Nella rassegna stampa di oggi:
1) Che cosa ha detto il Sinodo? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 24 ottobre 2008 XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi - Si è tenuta dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
2) Messaggio al Popolo di Dio al termine del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale del Messaggio del Sinodo dei Vescovi al Popolo di Dio, a conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria, approvato nella ventunesima Congregazione generale di questo venerdì.
3) Riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Presentiamo il riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi sulla Parola pubblicato venerdì.
4) Le radici cristiane di un’Europa laica. Il viaggio di Benedetto XVI in Francia - di Massimo Introvigne
5) 25/10/2008 10:07 – INDIA - Io, Sr Meena, violentata dagli indù, mentre la polizia stava a guardare di Meena Barwa - Riportiamo di seguito la dichiarazione che Sr Meena Barwa ha letto ieri all’ Indian Social Institute. La suora vincendo lo stato di choc e il pudore, per la prima volta dopo due mesi dall’accaduto, ha accettato di parlare delle violenze e dello stupro che ha subito ad opera di gruppi di radicali indù lo scorso agosto, accuando la polizia dell’Orissa di connivenza con gli assalitori. Sr Meena lavorava al Centro pastorale Divyajyoti, a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal (Orissa), insieme a p. Thomas Chellan, anch’egli malmenato e umiliato. La dichiarazione pubblica di Sr Meena era necessaria perché la polizia in Orissa sta cercando di coprire il caso. Fra i fondamentalisti indù vi sono anche coloro che dicono che la suora fosse “consenziente” allo stupro.
6) SCUOLA/ Contro le false letture, ecco il declino delle elementari dopo l’abolizione del maestro unico - Giuseppe Valditara - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
7) Rivoluzione milanese: un nuovo sistema di Welfare - Redazione - sabato 25 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SVEZIA/ Commissione etica: “la Lego fa giocattoli sessisti” - INT. Alessandro Meluzzi - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
9) Dal Sinodo dei vescovi appello per l'Oriente alla comunità internazionale - Giustizia e libertà religiosa - garantiscono la pace - Una reale libertà religiosa è garanzia della pace nella giustizia. È quanto affermano i Patriarchi e gli arcivescovi maggiori cattolici dell'Oriente, partecipanti all'assemblea del Sinodo dei vescovi, in un appello consegnato venerdì 24 ottobre a Benedetto XVI. – L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2008
10) CARI LAICI, LA FEDE MERITA RISPETTO - GIANNI GENNARI – Avvenire, 25 ottobre 2008
Che cosa ha detto il Sinodo? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 24 ottobre 2008 XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi - Si è tenuta dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa.
Il Sinodo dei Vescovi è una istituzione permanente decisa da Papa Paolo VI il 15 settembre 1965 e significa un luogo per l’incontro dei Vescovi tra di loro, attorno e con il Papa che lo convoca e lo presiede quale strumento di “consultazione e collaborazione” per lo scambio di informazioni ed esperienze, per la comune ricerca di soluzioni pastorali valide universalmente.
Il numero dei Padri sinodali è stato di 253, di cui 32 nominati direttamente dal Papa, gli altri dalle conferenze episcopali. Benedetto XVI ha anche approvato la partecipazione di 41 esperti e 37 uditori.
I Padri sinodali oltre alle proposizioni date al Santo Padre per un documento post-sinodale hanno inviato un Messaggio al Popolo di Dio, da cui traiamo una traccia.
E Dio dice a ciascuno di noi: “Figlio accetta le parole che ti dico, accogliele nel cuore e ascoltale con gli orecchi” (Ez 3,10).
Dio ha parlato agli inizi stessi della creazione. “In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,1.3). E Dio Padre continua a far risuonare la Sua Parola, il Verbo, il Figlio attraverso la creazione.
La parola divina è, però, anche alla radice della storia umana. L’uomo e la donna, che “sono immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,27) possono entrare in dialogo con il loro Creatore e possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato, perché Dio che è Amore non costringe mai creature intelligenti e libere: impedirebbe una risposta d’amore. La Parola di Dio di fronte al peccato salva e giudica, penetra nella trama della storia con il suo tessuto di vicende ed eventi.
C’è però una tappa ulteriore che la voce divina, creatrice e salvatrice, percorre dando vita a una autentica storia di amore con Israele suo popolo: è quella della parola scritta sotto la preminente e decisiva azione guida dello Spirito, le Sacre Scritture, memoriale dell’evento della Rivelazione creatrice e salvatrice.
E finalmente “il Verbo/Parola si fece carne”. La Parola eterna del Padre, la Ragione per cui tutto è stato creato e salvato nello Spirito, presente nella creazione, nella storia umana, soprattutto nella storia di Israele, entra nello spazio e nel tempo dilatando questa storia di amore all’intera umanità e la conduce all’estremo, al punto di rivolgersi contro se stesso nella croce per rialzare l’uomo e salvarlo, chiamandolo risorto a quell’unione di amore con Lui che culmina nella Mensa della Parola e dell’Eucaristia riattualizzando tutti i fatti e i detti della fase terrena per assimilare a Lui. E il Gesù Cristo è, quindi, carne fragile e mortale, è storia e umanità in tutto simile a noi, ma è anche gloria, divinità, mistero cioè il divino nella via umana. La Parola divina si fa carne “per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria”, si è fatta parola per mezzo dei profeti e Risorto, vivo parla ora attraverso le Scritture nello stesso Spirito come allora.
Ecco allora la continuità della “viva Tradizione di tutta la Chiesa” (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno in Cristo i 73 libri delle Sacre Scritture.
