domenica 5 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 04/10/2008 12:01 – INDIA - Padre e figlio cristiani uccisi a colpi di ascia in Orissa - di Nirmala Carvalho - L’uomo era un leader cristiano molto influente. I radicali indù mirano ad eliminare i capi delle comunità. Sfiducia diffusa nell’opera della polizia. Arrestati con molto ritardo 4 estremisti accusati di aver violentato una suora.
2) ARTICOLO TRATTO DAL DOSSIER DEL TIMONE N° 76 - RISORGIMENTO: L’UNIFICAZIONE CHE HA DIVISO L’ITALIA - L’UNITA’ MALFATTA - Intervista di Roberto Beretta a mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino Che ricorda le ragioni che hanno diviso gli italiani, durante e dopo l’unificazione. Sono motivi culturali, perché riguardano i fondamenti della vita civile.
3) L'angoscia degli italiani convinti che se l'islam non è riformabile il futuro è a rischio e la guerra di religione inevitabile – Magdi Cristiano Allam
4) Per l'arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, Raphael Cheenath, le violenze stanno mettendo a rischio la convivenza civile - Gli estremisti indù sono ormai fuori controllo - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano 5 ottobre 2008
5) L’IMPEGNO A «RIAPPROPRIARCI» DELLA BIBBIA - INQUIETARE E CONSOLARE IL CUORE DEI MODERNI - GIANFRANCO RAVASI – Avvenire, 5 ottobre 2008


04/10/2008 12:01 – INDIA - Padre e figlio cristiani uccisi a colpi di ascia in Orissa - di Nirmala Carvalho - L’uomo era un leader cristiano molto influente. I radicali indù mirano ad eliminare i capi delle comunità. Sfiducia diffusa nell’opera della polizia. Arrestati con molto ritardo 4 estremisti accusati di aver violentato una suora.
Bhubaneshwar (AsiaNews) – Due tribali cristiani, un padre e suo figlio, sono stati uccisi da un gruppo di estremisti indù nella notte fra il 2 e il 3 ottobre nel villaggio di Sindhupanka, distretto di Kandhamal.
Si tratta di Dushashan Majhi e del suo figlio 15enne Shyam Sunder Majhi. I due stavano dormendo fra i resti della loro casa, distrutta giorni prima dai radicali indù. Dushashan era il capo di una comunità cristiana, molto stimato e influente. L’eliminazione dei capi delle comunità è divenuto il primo obbiettivo dei gruppi fondamentalisti per fermare l’opera dei cristiani e quelle che essi chiamano “conversioni forzate”.
Una fonte locale di AsiaNews ha dichiarato: “Dushashan era un leader importante della comunità. L’anno scorso si era anche presentato alle elezioni locali, per diventare capo villaggio. Di recente aveva denunciato anche alcuni estremisti che avevano bruciato e distrutto la chiesa del villaggio durante le violenze seguite all’assassinio di Swami Laxamananda Saraswati”.
La morte dello Swami, che la polizia sospetta essere opera di maoisti, ha scatenato il 24 agosto un pogrom contro i cristiani e le loro istituzioni che dal distretto di Kandhamal (Orissa) si è diffuso anche in altri Stati della confederazione.
“Questi fondamentalisti – continua la fonte – mirano a eliminare in modo sistematico i capi cristiani più influenti. Dushashan e suo figlio stavano dormendo nella loro casa demolita. Nella notte i radicali li hanno presi, portati fuori e uccisi con un’ascia”.
Ieri sera la polizia ha confermato i fatti. Molte testimonianze accusano però la polizia di inazione, incapace di prevenire e garantire sicurezza alla popolazione cristiana. Altri parlano in modo aperto di connivenza.
Un esempio è dato da ciò che è avvenuto in questi giorni, in cui 4 radicali indù sono stati arrestati accusati di aver stuprato una suora a Baliguda. Le violenze sono avvenute il 24 agosto scorso. Alcune dottoresse hanno visitato la suora la notte stessa dell’incidente e hanno presentato il rapporto confermando le violenze sessuali entro 72 ore dall’incidente. La polizia ha però impugnato il rapporto e fatto gli arresti solo il 1° ottobre. E solo il 3 ottobre, 38 giorni dopo il fatto, Naveen Patnaik, Chief minister dell’Orissa, si è espresso sull’incidente definendolo “selvaggio” e “vergognoso”.
