alle lezioni sull'Europa di Guardini e agli interventi di Ratzinger, che anche da papa ha voluto ricordare il senso dell'Europa e delle sue radici, ritenendo l'Europa "un'eredità vincolante per i cristiani".
LA QUESTIONE LITURGICA
Un punto cruciale d'incontro tra l'attuale papa e Guardini è indubbiamente la liturgia. Entrambi sono uniti dalla comune passione per essa. Per chiarire il suo debito nei confronti di Guardini, Ratzinger titolò il suo libro sul tema liturgico, uscito nella festa di sant'Agostino del 1999 e che ebbe uno straordinario successo (4 edizioni in un anno), "Introduzione allo spirito della liturgia", proprio ricordando il celebre "Lo spirito della liturgia" di Guardini uscito nel 1918.
Scrive lo stesso Ratzinger nella premessa al suo libro: "Una delle mie prime letture dopo l'inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l'opera prima di Romano Guardini 'Lo spirito della liturgia', un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana 'Ecclesia orans', a cura dell'abate Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Quest'opera può, a buon diritto, essere ritenuta l'avvio del movimento liturgico in Germania. Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera 'essenziale' (termine assai caro a Guardini); la si voleva comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita".
E il confronto prosegue. Ratzinger paragona il proprio intento a quello di Guardini e lo ritiene del tutto coincidente nello spirito anche se in un contesto storico radicalmente diverso: "Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora — nel 1918 — per certi aspetti simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e — in maniera definitiva — grazie al Concilio Vaticano II, l'affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure".
Dopo la ripulitura dell'affresco, però, il problema dello "spirito della liturgia" per Ratzinger oggi si ripropone. Rimanendo nella metafora: per l'attuale papa diversi ed errati tentativi di restauro o di ricostruzione, disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, hanno fatto sì che l'affresco sia stato messo gravemente a repentaglio e minacci di rovinare se non si prendono le misure necessarie per porre fine a tali dannosi influssi. Non si tratta per Ratzinger di tornare al passato e infatti egli dice: «Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del messaggio liturgico e della sua realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina. Questo libro vorrebbe proprio rappresentare un contributo a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzioni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica". E anche nel prosieguo del testo, soprattutto nel primo capitolo, egli si confronta con le tesi di Guardini e con la sua celebre definizione della liturgia come "gioco".
Nell'intervento commemorativo del 1985 Ratzinger si soffermava invece sulla fondazione storico-filosofica del rinnovamento liturgico proposto da Guardini. Nell'opera "Formazione liturgica" del 1923 il filosofo salutava con spirito liberatorio la fine dell'epoca moderna giacché essa aveva rappresentato lo sfacelo dell'essere umano e, più in generale, del mondo, una divaricazione schizofrenica tra una spiritualità disincarnata e menzognera e una materialità abbrutita che è solo uno strumento nelle mani dell'uomo e dei suoi obiettivi. Si aspirava al "puro spirito" e si incappò nell'astratto: il mondo delle idee, delle formule, degli apparati, dei meccanismi e delle organizzazioni. L'allontanamento dal moderno coincideva in Guardini – sottolineava Ratzinger – con l'entusiasmo rivolto al paradigma medievale ben illustrato nel libro del martire del nazismo Paul Ludwig Lansberg, "Il Medioevo e noi", uscito nel 1923. Ciò non significava per Guardini abbandonarsi a un romanticismo del Medioevo ma coglierne la permanente lezione. Nell'atto liturgico è il vero autocompimento del cristiano e allora nella lotta sul simbolo e sulla liturgia ciò che è in gioco – annota Ratzinger sulla scia della lezione di Guardini – è il divenire stesso dell'uomo nella sua dimensione essenziale.
Il futuro papa andrà poi anche a soffermarsi sulle affermazioni espresse da Guardini nella famosa sua lettera inviata nel 1964 ai partecipanti al terzo Congresso liturgico di Magonza, che conteneva la celebre domanda: "L'atto liturgico, e con esso soprattutto quello che si chiama 'liturgia', è forse tanto storicamente vincolato all'antichità o al Medioevo che per onestà lo si dovrebbe oggi abbandonare del tutto?". Una domanda che nascondeva in realtà un quesito drammatico: l'uomo del futuro sarà ancora in grado di compiere l'atto liturgico che richiede un senso simbolico-religioso ormai in estinzione oltre che la sola obbedienza della fede?
Senza più il pàthos ottimistico della prima ora, Guardini intravedeva il volto del postmoderno con tratti ben diversi da quelli da lui in precedenza auspicati. Un vero e proprio choc spirituale dovuto alla civilizzazione tecnica invasiva di tutto, come già testimoniavano le sue "Lettere dal Lago di Como" del 1923. Per questo, sottolinea Ratzinger, "qualcosa della difficoltà degli ultimi tempi si trova, nonostante la gioia per la riforma liturgica del Concilio sviluppatasi a partire dal suo lavoro, nella sua lettera del 1964. Guardini esorta i liturgisti radunati a Magonza a prendere sul serio l'estraneità di coloro che considerano la liturgia come non più eseguibile e a riflettere su come si possa — se la liturgia è essenziale — avvicinarli a essa".
L'OPZIONE TEOLOGICA FONDAMENTALE
Guardini, ricorda Ratzinger, si trovò nel pieno del dramma della crisi modernista. Come ne uscì? Fedele alla lezione del suo primo maestro, il teologo di Tubinga Wilhelm Koch, ma anche attento ai limiti e ai rischi di quella prospettiva, andò alla ricerca di un nuovo fondamento e lo trovò a partire dalla sua conversione. "La breve scena — sottolinea il futuro papa — di come Guardini dopo la perdita della fede penetra di nuovo in essa, ha qualcosa di grande ed emozionante proprio nella modestia e semplicità con cui egli descrive il processo. L'esperienza di Guardini nella mansarda e sul balcone della casa dei genitori mostra una somiglianza davvero stupefacente con la scena del giardino nel quale Agostino e Alipio trovarono l'apparizione della propria vita. In entrambi i casi si schiude la parte più interiore di un uomo, ma nel guardare all'interno di ciò che vi è di più personale e più nascosto, nell'ascoltare il battito del cuore di un uomo, si percepisce a un tratto il rintocco della storia più grande, poiché è l'ora della verità, perché un uomo ha incontrato la verità".
Un incontro non più con Dio inteso in senso universale ma con "il Dio in concreto". In quel momento Guardini, sottolinea Ratzinger, capì che teneva in mano tutto, la sua vita intera, e disponeva di essa e anzi doveva disporne. La scelta fu quella di dare la sua vita alla Chiesa e da qui viene la sua opzione teologica fondamentale: "Guardini era convinto che solo il pensare con il soggetto Chiesa renda liberi e, soprattutto, renda possibile la teologia. Programma che oggi è nuovamente di attualità e dovrebbe essere preso in considerazione nel modo più approfondito, come richiesta alla teologia moderna".
Per Guardini una conoscenza teologica costruttiva non può mai realizzarsi allorché Chiesa e dogma appaiono soltanto "come limite e chiusura". Di qui il suo motto provocatorio, dal punto di vista teologico: "noi eravamo decisamente non liberali", motto che allude al fatto che per lui la Rivelazione divina si poneva come criterio ultimo, "fatto originante" della conoscenza teologica, e la Chiesa ne era la "sua portatrice".
Il dogma diventava così l'ordinamento fecondo del pensiero teologico. Effettivo fondamento della sua teologia fu dunque l'esperienza della conversione, che per Guardini costituì il superamento dello spirito moderno e, in specie, della sua deriva soggettivistica post-kantiana. Per il nostro pensatore dunque "all'inizio non vi è la riflessione, bensì l'esperienza. Tutto ciò che si presentò più tardi come contenuti, è sviluppato a partire da questa esperienza originaria".
Nel descrivere la struttura fondamentale del pensiero di Guardini, il futuro papa si sofferma su quelle che, a suo dire, costituiscono le categorie principali all'interno dell'unità di liturgia, cristologia e filosofia.
Anzitutto il "rapporto tra pensiero ed essere". Un rapporto che implica l'attenzione alla verità stessa, la ricerca dell'essere dietro il fare. Basti pensare alle parole pronunciate da Guardini nella sua lezione di prova a Bonn: "Il pensiero sembra volersi di nuovo indirizzare adorante verso l'essere". Sulla scia di Nicolai Hartmann, di Edmund Husserl e soprattutto di Max Scheler, la proposta di Guardini, per Ratzinger, esprimeva "l'ottimismo per il fatto che ora la filosofia ripartiva come questione dei fatti stessi, un inizio che guidava del tutto da solo nella direzione delle grandi sintesi del Medioevo e del pensiero cattolico da esse formato". Per Guardini – sottolinea il futuro papa – la verità dell'uomo è l'essenzialità, la conformità all'essere, meglio ancora "l'obbedienza all'essere" che è anzitutto obbedienza del nostro essere di fronte all'essere di Dio. Solo in tal modo si perviene alla forza della verità, a quel primato determinante e orientativo del lògos sull'èthos su cui da sempre insisteva Guardini. Ciò che egli voleva, chiosa Ratzinger, era sempre "un nuovo avanzamento verso l'essere stesso, la richiesta dell'essenziale che si trova nella verità".
Con l'obbedienza del pensiero di fronte all'essere — di fronte a ciò che si mostra e che è — sono dunque emerse molte altre categorie del pensiero di Guardini, che così il futuro papa sintetizza: "L'essenzialità, alla quale Guardini contrappose una veridicità meramente soggettiva; l'obbedienza che consegue dal rapporto con la verità dell'uomo ed esprime il suo modo di diventare libero e di essere tutt'uno con la propria essenza; infine la priorità del lògos sull'èthos, dell'essere rispetto al fare.
A esse ne vanno aggiunte altre due che emergono dagli scritti metodologici di Guardini: il "concreto-vivente" e la "opposizione polare".
Il "concreto-vivente", oltre a essere una categoria generale del pensiero di Guardini, assume anche, secondo Ratzinger, una valenza cristologica: "L'uomo è aperto verso la verità, ma la verità non è in qualche luogo, bensì nel concreto-vivente, nella figura di Gesù Cristo. Questo concreto-vivente si dimostra come verità proprio attraverso il fatto che esso è l'unità dell'apparentemente contrapposto, poiché il lògos e l'a-lògon si uniscono in esso. Solo nel tutto sta la verità". "L'apparentemente contrapposto" è ciò a cui allude l'altra categoria metodologica fondamentale, quella della "opposizione polare" degli opposti che, nel mentre si oppongono, insieme si richiamano: silenzio-parola, individuo-comunità. Solo chi sa tenerli insieme può abbandonare ogni forma di pericoloso esclusivismo e ogni deleterio dogmatismo.
UN MONITO PER IL FUTURO
Il 14 marzo del 1978 l'Accademia cattolica bavarese assegnò il "Premio Romano Guardini" al presidente del Land di Baviera Alfons Goppel e a tenere la "Laudatio", come era prassi, venne chiamato Joseph Ratzinger nella sua qualità di presidente della conferenza episcopale bavarese. Fu un testo di straordinario spessore, in cui egli passò in rassegna le varie dimensioni del "politico": la politica come arte, l'appartenenza del politico a un territorio, la responsabilità verso lo Stato, il rapporto tra verità e coscienza in ambito politico.
In quest'ultimo passaggio Ratzinger riprese ancora una volta la lezione di Guardini: "In Germania abbiamo fatto esperienza del tiranno che manda a morte, bandisce e confisca. L'utilizzo senza coscienza della parola è una particolare specie di tirannia, che a suo modo manda a morte, confisca e bandisce altrettanto. Ci sono certamente anche oggi motivi sufficienti per esprimere simili ammonimenti e per richiamare le forze che siano in grado di impedire tale tirannia, che cresce a vista d'occhio. L'esperienza della sanguinaria tirannia di Hitler e lo stare all'erta di fronte a nuove minacce fecero diventare Romano Guardini, nei suoi ultimi anni, quasi contro il suo temperamento, un drammatico ammonitore sulla rovina della politica attraverso l'annullamento delle coscienze e lo spinsero a invitare a un'interpretazione giusta, non meramente teorica, bensì reale ed efficace del mondo secondo l'uomo che agisce politicamente in base alla fede".
Temi di tale rilievo Guardini andò a proporre nel mondo accademico tedesco da Berlino a Tubinga fino a Monaco. Rapporto controverso – afferma il futuro papa – quello del pensatore con l'università tedesca, che fin dai tempi della cattedra a Berlino lo portò a soffrire "per l'impressione di stare al di fuori del canone metodologico dell'università e da essa egli fu in effetti palesemente non riconosciuto. Si consolò con il pensiero che, con la propria lotta per comprendere, giudicare e dare forma, poteva essere il precursore di un'università che ancora non esisteva". Ratzinger fa qui un'annotazione che fa pensare alle recenti polemiche sulla mancata visita del papa all'Università di Roma "La Sapienza": "Va a favore dell'università tedesca il fatto che Guardini poté trovarvi spazio con tutto il proprio cammino e la poté sentire sempre di più come dimora della propria particolare vocazione". Solo il nazismo gli tolse provvisoriamente la cattedra e, memore di quel tragico evento, dopo la guerra — sottolinea il futuro papa — Guardini in un intenso intervento accademico sulla questione ebraica difese in modo appassionato l'università come il luogo dove si indaga sulla verità, dove gli affari e le vicende umane vengono misurati sui criteri del grande passato e senza l'assedio del presente, dove più dovrebbe essere desta la responsabilità per la comunità.
Non avrebbe trionfato il Terzo Reich, ci ricorda Ratzinger con le parole di Guardini, se l'università tedesca non avesse conosciuto il suo "sfacelo" dovuto alla rimozione della questione della verità da parte dei modelli accademici dominanti: "Guardini prese posizione, all'epoca, con un trasporto implorante che di solito sembrava essergli del tutto estraneo, contro la politicizzazione dell'università e la sua penetrazione da parte della regia dei partiti, delle chiacchiere delle assemblee, del chiasso della strada e ha gridato ai suoi ascoltatori: Signore e signori: non permettetelo! Si tratta di qualcosa che riguarda ciò che è comune a tutti noi, la storia futura".
Discorso del Cardinale Bertone all'incontro su “Il secolo delle fedi”
Religione e politica nell'era globale
ROMA, martedì, 30 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questo martedì dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, all'incontro-dibattito su “Il secolo delle fedi” tenutosi a Roma, a palazzo De Carolis, in occasione della presentazione del numero 42 della rivista “Aspenia”, il periodico trimestrale di politica internazionale dell'Aspen Institute Italia.
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Signor Presidente,
Signor Ministro,
Signore e Signori,
1. Ho accolto con piacere l’invito di Marta Dassù, Direttore di Aspen Institute Italia, e di altre importanti istanze istituzionali, a partecipare a questo incontro di altissimo livello, sul rapporto fra politica e religione nell’era globale.
Il tema, importante ed attuale, da tempo attira il mio interesse; in un certo senso è un argomento vasto come il mondo e, pertanto, ha coinvolto molti pensatori, uomini politici e uomini di Chiesa. Non vorrei, però, che qualcuno pensasse che, nel mondo globale, la Chiesa sta cercando di prevaricare sulla politica….pertanto, mi limiterò a condividere con voi alcune riflessioni ispiratemi dalla lettura dei ricchi e stimolanti dialoghi fra il Ministro Tremonti, Presidente di Aspen Institute Italia, ed il Presidente D’Alema, nonché fra il Presidente Amato e l’On. Quagliarello. Entrambe le conversazioni compaiono sull’ultimo numero di Aspenia, appena pubblicato e dedicato proprio al rapporto fra religione e politica.
Segnalo, anzitutto, la mia soddisfazione per aver riscontrato in tali dialoghi una certa convergenza sul fatto che, nell’era globale, la politica ed il mercato non sono tutto; sono un mezzo, ma non il fine. Mi sembra, inoltre, positivo un confronto sulle modalità in cui combinare ragione e fede. In un mondo dai confini sempre più aperti, il dialogo non è una scelta ma una necessità! Non sono mai stato d’accordo con chi sostiene che la politica sia inutile, perché promette di costruire ponti anche dove non passa il fiume! Sono convinto, invece, che la politica sia necessaria. Ma credo che, per comunicare valori autentici, debba rispettare il “ponte” che collega ciascuno di questi valori con Dio.
2. Pertanto, il primo punto su cui desidero attirare l’attenzione del qualificatissimo pubblico di quest’incontro è che i valori, di cui la politica si nutre, ben difficilmente possono essere rispettati vivendo etsi Deus non daretur (come se Dio non esistesse). Nella distinzione dei ruoli, la politica ha bisogno della religione; quando, invece, Dio è ignorato, la capacità di rispettare il diritto e di riconoscere il bene comune comincia a svanire.
Come ha detto Papa Benedetto XVI, nel suo recente viaggio apostolico in Francia, occorre «una cultura, per la quale il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008)
Lo attesta l’esito tragico di tutte le ideologie politiche, anche di segno opposto, e mi pare che lo confermi l’odierna crisi finanziaria. Laddove si ricerca solo il proprio profitto, a breve termine e quasi identificandolo con il bene, si finisce per annullare il profitto stesso.
Esiste certamente un’etica “laica”, come spesso si dice, ossia non ispirata alla trascendenza. Essa merita attenzione, rispetto e sovente concorre al bene comune. Essa, però, rischia talvolta di assomigliare a quel tale che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli! In altre parole, non inspirandosi alla trascendenza finisce per essere più esposta alle fragilità umane ed al dubbio. Per questo motivo, nonostante nella nostra epoca si proclamino con particolare solennità i diritti inviolabili della persona, a queste nobili proclamazioni si contrappone spesso, nei fatti, una loro tragica negazione. Basti pensare alla povertà crescente, alla persistente imposizione di certi modelli culturali o economici, all’intolleranza.
In tale prospettiva, nel citato discorso il Santo Padre ha affermato: una «cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).
In questa stessa linea, il Papa ha ricordato più volte che, se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici, anche quando si occupano della “cosa pubblica”, ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. In assenza di un punto di riferimento assoluto, infatti, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza e sovente finisce in balia delle forze del male.
Non bisogna poi dimenticare che, nelle odierne società multi-etniche e multi-confessionali, la religione costituisce un importante fattore di coesione fra i membri e la religione cristiana in particolare, con il suo universalismo, invita all’apertura, al dialogo ed all’armoniosa collaborazione.
3. Proseguendo nella riflessione, desidero aggiungere che la religione non è un rimedio, una sorta di “oppio” dei poveri. Nell’odierno mondo politico capita che questa convinzione si trovi tanto a destra come a sinistra. Non credo, invece, che il “ritorno a Dio” debba essere circoscritto a quelle società che stentano a decollare o a quelle che, al contrario, sembrano costrette a frenare.
All’origine della conversione di S. Francesco, uno dei più grandi Santi e dei più famosi Italiani, non c’è una vita di stenti e di espedienti, quanto piuttosto di agi e di una certa dissolutezza. E’ vero che la ricchezza ed il benessere rappresentano anche una tentazione: quando è domenica e c’è il sole, chi ha una casa al mare ed una in montagna è tentato di andare là, piuttosto che in chiesa. Ma anche chi non le ha, spesso preferisce restare a dormire! Ciò che intendo dire è che, se la ricchezza o il potere costituiscono spesso una forte tentazione, perché è difficile gestirli senza attaccarvi il cuore, anche la povertà può spingere a fare a meno di Dio. In ogni modo, ricca o povera, influente o sconosciuta, ogni persona è fatta per Dio, che non manca di seguirla e di attirarla a sé. Si ricordi il famoso assioma del grande Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni, I,1,1).
4. Facciamo un passo ulteriore. Desidero, cioè, sottolineare che, per gestire la globalizzazione, la politica non necessita soltanto di un’etica ispirata alla religione, ma ha bisogno che tale religione sia razionale. Anche per questo, la politica ha bisogno del Cristianesimo.
Fin dai suoi albori, infatti, alla luce della sua originaria novità, il Cristianesimo ha assunto, elaborato ed approfondito il meglio della sapienza greca e romana, presentandosi proprio come la vittoria del pensiero umano sul mondo delle religioni del tempo. Nel Cristianesimo, in un certo senso, la razionalità è divenuta religione, perché Dio non ha respinto la conoscenza filosofica, ma la ha assunta. S. Giustino, dopo aver studiato tutte le filosofie, aveva trovato nel Cristianesimo la vera philosophia. Era cioè convinto che, diventando Cristiano, non aveva rinnegato la filosofia; anzi, proprio allora era diventato pienamente filosofo.
La forza che ha trasformato il Cristianesimo in una religione mondiale è consistita esattamente nella sua sintesi fra ragione, fede e vita. Questa combinazione, così potente da rendere vera la religione che la manifesta, è anche quella che può consentire alla verità del Cristianesimo di risplendere nel mondo globalizzato e nel processo di mondializzazione.
A differenza di quanto sostengono alcuni politici e pensatori, il Cristianesimo non si accontenta di mostrare la parte della faccia che Dio tiene rivolta verso l’Occidente, in quanto nella sua essenza esso è mondiale e, quindi, risponde perfettamente alle dinamiche dell’odierno mondo globalizzato. La fede cristiana, quindi, non è una specie di optional dell’Occidente, magari un po’ superato, quanto piuttosto un tesoro per il mondo presente ed un investimento per quello futuro. Anzi, personalmente lo ritengo l’investimento migliore, perché è il più proficuo, quello che fruttifica per la terra e per il cielo!
Vale infine la pena di sottolineare che la fede cristiana e la razionalità secolare, consapevoli di essere alleate e protagoniste della cultura occidentale, potrebbero utilmente correlarsi con le altre grandi culture, nelle quali si identificano popolazioni anche più numerose di quella europea. Tale relazionalità, a sua volta, potrebbe aiutare a riscoprire o ad approfondire valori e norme presagiti da tutti gli uomini e consentire ad essi di conseguire nuova sorgente d’illuminazione e maggior forza operante. E’ evidente che tutto ciò aiuterebbe il compito specificamente politico d’indirizzo della globalizzazione.