Pur necessaria, la conoscenza storica non si può fermare alla sola “lettera” perché la Bibbia rimarrebbe soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. La conoscenza esegetica deve intrecciarsi con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzato il continuo divino nell’umano di Gesù Cristo, del suo Corpo che è la Chiesa e delle Scritture. Come Paolo allora anche noi adesso ascoltiamo un Cristo vivo che ci ama, mi ama, con il quale posso ascoltare e parlare, che mi ascolta e mi risponde attraverso la testimonianza delle Scritture, dei Vangeli.
La casa della Parola di Dio è la Chiesa dove essa risuona continuamente, è compresa con la catechesi e resa attuale profeticamente soprattutto nell’Omelia.
Annuncio biblico, Catechesi e Omelia è un leggere e un comprendere, uno spiegare e un interpretare, un coinvolgimento personale e comunitario, con la mente e con il cuore.
Ma come il Crocefisso e risorto ha fatto con i due discepoli nell’itinerario da Gerusalemme a Emmaus spiegando le Scritture, culmina con l’incontro pieno nel Sacramento dell’Eucaristia e nei suoi gesti sacramentali.
Al centro dell’essere cristiani con un nuovo orizzonte di vita e la direzione decisiva c’è l’incontro con la Persona di Gesù Cristo nella “liturgia della parola e nella liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto” (SC 56).
Casa della Parola sono le preghiere intessute da “salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3,16). Un posto privilegiato la Liturgia delle Ore, ma anche la prassi della Lectio divina che si apre con la lettura (lectio): che cosa mi dice il testo? Segue la meditazione (meditatio): che cosa dice Dio attraverso il testo biblico a noi, a me? Si giunge alla preghiera (oratio): che cosa diciamo noi, io al Signore in risposta alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio): quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi, a me il Signore? Come in San Benedetto la Parola di Dio cioè l’assimilazione a Cristo diventa visibile nei testimoni della comunione con Dio e con i fratelli, nel vissuto familiare, in particolari vissuti fraterni, a livello personale e quindi in missione.
Messaggio al Popolo di Dio al termine del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale del Messaggio del Sinodo dei Vescovi al Popolo di Dio, a conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria, approvato nella ventunesima Congregazione generale di questo venerdì.
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Ai fratelli e sorelle «pace e carità con fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore incorruttibile». Con questo saluto così intenso e appassionato san Paolo concludeva la sua Lettera ai cristiani di Efeso (6, 23-24). Con queste stesse parole noi Padri sinodali, riuniti a Roma per la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sotto la guida del Santo Padre Benedetto XVI, apriamo il nostro messaggio rivolto all'immenso orizzonte di tutti coloro che nelle diverse regioni del mondo seguono Cristo come discepoli e continuano ad amarlo con amore incorruttibile.
A loro noi di nuovo proporremo la voce e la luce della Parola di Dio, ripetendo l'antico appello: «Questa parola è molto vicina a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore perché la metta in pratica» (Dt 30, 14). E Dio stesso dirà a ciascuno: «Figlio dell'uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi» (Ez 3, 10). A tutti ora proporremo un viaggio spirituale che si svolgerà in quattro tappe e che dall'eterno e dall'infinito di Dio ci condurrà fino nelle nostre case e lungo le strade delle nostre città.
I. LA VOCE DELLA PAROLA: LA RIVELAZIONE
1. «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole voi ascoltavate, nessuna immagine vedevate, solo una voce!» (Dt 4,12). È Mosè che parla evocando l'esperienza vissuta da Israele nell'aspra solitudine del deserto del Sinai. Il Signore si era presentato non come un'immagine o un'effigie o una statua simile al vitello d'oro, ma con "una voce di parole". È una voce che era entrata in scena agli inizi stessi della creazione, quando aveva squarciato il silenzio del nulla: «In principio… Dio disse: Sia la luce! E la luce fu… In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gn 1, 1.3; Gv 1, 1.3).
Il creato non nasce da una lotta intradivina, come insegnava l'antica mitologia mesopotamica, bensì da una parola che vince il nulla e crea l'essere. Canta il Salmista: «Dalle parole del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Sal 33, 6.9). E san Paolo ripeterà «Dio dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rm 4, 17). Si ha, così, una prima rivelazione "cosmica" che rende il creato simile a un'immensa pagina aperta davanti all'intera umanità, che in essa può leggere un messaggio del Creatore: «I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 19, 2-5).
2. La parola divina è, però, anche alla radice della storia umana. L'uomo e la donna, che sono «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1, 27) e che quindi recano in sé l'impronta divina, possono entrare in dialogo col loro Creatore o possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato. La Parola di Dio, allora, salva e giudica, penetra nella trama della storia col suo tessuto di vicende ed eventi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa…» (Es 3, 7-8). C'è, dunque, una presenza divina nelle vicende umane che, attraverso l'azione del Signore della storia, vengono inserite in un disegno più alto di salvezza, perché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4).
3. La parola divina efficace, creatrice e salvatrice, è quindi in principio all'essere e alla storia, alla creazione e alla redenzione. Il Signore viene incontro all'umanità proclamando: «Ho detto e ho fatto!» (Ez 37, 14). C'è, però, una tappa ulteriore che la voce divina percorre: è quella della parola scritta, la Graphé o le Graphaí, le Scritture sacre, come si dice nel Nuovo Testamento. Già Mosè era sceso dalla vetta del Sinai reggendo «in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall'altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio» (Es 32, 15-16). E lo stesso Mosè imporrà a Israele di conservare e riscrivere queste "tavole della Testimonianza": «Scriverai su pietre tutte le parole di questa legge, con scrittura ben chiara» (Dt 27, 8).