L’ispettore capo della stazione di polizia di Baliguda è stato sospeso dal servizio. Ma molti cristiani sono convinti che tutte queste decisioni sono avvenute solo per la cattiva pubblicità che sta ricadendo sul governo dell’Orissa, dopo che la notizia dello stupro della suora è stata diffusa sui giornali nazionali.
Fonti ecclesiali locali hanno però detto ad AsiaNews che anche i 4 arrestati sono soltanto dei capri espiatori per frenare le critiche di inazione verso la polizia e il governo: non sono loro gli autori delle violenze contro la suora.


ARTICOLO TRATTO DAL DOSSIER DEL TIMONE N° 76 - RISORGIMENTO: L’UNIFICAZIONE CHE HA DIVISO L’ITALIA - L’UNITA’ MALFATTA - Intervista di Roberto Beretta a mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino Che ricorda le ragioni che hanno diviso gli italiani, durante e dopo l’unificazione. Sono motivi culturali, perché riguardano i fondamenti della vita civile.
Adesso è vescovo, ma non è che la croce pettorale abbia esorcizzato la sua vena di polemista. Quella che - quand'era ancora prete ambrosiano e braccio destro di don Luigi Giussani alla Cattolica – gli aveva fatto firmare libri puntuti come Pio IX. Attualità e profezia, Controstoria. Una rilettura di mille anni della vita del-la Chiesa e False accuse alla Chiesa. Quando la verità maschera i pregiudizi laicisti.
Inoltre, monsignor Luigi Negri ha ora occasione di sperimentare nel vivo gli effetti di un periodo storico sul quale si era cimentato come studioso, il Risorgimento: si ritrova infatti in una diocesi (per la precisione quella di San Marino - Montefeltro) erede dei territori pontifici.
Diciamo la verità, monsignor Negri: parlar male di Garibaldi si può, o magari si deve; ma deprecare l'unità d'Italia, con gli attuali chiari di luna pseudo-secessionisti non sembra la cosa migliore, soprattutto per i cattolici. 0 no?
«Certo, bisogna cercare di evitare i cortocircuiti di carattere politico; ma il problema per me si pone a un livello fondamentalmente culturale. È ormai indubbio, difatti, che l'uni‑tà d'Italia è stata fatta male, e questo è un giudizio storico che non proviene solo dai presunti "nostalgici" papalini: Ernesto Galli della Loggia, che non è del tutto delle nostre parrocchie, ha sottolineato più volte come l'unità italiana sia stata sostanzial-mente un fallimento. Si è tentato cioè di sovrapporre, a una cultura di popolo for-temente radicata e che aveva avuto nellastoria varie modalità per influire nella società, un'ideologia laicista, anti-cattolica, progressista, illuminista che la genteha sempre sentito estranea; per questo gli italiani hanno assistito solo dai margini a un cambiamento che la classe dirigente definiva invece "epocale"».
Insomma, fatta l'Italia non sono stati fatti gli italiani... Ma basta per scredi-tare l'unità?
«lo non sostengo che l'unità d'Italia non si dovesse fare: c'erano anzi ragioni econo-miche e politiche e sociali che rendevano plausibile, anche auspicabile tale sbocco; ma fu scelta una strada troppo veloce e soprattutto violenta per realizzarla. Abbia-
mo avuto fenomeni quasi da genocidio, e d'altra parte l'unita è stata contestata con violenze uguali e contrarie... In generale, una rivisitazione critica del Risorgimento ha senso in quanto gli eventi di allora hanno avuto ripercussioni che durano tuttora. Non si tratta di promuovere fughe nostalgiche nel passato pre-risorgimentale, come neppure di difendere in modo ottusoil suo meccanismo d'attuazione (che è profondamente discutibile); ma di chiedersi se oggi esiste nel nostro popolo una cultura che si è appropriata delle istituzioni e le sente come sostegno alla sua vera
cultura».
Non ritiene che la «questione romana» abbia avvelenato fin troppo la storia d'Italia, tra l'altro tenendo artificiosamente lontani i cattolici dalla politica e ponendo i presupposti per le attuali incomprensioni tra «laici» e Chiesa?