5. E’ quindi del tutto opportuno, oltre che pienamente legittimo, che i Cristiani partecipino al dibattito pubblico. Altrimenti, argomenti e ragioni teiste e religiose non potrebbero essere invocati pubblicamente in una società democratica e liberale, mentre lo potrebbero gli argomenti razionalisti e secolari, con chiara violazione del criterio di eguaglianza e di reciprocità che sta alla base del concetto di giustizia politica.
La religione non è come il fumo, che si può tollerare in privato, ma che in pubblico deve essere sottoposto a strette limitazioni. Mi pare che questa consapevolezza si faccia strada nei dialoghi pubblicati sull’ultimo numero di Aspenia, e ne sono particolarmente lieto, anche se riconosco che alcune considerazioni, di fatto, evocano ancora la convinzione contraria, un po’ corrosa dal tempo e sfilacciata, ma che, come tutte le “bandiere”, non è facile da “ammainare”.
In ogni modo, «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia. …. ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (Lettera enciclica Deus caritas est, 28)
Il Cristianesimo conosce da sempre la distinzione fra la sfera religiosa e quella sociale e politica, in altre parole la sana laicità. L’ha scoperta addirittura prima dello Stato. Infatti, molti dei primi Cristiani furono martirizzati perché, pur insegnando il rispetto delle Autorità civili, si rifiutavano di offrire incenso all’Imperatore.
Nel suo recente Discorso all’Eliseo, il 12 settembre corrente, il Santo Padre ha ricordato che «sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo, in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”» (Incontro con le Autorità dello Stato francese all’ Elysée, 12 settembre 2008).
Consapevole di tale distinzione, il Cristianesimo promuove valori che non si dovrebbe etichettare come “cattolici” e, quindi, “di parte”, accettabili solo da chi condivide questa fede. La verità di quei valori, infatti, sta nella loro corrispondenza alla natura dell’uomo e, dunque, alla sua verità e dignità. Di conseguenza, chi li sostiene non ambisce un regime confessionale, ma è semplicemente consapevole che la legalità trova il suo ultimo radicamento nella moralità e che quest’ultima, per essere pienamente umana, non può che rispettare il messaggio proveniente dalla natura della persona, perché in essa è iscritto anche il suo «dover essere». Pertanto, quando la legge positiva è in armonia con la legge naturale, l'attività dell'individuo e della comunità rispetta la dignità umana ed i diritti fondamentali della persona e può evitare tutte quelle strumentalizzazioni che rendono l'uomo miseramente schiavo del più forte, come ebbe a scrivere Giovanni Paolo II nell'Esortazione Apostolica Christifideles laici (n. 5). «E il più forte — egli continuava — può assumere nomi diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass media» (ibid.)
Solo nel rispetto di precise condizioni, il desiderio di giustizia e di pace che sta nel cuore di ogni uomo potrà trovare appagamento e gli uomini, da «sudditi», potranno diventare veri e propri «cittadini». In questa prospettiva, è ancora attuale la lezione del poeta francese Charles Péguy, per cui la democrazia o è morale o non è democrazia.
In regime di democrazia, rispettare posizioni diverse è doveroso; fare proprie o appoggiare scelte e decisioni inconciliabili con la natura umana, è però una contro-testimonianza alla dignità della persona. In politica si deve spesso scegliere la strada possibile, anziché quella migliore; occorre tuttavia il coraggio di non imboccare ogni sentiero solo perché teoricamente percorribile.
6. E’ questa la prospettiva in cui collocare i ripetuti appelli del Papa e di tanti esponenti ecclesiali, in favore dei cosiddetti “valori non negoziabili”. Mi riferisco alla promozione della vita umana, dal suo concepimento fino alla fine naturale, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, all’educazione dei figli. La “non negoziabilità” di tali principi non dipende dalla Chiesa e dalla sua supposta intransigenza o, peggio, dalla sua chiusura mentale di fronte alla modernità; dipende, piuttosto, dalla natura umana stessa, a cui quei principi sono saldati. La natura umana non cambia con le maggioranze parlamentari e nemmeno con il passare del tempo, con il cambio di latitudine o di longitudine.
La frequenza degli interventi a tutela dei “valori non negoziabili” è determinata dall’assiduo riferimento a tali questioni nell'agenda politica odierna e dalla loro grande portata. Quando la politica cerca di sostituirsi alla natura dell’uomo, anziché difenderla, o quando il legittimo bilanciamento dei poteri e delle responsabilità dello Stato non viene rispettato ed in gioco c’è questa stessa natura, allora i Pastori debbono intervenire: non per hobby o per prevaricazione; quanto, piuttosto, per difendere la dignità e, in ultima analisi, il bene della persona e della società, da manipolazioni facilmente presentate come liberazioni. Non si tratta, pertanto, di un'indebita ingerenza della Chiesa in un ambito che non le sarebbe proprio, ma di un aiuto per far crescere una coscienza retta ed illuminata e, perciò stesso, più libera e responsabile. Del resto, né la democrazia è la regola del “non disturbo”, né la morale cattolica un utile “instrumentum regni”!
La Chiesa non insegue il plauso e la popolarità, perché Cristo la invia nel mondo «per servire» e non «per essere servita»; non vuole «vincere ad ogni costo», ma «convincere», o per lo meno «allertare» i fedeli e tutte le persone di buona volontà circa i rischi che corre l'uomo quando si allontana dalla verità su se stesso!
In questo contesto, ho apprezzato che, in spirito costruttivo e cooperativo, mi abbiate proposto di presentare il punto di vista della Chiesa cattolica sul rapporto fra religione e politica nell’era globale, e mi auguro che quest’incontro servirà a rendere tale rapporto sempre più fecondo per il bene comune e per lo sviluppo di un’autentica e sana democrazia. Grazie!
I Vescovi italiani: né eutanasia né accanimento terapeutico - Respinto ogni cedimento alla cultura dell’autodeterminazione
di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 30 settembre 2008 (ZENIT.org).- I Vescovi auspicano una legge di fine vita per evitare “eutanasia e accanimento terapeutico”. E' quanto ha precisato monsignor Giuseppe Betori nel corso della conferenza stampa per la presentazione del comunicato finale del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Martedì 30 settembre, nella sala Marconi della Radio Vaticana, a Roma, rispondendo alle domande incalzanti dei numerosi giornalisti presenti, il Segretario Generale della CEI ha spiegato che l'episcopato italiano guarda con favore all’ “opportunità di una legislazione sul fine vita, nella direzione però del ‘favor vitae’”.
Monsignor Betori si è rifiutato di parlare di ‘Testamento biologico’, perché questo termine viene spesso collocato in una cultura che “ritiene l’autodeterminazione in ordine alla propria morte a disposizione della persona umana”.
Mentre, secondo la CEI, “la vita e la morte non sono a disposizione di nessuno, neanche di sé stessi”. “Noi – ha detto il nuovo Arcivescovo di Firenze – preferiamo proteggere la vita e rendere degno il momento della fine della propria esistenza”.
Per questo si rende necessario una legge per la “salvaguardia della vita, non della disponibilità della persona a mettere fine alla propria esistenza, secondo quel principio di autodeterminazione che alcuni vorrebbero prevalente rispetto al principio di indisponibilità della vita”.
Circa l’opportunità o meno di una legge sul fine vita, monsignor Betori ha spiegato che “c’è stato un cambiamento nella percezione delle situazione legislativa, ed alcuni procedimenti giudiziari stanno aprendo la strada all’interruzione legalizzata della vita”.
Il Segretario generale della CEI ha ribadito che per i Vescovi italiani questo significa “né accanimento, né abbandono terapeutico; attenzione alle volontà del paziente, purché chiare, esplicite, aggiornate, e non presupposte o derivate dallo stile di vita”.
In merito alle dichiarazioni previe sulle volontà del fine vita, monsignor Betori ha fatto alcune precisazioni: “queste volontà sono solo un orientamento, che è competenza del medico valutare in scienza e coscienza, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente”.
Per il presule, “nessuna volontà può essere derivata dagli stili di vita di una persona, se questa volontà non viene messa per iscritto e legalizzata”.
“Questo non significa – ha però precisato – che questa volontà diventa volontà decisionale, ma una volontà con cui si confronta il medico per valutare quale sia la migliore cura, senza derive né in senso eutanasico, né nella direzione dell’accanimento terapeutico”.
Dopo aver ribadito che “l’idratazione e l’alimentazione non sono attività curative, ma sostegno vitale della persona stessa”, monsignor Betori ha sottolineato che in una eventuale legge sul fine vita servono “dichiarazioni inequivocabili e certe, ma non nel senso di una volontà che decide circa la propria vita, bensì di una volontà di cui il medico deve tener conto circa la valutazione della cura”.
Alla domanda su come sta cambiando l’orientamento della CEI in merito ad una legge sul fine vita, il nuovo Arcivescovo di Firenze ha affermato che “non si tratta di un cambiamento voluto da noi, ma da chi ha creato una legislazione insicura per la vita delle persone”.
“Con questo uso della legge – ha proseguito –, non c’è più sicurezza per la fine di vita di ciascuno di noi, dunque c’è bisogno di salvaguardarlo: è logico che tutto ciò provochi non una rottura, ma un dibattito”.
“Dibattito – ha concluso monsignor Betori – che però arriva ad una concordanza. Si tratta di un dibattito fruttuoso, che aiuta a mettere a fuoco certe problematiche”.
01/10/2008 09:05 - RUSSIA-GEORGIA-UE - Osservatori Ue cominciano la missione in Georgia - Mentre le truppe russe si ritirano, gli osservatori disarmati non potranno entrare nelle zone-cuscinetto attorno alla Sud Ossezia e all’Abkhazia. Si attende una conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione del Paese. La guerra ha fatto migliaia di morti e 200 mila profughi.
Tbilisi (AsiaNews/Agenzie) – Osservatori dell’Unione europea (Ue) hanno cominciato oggi a pattugliare il territorio georgiano vicino alla Sud Ossezia per garantire un cessate-il fuoco e la fine delle ostilità fra Russia e Georgia. I circa 200 osservatori devono anche verificare il ritiro delle truppe russe oltre le zone cuscinetto volute da Mosca attorno alle regioni della Sud Ossezia e dell’Abkhazia, separatesi in modo autonomo dalla Georgia.
Hansjoerg Haber, capo della missione Ue, ha chiesto oggi agli osservatori di essere “amichevoli e fiduciosi”. Fra di loro vi sono anche esperti di diritti umani e avvocati. Il gruppo è disarmato e non può per ora entrare nelle zone cuscinetto fino al completo ritiro delle truppe russe dalle zone, che dovrebbe avvenire entro il 10 ottobre.
Il lento ritiro dei russi è stato deciso con un accordo preparato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. La Russia vuole comunque mantenere almeno 8 mila truppe in Abhkazia e Sud Ossezia, dopo aver riconosciuto la loro indipendenza. La comunità mondiale – e soprattutto Ue e Usa – ha criticato sia le zone cuscinetto, sia il riconoscimento dell’indipendenza delle due regioni. La Ue vorrebbe anche avere osservatori in Abhkazia e Sud Ossezia, ma la Russia lo vieta. Gli osservatori Ue avranno solo 4 basi: a Tbilisi, a Gori (vicino al confine sud con la Sud Ossezia), a Zugdidi (vicino al confine con l’Abhkazia) e a Poti.
Il conflitto nella regione è cominciato il 7 agosto scorso, quando la Georgia ha cercato di riprendere il controllo sulle due regioni, dopo una serie di schermaglie. La Russia ha invaso la Georgia e ha cacciato le truppe georgiane dal Sud Ossezia e dall’Abkhazia.
La breve Guerra ha causato la morte di migliaia di persone e oltre 200 mila profughi.
Il mese prossimo a Bruxelles si terrà una conferenza di donatori per aiutare la ricostruzione della Georgia. Gli Usa hanno già promesso aiuti per 1 miliardo di dollari. Una cifra simile sarà stanziata dalla Ue. Tbilisi non potrà usare le donazioni per ricostruire il suo esercito.
In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini - L'uomo supera infinitamente l'uomo, L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2008
Uscirà nel gennaio 2009 presso la Morcelliana, in prima edizione mondiale e come volume iii/i dell'opera omnia, Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie ("L'uomo. Fondamenti di un'antropologia cristiana"), il lavoro di una vita, che Romano Guardini, nonostante l'impegno, non ha mai portato a termine. "L'autore - scriveva nel 1939 - lavora a questa impresa già da molti anni, ma non è ancora in grado di prevedere quando potrà essere condotta a termine". L'opera che viene alla luce, curata da Massimo Borghesi e Carlo Brentari, è composta di sette parti: "Introduzione e posizione del problema"; "L'incontro con sé e con il mondo"; "L'origine e la creazione"; "Prova, peccato, colpa"; "Redenzione; l'esistenza cristiana"; "Il compimento". A quarant'anni dalla morte di Guardini (1 ottobre 1968) ecco in anteprima parte dell'introduzione.
di Romano Guardini
In queste lezioni cercherò di impostare la questione "che cos'è l'uomo" e di tracciare le linee portanti di una risposta. Si tratta soltanto di un tentativo, e di un tentativo ha tutti i vantaggi e gli svantaggi; esso però sorge da una riflessione che prosegue ormai da circa trent'anni.
Una sempre più ampia letteratura sull'argomento mostra che la questione antropologica si è posta al centro del pensiero del nostro tempo. Ciò ha delle ragioni molto profonde. Se cerchiamo di cogliere il carattere peculiare del pensiero compreso tra il diciottesimo secolo e l'inizio del ventesimo, esso ci appare dominato da due strutture: quella meccanicistica delle scienze della natura e quella umanistica delle scienze dello spirito. Pur nella loro diversità di fondo, le due modalità di pensiero avevano un elemento comune: erano sicure di se stesse e convinte di conoscere profondamente la realtà del mondo e dell'uomo. Naturalmente ciò non era del tutto vero. Ovunque, sia dietro le affermazioni teoriche che dietro il comportamento pratico, era all'azione lo scetticismo. Tutti i pensieri e le prese di posizione minacciavano prima o poi di dissolversi nel relativismo. Eppure si ammetteva, per consenso generale, che esistesse un'immagine certa dell'esistente, nella quale anche l'uomo aveva il suo posto.
Nella prospettiva delle scienze naturali l'uomo era una parte della natura; una parte altamente differenziata, certo, ma sempre natura. Che cosa fosse la natura sembrava fondamentalmente chiaro, per quanto i singoli problemi fossero ben lungi dall'essere esauriti. La natura era, appunto, l'elemento naturale, l'ovvio punto di partenza per chiarire anche il problema dell'uomo. Anche la prospettiva umanistica, delle scienze dello spirito, prendeva le mosse da una sfera il cui senso e il cui valore apparivano evidenti, vale a dire la cultura. E anche qui l'uomo era determinato univocamente: egli era il prodotto della cultura, la creava e al tempo stesso ne veniva plasmato.
Ho parlato sinora dell'aspetto propriamente teorico del problema, vale a dire dell'immagine che l'uomo si faceva del mondo e di se stesso. Ora si dovrebbe però porsi al di là di tale aspetto per mostrare come questa immagine fosse a sua volta l'interpretazione di qualcosa di vivente e anteriore. Mi riferisco al peculiare sentimento che l'uomo aveva della vita, al modo in cui egli faceva esperienza del mondo e di se stesso nell'incontro con il mondo, alla direzione in cui procede il suo sviluppo di sé, ai giudizi e alle prese di posizioni involontarie che precedono ogni pensiero - fino a quel fattore enigmatico che si può vedere come l'entelechia di un periodo storico, vale a dire la configurazione fondamentale che nel concreto divenire di un'epoca preme verso la propria realizzazione e la cui più decisa estrinsecazione consiste nei moti interiori del gusto, del desiderio e della ripugnanza... Tutto questo si è sviluppato nella direzione sopra descritta. Ciò che deviava da essa veniva percepito come un residuo non ancora posto sotto controllo, come un momento di disturbo o di opposizione di secondaria importanza o un pericoloso avvicinamento allo scetticismo e al disorientamento.
Vi era poi una terza via del pensiero e del sentimento della vita, la quale, per impiegare un concetto di Nietzsche, potrebbe essere definita eraclitea: mi riferisco qui a certi elementi dello Sturm und Drang e a determinati livelli di lettura dello stesso Goethe. Ma vanno ricordati anche Hölderlin e la modalità di comprensione dell'antichità che è stata introdotta da Creutzer, Welcker e Bachofen e che non era solo una teoria scientifica, ma esprimeva un atteggiamento dell'animo. Tutto questo è infine stato infranto, e nella maniera più impetuosa, da Nietzsche. Questo atteggiamento non è stato ripreso dal diciannovesimo secolo; esso è stato abbandonato o considerato come un residuo di opposizione da non prendere sul serio. Ciò poté avvenire tanto più facilmente in quanto tale atteggiamento, ripetutamente alleatosi con l'irresponsabilità estetizzante e con il relativismo etico, ben celava il suo vero carattere. In verità esso non faceva parte del diciannovesimo secolo ma aveva già oltrepassato lo spartiacque storico per confluire nella successiva immagine del mondo.
Non è possibile approfondire in poche righe quest'ultima affermazione, così mi limiterò a fornire alcune indicazioni. La concezione meccanicistica delle scienze naturali e quella umanistica delle scienze dello spirito presuppongono che l'esserci sia in qualche modo compiuto. Esse sottolineano in maniera costante il momento della realtà, che considerano come già formata. Per entrambe le concezioni il compito dell'uomo è conoscere questa realtà, trovare la propria reale collocazione all'interno di essa e modificare se stesso in modo da adattarsi al suo ordine. Le possibilità [dell'uomo] sono fondamentalmente note; sconosciuta è solo la misura in cui si potrà realizzarle. L'altro sentimento dell'esserci invece percepisce il mondo e l'uomo come realtà in larga misura potenziali. Se per le prime l'aspetto decisivo è il dato osservabile e studiabile, per il secondo è la possibilità di addentrarsi nell'ignoto. Una possibilità però che è affidata all'uomo stesso. L'esserci è aperto alla determinazione plastica e creativa. È significativo che a ciò sia connesso un forte impulso pedagogico - e con ciò si intende formativo, non meramente dottrinale. Anzi, il concetto di pedagogico sembra non essere sufficiente a definire tale impulso, al punto che ci si chiede che cosa sia in gioco qui, se non si tratti forse di una nuova specie umana o addirittura di un oltrepassamento dell'uomo nel sovrumano - e con ciò della trasformazione della sostanza stessa dell'uomo.
Questo impulso viene rivelato in tutta la sua insistenza dalla moderna tendenza verso l'autonomia. Nella speranza di poter ritornare su questo tema in un'altra occasione, mi limito qui soltanto ad accennarlo. L'uomo si costituisce nella sua indipendenza di fronte a tutto ciò che gli si presenta come una richiesta assoluta, vale a dire di fronte a Dio, alla rivelazione e all'autorità divina; egli lo può fare mettendo in risalto i momenti assoluti che custodisce in sé stesso, i quali si condensano nella pretesa di assolutezza della propria personalità spirituale. Al tempo stesso però emerge anche un'altra tendenza: [quella a] considerare autosufficienti l'essere non assoluto e la finitezza dell'uomo, e a determinarsi soltanto in funzione di esse. Finché l'assoluto è per così dire l'unico schema in grado di fondare l'esigenza di un'esserci autosufficiente, l'uomo moderno fa di tutto per costituire se stesso come assoluto. Lo sviluppo di un immediato sentimento dell'esserci e della corrispondente modalità di pensiero conferisce alla finitezza in quanto tale un'intensità del tutto nuova e un'inedita capacità di conferimento di senso. Arriva così un momento in cui la richiesta di assoluto viene a cadere e la finitezza, pur se transitoria e limitata, sembra poter far scaturire da sé la totalità. Questa volontà di finitezza e autosufficienza si congiunge poi con una nuova apertura alle potenzialità della vita. L'anelito dell'uomo si distoglie dall'assoluto e rivolge tutto il suo fervore al finito - nella convinzione che, se lo si affronta con una passione esclusiva, possano emergere da esso inesauribili possibilità. (La dottrina di Nietzsche del ritorno dell'uguale in connessione con la comparsa del superuomo). In questo modo la volontà pedagogica ottiene una nuova intensità; potremmo quasi dire che essa si eleva al rango di demiurgo.
Sembra che, dopo la guerra, queste due strutture di pensiero siano state profondamente messe in questione e che se ne sia presentata una terza. L'esserci sembra essere entrata in gioco in maniera del tutto nuova. Se questo è vero, allora lo spontaneo rivolgersi all'uomo diventa comprensibile: è il movimento con cui la vita si assicura della saldezza delle proprie radici. (...)
Queste riflessioni prendono le mosse dalla convinzione che il diciannovesimo secolo non ci ha affatto rivelato che cos'è l'uomo. Esse sono aperte al confronto con ogni tesi, per quanto audace, che possa essere formulata su tale essere, e si aspettano di veder confermata la parola di Pascal: "l'uomo supera infinitamente l'uomo". E qui è in particolar modo il pensiero cristiano - sempre che sia veramente tale - a essere chiamato a prendere la parola.
Se la mia comprensione è adeguata, vi sono molti modi in cui un ente può darsi alla conoscenza.
Vi sono in primo luogo l'esperienza immediata, interiore o esteriore, e la testimonianza attendibile da parte di una fonte storica. Chiameremo esperienza diretta questa modalità del darsi e la conoscenza che su di essa si basa; nell'esperienza diretta rientrano la maggior parte delle scienza empiriche e storiche e delle scienze dello spirito, e inoltre alcune branche (o quantomeno discipline ausiliarie) della teologia.