Le Sacre Scritture sono la "testimonianza" in forma scritta della parola divina, sono il memoriale canonico, storico e letterario attestante l'evento della Rivelazione creatrice e salvatrice. La Parola di Dio precede, dunque, ed eccede la Bibbia, che pure è "ispirata da Dio " e contiene la parola divina efficace (cf. 2 Tm 3, 16). È per questo che la nostra fede non ha al centro solo un libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l'orizzonte della parola divina abbraccia e si estende oltre la Scrittura, è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16, 13) chi legge la Bibbia. È questa la grande Tradizione, presenza efficace dello "Spirito di verità" nella Chiesa, custode delle Sacre Scritture, autenticamente interpretate dal Magistero ecclesiale. Con la Tradizione si giunge alla comprensione, all'interpretazione, alla comunicazione e alla testimonianza della Parola di Dio. Lo stesso san Paolo, proclamando il primo Credo cristiano, riconoscerà di "trasmettere" quello che egli «aveva ricevuto» dalla Tradizione (1 Cor 15, 3-5).
II. IL VOLTO DELLA PAROLA: GESÙ CRISTO
4. Nell'originale greco sono solo tre parole fondamentali: Lógos sarx eghéneto, «il Verbo/Parola si fece carne». Eppure, questo è l'apice non solo di quel gioiello poetico e teologico che è il prologo del Vangelo di Giovanni (1, 14), ma è il cuore stesso della fede cristiana. La Parola eterna e divina entra nello spazio e nel tempo e assume un volto e un'identità umana, tant'è vero che è possibile accostarvisi direttamente chiedendo, come fece quel gruppo di Greci presenti a Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12, 20-21). Le parole senza un volto non sono perfette, perché non compiono in pienezza l'incontro, come ricordava Giobbe, giunto al termine del suo drammatico itinerario di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).
Cristo è «il Verbo che è presso Dio ed è Dio», è «l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15); ma è anche Gesù di Nazaret che cammina per le strade di una marginale provincia dell'impero romano, che parla una lingua locale, che rivela i tratti di un popolo, l'ebraico, e della sua cultura. Il Gesù Cristo reale è, quindi, carne fragile e mortale, è storia e umanità, ma è anche gloria, divinità, mistero: Colui che ci ha rivelato il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1, 18). Il Figlio di Dio continua a essere tale anche in quel cadavere che è deposto nel sepolcro e la risurrezione ne è l'attestazione viva ed efficace.
5. Ebbene, la tradizione cristiana ha spesso posto in parallelo la Parola divina che si fa carne con la stessa Parola che si fa libro. È ciò che emerge già nel Credo quando si professa che il Figlio di Dio «si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria», ma anche si confessa la fede nello stesso «Spirito Santo che ha parlato per mezzo dei profeti». Il Concilio Vaticano II raccoglie questa antica tradizione secondo la quale «il corpo del Figlio è la Scrittura a noi trasmessa» – come afferma s. Ambrogio (In Lucam VI, 33) – e dichiara limpidamente: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini» (DV 13).
La Bibbia è, infatti, anch'essa "carne", "lettera", si esprime in lingue particolari, in forme letterarie e storiche, in concezioni legate a una cultura antica, conserva memorie di eventi spesso tragici, le sue pagine sono non di rado striate di sangue e violenza, al suo interno risuona il riso dell'umanità e scorrono le lacrime, così come si leva la preghiera degli infelici e la gioia degli innamorati. Per questa sua dimensione "carnale" essa esige un'analisi storica e letteraria, che si attua attraverso i vari metodi e approcci offerti dall'esegesi biblica. Ogni lettore delle Sacre Scritture, anche il più semplice, deve avere una proporzionata conoscenza del testo sacro ricordando che la Parola è rivestita di parole concrete a cui si piega e adatta per essere udibile e comprensibile all'umanità.
È, questo, un impegno necessario: se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che in pratica nega l'incarnazione della parola divina nella storia, non riconosce che quella parola si esprime nella Bibbia secondo un linguaggio umano, che dev'essere decifrato, studiato e compreso, e ignora che l'ispirazione divina non ha cancellato l'identità storica e la personalità propria degli autori umani. La Bibbia, però, è anche Verbo eterno e divino ed è per questo che essa esige un'altra comprensione, data dallo Spirito Santo che svela la dimensione trascendente della parola divina, presente nelle parole umane.
6. Ecco, allora, la necessità della «viva Tradizione di tutta la Chiesa» (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno le Sacre Scritture. Se ci si ferma alla sola "lettera", la Bibbia rimane soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. Se, però, si esclude l'incarnazione, si può cadere nell'equivoco fondamentalistico o in un vago spiritualismo o psicologismo. La conoscenza esegetica deve, quindi, intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l'unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture.
In questa armonia ritrovata, il volto di Cristo risplenderà nella sua pienezza e ci aiuterà a scoprire un'altra unità, quella profonda e intima delle Sacre Scritture, il loro essere, sì, 73 libri, ma inseriti in un unico "Canone", in un unico dialogo tra Dio e l'umanità, in unico disegno di salvezza. «Dio, infatti, molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ma ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2). Cristo getta, così, la sua luce retrospettivamente sull'intera trama della storia della salvezza e ne rivela la coerenza, il significato, la direzione.
Egli è il suggello, "l'alfa e l'omega" (Ap 1, 8) di un dialogo tra Dio e le sue creature distribuito nel tempo e attestato nella Bibbia. È alla luce di questo sigillo finale che acquistano il loro "senso pieno" le parole di Mosè e dei profeti, come aveva indicato lo stesso Gesù in quel pomeriggio primaverile, mentre egli procedeva da Gerusalemme verso il villaggio di Emmaus, dialogando con Cleofa e il suo amico, «spiegando loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27).