«La questione romana, cioè l'occupazio­ne di Roma da parte del nuovo Stato, mi sembra indebitamente enfatizzata nella sua evoluzione. C'è un aspetto più imme­diato e di superficie, ovvero i rapporti isti­tuzionali tra due enti uno dei quali, distrug­ge o si annette l'altro: si può eliminare un ordine. precedente senza una dichiarazio­ne di guerra o un pronunciamento inter­nazionale?
Ma lasciamo perdere; esiste un aspetto più profondo: per la gente, Roma al Papa era la certezza del nesso sostanziale tra la Chiesa e la società italiana. La fine dello Stato pontificio non è stata avverti­ta dai cristiani quale perdita di territorio, ma come la possibilità che la funzione dei Papa potesse essere ridotta, quando non negata. E che la sua libertà d'azione po­tesse essere fortemente condizionata, come di fatto è a volte avvenuto. Il popolo vuole che il Papa possa esprimersi libera­mente, perché la sua libertà è quella del­la Chiesa».
Lei è stato tra quanti hanno difeso addirittura il «Sillabo». Perché?
«Perché in quel documento Pio IX ha avu­to la forza di individuare con chiarezza le differenze tra modernità e Chiesa. Credo che aver preso le distanze dal fenomeno complesso, articolato, e magari all'epoca non totalmente compreso che si chiama liberalismo abbia reso possibile il confron­to tra esso e la tradizione cattolica. Sen­za Sillabo non sarebbe stato possibile lo scontro anche duro da cui è nata la dot­trina sociale della Chiesa: perché è dalla coscienza delle differenze che comincia il dialogo. Senza il Sillabo saremmo ancora cattolici in Europa, o non tutti fasci­sti, comunisti, tecnoscientisti, eccetera? Quel testo è stato un attacco formidabi­le al totalitarismo, che da culturale sareb­be diventato socio-politico; pertanto credo si debba una grande riconoscenza a chi ha detto che la società è fatta di differenze e nessuno ha il diritto di eliminarne un’altra »
Due Papi, Paolo VI e Benedetto XVI - quand'era ancora cardinale - hanno però ammesso che «grazie a Dio» lo Stato pontificio non esiste più. E ciò che all'inizio sembrò alla Chiesa un sopru­so, cioè la breccia di Porta Pia, oggi dev'essere letto come una grazia. E d'accordo?
«E’ ovvio: lo Stato pontificio aggiungeva alla missione papale una responsabi­lità di gestione amministrativa e immetteva nell'autorità del Papa aspetti che appesantivano il suo compito; il Pontefice ha ben altro da fare, diremmo oggi. Va pure rilevato che lo Stato pontificio è comun­que servito nella storia moderna a garan­tire la libertà pastorale del Papa: quando la politica e la culturasi svolgevano in un rapporto tra Stati, infatti, la posizione dei Papa in quanto capo di Stato poteva esercitare il suo influsso (cosa poi non sempre facilmente concessa) nel concerto del­le nazioni. Non riesco a pensare che co­sa sarebbe accaduto, per esempio, se dal '500 in poi il Papa non avesse potuto ap­poggiarsi a una realtà statuale. Detto que­sto, non c'è nulla da sacralizzare: lo stes­so Pio XII si disse pago di poter avere uno Stato col perimetro del suo studio. Però stiamo attenti a dire che era tutto sbaglia­to, perché nella storia esiste una provvidenzialità che va riconosciuta».
Lei è vescovo in una diocesi posta nei territori che furono della Chiesa. Che differenze riscontra rispetto, per esem­pio, la sua esperienza in Lombardia? E vero che gli ex sudditi del papa-re oggi sono i più anticlericali d'Italia?