In secondo luogo vi è la rivelazione. Grazie a essa lo spirito rischiarato dalla fede incontra la realtà efficace di un Dio che è in se stesso inaccessibile. L'oggetto della conoscenza per fede non è semplicemente presente, né disponibile a nostro piacere, bensì emerge dalla Sua parola e dalla configurazione che gradualmente si rivela. In questo caso la conoscenza - ma bisognerebbe entrare più nei dettagli e chiarire in che senso si possa qui parlare di conoscenza - non è diretta ma passa attraverso il messaggio della rivelazione.
Vi è poi un terzo modo di darsi, complesso e molto significativo. Esso è proprio di realtà [particolari] che appartengono al mondo, e proprio a quel mondo dell'esperienza interiore ed esteriore in cui si muove l'esperienza diretta. Sembra non essersi alcuna ragione intrinseca che possa impedire a queste realtà di darsi in modo diretto, e tuttavia nei fatti questo non accade: esse vengono continuamente sommerse da elementi esteriormente simili a loro ma diversi per essenza, e si deformano. Si tratta delle realtà e dei valori che riguardano il senso dell'esserci e la salvezza della persona. Si potrebbe pensare ad esempio che la persona stessa appartenga al mondo. La sua essenza dovrebbe poter essere colta attraverso l'esperienza interna e la visione dell'aspetto esteriore, attraverso l'analisi della sua coscienza e l'indagine sulle sue categorie, sui suoi valori ecc. Tuttavia i risultati effettivi [di queste indagini] non sono mai univoci. Il puro fenomeno della persona viene confuso con quella della personalità o dell'individualità, quando non addirittura con la mera configurazione caratteriale [Gestalt]. Esso sconfina ora nel terreno della psicologia, ora in quello della sociologia, ora in quello della logica. Una chiarificazione di che cosa sia propriamente persona si ha soltanto quando tale fenomeno viene a contatto con un elemento che non appartiene al mondo né proviene da esso, ma dalla rivelazione: l'apparizione del Figlio, o meglio del Figlio della figlia di Dio. Con questo io non affermo che il concetto di persona vada compreso a partire dalla rivelazione; entro un certo limite esso rientra tra gli oggetti dell'indagine filosofica. Soltanto quando la realtà effettiva dell'uomo, creatura da Dio pervenuta alla sua maggiore età [Mündigkeit], sarà stata compresa nella fede e si sarà riflessa in essa, solo allora il fenomeno della persona potrà essere colto senza alcuna ambiguità. Torneremo a parlare a più riprese del fenomeno della persona. Ora possiamo solo esprimere sinteticamente ciò che, nei più diversi ambiti d'indagine, si impone in maniera ricorrente alla nostra attenzione: la semplice presenza [die Vorhandenheit], i valori della comune esistenza biopsichica e, al di sotto di un certo livello, anche i contenuti di senso della cultura oggettivamente intesa possono essere senz'altro compresi a partire da se stessi. Tuttavia, quanto più un fenomeno è vicino al nucleo di senso dell'esistenza morale e spirituale della persona e quanto più esso è inerente alla sua salvezza, tanto meno esso si colloca di per se stesso in una condizione di piena e completa datità. Per poter emergere nella sua autentica essenza, esso necessita piuttosto del rispecchiamento nella rivelazione.
Questo rapporto verrà chiamato relazione di dipendenza. Accanto alla conoscenza diretta, che coglie il mondo in maniera immediata, e alla conoscenza per fede, che accoglie il suo oggetto dalla rivelazione, poniamo un terzo tipo di conoscenza, la conoscenza dipendente. Pur essendo volta agli oggetti del mondo, questa conoscenza li riceve nella loro pura e completa datità qualora essi siano compenetrati dal messaggio della rivelazione.
Se questa concezione è valida, allora è chiaro che lo stato di cose sopra descritto deve essere interrogato soprattutto alla luce della domanda "che cos'è l'uomo?". Con ciò non si intende naturalmente pregiudicare in alcun modo la legittimità degli approcci d'indagine della biologia, della psicologia e della filosofia. Poiché però ogni fenomeno unitario è determinato in maniera decisiva dal centro di una configurazione di senso, e non dalla sua periferia - e quindi, ad esempio, la questione di cosa sia "persona" è più importante di quella delle strutture psicologiche ai fini della comprensione dell'uomo - allora la consapevolezza cristiana dell'uomo si rivela di importanza vitale per l'antropologia. (...)
Vogliamo dunque chiedere come la coscienza cristiana pensi l'uomo. Questa domanda però deve venire meglio precisata.
La si potrebbe formulare così: come viene determinata l'essenza dell'uomo nella rivelazione? Inoltre si dovrebbe cercare di passare dalle diverse affermazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alle realtà ultime che si celano dietro di esse. Si dovrebbero poi analizzare le diverse immagini dell'uomo così come emergono dal Genesi, dai Salmi, dai Profeti, dal Vangelo di Marco o dalle Lettere di Paolo, e a partire da esse rivolgersi alla più profonda unità trans-strutturale, per così dire alla parola originaria [Urlaut] della rivelazione riguardante l'uomo. Questo sarebbe un compito importante, anche se il risultato di questa ricerca infinitamente impegnativa potrebbe poi riassumersi in poche frasi.
Se però vogliamo calare la questione cristiano-antropologica nella pienezza dell'esistenza umana, dobbiamo rinunciare a fare ricorso alla lettera originaria trans-strutturale, alla sostanza semplice e prima. Dobbiamo piuttosto fare attenzione alle declinazioni in cui essa si presenta nelle strutture psicologiche, storiche e spirituali. Non potrà quindi più esserci un'antropologia cristiana in senso unitario, bensì soltanto diverse possibilità all'interno della realtà umana del cristianesimo.
Un'ulteriore precisazione. Si potrebbe certo tentare di distinguere storicamente le diverse connotazioni che la coscienza cristiana ha assunto nel corso del tempo, o ancora di sviluppare sistematicamente le diverse possibilità strutturali implicite nei principi cristiani fondamentali e di arrivare così a una fenomenologia dell'immagine cristiana dell'uomo, per poi delineare una dialettica delle strutture che ci permetta di gettare lo sguardo sulla dimensione trans-strutturale.
Questa impresa è così grandiosa da superare in maniera assoluta le nostre possibilità, ma anche a prescindere da questo in essa mancherebbe proprio ciò che più conta di fronte alle sopra menzionate strutture storico-spirituali: la validità esistenziale. Se ciò che conta non è la rappresentazione obiettiva ma sono le convinzioni e le prese di posizione interne al confronto spirituale, allora non resta altra possibilità che mettere in luce la coscienza cristiana così come essa stessa si interpreta in una determinata struttura. Quale essa sia dipende in primo luogo dall'orientamento dovuto alla collocazione storica di colui che pensa. All'interno dello spazio d'azione che ancora resta, infine, la questione va ulteriormente precisata sulla base della decisione personale.
Ed è proprio tale decisione a collocarsi alla base del progetto antropologico che vorrei sviluppare in queste pagine. Ciò mi inserisce in una linea di pensiero che, partita dal platonismo e dal neoplatonismo, confluisce nel Cristianesimo di Paolo e Giovanni e di qui conduce a Ignazio di Antiochia, ad Agostino, a Anselmo di Canterbury, a Francesco, alla teologia agostiniana medievale, a Dante e ai platonisti rinascimentali (Pascal, Francesco di Sales, i grandi teologi dell'Oratorio) per poi esaurirsi nel corso del xix secolo.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2008)
30 settembre 2008 - La rivolta di repubblicani e democratici affonda il piano di salvataggio pubblico di Wall Street -No al “socialismo in un solo paese” - La socializzazione delle perdite considerata unamerican. Le conseguenze, di Giuliano Ferrara
228 no, 205 sì. Un voto storico sul più grande salvataggio finanziario della storia americana, Wall Street al collasso, un clima da brivido. Hanno detto di no a un piano garantito dalla Casa Bianca, dal Tesoro, dalla Federal Reserve, dalle leadership congressuali di democratici e repubblicani, e con qualche malizia e prudenza anche dai candidati McCain e Obama. Rivoteranno su un nuovo testo, perché le pressioni in nome della salvezza nazionale sono fortissime, ma per adesso i deputati della House di Washington, che si battono per la rielezione a novembre e hanno sul collo il fiato furente dei loro elettori, hanno giudicato ingiusto e unamerican il grande bail out che salva la finanza americana e mondiale, lo hanno bocciato come contrario al principio su cui si fonda la società americana: i privati rischiano e guadagnano, se falliscono perdono, e i soldi pubblici non possono sostituire il fondamento di libertà e di responsabilità del sistema. Ha votato no la maggioranza dei repubblicani, che invocano come giustificazione il solito discorso estremista e partigiano di Nancy Pelosi, che ha dato del voto un’interpretazione estremamente faziosa. Ma quasi cento democratici si sono aggiunti alla rivolta. C’è molto di più in ballo che non una battaglia elettorale o parlamentare.
Le conseguenze finanziarie e di sistema di questo esplosivo rigetto del piano di salvezza nazionale sono alla lunga misteriose, ma nell’immediato tragiche. Al tumulto di Wall Street e delle Borse mondiali, severamente impegnate dalla crisi del credito e ormai da sempre crescenti rischi di insolvenza bancaria, si può aggiungere la manifestazione dei primi segni di una fatale recessione, con un trasferimento all’economia del disastro finanziario. Fino ad ora le tendenze erano sempre due: il sistema del credito crolla, le banche boccheggiano o falliscono, ma i fondamentali dell’economia (produzione, produttività, import-export, tasso di occupazione, crescita del prodotto interno lordo) resistono. Ma fino a quando possa durare questo immenso paradosso, non si sa.
Le conseguenze politiche del voto di ieri, visto che siamo a sei settimane dal voto di novembre per eleggere il presidente, sono forse più chiare. Fosse passato ieri trionfalmente il progetto di “socialismo in un solo paese” varato dall’establishment bipartisan di Washington (presidente, tesoro, Federal reserve e leader del Congresso), avremmo dovuto senza indugi prepararci a Obama. L’uomo dell’establishment, l’uomo d’ordine è lui, ed è questa la carta che gioca nella crisi, per cercare di governare a suo vantaggio le paure americane del momento. La frustrazione dei repubblicani, anche di quelli che chiedevano ai colleghi di appoggiare il piano di salvataggio, era tangibile. Ma con questo calcio all’establishment, questa rivolta sia democratica sia repubblicana contro l’idea di pagare i debiti del sistema bancario con i soldi dei taxpayers, che sono un idolo di giustizia riverito e amato dalla assoluta maggioranza degli americani, una certa identità americana, pro mercato e all’occorrenza fieramente populista, può riaffermare i suoi diritti e spingere il vento nelle vele un po’ afflosciate del vecchio McCain e del suo sorridente e un tanto surreale emblema di guerra o guerriglia culturale di nome Sarah Palin. Bisogna anche vedere se l’eroico vecchietto e la sua ardente e fresca (molto fresca) compagna decideranno di cavalcare la marea e di moltiplicare gli effetti dello schiaffo contro lo stato padrone in quello che per molti aspetti è ancora il paese di Ronald Reagan.
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: la legge deve garantire il diritto alla cura - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Prima la prolusione del cardinale Bagnasco in apertura del Consiglio permanente della Cei; poi, ieri, le conclusione del segretario uscente Giuseppe Betori. In entrambe le circostanze la Conferenza episcopale italiana ha ritenuto opportuno tornare a chiarire la posizione della Chiesa sulla tanto dibattuta questione del testamento biologico, soprattutto a partire dalla ben nota sentenza sul caso di Eluana Englaro. Ora la Chiesa si dice favorevole a un intervento legislativo su questo argomento, proprio per impedire le derive contenute in quella sentenza; un pronunciamento, quello della Chiesa, che da alcuni è stato addirittura interpretato come una ritrattazione.
Ma ieri Betori ha precisato che la Cei non si è detta favorevole al testamento biologico, bensì a un semplice intervento legislativo che dia regole precise, evitando la «cultura dell’autodeterminazione». Un «chiarimento utile», secondo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, che può solo fare bene al dibattito che da domani inizierà in commissione Salute al Senato, sui vari disegni di legge intorno a questo argomento.
Onorevole Roccella, il segretario uscente della Cei Giuseppe Betori ha ieri chiarito la posizione della Chiesa, facendo anche una distinzione: essere favorevoli a una legge non significa essere favorevoli al testamento biologico. Cosa pensa di questa distinzione?
È una cosa importante distinguere e chiarire, perché la materia è molto delicata. Ciò di cui si sta parlando è la dichiarazione anticipata di trattamento, che si ricollega all’articolo 32 della Costituzione. La legge che vogliamo fare verte su due concetti fondamentali: la libertà di cura e il consenso informato, dando regole chiare sul concetto di consenso. Bisogna trovare un giusto equilibrio che contemperi questi due concetti fondamentali: il diritto alla cura e la libertà di cura.
Non è sufficiente l’articolo 32 per regolare questo?
Fino ad oggi c’è stato solo l’articolo 32; ma ora c’è stata un’interpretazione giurisprudenziale che è andata oltre lo spirito della Costituzione. Ora vogliamo ritornare all’interno di una interpretazione che affermi di nuovo sia la libertà di cura, sia l’inviolabilità della vita. Non deve trattarsi nemmeno di una legge sul “fine vita”: si tratta semplicemente di una legge che regoli l’articolo 32.
Che cosa rende necessaria questa legge?
Il fatto che a un certo punto sia iniziata un’interpretazione sempre più minacciosa nei confronti del diritto alla cura, arrivando a spingersi verso l’ammissione dell’abbandono terapeutico e il supermento di quei limiti che aprono la strada all’eutanasia. Bisogna ristabilire una garanzia della libertà personale, che d’altra parte confermi anche senza incertezza il diritto alla cura. Il tutto all’interno di un rapporto forte di alleanza tra medico e paziente
Oggi in commissione Sanità al Senato inizia il dibattito sui disegni di legge: quali sono le prospettive di questo dibattito, che prevede la presentazione di ben sei disegni di legge?
In commissione si riprenderà il dibattito, che già c’è stato al Senato: un dibattito complesso in cui non si è ancora trovato un accordo. Bisognerà riprendere quello che è maturato nel dibattito, aggiornandolo con i due fatti fondamentali accaduti durante questa legislatura: la sentenza Englaro e le mozioni, fatte sia dal Senato che dalla Camera, sul conflitto di attribuzione a proposito della medesima sentenza. Al Senato peraltro c’è stata anche una mozione bipartisan, votata anche dal centrosinistra, sul fatto che ci sia l’esigenza di arrivare in tempo brevi alla legge. Questi sono i punti nuovi da cui il legislatore deve ripartire per aggiornare il dibattito. Spero che si possa arrivare a una legge il più possibile condivisa.
La presa di posizione della Cei influirà sul dibattito che sta per iniziare?
Diciamo che la Cei, con la sua posizione pacata e ragionata, aiuta culturalmente a chiarire i termini della questione. Secondo me è importante che venga sgomberato il campo dal pregiudizio nei confronti della Chiesa. Anche quando partecipo ai dibattiti, noto nel pubblico una prevenzione nei confronti delle posizione cattoliche, come se fossero arretrate e contrarie alla libertà personale. Al contrario gli interventi di Bagnasco e Betori hanno chiarito il quadro, ponendo le garanzie a tutela dei più deboli e dei più fragili, ed evitando quell’ingegneria sociale che è alla base della sentenza Englaro. Sono preoccupazioni che possono essere condivise da tutti, perché posizioni di estrema ragionevolezza, anche e soprattutto per un laico. Chi crede che esista solo una vita sulla terra, mi pare che a maggior ragione debba fare in modo che questa sia tutelata, e che non vengano fatte scelte assolutamente irrimediabili.
SCUOLA/ Il monito super partes di Napolitano: basta con la difesa dello status quo - Renato Farina - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Giorgio Napolitano ha una storia di uomo di cultura e di uomo di sinistra. Ora, da presidente della Repubblica, non può dimenticare se stesso. E quando guarda alla scuola vi scorge quella che lui stesso ha chiamato “emergenza educativa”. Così, all’apertura ufficiale dell’anno scolastico, in presenza del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, senza intervenire sullo specifico dei suoi provvedimenti, le ha dato ragione.
Ha detto:
1) La scuola ha bisogno di «scelte coraggiose di rinnovamento: non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell’esistente».
2) «Non si tratta di ripartire da zero ogni volta che con le elezioni cambi il quadro politico».
3) «Dialogo! Esprimo l’augurio che questo sia il clima nel quale possa svilupparsi il confronto politico, nelle sedi istituzionali, sui problemi della scuola».
4) Taglio dei costi: «l’Italia, per gli impegni assunti in sede europea nel suo stesso vitale interesse, deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico per incidere sempre di più sul debito accumulato. Nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo; ed esso comporta anche, inutile negarlo, un contenimento della spesa per la scuola… Questo deve invece tradursi nel massimo sforzo sul piano della razionalizzazione e del maggior rendimento della spesa per la scuola, sul piano del sostanziale miglioramento della sua qualità».
Interessante. Essendo un monito super partes, per la stessa natura dell’istituzione da cui proviene, è utile per spazzare via la polemica politica pretestuosa e concentrarsi sui contenuti.
Provo a declinare con pacatezza.
(1) Il coraggio di rinnovare. Oggi il sistema scolastico italiano è quello più conservatore del mondo: avendo bloccato il merito, si è finito col favorire lo status quo sociale; per usare una metafora della sociologia, l'Italia è il Paese con l'ascensore bloccato. Occorre rimetterlo in movimento. Credo che questa crescita della movimentazione sociale, questa crescita della possibilità di migliorare socialmente – ma non è solo miglioramento sociale, è la possibilità di una pienezza nella crescita – sarà possibile con una sana concorrenza tra le proposte educative e tra le istituzioni scolastiche, sia a carattere statale, attraverso l'autonomia, sia a carattere non statale, rendendo operativo quell'impianto di parità scolastica che già aveva voluto Berlinguer, e che è stato votato dal Parlamento, ma non attuato. Così come si è votato per il federalismo senza finora tradurlo in atti con il federalismo fiscale.
Il decreto Gelmini è in questa direzione. Non è una riforma. Non si ripromette grandi cose. Non ha la pretesa di ripartire da zero smontando quanto fatto in precedenza (2). Mette l’occhio sullo scopo della scuola. Senza enfasi retorica, ma puntando su alcuni semplici strumenti che dicono come la scuola sia una cosa seria, e la questione centrale non sia l’accumulo di saperi e competenze (anche, ovvio), bensì la serietà dinanzi al destino. La vita è un caso serio, non lo dice più nessuno. O se lo si dice, poi nella pratica vince il lassismo. Ecco che allora il voto in condotta, l’educazione civica, il maestro unico o prevalente, soprattutto, sono fatte per restituire peso alla disciplina e all’autorità. Non da intendersi come forme vuote, ma dentro un cammino di crescita. Il maestro prevalente vuole essere una maniera per ricomporre la frammentazione del significato, per rimediare all‘incapacità di individuare quelle figure di adulti capaci di accompagnarti lungo una strada che porti a un destino buono. Il primo punto da recuperare è allora il compito della scuola. La scuola serve a questo, alla serietà dinanzi al destino.
A proposito del dialogo (3) richiesto da Napolitano. L'opposizione è arrivata a chiedere al Parlamento di votare l'incostituzionalità dell'insegnamento della Costituzione. È una miseria logica, e non è neanche male per la dialettica marxista questa capacità di dire tutto e il suo contrario, pur di ottenere lo scopo prefisso da parte delle avanguardie. Poi si è proceduto di allarmismo in allarmismo al quadrato e poi al cubo. Un ministro ombra (Picierno) è giunta a parlare del decreto come di un «disegno criminale». La prima protesta realizzata a Roma dai maestri e dalle maestre cigiellini è stata l’esibizione del lutto, per segnalare la volontà di uccidere la scuola da parte del governo.
La riduzione dei costi (4). Realismo, serietà, educazione è anche eliminare gli sprechi. Denari versati senza controllo è, in un regime di monopolio, la garanzia di una qualità peggiore. Qui occorre chiedere al governo il coraggio per risparmiare sul serio, di rendere effettiva la concorrenza nella scuola garantendo la possibilità ai genitori di scegliere. L’eliminazione del monopolio statale della scuola proporrebbe modelli gestione di primarie e secondarie dove si spende meno e si insegna meglio. Le scuole libere inserite in un sistema scolastico paritario nella sostanza avrebbero risultati di crescita della qualità e di razionalizzazione dell’investimento nel famoso capitale umano, che sono poi le persone.
SOCIETÀ LIQUIDA/ Barcellona: dietro la maschera della falsa libertà si cela il pensiero unico - INT. Pietro Barcellona - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Nel suo recente volume Il furto dell’anima Pietro Barcellona, docente di Filosofia del Diritto all’Università di Catania, rivolge uno sguardo preoccupato alla società «liquida».
Professor Barcellona, da dove le deriva questo timore sul futuro della società?
Nella società «liquida» o «della rete» non esistono più le persone, perché è avvenuta una dissoluzione delle parti che normalmente venivano ricondotte all’unità della persona e tutto viene reso, da un lato, occasionale e, dall’altro, indeterminato.
Ora, l’indeterminazione è un principio dissolutivo della vita umana. Essa, infatti, si è finora sviluppata sulla base di coppie oppositive: soggetto/mondo, uomo/Dio, maschio/femmina, vero/falso. Le coppie oppositive sono la struttura profonda della civiltà occidentale; intorno ad esse sono confluite religioni, visioni del mondo, filosofie. Nella società della rete, liquida, esse scompaiono.
Qual è il motivo per il quale, a suo avviso, avviene questo deprecabile fenomeno?
Siamo in un contesto in cui la differenza sessuale è ritenuta irrilevante, in cui, nella rete telematica, si inventano ruoli che non corrispondono alla realtà, in cui lo scambio è di informazioni e non di affetti, in cui non c’è la presenza fisica, il rapporto del corpo con l’altro corpo.