Proprio perché al centro della Rivelazione c'è la parola divina divenuta volto, l'approdo ultimo della conoscenza della Bibbia «non è in una decisione etica o in una grande idea, bensì nell'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1)
III. LA CASA DELLA PAROLA: LA CHIESA
Come la sapienza divina nell'Antico Testamento si era costruita la sua dimora nella città degli uomini e delle donne, sorreggendola su sette colonne (cf. Pr 9, 1), così anche la Parola di Dio ha una sua casa nel Nuovo Testamento: è la Chiesa che ha il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata su Pietro e sugli Apostoli e che oggi, attraverso i vescovi in communione col Successore di Pietro, continua ad essere custode, annunciatrice e interprete della parola (cf. LG 13). Luca, negli Atti degli Apostoli (2, 42), ne traccia l'architettura basata su quattro colonne ideali: «Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere».
7. Ecco innanzitutto la didaché apostolica, ossia la predicazione della Parola di Dio. L'apostolo Paolo, infatti, ci ammonisce che «la fede viene dall'ascolto e l'ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17). Dalla Chiesa esce la voce dell'araldo che a tutti propone il kérygma, ossia l'annunzio primario e fondamentale che Gesù stesso aveva proclamato agli esordi del suo ministero pubblico: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15). Gli apostoli annunciano l'inaugurazione del regno di Dio, e quindi dell'intervento decisivo divino nella storia umana, proclamando la morte e la risurrezione di Cristo: «in nessun altro c'è salvezza; non vi è, infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12). Il cristiano rende testimonianza di questa sua speranza «con dolcezza, rispetto e retta coscienza», pronto, però, anche ad essere coinvolto e forse travolto dalla bufera del rifiuto e della persecuzione, consapevole che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (1 Pt 3, 16-17).
Nella Chiesa risuona, poi, la catechesi: essa è destinata ad approfondire nel cristiano «il mistero di Cristo alla luce della Parola perché l'uomo intero sia irradiato da essa» (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae, 20). Ma il vertice della predicazione è nell'omelia che ancor oggi per molti cristiani è il momento capitale dell'incontro con la Parola di Dio. In questo atto il ministro dovrebbe trasformarsi anche in profeta. Egli, infatti, deve in un linguaggio nitido, incisivo e sostanzioso, non solo con autorevolezza «annunziare le mirabili opere di Dio nella storia della salvezza» (SC 35) – offerte prima attraverso una chiara e viva lettura del testo biblico proposto dalla liturgia – ma deve anche attualizzarle nei tempi e nei momenti vissuti dagli ascoltatori e far sbocciare nel loro cuore la domanda della conversione e dell'impegno vitale: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2, 37).
Annunzio, catechesi e omelia suppongono, quindi, un leggere e un comprendere, uno spiegare e un interpretare, un coinvolgimento della mente e del cuore. Nella predicazione si compie così un duplice movimento. Col primo si risale alla radice dei testi sacri, degli eventi, dei detti generatori della storia di salvezza, per comprenderli nel loro significato e nel loro messaggio. Col secondo movimento si ridiscende al presente, all'oggi vissuto da chi ascolta e legge, sempre alla luce del Cristo che è il filo luminoso destinato a unire le Scritture. È ciò che Gesù stesso aveva fatto – come si è già detto – nell'itinerario da Gerusalemme a Emmaus in compagnia di due suoi discepoli. È ciò che farà il diacono Filippo sulla strada da Gerusalemme a Gaza, quando col funzionario etiope intesserà quel dialogo emblematico: «Capisci quello che stai leggendo?... E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8, 30-31). E la meta sarà l'incontro pieno con Cristo nel sacramento. Si presenta, così, la seconda colonna che regge la Chiesa, casa della parola divina.
8. È la frazione del pane. La scena di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35) è ancora una volta esemplare e riproduce quanto accade ogni giorno nelle nostre chiese: all'omelia di Gesù su Mosè e i profeti subentra, alla mensa, la frazione del pane eucaristico. È, questo, il momento del dialogo intimo di Dio col suo popolo, è l'atto della nuova alleanza suggellata nel sangue di Cristo (cf. Lc 22, 20), è l'opera suprema del Verbo che si offre come cibo nel suo corpo immolato, è la fonte e il culmine della vita e della missione della Chiesa. La narrazione evangelica dell'ultima cena, memoriale del sacrificio di Cristo, quando è proclamata nella celebrazione eucaristica, nell'invocazione dello Spirito Santo diventa evento e sacramento. È per questo che il Concilio Vaticano II, in un passo di forte intensità, dichiarava: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio sia del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21). Si dovrà, perciò, riportare al centro della vita cristiana «la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56).
9. Il terzo pilastro dell'edificio spirituale della Chiesa, casa della Parola, è costituito dalle preghiere, intessute – come ricordava san Paolo – da «salmi, inni, cantici spirituali» (Col 3, 16). Un posto privilegiato è occupato naturalmente dalla Liturgia delle Ore, la preghiera della Chiesa per eccellenza, destinata a ritmare i giorni e i tempi dell'anno cristiano, offrendo, soprattutto col Salterio, il cibo quotidiano spirituale del fedele. Accanto ad essa e alle celebrazioni comunitarie della Parola, la tradizione ha introdotto la prassi della Lectio divina, lettura orante nello Spirito Santo, capace di schiudere al fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l'incontro col Cristo, parola divina vivente.
Essa si apre con la lettura (lectio) del testo che provoca una domanda di conoscenza autentica del suo contenuto reale: che cosa dice il testo biblico in sé? Segue la meditazione (meditatio) nella quale l'interrogativo è: che cosa dice il testo biblico a noi? Si giunge, così, alla preghiera (oratio) che suppone quest'altra domanda: che cosa diciamo noi al Signore in risposta alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio) durante la quale noi assumiamo come dono di Dio lo stesso suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi il Signore?