«Su quest'aspetto è stata fatta tanta reto­rica senza riscontri obiettivi. Certo, mate- rialmente e marginalmente lo Stato pontificio può aver alimentato risentimenti, fa­tiche, scontenti: ma mi pare che non fosse diverso dagli altri Stati dell'epoca, an­zi ci sono revisioni storiche che rilevano nei territori papali efficienze economiche, educative o sanitarie migliori che in altri. In sostanza, la popolazione qui ha una base cattolica uguale al resto d'Italia. Ma, aldilà di questo, sia dove hanno governato i Pa­pi sia dove hanno regnato principi o granduchi, il problema è se la Chiesa fa vivere oggi la grande tradizione di cui è por­tatrice. La tradizione non è andata in crisi per lo Stato pontificio, infatti, ma perché la Chiesa ha avuto altre preoccupazioni an­ziché educare il popolo cristiano all'unità tra fede ed opere.Banalmente si può spiegare un certo anti­clericalismo romagnolo con le delusioni o gli sconcerti di un'antica amministrazione; ma in realtà ci vuoi ben altro per chiarire le responsabilità della scristianizzazione, qui e altrove»


L'angoscia degli italiani convinti che se l'islam non è riformabile il futuro è a rischio e la guerra di religione inevitabile – Magdi Cristiano Allam
La mia risposta è che il dialogo non lo si fa con l’islam ma con i musulmani. Ed è certamente possibile, anzi doveroso, il dialogo con i musulmani che, optando di convivere nel nostro spazio fisico, rispettino i diritti fondamentali dell’uomo e condividano i valori non negoziabili
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Nel giro di una settimana, per tre volte ho toccato con mano l’angoscia degli italiani di fronte alla percezione dell’impossibilità del “dialogo con l’islam”. A manifestarla tre persone diversissime tra loro. Lunedì 29 settembre l’ha fatto suor Maria Elena, madre superiora delle monache di clausura delle Clarisse a Città della Pieve, nel corso di un suggestivo incontro che ho avuto con una trentina di monache, separati da una grata all’interno del monastero. Mercoledì 1 ottobre è stata la volta di uno dei partecipanti all’incontro pubblico che ho tenuto a Como in compagnia di monsignor Alessandro Maggiolini. Venerdì 3 ottobre a comunicarmi quest’ansia è stata la giovane amica Alessandra Boga, durante la cena che ha preceduto l’incontro pubblico a Nova Milanese, finalizzato all’inaugurazione della Associazione culturale Felicita Merati.
La domanda comune che mi è stata rivolta si può riassumere così: “Se è proprio vero che l’islam è incompatibile con i diritti e i valori fondanti della civiltà occidentale, se di conseguenza diventa impossibile dialogare con l’islam, significa dunque che non vi è alcuna alternativa allo scontro tra le religioni e le civiltà?”.
La mia risposta, sempre sinteticamente, è realistica e fiduciosa: “Il dialogo non lo si fa con l’islam ma con i musulmani. Ed è certamente possibile, anzi doveroso, il dialogo con i musulmani che, optando di convivere nel nostro spazio fisico, rispettino i diritti fondamentali dell’uomo e condividano i valori non negoziabili che sostanziano l’essenza della nostra umanità”.
L’incontro con le monache di clausura dell’Ordine delle Clarisse è stato un’esperienza emozionante e arricchente. Era la prima volta che mettevo piede in un monastero dove vige la clausura assoluta, da dove le monache non escono se non in casi estremi con una dispensa papale, quale può essere il ricovero in ospedale per malattia. Vi sono arrivato su invito del mio caro amico don Maurizio Verlezza, giovane salesiano che dopo aver per anni diretto con successo l’Oratorio del Don Bosco a Latina, ha ricevuto il compito di presiedere l’istituto di formazione dei religiosi salesiani a Roma. A deciderlo è stato personalmente il Rettore maggiore dei Salesiani, monsignor Pascual Chavez, di nazionalità messicana, che ho conosciuto per la prima volta a Latina lo scorso gennaio proprio grazie a don Maurizio, e che lo scorso giugno mi ha fatto l’onore di partecipare alla presentazione del mio “Grazie Gesù” all’Istituto Salesiano a Milano. Ebbene suor Maria Elena è l’emblema della serenità dell’anima, ha il sorriso che non abbandona mai lo sguardo e le labbra, segno manifesto della grazia divina che l’ispira. Dopo esserci visti da dietro una grata ed esserci stretti la mano, abbiamo concordato le modalità dell’incontro con le monache. Loro sin sono messe a sedere nella stanza adibita a parlatorio, mentre don Maurizio ed io siamo rimasti al di qua della grata.