In una simile situazione scompare la differenza, che è un principio organizzativo del mondo, a partire dalla differenza uomo/Dio fino ad arrivare alla differenza tra uomo e donna.
Proviamo a pensare a second life: non si sa che identità la persona abbia assunto, la può cambiare quando vuole, nessuno è vincolato a una verità: io posso presentarmi come Robin Hood, entrare nei negozi del mondo virtuale, acquistare tutto quello che voglio; è tutto in un mondo che non ha nessun rapporto con la realtà.
Nel mondo reale noi abbiamo un'identità, che può e deve formarsi sempre in un rapporto relazionale con l’altro e con il mondo. Le relazioni che intercorrono tra le persone concrete sono presenti nello spazio e nel tempo; sulla rete virtuale non c’è né spazio né tempo. La rete è una metafora micidiale, perché non ha né un centro né una fine. Chi abita nella rete non abita in nessun posto, chi vive nella rete non vive nessuna realtà definita. È il trionfo della indeterminazione. Che è una forma caotica; siamo nell’epoca del caos.
Ma il punto è un altro.
Che cosa intende?
Bauman propone una sorta di diagnosi che va presa sul serio. Stiamo vivendo in una società in cui predomina l’atomismo, la rottura del legame, la cancellazione del ruolo del padre o, comunque, delle figure che in qualche modo rappresentavano dei modelli. Il mondo giovanile, che è quello più pervaso dalla rete, ha subito, come ho detto nel mio ultimo libro, un vero «furto dell’anima». Non c’è più una rappresentazione di sé che abbia una consistenza. Per questo i giovani sono così violenti: la mancanza di identità portata all’estremo produce violenza.
Si pensi, inoltre, alle ricostruzioni parascientifiche per cui l’umano si risolve nei neuroni e nelle sinapsi o alla rappresentazione atomizzata del mondo, fatto di individui senza rapporti. Tutto questo concorre al dissolvimento della persona.
In questo quadro rientra anche l’idea della libertà come assenza di legami?
Ma quella non è più neppure libertà. La libertà - ritorna il tema delle coppie oppositive - si manifesta di fronte a una legge. Senza di essa la libertà non ha più consistenza; è un puro movimentismo: il fatto che mi posso materialmente spostare da qui a lì con un aereo che non costa nemmeno troppo. La libertà, invece, è uno spazio interiore che ha un limite con cui si confronta. Senza limite la libertà non esiste.
Si potrebbe anche dire che non esiste la libertà senza un rapporto?
Il limite è la base del rapporto.
Il fatto che io non sono onnipotente, onnisciente, che ho un bisogno d’amore mi porta a un rapporto con l’altro: con una donna, con un amico, con mio padre.
Senza limite non ci possono essere rapporti: semplicemente costruiamo una fotocopia di noi, dei cloni. Il limite è decisivo per la costruzione dell’identità.
In questa visione quale ruolo gioca l'appartenenza?
L’appartenenza viene un momento dopo. Se l’uomo sviluppa una attitudine all’amore (inteso come passione autentica e non come gioco) crea coppie e le coppie non possono pensarsi senza figli e quindi nasce la famiglia.
Io ritengo che essa sia uno statuto antropologico dell’essere umano ed è necessaria per lo sviluppo della libertà e dell’autonomia dei singoli. La coppia non può dominare il figlio, che non è una pura clonazione dei genitori. Allora si apre una dialettica che è fatta di libertà e di vincoli.
Quindi ritorna il tema della differenza.
Infatti. La differenza ha uno statuto ontologico, non può essere trattata come un puro fenomeno di superficie. Da essa prende origine la storia, che è lo svolgimento temporale dei rapporti umani.
Se non c’è storia, non ci sono rapporti umani. E finisce anche la libertà.
Infatti, Bauman sostiene che «la rete non ha dietro di sé alcuna storia».
Ma non può esistere un individuo senza memoria. Il successo di formule quali «società liquida» o «post umana» nasconde l’annichilimento della possibilità di dare una consistenza alla persona. Tutto diventa volatile e reversibile: posso essere uomo o donna, padre o figlio. Un pasticcio. Dal punto di vista ideologico è un tentativo di annichilire la storia dell’occidente. La proclamata irrilevanza delle differenze, il dire che una cosa vale l’altra e che tutto è disponibile è una posizione nichilista.
Si può affermare che una simile situazione sociale è funzionale al potere?
Certo che lo scopo è una logica di potere. Le nuove élite sovranazionali sono completamente irresponsabili e tendono a istituire un dominio anonimo; esso non si lascia percepire in termini tradizionali però è terrificante. Queste nuove èlite sono una specie di borghesia globale che non supera le centomila unità, ma ha un potere enorme sul mondo. Basta pensare al controllo sui media. Questo processo di rappresentazione dell’individuo che si gioca le varie parti liberamente è una neutralizzazione di ogni aggregazione politica o religiosa o culturale.
Nessuno appartiene più a nulla e in tal modo è facilmente eterodiretto
LETTERATURA/ Tolkien, il ritorno dell'epica nel secolo del nichilismo - INT. Andrea Monda - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Dottor Monda, in primo luogo ci spieghi la sua formazione, che cosa la avvicinata agli studi esegetici e religiosi?
Il mio è stato un percorso un po' articolato. Dopo la maturità classica ho preso la laurea in giurisprudenza e ho lavorato per undici anni presso un istituto bancario un’esperienza molto formativa ma anche noiosissima (o forse formativa proprio perché noiosa).
Sta di fatto che durante quei lunghi anni, per ri-avvicinarmi ad argomenti che mi interessavano assai maggiormente, ho cominciato a studiare Scienze Religiose, e per me è stato un po' come tornare a respirare. Al termine di questo secondo percorso universitario ho compreso che, tra l’altro, una laurea in Scienze Religiose mi permetteva di insegnare religione nelle scuole; superai il concorso e dal 2000 sono diventato professore di religione nei licei di Roma. Col passare del tempo mi affidarono due corsi, all'Università gregoriana e Lateranense, dove insegno il rapporto fra religione e letteratura.
Ho scritto anche su vari giornali, e attualmente su Avvenire, il Foglio e l'Osservatore Romano. A rivedere indietro mi viene in mente il titolo di un famoso saggio di Moeller: “Saggezza greca e paradosso cristiano”. E poi anche dei saggi su Tolkien come quest'ultimo.
A suo avviso, l'opera principale di questo autore si può definire più di genere epico o di letteratura fantasy?
In primo luogo occorre mettersi d'accordo sul significato delle parole. Io sarei più per definire Il Signore degli Anelli come appartenente all'epica. Però può essere condivisibile anche il considerarlo come capostipite dei fantasy, una volta chiarito che questo termine non è affatto dispregiativo.
Esiste infatti una letteratura fantasy di grande livello e di grande importanza. Come ho detto propendo più per la grande riscoperta dell'epica racchiusa in questo grande romanzo, un romanzo epico novecentesco, che però ha al centro la fantasia.
Ma anche qui occorre spiegarsi bene, intendo infatti la fantasia di cui parla Tolkien.
Ossia?
Una fantasia che non è fuga dalla realtà, che non è droga né evasione, ma visione. Un modo, per dirla con Pennac, di astrarci dal nostro mondo per dargli un senso.
Ma in questo caso è un'operazione ancora più profonda: si perfora la realtà e la si vede in maniera simbolica, come segno, come qualcosa che rinvia a un oltre. Perché fra realtà e verità c'è uno scarto. Bisogna stare attenti a non cadere nel dogma dei realisti, a meno che non si intenda il realismo cattolico che consiste nel vedere la realtà come segno.
Mi viene in mente l’affermazione di Wittgenstein: «l'universo non si spiega con l'universo». La realtà è più grande della fantasia, perché quest'ultima scaturisce da quella. Ma in quest'ultima risiede la nostra capacità di leggerne il significato.
Questo è l'aspetto splendido della letteratura che non è mai solo intellettuale, sentimentale o psicologica ma uno sforzo globale dell’uomo di dire e comprendere la sua posizione nel mondo.
E qui abbiamo approfondito l'aspetto fantastico. Mentre lei prima ha detto comunque di propendere per una visione più avvicinabile alla dimensione epica. Può spiegare meglio questa sua affermazione?
Certo. L'epica è la letteratura per eccellenza. Epos significa “parola”. Ed è una parola grande che non si accontenta delle cose piccole. Buona parte della storia della letteratura occidentale, ma anche mondiale, coincide con l'epica, da Ghilgamesh a Omero fino al '500 per poi sparire quasi del tutto.
A me piace dire che, con Tolkien, ciò che era scomparso come un fiume carsico intorno al periodo del Rinascimento, riemerge oggi in una lingua e con un approccio tutto novecentesco.
La parola “grande” dell'epica, che parlava del destino dell'uomo, era sparita dopo Cervantes, dopo Don Chisciotte che ne è una parodia per quanto sublime, meravigliosa.
Ma l'epos è un genere che non può morire perché è radicato nel cuore dell'uomo il quale per natura è un essere narrante. Ci sono state quindi, nei secoli successivi, altre forme, sebbene meno evidenti, di epica, basti pensare all'opera di Melville.
Però è Tolkien a godere del primato di questo recupero. E lo ha fatto alla maniera di un filologo.
A questo di aggiunge che c'è tutto il '900 nel Signore degli Anelli. Penso alla grande invenzione degli hobbit perfetta immagine dei protagonisti del secolo scorso. Un eroe fragile, un non eroe, un santo.
Come giudica la strumentalizzazione che è stata fatta di quest'opera da varie parti politiche?
Nel 2002 scrissi un altro saggio, con Saverio Simonelli, che aveva come titolo provvisorio "Tolkien, il Signore degli equivoci". Con quel libro intendevo denunciare il riduzionismo di simili interpretazioni.
In Italia il volume arrivò alla fine degli anni '70. La prima edizione del 1970 non ebbe successo, mentre la seconda, del '77, ebbe un trionfo strepitoso. Era un anno terribile, e si può immaginare l'impatto ideologico che scatenò sulla cultura del tempo. Tolkien cadde in molte interpretazioni sbagliate. La cultura ufficiale di sinistra snobbò Il Signore degli Anelli o lo bollò, con miopia, come libro scritto da un conservatore stravagante.
La destra invece lo considerò cosa propria. Ne mutuarono il linguaggio senza capire molto, a mio avviso, il significato. Ancora oggi a Roma si vedono manifesti che raffigurano il “camerata Frodo”.
La cose ridicola è che 10 anni prima, negli anni '60, in America vi fu un fenomeno uguale ma di segno opposto. Era visto come il libro dell'antisistema da ecologisti, anticapitalisti e rivoluzionari di sinistra.
Queste interpretazioni contriburono, nel tempo, ad aggravare la diffidenza con la quale il libro a lungo è stato considerato.
La recente trasposizione cinematografica è, secondo lei, soggetta allo stesso tipo di letture?
No. Direi piuttosto che il film ha aiutato a sdoganare il libro proprio da visioni ideologiche.
Ha avuto un successo enorme, è tutto sommato un buon film con mille tradimenti rispetto all'opera, non tanto nello stile, perché Jackson è un regista appassionato, quanto nella resa del linguaggio cinematografico.
Ma io sono ben contento perché la vera letteratura ha il destino di essere popolare e non elitaria. In questo il film ha reso un favore al libro.
Un'ultima domanda: in una sua precedente intervista lei accostava la figura di Gollum a quella di Giuda. Non le sembra un paragone azzardato?
Gollum è senza dubbio un Frodo in controluce. Nel mio libro mi prolungo molto su Gollum che definisco, più che simile a Giuda, un alter Frodo. E poiché sostengo anche che in un certo senso Frodo rappresenti un alter Christus anche Gollum, senza voler essere blasfemi, è una sorta di alter Christus. Ciò ricorda l'aneddoto di Leonardo da Vinci che riutilizzò inconsapevolmente il modello che interpretò Cristo per dipingere Giuda.
Questo aneddoto dice che Cristo attraversa tutte le dimensioni, anche le più infime, dell'uomo, e prende su di sé tutto il peccato.
Quando Gollum cade nel fiume di lava porta su di sé tutto il peso del peccato. Questo lo rende simile a Gesù che s’immerge nelle acque battesimali del Giordano.
È un’immersione, quella di Gollum come quella di Cristo, provvidenziale e salvifica perché, nel caso di Gollum, anche lo stesso Frodo non ce l'avrebbe fatta.
Al di là di azzardati confronti evangelici, nel saggio faccio presente che Frodo e Gollum sono speculari. Frodo vede in Gollum una sua proiezione futura di sé e per questo ne ha pietà, mentre Gollum vede in Frodo il proprio passato.
Se gli hobbit sono la più grande invenzione di Tolkien, Gollum è la più grande invenzione degli hobbit.
Dai Banchi di solidarietà la storia di un'amicizia nata dalla condivisione di un bisogno - Redazione - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Quando si varca per la prima volta la soglia di una casa dove chi vi abita vive una situazione di difficoltà, se non addirittura di povertà, si è sempre un po' impacciati, imbarazzati, e ci si chiede: cosa potrò dire? Cosa potrò fare? Saprò essere adeguato al loro bisogno, rispettoso della loro situazione?
Ma poi, in genere, fila via tutto liscio. Nel senso che nella maggior parte dei casi si arriva in fretta ad instaurare un rapporto diretto, anche amichevole, e comunque a coinvolgersi affettivamente. Non ci sono questioni di bon ton che impongono e richiedono un lento avvicinamento.
In dodici anni di attività del Centro di Solidarietà "Madre Teresa" quante soglie varcate con imbarazzo nelle povere case della ricca Brianza, quante persone incontrate, quanti frigoriferi vuoti, quante facce, quante storie. Storie che finiscono bene. E storie che restano complesse, ingarbugliate, che in un continuo cadere e provare a rialzarsi, e poi cadere ancora, e ancora, sembrano suggerirci che non sta a noi porci l'obiettivo di risolvere i problemi, e che c'è qualcosa di più profondo che un happy end.
Lo dimostra, ad esempio, la storia di Patrizia e Carmelo, una famiglia di Lissone, che vive in un quartiere di case popolari tanto fitto e anonimo da essere soprannominato "l'alveare". Quando abbiamo cominciato a seguirli abbiamo scoperto che il capofamiglia era persona molto nota per i trascorsi con la giustizia che gli attribuivano una fama da persona pericolosa; tanto che qualcuno ci aveva sconsigliato di entrare in contatto con un "delinquente" del genere. E per confermare questa fama ci raccontavano che tanti anni prima, per dare maggiore spazio alla famiglia numerosa, Carmelo aveva deciso di ampliare l'appartamento semplicemente annettendo quello del vicino. Mentre quest'ultimo era in ferie aveva sfondato il muro, occupato il suo appartamento e murato la porta. In realtà, quando abbiamo cominciato a seguire questa famiglia, ci siamo trovati davanti a due persone anziane, bisognose di essere aiutati concretamente e soprattutto bisognose di rapporti umani e gratuiti.
Anni prima avevano perso un figlio in un incidente in moto, e questo dolore, di cui Patrizia parlava spesso, era ancora una ferita sanguinante. A Patrizia restavano altri nove figli, che però ormai si erano allontanati dai genitori lasciandoli soli. Dopo qualche anno che li avevamo conosciuti, un giorno Patrizia ci dice che stavano per arrivarle i soldi del risarcimento per la morte del figlio. Si trattava di una cifra importante: 350 milioni delle vecchie lire per i genitori, e sei mesi dopo una discreta somma anche per i nove figli. Patrizia era pronta a girare ai figli anche una buona parte della sua e a saldare i tanti loro debiti: bollette arretrate, rate per l'acquisto di mobili e altri oggetti, debiti di vario genere… «Ho due soli desideri» aveva detto ad alcuni di noi, «tornare al mio paese al sud in nave assieme a mio marito, e andare a comprare qualche camicia da notte in seta che, come le fanno al mio paese, non le ho più trovate da nessuna parte. E poi mettere da parte un po' di soldi per le emergenze». E a noi diceva: «Anche se adesso con tutti questi soldi non ho più bisogno del pacco di alimenti, voi però promettetemi che continuerete a venirmi a trovare».
Nel frattempo però figli e altri parenti, avevano ripreso ad andare a trovare i genitori: con la scusa di far compagnia alla coppia di anziani, in realtà erano lì a chiedere soldi per i motivi più strani in una sorta di assedio che ha comportato situazioni difficili e dolorose, di cui Patrizia ci parlava con il cuore spezzato. Sino a che, ad un certo punto, i soldi sono finiti. E con il soldi sono improvvisamente scomparsi tutti. Così, un giorno, Patrizia ci ha confessato di aver ancora bisogno del pacco di generi alimentari. Ma con lei e con il marito, soprattutto con lei, il rapporto non si era mai interrotto. Anzi, dentro quest'ultima dolorosa vicenda si era fatto ancora più stretto e più vero. E ora molti di noi possono chiamarla "amica" e lei può dire lo stesso di noi. E che un'amicizia così possa fiorire dentro l'alveare…
Come dice lo slogan della Colletta Alimentare? "Condividere i bisogni per condividere il senso della vita". Ecco, con Patrizia ci siamo fatti e continuiamo a farci compagnia così.
1) Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini
2) Discorso del Cardinale Bertone all'incontro su “Il secolo delle fedi”
3) I Vescovi italiani: né eutanasia né accanimento terapeutico - Respinto ogni cedimento alla cultura dell’autodeterminazione
4) 01/10/2008 09:05 - RUSSIA-GEORGIA-UE - Osservatori Ue cominciano la missione in Georgia - Mentre le truppe russe si ritirano, gli osservatori disarmati non potranno entrare nelle zone-cuscinetto attorno alla Sud Ossezia e all’Abkhazia. Si attende una conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione del Paese. La guerra ha fatto migliaia di morti e 200 mila profughi.
5) In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini - L'uomo supera infinitamente l'uomo, L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2008
6) 30 settembre 2008 - La rivolta di repubblicani e democratici affonda il piano di salvataggio pubblico di Wall Street -No al “socialismo in un solo paese” - La socializzazione delle perdite considerata unamerican. Le conseguenze, di Giuliano Ferrara
7) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: la legge deve garantire il diritto alla cura - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Il monito super partes di Napolitano: basta con la difesa dello status quo - Renato Farina - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) SOCIETÀ LIQUIDA/ Barcellona: dietro la maschera della falsa libertà si cela il pensiero unico - INT. Pietro Barcellona - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
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Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini
Il giovane Ratzinger lo ebbe come maestro e da allora non ha cessato di ispirarsi al suo pensiero. A quarant'anni dalla scomparsa del grande intellettuale italo-tedesco, un'analisi del suo influsso sull'attuale papa
di Sandro Magister
ROMA, 1 ottobre 2008 – In questo stesso giorno, quarant'anni fa giusti, a Monaco di Baviera moriva Romano Guardini (1885-1968), il filosofo e teologo italo-tedesco che la sua biografa Hanna-Barbara Gerl definì "un Padre della Chiesa del XX secolo".
I libri di Guardini hanno nutrito la parte più viva del pensiero cattolico del Novecento. E tra i suoi allievi ve ne fu uno speciale, oggi papa. È Joseph Ratzinger, che quand'era studente, poco più che ventenne, ebbe modo non solo di leggere ma anche di ascoltare dal vivo colui che elesse come suo grande "maestro".
Da teologo, da cardinale e anche da papa, Ratzinger ha confessato più volte, nei suoi libri, di voler proseguire sulle strade aperte da Guardini. In "Gesù di Nazareth" dichiara fin dalle prime righe d'avere in mente un classico del suo maestro: "Il Signore". E in "Introduzione allo spirito della liturgia" mostra fin dal titolo di ispirarsi a un capolavoro dello stesso Guardini, "Lo spirito della liturgia".
Nel quarantennale della scomparsa, in Italia, in Germania e in altri paesi europei saranno a lui dedicati simposi, seminari, convegni che cercheranno di analizzare il suo straordinario contributo al pensiero filosofico e teologico.
Ma uno dei campi più interessanti da esplorare è l'intreccio tra la biografia e il pensiero di Guardini e quelli dell'attuale pontefice.
È quanto fa nel saggio che segue uno dei maggiori esperti in materia, Silvano Zucal, professore di filosofia all'Università di Trento e curatore dell'edizione critica integrale delle opere di Guardini, edita in Italia dalla Morcelliana.
L'articolo è uscito sull'ultimo numero di "Vita e Pensiero", la rivista dell'Università Cattolica di Milano.
Ratzinger e Guardini, un incontro decisivo, di Silvano Zucal
In questo saggio vorremmo porre l'attenzione sul rapporto tra Romano Guardini e Joseph Ratzinger, ora papa Benedetto XVI. Il quale ha definito Guardini una "grande figura, interprete cristiano del mondo e del proprio tempo" e a Guardini torna spesso in quasi tutti i suoi scritti.
In realtà, per Ratzinger, quella di Guardini è una voce ancora attuale che semmai va resa nuovamente udibile. Il pensatore italo-tedesco infatti non ha scritto solamente molti libri tradotti in molte lingue, ma nel suo tempo è riuscito a plasmare un'intera generazione, la generazione alla quale lo stesso pontefice si sente di appartenere.
Prima di addentrarci compiutamente nella visione di Guardini, riproposta dall'attuale pontefice, soffermiamoci sul sorprendente intreccio biografico delle due personalità.