Di fronte al lettore orante della Parola di Dio si erge idealmente il profilo di Maria, la madre del Signore, che «custodisce tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19; cf. 2, 51), cioè – come dice l'originale greco – trovando il nodo profondo che unisce eventi, atti e cose, apparentemente disgiunti, nel grande disegno divino. O anche si può presentare agli occhi del fedele che legge la Bibbia l'atteggiamento di Maria, sorella di Marta, che si asside ai piedi del Signore in ascolto della sua parola, impedendo che le agitazioni esteriori assorbano totalmente l'anima, occupando anche lo spazio libero per «la parte migliore» che non ci dev'essere tolta (cf. Lc 10, 38-42).
10. Eccoci, infine, davanti all'ultima colonna che sorregge la Chiesa, casa della parola: la koinonía, la comunione fraterna, altro nome dell'agápe, cioè dell'amore cristiano. Come ricordava Gesù, per diventare suoi fratelli e sue sorelle bisogna essere «coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21). L'ascoltare autentico è obbedire e operare, è far sbocciare nella vita la giustizia e l'amore, è offrire nell'esistenza e nella società una testimonianza nella linea dell'appello dei profeti, che costantemente univa Parola di Dio e vita, fede e rettitudine, culto e impegno sociale. È ciò che ribadiva a più riprese Gesù, a partire dal celebre monito del Discorso della montagna: «Non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). In questa frase sembra echeggiare la parola divina proposta da Isaia: «Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi invoca con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (29, 13). Questi ammonimenti riguardano anche le Chiese quando non sono fedeli all'ascolto obbediente della Parola di Dio.
Essa, quindi, dev'essere visibile e leggibile già sul volto stesso e nelle mani del credente, come suggeriva san Gregorio Magno che vedeva in san Benedetto, e negli altri grandi uomini di Dio, testimoni di comunione con Dio e coi fratelli, la Parola di Dio fatta vita. L'uomo giusto e fedele non solo "spiega" le Scritture, ma le "dispiega" davanti a tutti come realtà viva e praticata. È per questo che viva lectio, vita bonorum, la vita dei buoni è una lettura/lezione vivente della parola divina. Era già stato san Giovanni Crisostomo a osservare che gli apostoli scesero dal monte di Galilea, ove avevano incontrato il Risorto, senza nessuna tavola di pietra scritta come era accaduto a Mosè: la loro stessa vita sarebbe divenuta da quel momento il Vangelo vivente.
Nella casa della Parola divina incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità ecclesiali che, pur nelle separazioni ancora esistenti, si ritrovano con noi nella venerazione e nell'amore per la Parola di Dio, principio e sorgente di una prima e reale unità, anche se non piena. Questo vincolo dev'essere sempre rafforzato attraverso le traduzioni bibliche comuni, la diffusione del testo sacro, la preghiera biblica ecumenica, il dialogo esegetico, lo studio e il confronto tra le varie interpretazioni delle Sacre Scritture, lo scambio dei valori insiti nelle diverse tradizioni spirituali, l'annuncio e la testimonianza comune della Parola di Dio in un mondo secolarizzato.
IV. LE STRADE DELLA PAROLA: LA MISSIONE
«Da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 3). La Parola di Dio personificata "esce" dalla sua casa, il tempio, e si avvia lungo le strade del mondo per incontrare il grande pellegrinaggio che i popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace. C'è, infatti, anche nella moderna città secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue vie – ove sembrano dominare incredulità e indifferenza, ove il male sembra prevalere sul bene, creando l'impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme – un anelito nascosto, una speranza germinale, un fremito d'attesa. Come si legge nel libro del profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8, 11). A questa fame vuole rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa.
Anche il Cristo risorto agli apostoli esitanti lancia l'appello a uscire dai confini del loro orizzonte protetto: «Andate e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). La Bibbia è tutta attraversata da appelli a "non tacere", a "gridare con forza", ad "annunciare la parola al momento opportuno e non opportuno", ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell'indifferenza. Le strade che si aprono davanti a noi non sono ora soltanto quelle sulle quali si incamminava san Paolo o i primi evangelizzatori e, dietro di loro, tutti i missionari che s'inoltrano verso le genti in terre lontane.
11. La comunicazione stende ora una rete che avvolge tutto il globo e un nuovo significato acquista l'appello di Cristo: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sulle terrazze» (Mt 10, 27). Certo, la parola sacra deve avere una sua prima trasparenza e diffusione attraverso il testo stampato, con traduzioni eseguite secondo la variegata molteplicità delle lingue del nostro pianeta. Ma la voce della parola divina deve risuonare anche attraverso la radio, le arterie informatiche di Internet, i canali della diffusione virtuale on line, i CD, i DVD, gli podcast e così via; deve apparire sugli schermi televisivi e cinematografici, nella stampa, negli eventi culturali e sociali.
Questa nuova comunicazione, rispetto a quella tradizionale, ha adottato una sua specifica grammatica espressiva ed è, quindi, necessario essere attrezzati non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa. In un tempo dominato dall'immagine, proposta in particolare da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, significativo e suggestivo è ancor oggi il modello privilegiato da Cristo. Egli ricorreva al simbolo, alla narrazione, all'esempio, all'esperienza quotidiana, alla parabola: «Parlava loro di molte cose in parabole… e fuor di parabola non diceva nulla alle folle» (Mt 13, 3.34). Gesù nel suo annuncio del regno di Dio non passava mai sopra le teste dei suoi interlocutori con un linguaggio vago, astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra ove erano piantati i loro piedi per condurli, dalla quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli. Significativa diventa, allora, la scena evocata da Giovanni: «Alcuni volevano arrestare Gesù, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato così!» (7, 44-46).