Suor Maria Elena mi ha subito anticipato: “Le chiederò una sua opinione sull’islam. Quello che si legge sulla stampa non tranquillizza e alimenta la sfiducia. Credo che sia invece necessario favorire un clima che rassereni gli animi, che non alimenti lo scontro”. Ho intuito la sua implicita disapprovazione dell’operato dei mass media e la sua recondita speranza che la verità, che avrei potuto svelare, confermasse e accreditasse la bontà dell’islam.
Dello stesso tenore la domanda rivoltami da uno dei partecipanti all’incontro di Como, svoltosi nel teatro dell’Associazione Carducci, con un’ospite d’eccezione, monsignor Alessandro Maggiolini, uno dei rari esponenti della Chiesa Cattolica che affermano con fermezza e orgoglio un cristianesimo affrancato dal relativismo, dall’islamicamente corretto, dal buonismo. L’incontro con don Sandro, così ha chiesto che lo chiami per sottolineare la fraternità cristiana che ci unisce, mi ha commosso e ispirato fiducia nella possibilità di riscatto dallo sbandamento sul piano dell’etica e dell’azione concreta in cui versano tanti settori della Chiesa. L’intervento di monsignor Maggiolini, pubblicato come documento in seno alla rubrica “I Fatti”, è di grande rilievo sul piano dell’analisi, spaziando dallo scenario internazionale a quello europeo fino a quello interno alla Chiesa stessa, non risparmiando critiche a nessuno come è consuetudine di uno spirito autenticamente libero.
Ebbene nella domanda rivoltami da uno dei partecipanti all’incontro era più che presente una profonda angoscia: “Se è effettivamente vero ciò che lei ci dice, sull’impossibilità dell’islam di essere moderato perché il Corano è considerato un testo increato, al pari di Dio, che pertanto non può essere interpretato dalla ragione, in aggiunta al fatto che Maometto con il suo esempio ispira la violenza, significa che non c’è proprio speranza. Quale sarà dunque il nostro futuro senza la speranza di una pacifica convivenza con i musulmani?”.
Infine l’amica Alessandra Boga, iscritta alla nostra Associazione e giovane giornalista, mi ha quasi bloccato al termine della cena che ha preceduto l’incontro pubblico a Nova Milanese, per chiedermi con un tono molto serio e uno sguardo alquanto preoccupato: “Non è che lei ha sposato la tesi fallaciana secondo cui non solo non esiste un islam moderato, ciò di cui lei è convinto, ma non esiste neppure un musulmano moderato? E che pertanto se uno è moderato, lo è perché in realtà non crede e non pratica l’islam?”. Erano le 21 passate ed ero già in ritardo, quindi ho dovuto rispondere sinteticamente: “Io dialogo con tutte le persone che rispettano le medesime regole, che corrispondono ai diritti fondamentali dell’uomo e ai valori non negoziabili, la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta. Su questa base io dialogo con tutte le persone di buona volontà, indipendentemente dal fatto che si considerino veri musulmani o meno”.