Nel viaggio di Benedetto XVI a Verona del 19 ottobre 2006 si è disvelato un "incontro" particolare tra i due. Non si può infatti dimenticare che Verona è la città che il 17 febbraio 1885 ha dato i natali a Guardini. E con grande commozione il papa ha ricevuto in dono proprio a Verona una copia dell'atto battesimale di Guardini, il cui battesimo era avvenuto nella chiesa di San Nicolò all'Arena. C'è in tal senso un singolare incrocio di destini tra Romano Guardini e Joseph Ratzinger. Guardini se ne andrà fin dalla primissima infanzia dall'Italia e diventerà "tedesco" per formazione intellettuale e spirituale. Dopo gli anni dell'insegnamento a Berlino dal 1923 al 1939, nel secondo dopoguerra, dopo i tre anni di docenza a Tubinga dal 1945 al 1948, egli insegnerà ininterrottamente "christliche Weltanschauung", visione cristiana del mondo, a Monaco di Baviera. La città elettiva di Guardini è quindi proprio Monaco, dove appunto morirà nel 1968.
Ratzinger compirà esattamente il cammino inverso. Dopo l'insegnamento di dogmatica e di teologia fondamentale presso la Scuola superiore di Frisinga, egli continuerà la sua attività di insegnamento a Bonn (1959-1969), la città della formazione e degli esordi di Guardini, a Münster (1963-1966) e infine a Tubinga per un triennio (1966-1969) come accadrà proprio allo stesso Guardini. Dal 1969 Ratzinger insegna invece dogmatica e storia dei dogmi presso l'Università di Ratisbona, ma il 25 marzo 1977 papa Paolo VI lo nominerà arcivescovo di Monaco e Frisinga. Come già per Guardini, Monaco sembrava anche per Ratzinger la tappa definitiva.
Invece le due strade si divaricano. Se il filosofo veronese sarà chiamato per sempre al Nord, in quella Monaco che egli tanto amava perché la sentiva come una sorta di città-sintesi in cui anche la sua anima italiana poteva trovarsi a casa, il teologo tedesco vedrà invece il Sud come destino. E non tornerà più a casa anche quando il desiderio del ritorno alla sua Baviera era impellente e sembrava poter essere soddisfatto. Roma e l'Italia diventeranno la sua definitiva "patria" spirituale.
Al di là di questi itinerari insieme incrociati e opposti nelle direzioni, queste due figure straordinarie avranno modo di incontrarsi anche personalmente. Ratzinger sarà non solo lettore di Guardini ma anche in qualche occasione "uditore", come lo era stato a Berlino anche il grande teologo Hans Urs von Balthasar. Negli anni che vanno dal 1946 al 1951 – proprio gli stessi anni in cui Ratzinger studiava presso la Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga, nelle immediate vicinanze della capitale bavarese, e poi all'Università di Monaco – Guardini assume in quella stessa città, nell'università e nella Chiesa di Monaco, quel ruolo di leadership intellettuale e spirituale che tutti gli riconoscono. Per Ratzinger, allora poco più che ventenne, il fascino di una figura come quella di Guardini è indiscutibile e ne segnerà fortemente il suo stesso profilo intellettuale. Quando, a partire dal 1952, egli inizia la sua attività didattica nella medesima Scuola di Frisinga dove era stato studente, l'eco delle lezioni di Guardini arrivava ben forte nella cittadina, che respirava quanto di culturale e intellettuale accadeva nella vicina capitale bavarese. E il rapporto intellettuale tra il futuro Papa e il "maestro" Guardini si fece straordinariamente intenso.
Sono infatti molteplici gli elementi che accomunano i due pensatori, che diventeranno poi figure decisive della Chiesa del Novecento. Se l'uno diventerà cardinale e poi papa, anche a Guardini verrà offerto il cardinalato a cui poi rinuncerà. Entrambi sono preoccupati di ritrovare l'essenziale del cristianesimo cercando di rispondere alla provocazione di Feuerbach. Su questo Guardini scriverà nel 1938 la splendida opera che porta il titolo "L'essenza del cristianesimo", mentre Ratzinger dedicherà al tema la sua "Introduzione al cristianesimo" scritta nel 1968, indubbiamente la sua opera più celebre e anche, con ogni probabilità, la più importante.
Egualmente accomuna i due la preoccupazione per la Chiesa, il suo senso e il suo destino. Se Guardini profetizzava nel 1921 che "un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze", in modo più drammatico Ratzinger si poneva con eguale radicalità il problema ecclesiologico a partire da quello che egli riteneva l'avvenuto capovolgimento della tesi guardiniana: "Il processo di grande portata è che la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità".
Basti pensare, in tal senso, alla vastissima risonanza che ebbe l'accorato intervento pronunciato da Ratzinger il 4 giugno 1970 all'Accademia cattolica bavarese di Monaco davanti a mille persone sul tema "Perché oggi sono ancora nella Chiesa?". Egli disse allora: "Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano: poiché non si può credere da soli. Si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa".
Analoga anche la preoccupazione dei due per il futuro di un'Europa che tende a ripudiare il suo passato. Basti pensare alle lezioni sull'Europa di Guardini e agli interventi di Ratzinger, che anche da papa ha voluto ricordare il senso dell'Europa e delle sue radici, ritenendo l'Europa "un'eredità vincolante per i cristiani".
LA QUESTIONE LITURGICA
Un punto cruciale d'incontro tra l'attuale papa e Guardini è indubbiamente la liturgia. Entrambi sono uniti dalla comune passione per essa. Per chiarire il suo debito nei confronti di Guardini, Ratzinger titolò il suo libro sul tema liturgico, uscito nella festa di sant'Agostino del 1999 e che ebbe uno straordinario successo (4 edizioni in un anno), "Introduzione allo spirito della liturgia", proprio ricordando il celebre "Lo spirito della liturgia" di Guardini uscito nel 1918.
Scrive lo stesso Ratzinger nella premessa al suo libro: "Una delle mie prime letture dopo l'inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l'opera prima di Romano Guardini 'Lo spirito della liturgia', un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana 'Ecclesia orans', a cura dell'abate Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Quest'opera può, a buon diritto, essere ritenuta l'avvio del movimento liturgico in Germania. Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera 'essenziale' (termine assai caro a Guardini); la si voleva comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita".
E il confronto prosegue. Ratzinger paragona il proprio intento a quello di Guardini e lo ritiene del tutto coincidente nello spirito anche se in un contesto storico radicalmente diverso: "Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora — nel 1918 — per certi aspetti simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e — in maniera definitiva — grazie al Concilio Vaticano II, l'affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure".
Dopo la ripulitura dell'affresco, però, il problema dello "spirito della liturgia" per Ratzinger oggi si ripropone. Rimanendo nella metafora: per l'attuale papa diversi ed errati tentativi di restauro o di ricostruzione, disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, hanno fatto sì che l'affresco sia stato messo gravemente a repentaglio e minacci di rovinare se non si prendono le misure necessarie per porre fine a tali dannosi influssi. Non si tratta per Ratzinger di tornare al passato e infatti egli dice: «Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del messaggio liturgico e della sua realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina. Questo libro vorrebbe proprio rappresentare un contributo a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzioni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica". E anche nel prosieguo del testo, soprattutto nel primo capitolo, egli si confronta con le tesi di Guardini e con la sua celebre definizione della liturgia come "gioco".
Nell'intervento commemorativo del 1985 Ratzinger si soffermava invece sulla fondazione storico-filosofica del rinnovamento liturgico proposto da Guardini. Nell'opera "Formazione liturgica" del 1923 il filosofo salutava con spirito liberatorio la fine dell'epoca moderna giacché essa aveva rappresentato lo sfacelo dell'essere umano e, più in generale, del mondo, una divaricazione schizofrenica tra una spiritualità disincarnata e menzognera e una materialità abbrutita che è solo uno strumento nelle mani dell'uomo e dei suoi obiettivi. Si aspirava al "puro spirito" e si incappò nell'astratto: il mondo delle idee, delle formule, degli apparati, dei meccanismi e delle organizzazioni. L'allontanamento dal moderno coincideva in Guardini – sottolineava Ratzinger – con l'entusiasmo rivolto al paradigma medievale ben illustrato nel libro del martire del nazismo Paul Ludwig Lansberg, "Il Medioevo e noi", uscito nel 1923. Ciò non significava per Guardini abbandonarsi a un romanticismo del Medioevo ma coglierne la permanente lezione. Nell'atto liturgico è il vero autocompimento del cristiano e allora nella lotta sul simbolo e sulla liturgia ciò che è in gioco – annota Ratzinger sulla scia della lezione di Guardini – è il divenire stesso dell'uomo nella sua dimensione essenziale.
Il futuro papa andrà poi anche a soffermarsi sulle affermazioni espresse da Guardini nella famosa sua lettera inviata nel 1964 ai partecipanti al terzo Congresso liturgico di Magonza, che conteneva la celebre domanda: "L'atto liturgico, e con esso soprattutto quello che si chiama 'liturgia', è forse tanto storicamente vincolato all'antichità o al Medioevo che per onestà lo si dovrebbe oggi abbandonare del tutto?". Una domanda che nascondeva in realtà un quesito drammatico: l'uomo del futuro sarà ancora in grado di compiere l'atto liturgico che richiede un senso simbolico-religioso ormai in estinzione oltre che la sola obbedienza della fede?
Senza più il pàthos ottimistico della prima ora, Guardini intravedeva il volto del postmoderno con tratti ben diversi da quelli da lui in precedenza auspicati. Un vero e proprio choc spirituale dovuto alla civilizzazione tecnica invasiva di tutto, come già testimoniavano le sue "Lettere dal Lago di Como" del 1923. Per questo, sottolinea Ratzinger, "qualcosa della difficoltà degli ultimi tempi si trova, nonostante la gioia per la riforma liturgica del Concilio sviluppatasi a partire dal suo lavoro, nella sua lettera del 1964. Guardini esorta i liturgisti radunati a Magonza a prendere sul serio l'estraneità di coloro che considerano la liturgia come non più eseguibile e a riflettere su come si possa — se la liturgia è essenziale — avvicinarli a essa".
L'OPZIONE TEOLOGICA FONDAMENTALE
Guardini, ricorda Ratzinger, si trovò nel pieno del dramma della crisi modernista. Come ne uscì? Fedele alla lezione del suo primo maestro, il teologo di Tubinga Wilhelm Koch, ma anche attento ai limiti e ai rischi di quella prospettiva, andò alla ricerca di un nuovo fondamento e lo trovò a partire dalla sua conversione. "La breve scena — sottolinea il futuro papa — di come Guardini dopo la perdita della fede penetra di nuovo in essa, ha qualcosa di grande ed emozionante proprio nella modestia e semplicità con cui egli descrive il processo. L'esperienza di Guardini nella mansarda e sul balcone della casa dei genitori mostra una somiglianza davvero stupefacente con la scena del giardino nel quale Agostino e Alipio trovarono l'apparizione della propria vita. In entrambi i casi si schiude la parte più interiore di un uomo, ma nel guardare all'interno di ciò che vi è di più personale e più nascosto, nell'ascoltare il battito del cuore di un uomo, si percepisce a un tratto il rintocco della storia più grande, poiché è l'ora della verità, perché un uomo ha incontrato la verità".
Un incontro non più con Dio inteso in senso universale ma con "il Dio in concreto". In quel momento Guardini, sottolinea Ratzinger, capì che teneva in mano tutto, la sua vita intera, e disponeva di essa e anzi doveva disporne. La scelta fu quella di dare la sua vita alla Chiesa e da qui viene la sua opzione teologica fondamentale: "Guardini era convinto che solo il pensare con il soggetto Chiesa renda liberi e, soprattutto, renda possibile la teologia. Programma che oggi è nuovamente di attualità e dovrebbe essere preso in considerazione nel modo più approfondito, come richiesta alla teologia moderna".
Per Guardini una conoscenza teologica costruttiva non può mai realizzarsi allorché Chiesa e dogma appaiono soltanto "come limite e chiusura". Di qui il suo motto provocatorio, dal punto di vista teologico: "noi eravamo decisamente non liberali", motto che allude al fatto che per lui la Rivelazione divina si poneva come criterio ultimo, "fatto originante" della conoscenza teologica, e la Chiesa ne era la "sua portatrice".
Il dogma diventava così l'ordinamento fecondo del pensiero teologico. Effettivo fondamento della sua teologia fu dunque l'esperienza della conversione, che per Guardini costituì il superamento dello spirito moderno e, in specie, della sua deriva soggettivistica post-kantiana. Per il nostro pensatore dunque "all'inizio non vi è la riflessione, bensì l'esperienza. Tutto ciò che si presentò più tardi come contenuti, è sviluppato a partire da questa esperienza originaria".
Nel descrivere la struttura fondamentale del pensiero di Guardini, il futuro papa si sofferma su quelle che, a suo dire, costituiscono le categorie principali all'interno dell'unità di liturgia, cristologia e filosofia.
Anzitutto il "rapporto tra pensiero ed essere". Un rapporto che implica l'attenzione alla verità stessa, la ricerca dell'essere dietro il fare. Basti pensare alle parole pronunciate da Guardini nella sua lezione di prova a Bonn: "Il pensiero sembra volersi di nuovo indirizzare adorante verso l'essere". Sulla scia di Nicolai Hartmann, di Edmund Husserl e soprattutto di Max Scheler, la proposta di Guardini, per Ratzinger, esprimeva "l'ottimismo per il fatto che ora la filosofia ripartiva come questione dei fatti stessi, un inizio che guidava del tutto da solo nella direzione delle grandi sintesi del Medioevo e del pensiero cattolico da esse formato". Per Guardini – sottolinea il futuro papa – la verità dell'uomo è l'essenzialità, la conformità all'essere, meglio ancora "l'obbedienza all'essere" che è anzitutto obbedienza del nostro essere di fronte all'essere di Dio. Solo in tal modo si perviene alla forza della verità, a quel primato determinante e orientativo del lògos sull'èthos su cui da sempre insisteva Guardini. Ciò che egli voleva, chiosa Ratzinger, era sempre "un nuovo avanzamento verso l'essere stesso, la richiesta dell'essenziale che si trova nella verità".
Con l'obbedienza del pensiero di fronte all'essere — di fronte a ciò che si mostra e che è — sono dunque emerse molte altre categorie del pensiero di Guardini, che così il futuro papa sintetizza: "L'essenzialità, alla quale Guardini contrappose una veridicità meramente soggettiva; l'obbedienza che consegue dal rapporto con la verità dell'uomo ed esprime il suo modo di diventare libero e di essere tutt'uno con la propria essenza; infine la priorità del lògos sull'èthos, dell'essere rispetto al fare.
A esse ne vanno aggiunte altre due che emergono dagli scritti metodologici di Guardini: il "concreto-vivente" e la "opposizione polare".
Il "concreto-vivente", oltre a essere una categoria generale del pensiero di Guardini, assume anche, secondo Ratzinger, una valenza cristologica: "L'uomo è aperto verso la verità, ma la verità non è in qualche luogo, bensì nel concreto-vivente, nella figura di Gesù Cristo. Questo concreto-vivente si dimostra come verità proprio attraverso il fatto che esso è l'unità dell'apparentemente contrapposto, poiché il lògos e l'a-lògon si uniscono in esso. Solo nel tutto sta la verità". "L'apparentemente contrapposto" è ciò a cui allude l'altra categoria metodologica fondamentale, quella della "opposizione polare" degli opposti che, nel mentre si oppongono, insieme si richiamano: silenzio-parola, individuo-comunità. Solo chi sa tenerli insieme può abbandonare ogni forma di pericoloso esclusivismo e ogni deleterio dogmatismo.
UN MONITO PER IL FUTURO
Il 14 marzo del 1978 l'Accademia cattolica bavarese assegnò il "Premio Romano Guardini" al presidente del Land di Baviera Alfons Goppel e a tenere la "Laudatio", come era prassi, venne chiamato Joseph Ratzinger nella sua qualità di presidente della conferenza episcopale bavarese. Fu un testo di straordinario spessore, in cui egli passò in rassegna le varie dimensioni del "politico": la politica come arte, l'appartenenza del politico a un territorio, la responsabilità verso lo Stato, il rapporto tra verità e coscienza in ambito politico.
In quest'ultimo passaggio Ratzinger riprese ancora una volta la lezione di Guardini: "In Germania abbiamo fatto esperienza del tiranno che manda a morte, bandisce e confisca. L'utilizzo senza coscienza della parola è una particolare specie di tirannia, che a suo modo manda a morte, confisca e bandisce altrettanto. Ci sono certamente anche oggi motivi sufficienti per esprimere simili ammonimenti e per richiamare le forze che siano in grado di impedire tale tirannia, che cresce a vista d'occhio. L'esperienza della sanguinaria tirannia di Hitler e lo stare all'erta di fronte a nuove minacce fecero diventare Romano Guardini, nei suoi ultimi anni, quasi contro il suo temperamento, un drammatico ammonitore sulla rovina della politica attraverso l'annullamento delle coscienze e lo spinsero a invitare a un'interpretazione giusta, non meramente teorica, bensì reale ed efficace del mondo secondo l'uomo che agisce politicamente in base alla fede".
Temi di tale rilievo Guardini andò a proporre nel mondo accademico tedesco da Berlino a Tubinga fino a Monaco. Rapporto controverso – afferma il futuro papa – quello del pensatore con l'università tedesca, che fin dai tempi della cattedra a Berlino lo portò a soffrire "per l'impressione di stare al di fuori del canone metodologico dell'università e da essa egli fu in effetti palesemente non riconosciuto. Si consolò con il pensiero che, con la propria lotta per comprendere, giudicare e dare forma, poteva essere il precursore di un'università che ancora non esisteva". Ratzinger fa qui un'annotazione che fa pensare alle recenti polemiche sulla mancata visita del papa all'Università di Roma "La Sapienza": "Va a favore dell'università tedesca il fatto che Guardini poté trovarvi spazio con tutto il proprio cammino e la poté sentire sempre di più come dimora della propria particolare vocazione". Solo il nazismo gli tolse provvisoriamente la cattedra e, memore di quel tragico evento, dopo la guerra — sottolinea il futuro papa — Guardini in un intenso intervento accademico sulla questione ebraica difese in modo appassionato l'università come il luogo dove si indaga sulla verità, dove gli affari e le vicende umane vengono misurati sui criteri del grande passato e senza l'assedio del presente, dove più dovrebbe essere desta la responsabilità per la comunità.
Non avrebbe trionfato il Terzo Reich, ci ricorda Ratzinger con le parole di Guardini, se l'università tedesca non avesse conosciuto il suo "sfacelo" dovuto alla rimozione della questione della verità da parte dei modelli accademici dominanti: "Guardini prese posizione, all'epoca, con un trasporto implorante che di solito sembrava essergli del tutto estraneo, contro la politicizzazione dell'università e la sua penetrazione da parte della regia dei partiti, delle chiacchiere delle assemblee, del chiasso della strada e ha gridato ai suoi ascoltatori: Signore e signori: non permettetelo! Si tratta di qualcosa che riguarda ciò che è comune a tutti noi, la storia futura".
Discorso del Cardinale Bertone all'incontro su “Il secolo delle fedi”
Religione e politica nell'era globale
ROMA, martedì, 30 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questo martedì dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, all'incontro-dibattito su “Il secolo delle fedi” tenutosi a Roma, a palazzo De Carolis, in occasione della presentazione del numero 42 della rivista “Aspenia”, il periodico trimestrale di politica internazionale dell'Aspen Institute Italia.
* * *
Signor Presidente,
Signor Ministro,
Signore e Signori,
1. Ho accolto con piacere l’invito di Marta Dassù, Direttore di Aspen Institute Italia, e di altre importanti istanze istituzionali, a partecipare a questo incontro di altissimo livello, sul rapporto fra politica e religione nell’era globale.
Il tema, importante ed attuale, da tempo attira il mio interesse; in un certo senso è un argomento vasto come il mondo e, pertanto, ha coinvolto molti pensatori, uomini politici e uomini di Chiesa. Non vorrei, però, che qualcuno pensasse che, nel mondo globale, la Chiesa sta cercando di prevaricare sulla politica….pertanto, mi limiterò a condividere con voi alcune riflessioni ispiratemi dalla lettura dei ricchi e stimolanti dialoghi fra il Ministro Tremonti, Presidente di Aspen Institute Italia, ed il Presidente D’Alema, nonché fra il Presidente Amato e l’On. Quagliarello. Entrambe le conversazioni compaiono sull’ultimo numero di Aspenia, appena pubblicato e dedicato proprio al rapporto fra religione e politica.
Segnalo, anzitutto, la mia soddisfazione per aver riscontrato in tali dialoghi una certa convergenza sul fatto che, nell’era globale, la politica ed il mercato non sono tutto; sono un mezzo, ma non il fine. Mi sembra, inoltre, positivo un confronto sulle modalità in cui combinare ragione e fede. In un mondo dai confini sempre più aperti, il dialogo non è una scelta ma una necessità! Non sono mai stato d’accordo con chi sostiene che la politica sia inutile, perché promette di costruire ponti anche dove non passa il fiume! Sono convinto, invece, che la politica sia necessaria. Ma credo che, per comunicare valori autentici, debba rispettare il “ponte” che collega ciascuno di questi valori con Dio.
2. Pertanto, il primo punto su cui desidero attirare l’attenzione del qualificatissimo pubblico di quest’incontro è che i valori, di cui la politica si nutre, ben difficilmente possono essere rispettati vivendo etsi Deus non daretur (come se Dio non esistesse). Nella distinzione dei ruoli, la politica ha bisogno della religione; quando, invece, Dio è ignorato, la capacità di rispettare il diritto e di riconoscere il bene comune comincia a svanire.
Come ha detto Papa Benedetto XVI, nel suo recente viaggio apostolico in Francia, occorre «una cultura, per la quale il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008)
Lo attesta l’esito tragico di tutte le ideologie politiche, anche di segno opposto, e mi pare che lo confermi l’odierna crisi finanziaria. Laddove si ricerca solo il proprio profitto, a breve termine e quasi identificandolo con il bene, si finisce per annullare il profitto stesso.