12. Cristo avanza lungo le vie delle nostre città e sosta davanti alle soglie delle nostre case: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). La famiglia, racchiusa tra le mura domestiche con le sue gioie e i suoi drammi, è uno spazio fondamentale in cui far entrare la Parola di Dio. La Bibbia è tutta costellata di piccole e grandi storie familiari e il Salmista raffigura con vivacità il quadretto sereno di un padre assiso alla mensa, circondato dalla sua sposa, simile a vite feconda, e dai figli, «virgulti d'ulivo» (Sal 128). La stessa cristianità delle origini celebrava la liturgia nella quotidianità di una casa, così come Israele affidava alla famiglia la celebrazione della pasqua (cf. Es 12, 21-27). La trasmissione della Parola di Dio avviene proprio attraverso la linea generazionale, per cui i genitori diventano «i primi araldi della fede» (LG 11). Ancora il Salmista ricordava che «ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto…e anch'essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli» (Sal 78, 3-4.6).
Ogni casa dovrà, allora, avere la sua Bibbia e custodirla in modo concreto e dignitoso, leggerla e con essa pregare, mentre la famiglia dovrà proporre forme e modelli di educazione orante, catechetica e didattica sull'uso delle Scritture, perché «giovani e ragazze, vecchi insieme ai bambini» (Sal 148, 12) ascoltino, comprendano, lodino e vivano la Parola di Dio. In particolare le nuove generazioni, i bambini e i giovani, dovranno essere destinatari di un'appropriata e specifica pedagogia che li conduca a provare il fascino della figura di Cristo, aprendo la porta della loro intelligenza e del loro cuore, anche attraverso l'incontro e la testimonianza autentica dell'adulto, l'influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale.
13. Gesù, nella sua parabola del seminatore, ci ricorda che ci sono terreni aridi, sassosi, soffocati dai rovi (cf. Mt 13, 3-7). Chi si inoltra per le strade del mondo scopre anche i bassifondi ove si annidano sofferenze e povertà, umiliazioni e oppressioni, emarginazioni e miserie, malattie fisiche e psichiche e solitudini. Spesso le pietre delle strade sono insanguinate dalle guerre e dalle violenze, nei palazzi del potere la corruzione s'incrocia con l'ingiustizia. Si leva il grido dei perseguitati per la fedeltà alla loro coscienza e alla loro fede. C'è chi è travolto dalla crisi esistenziale o ha l'anima priva di un significato che dia senso e valore allo stesso vivere. Simili a «ombre che passano, a un soffio che s'affanna» (Sal 39, 7), molti sentono incombere su di sé anche il silenzio di Dio, la sua apparente assenza e indifferenza: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2). E alla fine si erge davanti a tutti il mistero della morte.Questo immenso respiro di dolore che sale dalla terra al cielo è ininterrottamente rappresentato dalla Bibbia, che propone appunto una fede storica e incarnata. Basterebbe solo pensare alle pagine segnate dalla violenza e dall'oppressione, al grido acre e continuo di Giobbe, alle veementi suppliche salmiche, alla sottile crisi interiore che percorre l'anima di Qohelet, alle vigorose denuncie profetiche contro le ingiustizie sociali. Senza attenuanti è, poi, la condanna del peccato radicale che appare in tutta la sua potenza devastante fin dagli esordi dell'umanità in un testo fondamentale della Genesi (c. 3). Infatti, il "mistero di iniquità" è presente e agisce nella storia, ma è svelato dalla Parola di Dio che assicura in Cristo la vittoria del bene sul male.
Ma soprattutto nelle Scritture a dominare è la figura di Cristo che apre il suo ministero pubblico proprio con un annuncio di speranza per gli ultimi della terra: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Le sue mani si posano ripetutamente su carni malate o infette, le sue parole proclamano la giustizia, infondono coraggio agli infelici, donano perdono ai peccatori. Alla fine, lui stesso si accosta al livello più basso, «svuotando se stesso» della sua gloria, «assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini…, umiliando se stesso e facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).
Così, egli prova la paura del morire («Padre, se è possibile, passi da me questo calice!»), sperimenta la solitudine con l'abbandono e il tradimento degli amici, penetra nell'oscurità del più crudele dolore fisico con la crocifissione e persino nella tenebra del silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») e giunge all'abisso ultimo di ogni uomo, quello della morte («lanciando un forte grido, spirò»). Veramente a lui si può applicare la definizione che Isaia riserva al Servo del Signore: «uomo dei dolori che ben conosce il patire» (53, 3).
Eppure egli, anche in quel momento estremo, non cessa di essere il Figlio di Dio: nella sua solidarietà d'amore e col sacrificio di sé depone nel limite e nel male dell'umanità un seme di divinità, ossia un principio di liberazione e di salvezza; col suo donarsi a noi irradia di redenzione il dolore e la morte, da lui assunti e vissuti, e apre anche a noi l'alba della risurrezione. Il cristiano ha, allora, la missione di annunciare questa parola divina di speranza, attraverso la sua condivisione coi poveri e i sofferenti, attraverso la testimonianza della sua fede nel Regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace, attraverso la vicinanza amorosa che non giudica e condanna, ma che sostiene, illumina, conforta e perdona, sulla scia delle parole di Cristo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28).
14. Sulle strade del mondo la parola divina genera per noi cristiani un incontro intenso col popolo ebraico a cui siamo intimamente legati attraverso il comune riconoscimento e amore per le Scritture dell'Antico Testamento e perché da Israele «proviene il Cristo secondo la carne» (Rm 9, 5). Tutte le pagine sacre ebraiche illuminano il mistero di Dio e dell'uomo, rivelano tesori di riflessione e di morale, delineano il lungo itinerario della storia della salvezza fino al suo pieno compimento, illustrano con vigore l'incarnazione della parola divina nelle vicende umane. Esse ci permettono di comprendere in pienezza la figura di Cristo, il quale aveva dichiarato di «non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a dare ad essi pieno compimento» (Mt 5, 17), sono via di dialogo col popolo dell'elezione che ha ricevuto da Dio «l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse» (Rm 9, 4), e ci consentono di arricchire la nostra interpretazione delle Sacre Scritture con le risorse feconde della tradizione esegetica giudaica.