Questo è il concetto principale che ho evidenziato anche nello straordinario incontro svoltosi il 3 ottobre nel Palazzetto dello Sport di Barzanò di fronte a 1300 persone, presenti sul palco insieme a me c’erano monsignor Rino Fisichella, rettore dell’Università Pontificia Lateranense e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e Maurizio Lupi, vice-presidente della Camera dei Deputati (rispettivamente il mio assistente spirituale e il mio padrino al battesimo). Ho chiarito che è necessario sostanziare, circostanziare e contestualizzare il discorso: “Noi dobbiamo in primo luogo distinguere tra la dimensione religiosa dell’islam e la dimensione delle persone dei musulmani. Noi dialoghiamo non con l’islam ma con i musulmani. In secondo luogo dobbiamo chiarire che non siamo chiamati a riformare l’islam in quanto religione, in un tempo e in uno spazio indefinito, ma siamo personalmente interessati a definire un modello di civile convivenza con i musulmani che risiedono qui a Barzanò, in Lombardia, in Italia, in Europa. Ebbene la mia risposta a questa domanda è confortante: la convivenza con i musulmani che scelgono volontariamente di risiedere in mezzo a noi è certamente possibile, nel momento in cui rispettano le medesime regole e condividono i medesimi valori fondanti della nostra società. Ecco perché non dobbiamo preoccuparci tanto dell’arbitrio o della violenza altrui, bensì della nostra fragilità interiore a causa della crisi dei valori, della perdita dell’identità collettiva e del venir meno della credibilità del senso dello Stato. Se noi saremo forti dentro, forti della nostra fede, dei nostri valori, delle nostre regole, della nostra identità, non avremo più né l’angoscia né la paura dell’altro, potremo confrontarci in modo costruttivo ed essere anche generosi con l’altro. Ma è quando siamo fragili dentro, ed è questa purtroppo la nostra realtà attuale, che nutriamo angoscia e paura, finendo per soccombere all’arbitrio e alla violenza altrui”.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam


Per l'arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, Raphael Cheenath, le violenze stanno mettendo a rischio la convivenza civile - Gli estremisti indù sono ormai fuori controllo - di Alessandro Trentin – L’Osservatore Romano 5 ottobre 2008
In India la situazione sembra ormai fuori controllo. Gli estremisti indù non rispondono neanche ai vertici delle loro stesse organizzazioni. E la pacificazione appare lontana, perché quanto sta accadendo nel Paese ha inevitabilmente lasciato ferite profonde. L'arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, Raphael Cheenath, la cui diocesi continua a essere l'epicentro delle violenze anticristiane, fa un'analisi realista e non positiva della situazione in India. Egli stesso è stato minacciato più volte dagli estremisti che sono alla ricerca di una vendetta "eccellente" dopo l'uccisione, il 23 agosto scorso del loro leader Swami Lakshmanada Saraswati, della quale continuano ad accusare i cristiani.
"Non si può parlare di azione immediata per la pace - spiega il vescovo, raggiunto telefonicamente da "L'Osservatore Romano" - I fondamentalisti non vogliono ascoltare". Il presule spiega che "gli stessi partiti oltranzisti non riescono più ad avere il controllo di alcuni gruppi di base che agiscono in maniera autonoma senz'alcuna regola da rispettare".

L'azione dei vari gruppi fondamentalisti è, infatti, coordinata a livello verticistico da lungo tempo; tuttavia, alcune frange ritengono che l'attività dei partiti di appartenenza sia talvolta troppo moderata e hanno scelto così la via dell'anarchia. Bande agiscono in modo incontrollato soprattutto nelle aree rurali, là dove vivono i tribali e i dalit, considerati l'obiettivo primario da colpire, nell'ottica di evitare la loro emancipazione culturale e sociale.
C'è comunque, conclude l'arcivescovo, una larga parte della popolazione di fede indù che "si è rattristata per quanto accade ai danni della comunità cristiana e partecipa con dolore agli avvenimenti". La sua presenza accanto alle vittime delle violenze non è tuttavia solo di circostanza: il presule cita diversi esempi di persone che hanno aiutato i cristiani a salvarsi dagli attacchi, prestando loro cure mediche o ospitandoli anche nelle proprie case per nasconderli alla furia oltraggiosa dei violenti.
È una popolazione, spiega l'arcivescovo, "che non accetta la prepotenza degli aggressori, perché vede con ammirazione la risposta delle comunità cristiane aggredite alle provocazioni, sempre improntata alla non violenza, alla pace e al perdono".
Gli attacchi però non accennano a fermarsi: "Le minacce sono giunte al punto di toccare anche coloro che si sono rifugiati nei campi sosta e i volontari che si prodigano per fornire loro assistenza". Il presule parla di un'altra vessazione cui è costretta la popolazione: "Gruppi fondamentalisti stanno distribuendo - afferma - dei prestampati sui quali costringono le persone a scrivere e firmare che non si sono mai convertite al cristianesimo e che restano osservanti della fede indù", pena il rischio di subire nuove violenze.
L'arcivescovo osserva, tra l'altro, che a spingere alle violenze è anche la questione legata alla proprietà della terra che, secondo gli estremisti, apparterrebbe da secoli ai tribali. Il presule rileva che "i cristiani che non sono in grado di restituire la terra sono minacciati e costretti a fuggire dal distretto di Kandhamal".