Esiste certamente un’etica “laica”, come spesso si dice, ossia non ispirata alla trascendenza. Essa merita attenzione, rispetto e sovente concorre al bene comune. Essa, però, rischia talvolta di assomigliare a quel tale che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli! In altre parole, non inspirandosi alla trascendenza finisce per essere più esposta alle fragilità umane ed al dubbio. Per questo motivo, nonostante nella nostra epoca si proclamino con particolare solennità i diritti inviolabili della persona, a queste nobili proclamazioni si contrappone spesso, nei fatti, una loro tragica negazione. Basti pensare alla povertà crescente, alla persistente imposizione di certi modelli culturali o economici, all’intolleranza.
In tale prospettiva, nel citato discorso il Santo Padre ha affermato: una «cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).
In questa stessa linea, il Papa ha ricordato più volte che, se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici, anche quando si occupano della “cosa pubblica”, ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. In assenza di un punto di riferimento assoluto, infatti, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza e sovente finisce in balia delle forze del male.
Non bisogna poi dimenticare che, nelle odierne società multi-etniche e multi-confessionali, la religione costituisce un importante fattore di coesione fra i membri e la religione cristiana in particolare, con il suo universalismo, invita all’apertura, al dialogo ed all’armoniosa collaborazione.
3. Proseguendo nella riflessione, desidero aggiungere che la religione non è un rimedio, una sorta di “oppio” dei poveri. Nell’odierno mondo politico capita che questa convinzione si trovi tanto a destra come a sinistra. Non credo, invece, che il “ritorno a Dio” debba essere circoscritto a quelle società che stentano a decollare o a quelle che, al contrario, sembrano costrette a frenare.
All’origine della conversione di S. Francesco, uno dei più grandi Santi e dei più famosi Italiani, non c’è una vita di stenti e di espedienti, quanto piuttosto di agi e di una certa dissolutezza. E’ vero che la ricchezza ed il benessere rappresentano anche una tentazione: quando è domenica e c’è il sole, chi ha una casa al mare ed una in montagna è tentato di andare là, piuttosto che in chiesa. Ma anche chi non le ha, spesso preferisce restare a dormire! Ciò che intendo dire è che, se la ricchezza o il potere costituiscono spesso una forte tentazione, perché è difficile gestirli senza attaccarvi il cuore, anche la povertà può spingere a fare a meno di Dio. In ogni modo, ricca o povera, influente o sconosciuta, ogni persona è fatta per Dio, che non manca di seguirla e di attirarla a sé. Si ricordi il famoso assioma del grande Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni, I,1,1).
4. Facciamo un passo ulteriore. Desidero, cioè, sottolineare che, per gestire la globalizzazione, la politica non necessita soltanto di un’etica ispirata alla religione, ma ha bisogno che tale religione sia razionale. Anche per questo, la politica ha bisogno del Cristianesimo.
Fin dai suoi albori, infatti, alla luce della sua originaria novità, il Cristianesimo ha assunto, elaborato ed approfondito il meglio della sapienza greca e romana, presentandosi proprio come la vittoria del pensiero umano sul mondo delle religioni del tempo. Nel Cristianesimo, in un certo senso, la razionalità è divenuta religione, perché Dio non ha respinto la conoscenza filosofica, ma la ha assunta. S. Giustino, dopo aver studiato tutte le filosofie, aveva trovato nel Cristianesimo la vera philosophia. Era cioè convinto che, diventando Cristiano, non aveva rinnegato la filosofia; anzi, proprio allora era diventato pienamente filosofo.
La forza che ha trasformato il Cristianesimo in una religione mondiale è consistita esattamente nella sua sintesi fra ragione, fede e vita. Questa combinazione, così potente da rendere vera la religione che la manifesta, è anche quella che può consentire alla verità del Cristianesimo di risplendere nel mondo globalizzato e nel processo di mondializzazione.
A differenza di quanto sostengono alcuni politici e pensatori, il Cristianesimo non si accontenta di mostrare la parte della faccia che Dio tiene rivolta verso l’Occidente, in quanto nella sua essenza esso è mondiale e, quindi, risponde perfettamente alle dinamiche dell’odierno mondo globalizzato. La fede cristiana, quindi, non è una specie di optional dell’Occidente, magari un po’ superato, quanto piuttosto un tesoro per il mondo presente ed un investimento per quello futuro. Anzi, personalmente lo ritengo l’investimento migliore, perché è il più proficuo, quello che fruttifica per la terra e per il cielo!
Vale infine la pena di sottolineare che la fede cristiana e la razionalità secolare, consapevoli di essere alleate e protagoniste della cultura occidentale, potrebbero utilmente correlarsi con le altre grandi culture, nelle quali si identificano popolazioni anche più numerose di quella europea. Tale relazionalità, a sua volta, potrebbe aiutare a riscoprire o ad approfondire valori e norme presagiti da tutti gli uomini e consentire ad essi di conseguire nuova sorgente d’illuminazione e maggior forza operante. E’ evidente che tutto ciò aiuterebbe il compito specificamente politico d’indirizzo della globalizzazione.
5. E’ quindi del tutto opportuno, oltre che pienamente legittimo, che i Cristiani partecipino al dibattito pubblico. Altrimenti, argomenti e ragioni teiste e religiose non potrebbero essere invocati pubblicamente in una società democratica e liberale, mentre lo potrebbero gli argomenti razionalisti e secolari, con chiara violazione del criterio di eguaglianza e di reciprocità che sta alla base del concetto di giustizia politica.
La religione non è come il fumo, che si può tollerare in privato, ma che in pubblico deve essere sottoposto a strette limitazioni. Mi pare che questa consapevolezza si faccia strada nei dialoghi pubblicati sull’ultimo numero di Aspenia, e ne sono particolarmente lieto, anche se riconosco che alcune considerazioni, di fatto, evocano ancora la convinzione contraria, un po’ corrosa dal tempo e sfilacciata, ma che, come tutte le “bandiere”, non è facile da “ammainare”.
In ogni modo, «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia. …. ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (Lettera enciclica Deus caritas est, 28)
Il Cristianesimo conosce da sempre la distinzione fra la sfera religiosa e quella sociale e politica, in altre parole la sana laicità. L’ha scoperta addirittura prima dello Stato. Infatti, molti dei primi Cristiani furono martirizzati perché, pur insegnando il rispetto delle Autorità civili, si rifiutavano di offrire incenso all’Imperatore.
Nel suo recente Discorso all’Eliseo, il 12 settembre corrente, il Santo Padre ha ricordato che «sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo, in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”» (Incontro con le Autorità dello Stato francese all’ Elysée, 12 settembre 2008).
Consapevole di tale distinzione, il Cristianesimo promuove valori che non si dovrebbe etichettare come “cattolici” e, quindi, “di parte”, accettabili solo da chi condivide questa fede. La verità di quei valori, infatti, sta nella loro corrispondenza alla natura dell’uomo e, dunque, alla sua verità e dignità. Di conseguenza, chi li sostiene non ambisce un regime confessionale, ma è semplicemente consapevole che la legalità trova il suo ultimo radicamento nella moralità e che quest’ultima, per essere pienamente umana, non può che rispettare il messaggio proveniente dalla natura della persona, perché in essa è iscritto anche il suo «dover essere». Pertanto, quando la legge positiva è in armonia con la legge naturale, l'attività dell'individuo e della comunità rispetta la dignità umana ed i diritti fondamentali della persona e può evitare tutte quelle strumentalizzazioni che rendono l'uomo miseramente schiavo del più forte, come ebbe a scrivere Giovanni Paolo II nell'Esortazione Apostolica Christifideles laici (n. 5). «E il più forte — egli continuava — può assumere nomi diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass media» (ibid.)
Solo nel rispetto di precise condizioni, il desiderio di giustizia e di pace che sta nel cuore di ogni uomo potrà trovare appagamento e gli uomini, da «sudditi», potranno diventare veri e propri «cittadini». In questa prospettiva, è ancora attuale la lezione del poeta francese Charles Péguy, per cui la democrazia o è morale o non è democrazia.
In regime di democrazia, rispettare posizioni diverse è doveroso; fare proprie o appoggiare scelte e decisioni inconciliabili con la natura umana, è però una contro-testimonianza alla dignità della persona. In politica si deve spesso scegliere la strada possibile, anziché quella migliore; occorre tuttavia il coraggio di non imboccare ogni sentiero solo perché teoricamente percorribile.
6. E’ questa la prospettiva in cui collocare i ripetuti appelli del Papa e di tanti esponenti ecclesiali, in favore dei cosiddetti “valori non negoziabili”. Mi riferisco alla promozione della vita umana, dal suo concepimento fino alla fine naturale, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, all’educazione dei figli. La “non negoziabilità” di tali principi non dipende dalla Chiesa e dalla sua supposta intransigenza o, peggio, dalla sua chiusura mentale di fronte alla modernità; dipende, piuttosto, dalla natura umana stessa, a cui quei principi sono saldati. La natura umana non cambia con le maggioranze parlamentari e nemmeno con il passare del tempo, con il cambio di latitudine o di longitudine.
La frequenza degli interventi a tutela dei “valori non negoziabili” è determinata dall’assiduo riferimento a tali questioni nell'agenda politica odierna e dalla loro grande portata. Quando la politica cerca di sostituirsi alla natura dell’uomo, anziché difenderla, o quando il legittimo bilanciamento dei poteri e delle responsabilità dello Stato non viene rispettato ed in gioco c’è questa stessa natura, allora i Pastori debbono intervenire: non per hobby o per prevaricazione; quanto, piuttosto, per difendere la dignità e, in ultima analisi, il bene della persona e della società, da manipolazioni facilmente presentate come liberazioni. Non si tratta, pertanto, di un'indebita ingerenza della Chiesa in un ambito che non le sarebbe proprio, ma di un aiuto per far crescere una coscienza retta ed illuminata e, perciò stesso, più libera e responsabile. Del resto, né la democrazia è la regola del “non disturbo”, né la morale cattolica un utile “instrumentum regni”!
La Chiesa non insegue il plauso e la popolarità, perché Cristo la invia nel mondo «per servire» e non «per essere servita»; non vuole «vincere ad ogni costo», ma «convincere», o per lo meno «allertare» i fedeli e tutte le persone di buona volontà circa i rischi che corre l'uomo quando si allontana dalla verità su se stesso!
In questo contesto, ho apprezzato che, in spirito costruttivo e cooperativo, mi abbiate proposto di presentare il punto di vista della Chiesa cattolica sul rapporto fra religione e politica nell’era globale, e mi auguro che quest’incontro servirà a rendere tale rapporto sempre più fecondo per il bene comune e per lo sviluppo di un’autentica e sana democrazia. Grazie!
I Vescovi italiani: né eutanasia né accanimento terapeutico - Respinto ogni cedimento alla cultura dell’autodeterminazione
di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 30 settembre 2008 (ZENIT.org).- I Vescovi auspicano una legge di fine vita per evitare “eutanasia e accanimento terapeutico”. E' quanto ha precisato monsignor Giuseppe Betori nel corso della conferenza stampa per la presentazione del comunicato finale del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Martedì 30 settembre, nella sala Marconi della Radio Vaticana, a Roma, rispondendo alle domande incalzanti dei numerosi giornalisti presenti, il Segretario Generale della CEI ha spiegato che l'episcopato italiano guarda con favore all’ “opportunità di una legislazione sul fine vita, nella direzione però del ‘favor vitae’”.
Monsignor Betori si è rifiutato di parlare di ‘Testamento biologico’, perché questo termine viene spesso collocato in una cultura che “ritiene l’autodeterminazione in ordine alla propria morte a disposizione della persona umana”.
Mentre, secondo la CEI, “la vita e la morte non sono a disposizione di nessuno, neanche di sé stessi”. “Noi – ha detto il nuovo Arcivescovo di Firenze – preferiamo proteggere la vita e rendere degno il momento della fine della propria esistenza”.
Per questo si rende necessario una legge per la “salvaguardia della vita, non della disponibilità della persona a mettere fine alla propria esistenza, secondo quel principio di autodeterminazione che alcuni vorrebbero prevalente rispetto al principio di indisponibilità della vita”.
Circa l’opportunità o meno di una legge sul fine vita, monsignor Betori ha spiegato che “c’è stato un cambiamento nella percezione delle situazione legislativa, ed alcuni procedimenti giudiziari stanno aprendo la strada all’interruzione legalizzata della vita”.
Il Segretario generale della CEI ha ribadito che per i Vescovi italiani questo significa “né accanimento, né abbandono terapeutico; attenzione alle volontà del paziente, purché chiare, esplicite, aggiornate, e non presupposte o derivate dallo stile di vita”.
In merito alle dichiarazioni previe sulle volontà del fine vita, monsignor Betori ha fatto alcune precisazioni: “queste volontà sono solo un orientamento, che è competenza del medico valutare in scienza e coscienza, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente”.
Per il presule, “nessuna volontà può essere derivata dagli stili di vita di una persona, se questa volontà non viene messa per iscritto e legalizzata”.
“Questo non significa – ha però precisato – che questa volontà diventa volontà decisionale, ma una volontà con cui si confronta il medico per valutare quale sia la migliore cura, senza derive né in senso eutanasico, né nella direzione dell’accanimento terapeutico”.
Dopo aver ribadito che “l’idratazione e l’alimentazione non sono attività curative, ma sostegno vitale della persona stessa”, monsignor Betori ha sottolineato che in una eventuale legge sul fine vita servono “dichiarazioni inequivocabili e certe, ma non nel senso di una volontà che decide circa la propria vita, bensì di una volontà di cui il medico deve tener conto circa la valutazione della cura”.
Alla domanda su come sta cambiando l’orientamento della CEI in merito ad una legge sul fine vita, il nuovo Arcivescovo di Firenze ha affermato che “non si tratta di un cambiamento voluto da noi, ma da chi ha creato una legislazione insicura per la vita delle persone”.
“Con questo uso della legge – ha proseguito –, non c’è più sicurezza per la fine di vita di ciascuno di noi, dunque c’è bisogno di salvaguardarlo: è logico che tutto ciò provochi non una rottura, ma un dibattito”.
“Dibattito – ha concluso monsignor Betori – che però arriva ad una concordanza. Si tratta di un dibattito fruttuoso, che aiuta a mettere a fuoco certe problematiche”.
01/10/2008 09:05 - RUSSIA-GEORGIA-UE - Osservatori Ue cominciano la missione in Georgia - Mentre le truppe russe si ritirano, gli osservatori disarmati non potranno entrare nelle zone-cuscinetto attorno alla Sud Ossezia e all’Abkhazia. Si attende una conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione del Paese. La guerra ha fatto migliaia di morti e 200 mila profughi.
Tbilisi (AsiaNews/Agenzie) – Osservatori dell’Unione europea (Ue) hanno cominciato oggi a pattugliare il territorio georgiano vicino alla Sud Ossezia per garantire un cessate-il fuoco e la fine delle ostilità fra Russia e Georgia. I circa 200 osservatori devono anche verificare il ritiro delle truppe russe oltre le zone cuscinetto volute da Mosca attorno alle regioni della Sud Ossezia e dell’Abkhazia, separatesi in modo autonomo dalla Georgia.
Hansjoerg Haber, capo della missione Ue, ha chiesto oggi agli osservatori di essere “amichevoli e fiduciosi”. Fra di loro vi sono anche esperti di diritti umani e avvocati. Il gruppo è disarmato e non può per ora entrare nelle zone cuscinetto fino al completo ritiro delle truppe russe dalle zone, che dovrebbe avvenire entro il 10 ottobre.
Il lento ritiro dei russi è stato deciso con un accordo preparato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. La Russia vuole comunque mantenere almeno 8 mila truppe in Abhkazia e Sud Ossezia, dopo aver riconosciuto la loro indipendenza. La comunità mondiale – e soprattutto Ue e Usa – ha criticato sia le zone cuscinetto, sia il riconoscimento dell’indipendenza delle due regioni. La Ue vorrebbe anche avere osservatori in Abhkazia e Sud Ossezia, ma la Russia lo vieta. Gli osservatori Ue avranno solo 4 basi: a Tbilisi, a Gori (vicino al confine sud con la Sud Ossezia), a Zugdidi (vicino al confine con l’Abhkazia) e a Poti.
Il conflitto nella regione è cominciato il 7 agosto scorso, quando la Georgia ha cercato di riprendere il controllo sulle due regioni, dopo una serie di schermaglie. La Russia ha invaso la Georgia e ha cacciato le truppe georgiane dal Sud Ossezia e dall’Abkhazia.
La breve Guerra ha causato la morte di migliaia di persone e oltre 200 mila profughi.
Il mese prossimo a Bruxelles si terrà una conferenza di donatori per aiutare la ricostruzione della Georgia. Gli Usa hanno già promesso aiuti per 1 miliardo di dollari. Una cifra simile sarà stanziata dalla Ue. Tbilisi non potrà usare le donazioni per ricostruire il suo esercito.
In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini - L'uomo supera infinitamente l'uomo, L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2008
Uscirà nel gennaio 2009 presso la Morcelliana, in prima edizione mondiale e come volume iii/i dell'opera omnia, Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie ("L'uomo. Fondamenti di un'antropologia cristiana"), il lavoro di una vita, che Romano Guardini, nonostante l'impegno, non ha mai portato a termine. "L'autore - scriveva nel 1939 - lavora a questa impresa già da molti anni, ma non è ancora in grado di prevedere quando potrà essere condotta a termine". L'opera che viene alla luce, curata da Massimo Borghesi e Carlo Brentari, è composta di sette parti: "Introduzione e posizione del problema"; "L'incontro con sé e con il mondo"; "L'origine e la creazione"; "Prova, peccato, colpa"; "Redenzione; l'esistenza cristiana"; "Il compimento". A quarant'anni dalla morte di Guardini (1 ottobre 1968) ecco in anteprima parte dell'introduzione.
di Romano Guardini
In queste lezioni cercherò di impostare la questione "che cos'è l'uomo" e di tracciare le linee portanti di una risposta. Si tratta soltanto di un tentativo, e di un tentativo ha tutti i vantaggi e gli svantaggi; esso però sorge da una riflessione che prosegue ormai da circa trent'anni.
Una sempre più ampia letteratura sull'argomento mostra che la questione antropologica si è posta al centro del pensiero del nostro tempo. Ciò ha delle ragioni molto profonde. Se cerchiamo di cogliere il carattere peculiare del pensiero compreso tra il diciottesimo secolo e l'inizio del ventesimo, esso ci appare dominato da due strutture: quella meccanicistica delle scienze della natura e quella umanistica delle scienze dello spirito. Pur nella loro diversità di fondo, le due modalità di pensiero avevano un elemento comune: erano sicure di se stesse e convinte di conoscere profondamente la realtà del mondo e dell'uomo. Naturalmente ciò non era del tutto vero. Ovunque, sia dietro le affermazioni teoriche che dietro il comportamento pratico, era all'azione lo scetticismo. Tutti i pensieri e le prese di posizione minacciavano prima o poi di dissolversi nel relativismo. Eppure si ammetteva, per consenso generale, che esistesse un'immagine certa dell'esistente, nella quale anche l'uomo aveva il suo posto.
Nella prospettiva delle scienze naturali l'uomo era una parte della natura; una parte altamente differenziata, certo, ma sempre natura. Che cosa fosse la natura sembrava fondamentalmente chiaro, per quanto i singoli problemi fossero ben lungi dall'essere esauriti. La natura era, appunto, l'elemento naturale, l'ovvio punto di partenza per chiarire anche il problema dell'uomo. Anche la prospettiva umanistica, delle scienze dello spirito, prendeva le mosse da una sfera il cui senso e il cui valore apparivano evidenti, vale a dire la cultura. E anche qui l'uomo era determinato univocamente: egli era il prodotto della cultura, la creava e al tempo stesso ne veniva plasmato.
Ho parlato sinora dell'aspetto propriamente teorico del problema, vale a dire dell'immagine che l'uomo si faceva del mondo e di se stesso. Ora si dovrebbe però porsi al di là di tale aspetto per mostrare come questa immagine fosse a sua volta l'interpretazione di qualcosa di vivente e anteriore. Mi riferisco al peculiare sentimento che l'uomo aveva della vita, al modo in cui egli faceva esperienza del mondo e di se stesso nell'incontro con il mondo, alla direzione in cui procede il suo sviluppo di sé, ai giudizi e alle prese di posizioni involontarie che precedono ogni pensiero - fino a quel fattore enigmatico che si può vedere come l'entelechia di un periodo storico, vale a dire la configurazione fondamentale che nel concreto divenire di un'epoca preme verso la propria realizzazione e la cui più decisa estrinsecazione consiste nei moti interiori del gusto, del desiderio e della ripugnanza... Tutto questo si è sviluppato nella direzione sopra descritta. Ciò che deviava da essa veniva percepito come un residuo non ancora posto sotto controllo, come un momento di disturbo o di opposizione di secondaria importanza o un pericoloso avvicinamento allo scetticismo e al disorientamento.
Vi era poi una terza via del pensiero e del sentimento della vita, la quale, per impiegare un concetto di Nietzsche, potrebbe essere definita eraclitea: mi riferisco qui a certi elementi dello Sturm und Drang e a determinati livelli di lettura dello stesso Goethe. Ma vanno ricordati anche Hölderlin e la modalità di comprensione dell'antichità che è stata introdotta da Creutzer, Welcker e Bachofen e che non era solo una teoria scientifica, ma esprimeva un atteggiamento dell'animo. Tutto questo è infine stato infranto, e nella maniera più impetuosa, da Nietzsche. Questo atteggiamento non è stato ripreso dal diciannovesimo secolo; esso è stato abbandonato o considerato come un residuo di opposizione da non prendere sul serio. Ciò poté avvenire tanto più facilmente in quanto tale atteggiamento, ripetutamente alleatosi con l'irresponsabilità estetizzante e con il relativismo etico, ben celava il suo vero carattere. In verità esso non faceva parte del diciannovesimo secolo ma aveva già oltrepassato lo spartiacque storico per confluire nella successiva immagine del mondo.