«Benedetto sia l'egiziano mio popolo, l'assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Is 19, 25). Il Signore stende, quindi, il manto protettivo della sua benedizione su tutti i popoli della terra, desideroso che «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2, 4). Anche noi cristiani, lungo le strade del mondo, siamo invitati – senza cadere nel sincretismo che confonde e umilia la propria identità spirituale – a entrare in dialogo con rispetto nei confronti degli uomini e delle donne delle altre religioni, che ascoltano e praticano fedelmente le indicazioni dei loro libri sacri, a partire dall'Islam che nella sua tradizione accoglie innumerevoli figure, simboli e temi biblici e che ci offre la testimonianza di una fede sincera nel Dio unico, compassionevole e misericordioso, Creatore di tutto l'essere e Giudice dell'umanità.
Il cristiano trova, inoltre, sintonie comuni con le grandi tradizioni religiose dell'Oriente che ci insegnano nelle loro testi sacri il rispetto della vita, la contemplazione, il silenzio, la semplicità, la rinuncia, come accade nel buddhismo. Oppure, come nell'induismo, esaltano il senso della sacralità, il sacrificio, il pellegrinaggio, il digiuno, i simboli sacri. O ancora, come nel confucianesimo, insegnano la sapienza e i valori familiari e sociali. Anche alle religioni tradizionali con i loro valori spirituali espressi nei riti e nelle culture orali, vogliamo prestare la nostra cordiale attenzione e intrecciare con loro un rispettoso dialogo. Anche a quanti non credono in Dio, ma che si sforzano di «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare con umiltà» (Mi 6, 8), dobbiamo con loro lavorare per un mondo più giusto e pacificato, e offrire in dialogo la nostra genuina testimonianza della Parola di Dio che può rivelare a loro nuovi e più alti orizzonti di verità e di amore.
15. Nella sua Lettera agli artisti (1999), Giovanni Paolo II ricordava che «la S. Scrittura è diventata una sorta di "immenso vocabolario" (Paul Claudel) e di "atlante iconografico" (Marc Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l'arte cristiana» (n. 5). Goethe era convinto che il Vangelo fosse la «lingua materna dell'Europa». La Bibbia, come ormai si è soliti dire, è «il grande codice» della cultura universale: gli artisti hanno idealmente intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato di storie, simboli, figure che sono le pagine bibliche; i musicisti è attorno ai testi sacri, soprattutto salmici, che hanno intessuto le loro armonie; gli scrittori hanno per secoli ripreso quelle antiche narrazioni che divenivano parabole esistenziali; i poeti si sono interrogati sul mistero dello spirito, sull'infinito, sul male, sull'amore, sulla morte e sulla vita spesso raccogliendo i fremiti poetici che animavano le pagine bibliche; i pensatori, gli uomini di scienza e la stessa società avevano non di rado come riferimento, sia pure per contrasto, le concezioni spirituali ed etiche (si pensi al Decalogo) della Parola di Dio. Anche quando la figura o l'idea presente nelle Scritture veniva deformata, si riconosceva che essa era imprescindibile e costitutiva della nostra civiltà.
È per questo che la Bibbia – la quale ci insegna anche la via pulchritudinis, cioè il percorso della bellezza per comprendere e raggiungere Dio («cantate a Dio con arte!», ci invita il Sal 47, 8) – è necessaria non solo al credente, ma a tutti per riscoprire i significati autentici delle varie espressioni culturali e soprattutto per ritrovare la nostra stessa identità storica, civile, umana e spirituale. È in essa la radice della nostra grandezza ed è attraverso essa che noi possiamo presentarci con un nobile patrimonio alle altre civiltà e culture, senza nessun complesso di inferiorità. La Bibbia dovrebbe, quindi, essere da tutti conosciuta e studiata, sotto questo straordinario profilo di bellezza e di fecondità umana e culturale.
Tuttavia, la Parola di Dio – per usare una significativa immagine paolina – «non è incatenata» (2 Tm 2, 9) a una cultura; anzi, aspira a varcare le frontiere e proprio l'Apostolo è stato un eccezionale artefice di inculturazione del messaggio biblico entro nuove coordinate culturali. È ciò che la Chiesa è chiamata a fare anche oggi attraverso un processo delicato ma necessario, che ha ricevuto un forte impulso dal magistero di Papa Benedetto XVI. Essa deve far penetrare la Parola di Dio nella molteplicità delle culture ed esprimerla secondo i loro linguaggi, le loro concezioni, i loro simboli e le loro tradizioni religiose. Deve, però, essere sempre capace di custodire la genuina sostanza dei suoi contenuti, sorvegliando e controllando i rischi di degenerazione.La Chiesa deve, quindi, far brillare i valori che la Parola di Dio offre alle altre culture, così che ne siano purificate e fecondate. Come aveva detto Giovanni Paolo II all'episcopato del Kenya durante il suo viaggio in Africa nel 1980, «l'inculturazione sarà realmente un riflesso dell'incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce nella sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
CONCLUSIONE
«La voce che avevo udito dal cielo mi disse: "Prendi il libro aperto dalla mano dell'angelo…". E l'angelo mi disse: "Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele". Presi quel piccolo libro dalle mani dell'angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito, ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza» (Ap 10, 8-11).
Fratelli e sorelle di tutto il mondo, accogliamo anche noi questo invito; accostiamoci alla mensa della Parola di Dio, così da nutrirci e vivere «non soltanto di pane ma anche di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8, 3; Mt 4, 4). La Sacra Scrittura - come affermava una grande figura della cultura cristiana - «ha passi adatti a consolare tutte le condizioni umane e passi adatti a intimorire in tutte le condizioni» (B. Pascal, Pensieri, n. 532 ed. Brunschvicg).