Un'altra dimostrazione del fatto che dietro alle violenze dichiaratamente anticristiane ci sono in realtà motivazioni economiche e politiche: "Le accuse relative al proselitismo, o addirittura dell'omicidio di Swami Saraswati rappresentano soltanto scuse per aggravare i contrasti".
L'arcivescovo Cheenath minimizza le notizie che parlano di pesanti intimidazioni anche nei suoi confronti: pur avendo ricevuto minacce anche personali, egli continua a svolgere la normale attività pastorale. Ma il clima è tale che migliaia di cristiani sono ancora costretti a fuggire, in particolare, dal distretto di Kandhamal. Secondo la curia sarebbero almeno diecimila i profughi attualmente ospitati in quattordici campi di assistenza nella zona. Ma la cifra salirebbe ad almeno quaranta-cinquantamila considerando anche coloro che sono ospiti presso parenti o amici e che, addirittura, si sono rifugiati nelle foreste.
La violenza anticristiana non riguarda com'è noto soltanto l'Orissa: le persecuzioni in Kerala, Karnataka, Andra Pradesh, Madhya Pradesh, Chattissgarh, Tamil Nadu stanno gettando, a detta di alcuni osservatori, un'ombra inquietante sulla stessa tenuta democratica del Paese asiatico. La stessa Catholic Bishops' Conference of India (Cbci) afferma che "l'antica civiltà viene umiliata e i suoi valori di verità, tolleranza e rispetto, gelosamente preservati per secoli, vengono calpestati".
Il bilancio dell'ultima ondata di attacchi continua a crescere: in base alle cifre ufficiose sono almeno cinquantadue i cristiani morti in appena sei settimane nel solo Stato dell'Orissa. Nei primi giorni di ottobre, intanto sono già quattro le vittime: due pastori battisti sono stati uccisi durante un assalto nel villaggio di Sindu Pakali; mentre a Rudangia è morta una donna. Inoltre, un uomo è deceduto in ospedale per le ferite riportate dopo essere stato torturato per costringerlo ad abbandonare la propria fede.
Fortunatamente anche la popolazione non cristiana comincia a indignarsi per una situazione che rischia di minare la credibilità del Paese all'estero. Nella capitale, New Delhi, si è svolta, in occasione dell'anniversario della nascita di Ghandi, una manifestazione cui hanno partecipato buddisti, indù, musulmani, sikh, oltre a diecimila cristiani. Inoltre è da registrare un'altra iniziativa interreligiosa. In Kerala si è svolto un incontro tra cristiani e indù. A promuoverlo il Kerala Catholic Bishops Council (Kcbc). All'incontro hanno partecipato i leader religiosi e appartenenti ad altre organizzazioni che hanno condannato l'ondata di violenze. In particolare è stato diramato un documento nel quale si afferma la contrarietà a ogni forma di conversione forzata a una fede. "Ogni individuo - è sottolineato - ha il diritto di credere nella religione che ha scelto". E ancora, sono state condannate le offese fatte ai simboli di qualsiasi fede. Infine, i leader invitano la popolazione a essere vigile nei confronti di quelle organizzazioni politiche che usano manipolare i sentimenti religiosi a fini utilitaristici. La delegazione cristiana che ha preso parte all'iniziativa era guidata dal presidente della Catholic Bishops' Conference of India (Cbci), il cardinale Varkey Vithayathil.
Un'ulteriore dimostrazione che le accuse di proselitismo sono infondate è data dagli stessi dati statistici. Lo ha ricordato anche il vescovo ausiliare di Bombay, Agnelo Rufino Gracias, in un recente intervento: "Se ci fossero migliaia di conversioni - ha osservato - il numero dei cristiani sarebbe altissimo". A tale proposito ha riferito alcuni dati relativi alla presenza cristiana nel Paese rispetto al complesso della popolazione: la percentuale era del 2,6% nel 1971; del 2,44% nel 1981; 2,32 nel 1991 e 2,3% nel 2001. La diminuzione è proseguita anche negli anni successivi. Ma soprattutto, ha aggiunto il vescovo Gracias, c'è un dato fondamentale: i Governi degli Stati indiani non hanno finora dimostrato alcun caso concreto di conversione forzata alla fede cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 5 ottobre 2008)


L’IMPEGNO A «RIAPPROPRIARCI» DELLA BIBBIA - INQUIETARE E CONSOLARE IL CUORE DEI MODERNI - GIANFRANCO RAVASI – Avvenire, 5 ottobre 2008
C’è chi le ha pazientemente contate: sono 305.441 le parole originarie ebraiche (e in piccola parte aramaiche) dell’An­tico Testamento, più di 421.000 se si contano anche le particelle ag­giunte a quelle parole, mentre 138.013 sono i vocaboli greci che compongono il Nuovo Testa­mento. Attorno a questo piccolo mare testuale detto Bibbia, cioè i Libri per eccellenza, si è allargato uno sconfinato oceano di com­menti, di omelie, di meditazioni, persino di deformazioni e di cri­tiche sarcastiche. Eppure quelle parole continuano «a inquietare e a consolare tutte le situazioni u­mane », come diceva quel grande credente e genio che era Pascal.