Non è possibile approfondire in poche righe quest'ultima affermazione, così mi limiterò a fornire alcune indicazioni. La concezione meccanicistica delle scienze naturali e quella umanistica delle scienze dello spirito presuppongono che l'esserci sia in qualche modo compiuto. Esse sottolineano in maniera costante il momento della realtà, che considerano come già formata. Per entrambe le concezioni il compito dell'uomo è conoscere questa realtà, trovare la propria reale collocazione all'interno di essa e modificare se stesso in modo da adattarsi al suo ordine. Le possibilità [dell'uomo] sono fondamentalmente note; sconosciuta è solo la misura in cui si potrà realizzarle. L'altro sentimento dell'esserci invece percepisce il mondo e l'uomo come realtà in larga misura potenziali. Se per le prime l'aspetto decisivo è il dato osservabile e studiabile, per il secondo è la possibilità di addentrarsi nell'ignoto. Una possibilità però che è affidata all'uomo stesso. L'esserci è aperto alla determinazione plastica e creativa. È significativo che a ciò sia connesso un forte impulso pedagogico - e con ciò si intende formativo, non meramente dottrinale. Anzi, il concetto di pedagogico sembra non essere sufficiente a definire tale impulso, al punto che ci si chiede che cosa sia in gioco qui, se non si tratti forse di una nuova specie umana o addirittura di un oltrepassamento dell'uomo nel sovrumano - e con ciò della trasformazione della sostanza stessa dell'uomo.
Questo impulso viene rivelato in tutta la sua insistenza dalla moderna tendenza verso l'autonomia. Nella speranza di poter ritornare su questo tema in un'altra occasione, mi limito qui soltanto ad accennarlo. L'uomo si costituisce nella sua indipendenza di fronte a tutto ciò che gli si presenta come una richiesta assoluta, vale a dire di fronte a Dio, alla rivelazione e all'autorità divina; egli lo può fare mettendo in risalto i momenti assoluti che custodisce in sé stesso, i quali si condensano nella pretesa di assolutezza della propria personalità spirituale. Al tempo stesso però emerge anche un'altra tendenza: [quella a] considerare autosufficienti l'essere non assoluto e la finitezza dell'uomo, e a determinarsi soltanto in funzione di esse. Finché l'assoluto è per così dire l'unico schema in grado di fondare l'esigenza di un'esserci autosufficiente, l'uomo moderno fa di tutto per costituire se stesso come assoluto. Lo sviluppo di un immediato sentimento dell'esserci e della corrispondente modalità di pensiero conferisce alla finitezza in quanto tale un'intensità del tutto nuova e un'inedita capacità di conferimento di senso. Arriva così un momento in cui la richiesta di assoluto viene a cadere e la finitezza, pur se transitoria e limitata, sembra poter far scaturire da sé la totalità. Questa volontà di finitezza e autosufficienza si congiunge poi con una nuova apertura alle potenzialità della vita. L'anelito dell'uomo si distoglie dall'assoluto e rivolge tutto il suo fervore al finito - nella convinzione che, se lo si affronta con una passione esclusiva, possano emergere da esso inesauribili possibilità. (La dottrina di Nietzsche del ritorno dell'uguale in connessione con la comparsa del superuomo). In questo modo la volontà pedagogica ottiene una nuova intensità; potremmo quasi dire che essa si eleva al rango di demiurgo.
Sembra che, dopo la guerra, queste due strutture di pensiero siano state profondamente messe in questione e che se ne sia presentata una terza. L'esserci sembra essere entrata in gioco in maniera del tutto nuova. Se questo è vero, allora lo spontaneo rivolgersi all'uomo diventa comprensibile: è il movimento con cui la vita si assicura della saldezza delle proprie radici. (...)
Queste riflessioni prendono le mosse dalla convinzione che il diciannovesimo secolo non ci ha affatto rivelato che cos'è l'uomo. Esse sono aperte al confronto con ogni tesi, per quanto audace, che possa essere formulata su tale essere, e si aspettano di veder confermata la parola di Pascal: "l'uomo supera infinitamente l'uomo". E qui è in particolar modo il pensiero cristiano - sempre che sia veramente tale - a essere chiamato a prendere la parola.
Se la mia comprensione è adeguata, vi sono molti modi in cui un ente può darsi alla conoscenza.
Vi sono in primo luogo l'esperienza immediata, interiore o esteriore, e la testimonianza attendibile da parte di una fonte storica. Chiameremo esperienza diretta questa modalità del darsi e la conoscenza che su di essa si basa; nell'esperienza diretta rientrano la maggior parte delle scienza empiriche e storiche e delle scienze dello spirito, e inoltre alcune branche (o quantomeno discipline ausiliarie) della teologia.
In secondo luogo vi è la rivelazione. Grazie a essa lo spirito rischiarato dalla fede incontra la realtà efficace di un Dio che è in se stesso inaccessibile. L'oggetto della conoscenza per fede non è semplicemente presente, né disponibile a nostro piacere, bensì emerge dalla Sua parola e dalla configurazione che gradualmente si rivela. In questo caso la conoscenza - ma bisognerebbe entrare più nei dettagli e chiarire in che senso si possa qui parlare di conoscenza - non è diretta ma passa attraverso il messaggio della rivelazione.
Vi è poi un terzo modo di darsi, complesso e molto significativo. Esso è proprio di realtà [particolari] che appartengono al mondo, e proprio a quel mondo dell'esperienza interiore ed esteriore in cui si muove l'esperienza diretta. Sembra non essersi alcuna ragione intrinseca che possa impedire a queste realtà di darsi in modo diretto, e tuttavia nei fatti questo non accade: esse vengono continuamente sommerse da elementi esteriormente simili a loro ma diversi per essenza, e si deformano. Si tratta delle realtà e dei valori che riguardano il senso dell'esserci e la salvezza della persona. Si potrebbe pensare ad esempio che la persona stessa appartenga al mondo. La sua essenza dovrebbe poter essere colta attraverso l'esperienza interna e la visione dell'aspetto esteriore, attraverso l'analisi della sua coscienza e l'indagine sulle sue categorie, sui suoi valori ecc. Tuttavia i risultati effettivi [di queste indagini] non sono mai univoci. Il puro fenomeno della persona viene confuso con quella della personalità o dell'individualità, quando non addirittura con la mera configurazione caratteriale [Gestalt]. Esso sconfina ora nel terreno della psicologia, ora in quello della sociologia, ora in quello della logica. Una chiarificazione di che cosa sia propriamente persona si ha soltanto quando tale fenomeno viene a contatto con un elemento che non appartiene al mondo né proviene da esso, ma dalla rivelazione: l'apparizione del Figlio, o meglio del Figlio della figlia di Dio. Con questo io non affermo che il concetto di persona vada compreso a partire dalla rivelazione; entro un certo limite esso rientra tra gli oggetti dell'indagine filosofica. Soltanto quando la realtà effettiva dell'uomo, creatura da Dio pervenuta alla sua maggiore età [Mündigkeit], sarà stata compresa nella fede e si sarà riflessa in essa, solo allora il fenomeno della persona potrà essere colto senza alcuna ambiguità. Torneremo a parlare a più riprese del fenomeno della persona. Ora possiamo solo esprimere sinteticamente ciò che, nei più diversi ambiti d'indagine, si impone in maniera ricorrente alla nostra attenzione: la semplice presenza [die Vorhandenheit], i valori della comune esistenza biopsichica e, al di sotto di un certo livello, anche i contenuti di senso della cultura oggettivamente intesa possono essere senz'altro compresi a partire da se stessi. Tuttavia, quanto più un fenomeno è vicino al nucleo di senso dell'esistenza morale e spirituale della persona e quanto più esso è inerente alla sua salvezza, tanto meno esso si colloca di per se stesso in una condizione di piena e completa datità. Per poter emergere nella sua autentica essenza, esso necessita piuttosto del rispecchiamento nella rivelazione.
Questo rapporto verrà chiamato relazione di dipendenza. Accanto alla conoscenza diretta, che coglie il mondo in maniera immediata, e alla conoscenza per fede, che accoglie il suo oggetto dalla rivelazione, poniamo un terzo tipo di conoscenza, la conoscenza dipendente. Pur essendo volta agli oggetti del mondo, questa conoscenza li riceve nella loro pura e completa datità qualora essi siano compenetrati dal messaggio della rivelazione.
Se questa concezione è valida, allora è chiaro che lo stato di cose sopra descritto deve essere interrogato soprattutto alla luce della domanda "che cos'è l'uomo?". Con ciò non si intende naturalmente pregiudicare in alcun modo la legittimità degli approcci d'indagine della biologia, della psicologia e della filosofia. Poiché però ogni fenomeno unitario è determinato in maniera decisiva dal centro di una configurazione di senso, e non dalla sua periferia - e quindi, ad esempio, la questione di cosa sia "persona" è più importante di quella delle strutture psicologiche ai fini della comprensione dell'uomo - allora la consapevolezza cristiana dell'uomo si rivela di importanza vitale per l'antropologia. (...)
Vogliamo dunque chiedere come la coscienza cristiana pensi l'uomo. Questa domanda però deve venire meglio precisata.
La si potrebbe formulare così: come viene determinata l'essenza dell'uomo nella rivelazione? Inoltre si dovrebbe cercare di passare dalle diverse affermazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alle realtà ultime che si celano dietro di esse. Si dovrebbero poi analizzare le diverse immagini dell'uomo così come emergono dal Genesi, dai Salmi, dai Profeti, dal Vangelo di Marco o dalle Lettere di Paolo, e a partire da esse rivolgersi alla più profonda unità trans-strutturale, per così dire alla parola originaria [Urlaut] della rivelazione riguardante l'uomo. Questo sarebbe un compito importante, anche se il risultato di questa ricerca infinitamente impegnativa potrebbe poi riassumersi in poche frasi.
Se però vogliamo calare la questione cristiano-antropologica nella pienezza dell'esistenza umana, dobbiamo rinunciare a fare ricorso alla lettera originaria trans-strutturale, alla sostanza semplice e prima. Dobbiamo piuttosto fare attenzione alle declinazioni in cui essa si presenta nelle strutture psicologiche, storiche e spirituali. Non potrà quindi più esserci un'antropologia cristiana in senso unitario, bensì soltanto diverse possibilità all'interno della realtà umana del cristianesimo.
Un'ulteriore precisazione. Si potrebbe certo tentare di distinguere storicamente le diverse connotazioni che la coscienza cristiana ha assunto nel corso del tempo, o ancora di sviluppare sistematicamente le diverse possibilità strutturali implicite nei principi cristiani fondamentali e di arrivare così a una fenomenologia dell'immagine cristiana dell'uomo, per poi delineare una dialettica delle strutture che ci permetta di gettare lo sguardo sulla dimensione trans-strutturale.
Questa impresa è così grandiosa da superare in maniera assoluta le nostre possibilità, ma anche a prescindere da questo in essa mancherebbe proprio ciò che più conta di fronte alle sopra menzionate strutture storico-spirituali: la validità esistenziale. Se ciò che conta non è la rappresentazione obiettiva ma sono le convinzioni e le prese di posizione interne al confronto spirituale, allora non resta altra possibilità che mettere in luce la coscienza cristiana così come essa stessa si interpreta in una determinata struttura. Quale essa sia dipende in primo luogo dall'orientamento dovuto alla collocazione storica di colui che pensa. All'interno dello spazio d'azione che ancora resta, infine, la questione va ulteriormente precisata sulla base della decisione personale.
Ed è proprio tale decisione a collocarsi alla base del progetto antropologico che vorrei sviluppare in queste pagine. Ciò mi inserisce in una linea di pensiero che, partita dal platonismo e dal neoplatonismo, confluisce nel Cristianesimo di Paolo e Giovanni e di qui conduce a Ignazio di Antiochia, ad Agostino, a Anselmo di Canterbury, a Francesco, alla teologia agostiniana medievale, a Dante e ai platonisti rinascimentali (Pascal, Francesco di Sales, i grandi teologi dell'Oratorio) per poi esaurirsi nel corso del xix secolo.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2008)
30 settembre 2008 - La rivolta di repubblicani e democratici affonda il piano di salvataggio pubblico di Wall Street -No al “socialismo in un solo paese” - La socializzazione delle perdite considerata unamerican. Le conseguenze, di Giuliano Ferrara
228 no, 205 sì. Un voto storico sul più grande salvataggio finanziario della storia americana, Wall Street al collasso, un clima da brivido. Hanno detto di no a un piano garantito dalla Casa Bianca, dal Tesoro, dalla Federal Reserve, dalle leadership congressuali di democratici e repubblicani, e con qualche malizia e prudenza anche dai candidati McCain e Obama. Rivoteranno su un nuovo testo, perché le pressioni in nome della salvezza nazionale sono fortissime, ma per adesso i deputati della House di Washington, che si battono per la rielezione a novembre e hanno sul collo il fiato furente dei loro elettori, hanno giudicato ingiusto e unamerican il grande bail out che salva la finanza americana e mondiale, lo hanno bocciato come contrario al principio su cui si fonda la società americana: i privati rischiano e guadagnano, se falliscono perdono, e i soldi pubblici non possono sostituire il fondamento di libertà e di responsabilità del sistema. Ha votato no la maggioranza dei repubblicani, che invocano come giustificazione il solito discorso estremista e partigiano di Nancy Pelosi, che ha dato del voto un’interpretazione estremamente faziosa. Ma quasi cento democratici si sono aggiunti alla rivolta. C’è molto di più in ballo che non una battaglia elettorale o parlamentare.
Le conseguenze finanziarie e di sistema di questo esplosivo rigetto del piano di salvezza nazionale sono alla lunga misteriose, ma nell’immediato tragiche. Al tumulto di Wall Street e delle Borse mondiali, severamente impegnate dalla crisi del credito e ormai da sempre crescenti rischi di insolvenza bancaria, si può aggiungere la manifestazione dei primi segni di una fatale recessione, con un trasferimento all’economia del disastro finanziario. Fino ad ora le tendenze erano sempre due: il sistema del credito crolla, le banche boccheggiano o falliscono, ma i fondamentali dell’economia (produzione, produttività, import-export, tasso di occupazione, crescita del prodotto interno lordo) resistono. Ma fino a quando possa durare questo immenso paradosso, non si sa.
Le conseguenze politiche del voto di ieri, visto che siamo a sei settimane dal voto di novembre per eleggere il presidente, sono forse più chiare. Fosse passato ieri trionfalmente il progetto di “socialismo in un solo paese” varato dall’establishment bipartisan di Washington (presidente, tesoro, Federal reserve e leader del Congresso), avremmo dovuto senza indugi prepararci a Obama. L’uomo dell’establishment, l’uomo d’ordine è lui, ed è questa la carta che gioca nella crisi, per cercare di governare a suo vantaggio le paure americane del momento. La frustrazione dei repubblicani, anche di quelli che chiedevano ai colleghi di appoggiare il piano di salvataggio, era tangibile. Ma con questo calcio all’establishment, questa rivolta sia democratica sia repubblicana contro l’idea di pagare i debiti del sistema bancario con i soldi dei taxpayers, che sono un idolo di giustizia riverito e amato dalla assoluta maggioranza degli americani, una certa identità americana, pro mercato e all’occorrenza fieramente populista, può riaffermare i suoi diritti e spingere il vento nelle vele un po’ afflosciate del vecchio McCain e del suo sorridente e un tanto surreale emblema di guerra o guerriglia culturale di nome Sarah Palin. Bisogna anche vedere se l’eroico vecchietto e la sua ardente e fresca (molto fresca) compagna decideranno di cavalcare la marea e di moltiplicare gli effetti dello schiaffo contro lo stato padrone in quello che per molti aspetti è ancora il paese di Ronald Reagan.
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: la legge deve garantire il diritto alla cura - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Prima la prolusione del cardinale Bagnasco in apertura del Consiglio permanente della Cei; poi, ieri, le conclusione del segretario uscente Giuseppe Betori. In entrambe le circostanze la Conferenza episcopale italiana ha ritenuto opportuno tornare a chiarire la posizione della Chiesa sulla tanto dibattuta questione del testamento biologico, soprattutto a partire dalla ben nota sentenza sul caso di Eluana Englaro. Ora la Chiesa si dice favorevole a un intervento legislativo su questo argomento, proprio per impedire le derive contenute in quella sentenza; un pronunciamento, quello della Chiesa, che da alcuni è stato addirittura interpretato come una ritrattazione.
Ma ieri Betori ha precisato che la Cei non si è detta favorevole al testamento biologico, bensì a un semplice intervento legislativo che dia regole precise, evitando la «cultura dell’autodeterminazione». Un «chiarimento utile», secondo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, che può solo fare bene al dibattito che da domani inizierà in commissione Salute al Senato, sui vari disegni di legge intorno a questo argomento.
Onorevole Roccella, il segretario uscente della Cei Giuseppe Betori ha ieri chiarito la posizione della Chiesa, facendo anche una distinzione: essere favorevoli a una legge non significa essere favorevoli al testamento biologico. Cosa pensa di questa distinzione?
È una cosa importante distinguere e chiarire, perché la materia è molto delicata. Ciò di cui si sta parlando è la dichiarazione anticipata di trattamento, che si ricollega all’articolo 32 della Costituzione. La legge che vogliamo fare verte su due concetti fondamentali: la libertà di cura e il consenso informato, dando regole chiare sul concetto di consenso. Bisogna trovare un giusto equilibrio che contemperi questi due concetti fondamentali: il diritto alla cura e la libertà di cura.
Non è sufficiente l’articolo 32 per regolare questo?
Fino ad oggi c’è stato solo l’articolo 32; ma ora c’è stata un’interpretazione giurisprudenziale che è andata oltre lo spirito della Costituzione. Ora vogliamo ritornare all’interno di una interpretazione che affermi di nuovo sia la libertà di cura, sia l’inviolabilità della vita. Non deve trattarsi nemmeno di una legge sul “fine vita”: si tratta semplicemente di una legge che regoli l’articolo 32.
Che cosa rende necessaria questa legge?
Il fatto che a un certo punto sia iniziata un’interpretazione sempre più minacciosa nei confronti del diritto alla cura, arrivando a spingersi verso l’ammissione dell’abbandono terapeutico e il supermento di quei limiti che aprono la strada all’eutanasia. Bisogna ristabilire una garanzia della libertà personale, che d’altra parte confermi anche senza incertezza il diritto alla cura. Il tutto all’interno di un rapporto forte di alleanza tra medico e paziente
Oggi in commissione Sanità al Senato inizia il dibattito sui disegni di legge: quali sono le prospettive di questo dibattito, che prevede la presentazione di ben sei disegni di legge?
In commissione si riprenderà il dibattito, che già c’è stato al Senato: un dibattito complesso in cui non si è ancora trovato un accordo. Bisognerà riprendere quello che è maturato nel dibattito, aggiornandolo con i due fatti fondamentali accaduti durante questa legislatura: la sentenza Englaro e le mozioni, fatte sia dal Senato che dalla Camera, sul conflitto di attribuzione a proposito della medesima sentenza. Al Senato peraltro c’è stata anche una mozione bipartisan, votata anche dal centrosinistra, sul fatto che ci sia l’esigenza di arrivare in tempo brevi alla legge. Questi sono i punti nuovi da cui il legislatore deve ripartire per aggiornare il dibattito. Spero che si possa arrivare a una legge il più possibile condivisa.
La presa di posizione della Cei influirà sul dibattito che sta per iniziare?
Diciamo che la Cei, con la sua posizione pacata e ragionata, aiuta culturalmente a chiarire i termini della questione. Secondo me è importante che venga sgomberato il campo dal pregiudizio nei confronti della Chiesa. Anche quando partecipo ai dibattiti, noto nel pubblico una prevenzione nei confronti delle posizione cattoliche, come se fossero arretrate e contrarie alla libertà personale. Al contrario gli interventi di Bagnasco e Betori hanno chiarito il quadro, ponendo le garanzie a tutela dei più deboli e dei più fragili, ed evitando quell’ingegneria sociale che è alla base della sentenza Englaro. Sono preoccupazioni che possono essere condivise da tutti, perché posizioni di estrema ragionevolezza, anche e soprattutto per un laico. Chi crede che esista solo una vita sulla terra, mi pare che a maggior ragione debba fare in modo che questa sia tutelata, e che non vengano fatte scelte assolutamente irrimediabili.
SCUOLA/ Il monito super partes di Napolitano: basta con la difesa dello status quo - Renato Farina - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Giorgio Napolitano ha una storia di uomo di cultura e di uomo di sinistra. Ora, da presidente della Repubblica, non può dimenticare se stesso. E quando guarda alla scuola vi scorge quella che lui stesso ha chiamato “emergenza educativa”. Così, all’apertura ufficiale dell’anno scolastico, in presenza del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, senza intervenire sullo specifico dei suoi provvedimenti, le ha dato ragione.
Ha detto:
1) La scuola ha bisogno di «scelte coraggiose di rinnovamento: non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell’esistente».
2) «Non si tratta di ripartire da zero ogni volta che con le elezioni cambi il quadro politico».
3) «Dialogo! Esprimo l’augurio che questo sia il clima nel quale possa svilupparsi il confronto politico, nelle sedi istituzionali, sui problemi della scuola».
4) Taglio dei costi: «l’Italia, per gli impegni assunti in sede europea nel suo stesso vitale interesse, deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico per incidere sempre di più sul debito accumulato. Nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo; ed esso comporta anche, inutile negarlo, un contenimento della spesa per la scuola… Questo deve invece tradursi nel massimo sforzo sul piano della razionalizzazione e del maggior rendimento della spesa per la scuola, sul piano del sostanziale miglioramento della sua qualità».
Interessante. Essendo un monito super partes, per la stessa natura dell’istituzione da cui proviene, è utile per spazzare via la polemica politica pretestuosa e concentrarsi sui contenuti.
Provo a declinare con pacatezza.
(1) Il coraggio di rinnovare. Oggi il sistema scolastico italiano è quello più conservatore del mondo: avendo bloccato il merito, si è finito col favorire lo status quo sociale; per usare una metafora della sociologia, l'Italia è il Paese con l'ascensore bloccato. Occorre rimetterlo in movimento. Credo che questa crescita della movimentazione sociale, questa crescita della possibilità di migliorare socialmente – ma non è solo miglioramento sociale, è la possibilità di una pienezza nella crescita – sarà possibile con una sana concorrenza tra le proposte educative e tra le istituzioni scolastiche, sia a carattere statale, attraverso l'autonomia, sia a carattere non statale, rendendo operativo quell'impianto di parità scolastica che già aveva voluto Berlinguer, e che è stato votato dal Parlamento, ma non attuato. Così come si è votato per il federalismo senza finora tradurlo in atti con il federalismo fiscale.
Il decreto Gelmini è in questa direzione. Non è una riforma. Non si ripromette grandi cose. Non ha la pretesa di ripartire da zero smontando quanto fatto in precedenza (2). Mette l’occhio sullo scopo della scuola. Senza enfasi retorica, ma puntando su alcuni semplici strumenti che dicono come la scuola sia una cosa seria, e la questione centrale non sia l’accumulo di saperi e competenze (anche, ovvio), bensì la serietà dinanzi al destino. La vita è un caso serio, non lo dice più nessuno. O se lo si dice, poi nella pratica vince il lassismo. Ecco che allora il voto in condotta, l’educazione civica, il maestro unico o prevalente, soprattutto, sono fatte per restituire peso alla disciplina e all’autorità. Non da intendersi come forme vuote, ma dentro un cammino di crescita. Il maestro prevalente vuole essere una maniera per ricomporre la frammentazione del significato, per rimediare all‘incapacità di individuare quelle figure di adulti capaci di accompagnarti lungo una strada che porti a un destino buono. Il primo punto da recuperare è allora il compito della scuola. La scuola serve a questo, alla serietà dinanzi al destino.
A proposito del dialogo (3) richiesto da Napolitano. L'opposizione è arrivata a chiedere al Parlamento di votare l'incostituzionalità dell'insegnamento della Costituzione. È una miseria logica, e non è neanche male per la dialettica marxista questa capacità di dire tutto e il suo contrario, pur di ottenere lo scopo prefisso da parte delle avanguardie. Poi si è proceduto di allarmismo in allarmismo al quadrato e poi al cubo. Un ministro ombra (Picierno) è giunta a parlare del decreto come di un «disegno criminale». La prima protesta realizzata a Roma dai maestri e dalle maestre cigiellini è stata l’esibizione del lutto, per segnalare la volontà di uccidere la scuola da parte del governo.
La riduzione dei costi (4). Realismo, serietà, educazione è anche eliminare gli sprechi. Denari versati senza controllo è, in un regime di monopolio, la garanzia di una qualità peggiore. Qui occorre chiedere al governo il coraggio per risparmiare sul serio, di rendere effettiva la concorrenza nella scuola garantendo la possibilità ai genitori di scegliere. L’eliminazione del monopolio statale della scuola proporrebbe modelli gestione di primarie e secondarie dove si spende meno e si insegna meglio. Le scuole libere inserite in un sistema scolastico paritario nella sostanza avrebbero risultati di crescita della qualità e di razionalizzazione dell’investimento nel famoso capitale umano, che sono poi le persone.
SOCIETÀ LIQUIDA/ Barcellona: dietro la maschera della falsa libertà si cela il pensiero unico - INT. Pietro Barcellona - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Nel suo recente volume Il furto dell’anima Pietro Barcellona, docente di Filosofia del Diritto all’Università di Catania, rivolge uno sguardo preoccupato alla società «liquida».
Professor Barcellona, da dove le deriva questo timore sul futuro della società?
Nella società «liquida» o «della rete» non esistono più le persone, perché è avvenuta una dissoluzione delle parti che normalmente venivano ricondotte all’unità della persona e tutto viene reso, da un lato, occasionale e, dall’altro, indeterminato.
Ora, l’indeterminazione è un principio dissolutivo della vita umana. Essa, infatti, si è finora sviluppata sulla base di coppie oppositive: soggetto/mondo, uomo/Dio, maschio/femmina, vero/falso. Le coppie oppositive sono la struttura profonda della civiltà occidentale; intorno ad esse sono confluite religioni, visioni del mondo, filosofie. Nella società della rete, liquida, esse scompaiono.
Qual è il motivo per il quale, a suo avviso, avviene questo deprecabile fenomeno?
Siamo in un contesto in cui la differenza sessuale è ritenuta irrilevante, in cui, nella rete telematica, si inventano ruoli che non corrispondono alla realtà, in cui lo scambio è di informazioni e non di affetti, in cui non c’è la presenza fisica, il rapporto del corpo con l’altro corpo.
In una simile situazione scompare la differenza, che è un principio organizzativo del mondo, a partire dalla differenza uomo/Dio fino ad arrivare alla differenza tra uomo e donna.
Proviamo a pensare a second life: non si sa che identità la persona abbia assunto, la può cambiare quando vuole, nessuno è vincolato a una verità: io posso presentarmi come Robin Hood, entrare nei negozi del mondo virtuale, acquistare tutto quello che voglio; è tutto in un mondo che non ha nessun rapporto con la realtà.
Nel mondo reale noi abbiamo un'identità, che può e deve formarsi sempre in un rapporto relazionale con l’altro e con il mondo. Le relazioni che intercorrono tra le persone concrete sono presenti nello spazio e nel tempo; sulla rete virtuale non c’è né spazio né tempo. La rete è una metafora micidiale, perché non ha né un centro né una fine. Chi abita nella rete non abita in nessun posto, chi vive nella rete non vive nessuna realtà definita. È il trionfo della indeterminazione. Che è una forma caotica; siamo nell’epoca del caos.
Ma il punto è un altro.
Che cosa intende?
Bauman propone una sorta di diagnosi che va presa sul serio. Stiamo vivendo in una società in cui predomina l’atomismo, la rottura del legame, la cancellazione del ruolo del padre o, comunque, delle figure che in qualche modo rappresentavano dei modelli. Il mondo giovanile, che è quello più pervaso dalla rete, ha subito, come ho detto nel mio ultimo libro, un vero «furto dell’anima». Non c’è più una rappresentazione di sé che abbia una consistenza. Per questo i giovani sono così violenti: la mancanza di identità portata all’estremo produce violenza.
Si pensi, inoltre, alle ricostruzioni parascientifiche per cui l’umano si risolve nei neuroni e nelle sinapsi o alla rappresentazione atomizzata del mondo, fatto di individui senza rapporti. Tutto questo concorre al dissolvimento della persona.
In questo quadro rientra anche l’idea della libertà come assenza di legami?
Ma quella non è più neppure libertà. La libertà - ritorna il tema delle coppie oppositive - si manifesta di fronte a una legge. Senza di essa la libertà non ha più consistenza; è un puro movimentismo: il fatto che mi posso materialmente spostare da qui a lì con un aereo che non costa nemmeno troppo. La libertà, invece, è uno spazio interiore che ha un limite con cui si confronta. Senza limite la libertà non esiste.
Si potrebbe anche dire che non esiste la libertà senza un rapporto?
Il limite è la base del rapporto.
Il fatto che io non sono onnipotente, onnisciente, che ho un bisogno d’amore mi porta a un rapporto con l’altro: con una donna, con un amico, con mio padre.
Senza limite non ci possono essere rapporti: semplicemente costruiamo una fotocopia di noi, dei cloni. Il limite è decisivo per la costruzione dell’identità.
In questa visione quale ruolo gioca l'appartenenza?
L’appartenenza viene un momento dopo. Se l’uomo sviluppa una attitudine all’amore (inteso come passione autentica e non come gioco) crea coppie e le coppie non possono pensarsi senza figli e quindi nasce la famiglia.
Io ritengo che essa sia uno statuto antropologico dell’essere umano ed è necessaria per lo sviluppo della libertà e dell’autonomia dei singoli. La coppia non può dominare il figlio, che non è una pura clonazione dei genitori. Allora si apre una dialettica che è fatta di libertà e di vincoli.
Quindi ritorna il tema della differenza.
Infatti. La differenza ha uno statuto ontologico, non può essere trattata come un puro fenomeno di superficie. Da essa prende origine la storia, che è lo svolgimento temporale dei rapporti umani.
Se non c’è storia, non ci sono rapporti umani. E finisce anche la libertà.
Infatti, Bauman sostiene che «la rete non ha dietro di sé alcuna storia».
Ma non può esistere un individuo senza memoria. Il successo di formule quali «società liquida» o «post umana» nasconde l’annichilimento della possibilità di dare una consistenza alla persona. Tutto diventa volatile e reversibile: posso essere uomo o donna, padre o figlio. Un pasticcio. Dal punto di vista ideologico è un tentativo di annichilire la storia dell’occidente. La proclamata irrilevanza delle differenze, il dire che una cosa vale l’altra e che tutto è disponibile è una posizione nichilista.
Si può affermare che una simile situazione sociale è funzionale al potere?
Certo che lo scopo è una logica di potere. Le nuove élite sovranazionali sono completamente irresponsabili e tendono a istituire un dominio anonimo; esso non si lascia percepire in termini tradizionali però è terrificante. Queste nuove èlite sono una specie di borghesia globale che non supera le centomila unità, ma ha un potere enorme sul mondo. Basta pensare al controllo sui media. Questo processo di rappresentazione dell’individuo che si gioca le varie parti liberamente è una neutralizzazione di ogni aggregazione politica o religiosa o culturale.
Nessuno appartiene più a nulla e in tal modo è facilmente eterodiretto
LETTERATURA/ Tolkien, il ritorno dell'epica nel secolo del nichilismo - INT. Andrea Monda - mercoledì 1 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Dottor Monda, in primo luogo ci spieghi la sua formazione, che cosa la avvicinata agli studi esegetici e religiosi?
Il mio è stato un percorso un po' articolato. Dopo la maturità classica ho preso la laurea in giurisprudenza e ho lavorato per undici anni presso un istituto bancario un’esperienza molto formativa ma anche noiosissima (o forse formativa proprio perché noiosa).
Sta di fatto che durante quei lunghi anni, per ri-avvicinarmi ad argomenti che mi interessavano assai maggiormente, ho cominciato a studiare Scienze Religiose, e per me è stato un po' come tornare a respirare. Al termine di questo secondo percorso universitario ho compreso che, tra l’altro, una laurea in Scienze Religiose mi permetteva di insegnare religione nelle scuole; superai il concorso e dal 2000 sono diventato professore di religione nei licei di Roma. Col passare del tempo mi affidarono due corsi, all'Università gregoriana e Lateranense, dove insegno il rapporto fra religione e letteratura.
Ho scritto anche su vari giornali, e attualmente su Avvenire, il Foglio e l'Osservatore Romano. A rivedere indietro mi viene in mente il titolo di un famoso saggio di Moeller: “Saggezza greca e paradosso cristiano”. E poi anche dei saggi su Tolkien come quest'ultimo.
A suo avviso, l'opera principale di questo autore si può definire più di genere epico o di letteratura fantasy?
In primo luogo occorre mettersi d'accordo sul significato delle parole. Io sarei più per definire Il Signore degli Anelli come appartenente all'epica. Però può essere condivisibile anche il considerarlo come capostipite dei fantasy, una volta chiarito che questo termine non è affatto dispregiativo.
Esiste infatti una letteratura fantasy di grande livello e di grande importanza. Come ho detto propendo più per la grande riscoperta dell'epica racchiusa in questo grande romanzo, un romanzo epico novecentesco, che però ha al centro la fantasia.
Ma anche qui occorre spiegarsi bene, intendo infatti la fantasia di cui parla Tolkien.
Ossia?
Una fantasia che non è fuga dalla realtà, che non è droga né evasione, ma visione. Un modo, per dirla con Pennac, di astrarci dal nostro mondo per dargli un senso.
Ma in questo caso è un'operazione ancora più profonda: si perfora la realtà e la si vede in maniera simbolica, come segno, come qualcosa che rinvia a un oltre. Perché fra realtà e verità c'è uno scarto. Bisogna stare attenti a non cadere nel dogma dei realisti, a meno che non si intenda il realismo cattolico che consiste nel vedere la realtà come segno.
Mi viene in mente l’affermazione di Wittgenstein: «l'universo non si spiega con l'universo». La realtà è più grande della fantasia, perché quest'ultima scaturisce da quella. Ma in quest'ultima risiede la nostra capacità di leggerne il significato.
Questo è l'aspetto splendido della letteratura che non è mai solo intellettuale, sentimentale o psicologica ma uno sforzo globale dell’uomo di dire e comprendere la sua posizione nel mondo.
E qui abbiamo approfondito l'aspetto fantastico. Mentre lei prima ha detto comunque di propendere per una visione più avvicinabile alla dimensione epica. Può spiegare meglio questa sua affermazione?
Certo. L'epica è la letteratura per eccellenza. Epos significa “parola”. Ed è una parola grande che non si accontenta delle cose piccole. Buona parte della storia della letteratura occidentale, ma anche mondiale, coincide con l'epica, da Ghilgamesh a Omero fino al '500 per poi sparire quasi del tutto.
A me piace dire che, con Tolkien, ciò che era scomparso come un fiume carsico intorno al periodo del Rinascimento, riemerge oggi in una lingua e con un approccio tutto novecentesco.
La parola “grande” dell'epica, che parlava del destino dell'uomo, era sparita dopo Cervantes, dopo Don Chisciotte che ne è una parodia per quanto sublime, meravigliosa.
Ma l'epos è un genere che non può morire perché è radicato nel cuore dell'uomo il quale per natura è un essere narrante. Ci sono state quindi, nei secoli successivi, altre forme, sebbene meno evidenti, di epica, basti pensare all'opera di Melville.
Però è Tolkien a godere del primato di questo recupero. E lo ha fatto alla maniera di un filologo.
A questo di aggiunge che c'è tutto il '900 nel Signore degli Anelli. Penso alla grande invenzione degli hobbit perfetta immagine dei protagonisti del secolo scorso. Un eroe fragile, un non eroe, un santo.
Come giudica la strumentalizzazione che è stata fatta di quest'opera da varie parti politiche?
Nel 2002 scrissi un altro saggio, con Saverio Simonelli, che aveva come titolo provvisorio "Tolkien, il Signore degli equivoci". Con quel libro intendevo denunciare il riduzionismo di simili interpretazioni.
In Italia il volume arrivò alla fine degli anni '70. La prima edizione del 1970 non ebbe successo, mentre la seconda, del '77, ebbe un trionfo strepitoso. Era un anno terribile, e si può immaginare l'impatto ideologico che scatenò sulla cultura del tempo. Tolkien cadde in molte interpretazioni sbagliate. La cultura ufficiale di sinistra snobbò Il Signore degli Anelli o lo bollò, con miopia, come libro scritto da un conservatore stravagante.
La destra invece lo considerò cosa propria. Ne mutuarono il linguaggio senza capire molto, a mio avviso, il significato. Ancora oggi a Roma si vedono manifesti che raffigurano il “camerata Frodo”.
La cose ridicola è che 10 anni prima, negli anni '60, in America vi fu un fenomeno uguale ma di segno opposto. Era visto come il libro dell'antisistema da ecologisti, anticapitalisti e rivoluzionari di sinistra.
Queste interpretazioni contriburono, nel tempo, ad aggravare la diffidenza con la quale il libro a lungo è stato considerato.
La recente trasposizione cinematografica è, secondo lei, soggetta allo stesso tipo di letture?
No. Direi piuttosto che il film ha aiutato a sdoganare il libro proprio da visioni ideologiche.
Ha avuto un successo enorme, è tutto sommato un buon film con mille tradimenti rispetto all'opera, non tanto nello stile, perché Jackson è un regista appassionato, quanto nella resa del linguaggio cinematografico.
Ma io sono ben contento perché la vera letteratura ha il destino di essere popolare e non elitaria. In questo il film ha reso un favore al libro.
Un'ultima domanda: in una sua precedente intervista lei accostava la figura di Gollum a quella di Giuda. Non le sembra un paragone azzardato?
Gollum è senza dubbio un Frodo in controluce. Nel mio libro mi prolungo molto su Gollum che definisco, più che simile a Giuda, un alter Frodo. E poiché sostengo anche che in un certo senso Frodo rappresenti un alter Christus anche Gollum, senza voler essere blasfemi, è una sorta di alter Christus. Ciò ricorda l'aneddoto di Leonardo da Vinci che riutilizzò inconsapevolmente il modello che interpretò Cristo per dipingere Giuda.
Questo aneddoto dice che Cristo attraversa tutte le dimensioni, anche le più infime, dell'uomo, e prende su di sé tutto il peccato.
Quando Gollum cade nel fiume di lava porta su di sé tutto il peso del peccato. Questo lo rende simile a Gesù che s’immerge nelle acque battesimali del Giordano.
È un’immersione, quella di Gollum come quella di Cristo, provvidenziale e salvifica perché, nel caso di Gollum, anche lo stesso Frodo non ce l'avrebbe fatta.
Al di là di azzardati confronti evangelici, nel saggio faccio presente che Frodo e Gollum sono speculari. Frodo vede in Gollum una sua proiezione futura di sé e per questo ne ha pietà, mentre Gollum vede in Frodo il proprio passato.
Se gli hobbit sono la più grande invenzione di Tolkien, Gollum è la più grande invenzione degli hobbit.
Dai Banchi di solidarietà la storia di un'amicizia nata dalla condivisione di un bisogno - Redazione - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Quando si varca per la prima volta la soglia di una casa dove chi vi abita vive una situazione di difficoltà, se non addirittura di povertà, si è sempre un po' impacciati, imbarazzati, e ci si chiede: cosa potrò dire? Cosa potrò fare? Saprò essere adeguato al loro bisogno, rispettoso della loro situazione?
Ma poi, in genere, fila via tutto liscio. Nel senso che nella maggior parte dei casi si arriva in fretta ad instaurare un rapporto diretto, anche amichevole, e comunque a coinvolgersi affettivamente. Non ci sono questioni di bon ton che impongono e richiedono un lento avvicinamento.
In dodici anni di attività del Centro di Solidarietà "Madre Teresa" quante soglie varcate con imbarazzo nelle povere case della ricca Brianza, quante persone incontrate, quanti frigoriferi vuoti, quante facce, quante storie. Storie che finiscono bene. E storie che restano complesse, ingarbugliate, che in un continuo cadere e provare a rialzarsi, e poi cadere ancora, e ancora, sembrano suggerirci che non sta a noi porci l'obiettivo di risolvere i problemi, e che c'è qualcosa di più profondo che un happy end.
Lo dimostra, ad esempio, la storia di Patrizia e Carmelo, una famiglia di Lissone, che vive in un quartiere di case popolari tanto fitto e anonimo da essere soprannominato "l'alveare". Quando abbiamo cominciato a seguirli abbiamo scoperto che il capofamiglia era persona molto nota per i trascorsi con la giustizia che gli attribuivano una fama da persona pericolosa; tanto che qualcuno ci aveva sconsigliato di entrare in contatto con un "delinquente" del genere. E per confermare questa fama ci raccontavano che tanti anni prima, per dare maggiore spazio alla famiglia numerosa, Carmelo aveva deciso di ampliare l'appartamento semplicemente annettendo quello del vicino. Mentre quest'ultimo era in ferie aveva sfondato il muro, occupato il suo appartamento e murato la porta. In realtà, quando abbiamo cominciato a seguire questa famiglia, ci siamo trovati davanti a due persone anziane, bisognose di essere aiutati concretamente e soprattutto bisognose di rapporti umani e gratuiti.
Anni prima avevano perso un figlio in un incidente in moto, e questo dolore, di cui Patrizia parlava spesso, era ancora una ferita sanguinante. A Patrizia restavano altri nove figli, che però ormai si erano allontanati dai genitori lasciandoli soli. Dopo qualche anno che li avevamo conosciuti, un giorno Patrizia ci dice che stavano per arrivarle i soldi del risarcimento per la morte del figlio. Si trattava di una cifra importante: 350 milioni delle vecchie lire per i genitori, e sei mesi dopo una discreta somma anche per i nove figli. Patrizia era pronta a girare ai figli anche una buona parte della sua e a saldare i tanti loro debiti: bollette arretrate, rate per l'acquisto di mobili e altri oggetti, debiti di vario genere… «Ho due soli desideri» aveva detto ad alcuni di noi, «tornare al mio paese al sud in nave assieme a mio marito, e andare a comprare qualche camicia da notte in seta che, come le fanno al mio paese, non le ho più trovate da nessuna parte. E poi mettere da parte un po' di soldi per le emergenze». E a noi diceva: «Anche se adesso con tutti questi soldi non ho più bisogno del pacco di alimenti, voi però promettetemi che continuerete a venirmi a trovare».
Nel frattempo però figli e altri parenti, avevano ripreso ad andare a trovare i genitori: con la scusa di far compagnia alla coppia di anziani, in realtà erano lì a chiedere soldi per i motivi più strani in una sorta di assedio che ha comportato situazioni difficili e dolorose, di cui Patrizia ci parlava con il cuore spezzato. Sino a che, ad un certo punto, i soldi sono finiti. E con il soldi sono improvvisamente scomparsi tutti. Così, un giorno, Patrizia ci ha confessato di aver ancora bisogno del pacco di generi alimentari. Ma con lei e con il marito, soprattutto con lei, il rapporto non si era mai interrotto. Anzi, dentro quest'ultima dolorosa vicenda si era fatto ancora più stretto e più vero. E ora molti di noi possono chiamarla "amica" e lei può dire lo stesso di noi. E che un'amicizia così possa fiorire dentro l'alveare…
Come dice lo slogan della Colletta Alimentare? "Condividere i bisogni per condividere il senso della vita". Ecco, con Patrizia ci siamo fatti e continuiamo a farci compagnia così.