Ora tornano ancora a risuonare e persino a provocare, e non solo perché una folla di quasi 1.300 persone, le più disparate, a parti­re da stasera le proclameranno in­tegralmente nel cuore di Roma e dagli schermi televisivi per un’in­tera settimana, giorno e notte, quasi fossero pungoli o picchetti da piantare nel liquame delle chiacchiere (l’immagine è di uno sconcertante sapiente biblico, il Qohelet). Torneranno quelle pa­role ad animare soprattutto il Si­nodo dei Vescovi, nella consape­volezza che è giunto il tempo di scuotere l’intorpidimento che, co­me una nebbia, scolora la forza di quelle Scritture che custodiscono al loro interno una Parola tra­scendente, la voce stessa di Dio.
Mosè ricordava agli Israeliti che sul Sinai non avevano contemplato una statua sacra, ma ascoltato una qol devarîm, una 'voce di parole' che risuonava in mezzo al fuoco (Deuteronomio 4,12). Dif­ficile è dire ora quali saranno le strade che i Padri sinodali sugge­riranno alla Chiesa per una riap­propriazione rinnovata, intensa e appassionata della Bibbia. Certo, sullo sfondo rimarranno le gran­di questioni teologiche del rap­porto tra Rivelazione, Scrittura e Tradizione. Ma saranno soprat­tutto gli interrogativi sulla comu­nicazione e sull’interpretazione ad avanzare, tenendo conto dei mutamenti radicali di linguaggio avvenuti in questi ultimi decen­ni, dopo la potente impronta la­sciata dal Concilio Vaticano II col suo appello all’amore per la Paro­la di Dio. Sarà, come dice il titolo stesso che Benedetto XVI ha imposto al Si­nodo, la «vita della Chiesa» ad es­sere coinvolta così da riaccende­re il fervore per la Parola di Dio annunziata e spiegata nella litur­gia (che è la prima casa della Bib­bia), meditata nella lectio divina, studiata nella catechesi, vissuta come «lampada per i passi nel cammino della vita» morale. Ma quel titolo aggiunge anche che la Bibbia governa e illumina «la mis­sione della Chiesa», cioè il suo af­facciarsi oltre i propri confini. Pensiamo al dialogo con l’ebrai­smo che con noi condivide una vasta porzione di quelle parole sa­cre, allo stesso islam che nel Co­rano ha una filigrana di rimandi biblici, all’incontro ecumenico con le altre Chiese e comunità or­todosse e protestanti che testi­moniano un antico e appassio­nato amore per le Scritture. Ma pensiamo anche alla cultura 'lai­ca' che deve ritornare a leggere e comprendere quei testi perché es­si sono «la lingua materna del­l’Occidente », come suggeriva Goethe, «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori (ma non solo) hanno intinto il loro pennello», per usare una famosa frase di Chagall.
Una certezza reggerà, al di là de­gli esiti, noi Padri sinodali, gli e­sperti, gli invitati e soprattutto l’in­tera comunità ecclesiale. È quel­la che san Paolo esprimeva, men­tre il suo corpo era in catene, scri­vendo al discepolo Timoteo che «la Parola di Dio non può essere incatenata» (II, 2, 9). Essa, infatti, è – come confessavano i profeti – un fuoco inestinguibile che arde e illumina, è una pioggia che dal­l’alto feconda e rigenera il terreno arido della storia.