La Parola di Dio, infatti, è «più dolce del miele e di un favo stillante» (Sal 19, 11), è «lampada per i passi e luce sul cammino» (Sal 119, 105), ma è anche « come il fuoco ardente e come un martello che spacca la roccia» (Ger 23, 29). È come una pioggia che irriga la terra, la feconda e la fa germogliare, facendo così fiorire anche l'aridità dei nostri deserti spirituali (cf. Is 55, 10-11). Ma è anche «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).
Il nostro sguardo si rivolge con affetto a tutti gli studiosi, ai catechisti e agli altri servitori della Parola di Dio per esprimere ad essi la nostra più intensa e cordiale gratitudine per il loro prezioso e importante ministero. Ci rivolgiamo anche ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che sono perseguitati o che sono messi a morte a causa della Parola di Dio e della testimonianza che rendono al Signore Gesù (cf. Ap 6, 9): quali testimoni e martiri ci raccontano "la forza della parola" (Rm 1, 16), origine della loro fede, della loro speranza e del loro amore per Dio e per gli uomini.
Creiamo ora silenzio per ascoltare con efficacia la parola del Signore e conserviamo il silenzio dopo l'ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a noi. Facciamola risuonare all'inizio del nostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciamola echeggiare in noi alla sera perché l'ultima parola sia di Dio.
Cari fratelli e sorelle, «vi salutano tutti coloro che sono con noi. Salutate tutti quelli che ci amano nella fede. La grazia sia con tutti voi!» (Tt 3, 15).
Riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Presentiamo il riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi sulla Parola pubblicato venerdì.
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Cari Fratelli e Sorelle,
"che in ogni luogo invocate il nome del Signore nostro Gesù Cristo, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!" (1 Cor 1, 2-3). È col saluto dell'Apostolo Paolo - in quest'anno a lui dedicato - che noi, Padri Sinodali riuniti a Roma per la XII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi col Santo Padre Benedetto XVI, indirizziamo a voi un messaggio di ampia riflessione e proposta sulla Parola di Dio che è stata al centro dei lavori della nostra assemblea.
È un messaggio che affidiamo innanzitutto ai vostri pastori, ai tanti e generosi catechisti e a tutti coloro che vi guidano nell'ascolto e nella lettura amorosa della Bibbia. A voi ora vogliamo delineare l'anima e la sostanza di quel testo perchè cresca e si approfondisca la conoscenza e l'amore per la Parola di Dio. Quattro sono i punti cardinali dell'orizzonte che vogliamo invitarvi a conoscere e che esprimeremo attraverso altrettante immagini.
Ecco innanzitutto la Voce divina. Essa risuona alle origini della creazione, spezzando il silenzio del nulla e dando origine alle meraviglie dell'universo. È una Voce che penetra poi nella storia, ferita dal peccato umano e sconvolta dal dolore e dalla morte. Essa vede anche il Signore in cammino con l'umanità per offrire la sua grazia, la sua alleanza, la sua salvezza. È una Voce che scende poi nelle pagine delle Sacre Scritture che noi ora leggiamo nella Chiesa con la guida dello Spirito Santo che ad essa e ai suoi pastori è stato donato come luce di verità.
Inoltre, come scrive S. Giovanni, "la Parola si fece carne" (1, 14). Ecco, allora, apparire il Volto. È Gesù Cristo, che è Figlio del Dio eterno e infinito, ma anche uomo mortale, legato a un'epoca storica, a un popolo e a una terra. Egli vive l'esistenza faticosa dell'umanità fino alla morte, ma risorge glorioso e vive per sempre. È lui che rende perfetto il nostro incontro con la Parola di Dio. È lui che ci svela il "senso pieno" e unitario della Sacre Scritture per cui il Cristianesimo è una religione che ha al centro una persona, Gesù Cristo, rivelatore del Padre. È lui che ci fa capire che anche le Scritture sono "carne", cioè parole umane da comprendere e studiare nel loro modo di esprimersi, ma che custodiscono al loro interno la luce della verità divina che solo con lo Spirito Santo possiamo vivere e contemplare.
È lo stesso Spirito di Dio a condurci al terzo punto cardinale del nostro itinerario, la Casa della parola divina, cioè la Chiesa, che, come ci suggerisce san Luca (At 2, 42), è sorretta da quattro colonne ideali. C'è "l'insegnamento", cioè il leggere e il comprendere la Bibbia nell'annunzio fatto a tutti, nella catechesi, nell'omelia, attraverso una proclamazione che coinvolga mente e cuore. C'è, poi, "la frazione del pane", cioè l'Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Come accadde in quel giorno a Emmaus, i fedeli sono invitati a nutrirsi nella liturgia alla mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. Una terza colonna sono le "preghiere" con "salmi, inni, e cantici spirituali" (Col 3, 16). È la Liturgia delle Ore, preghiera della Chiesa destinata a ritmare i giorni e i tempi dell'anno cristiano. C'è anche la Lectio divina, la lettura orante delle Sacre Scritture capace di condurre, nella meditazione, nell'orazione, nella contemplazione, all'incontro col Cristo, parola di Dio vivente. E, alla fine, ecco la "comunione fraterna" perché per essere veri cristiani non basta essere "coloro che ascoltano la parola di Dio" ma anche che "la mettono in pratica" nell'amore operoso (Lc 8, 21). Nella casa della parola di Dio noi incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità cristiane che, pur nelle separazioni, vivono una reale unità, sebbene non piena, attraverso la venerazione e l'amore per la Parola divina.
Giungiamo, così, all'ultima immagine della mappa spirituale. È la strada su cui s'incammina la parola di Dio: "Andate e fate discepoli tutti i popoli, insegnando loro ad osservare ciò che vi ho comandato…Quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sulle terrazze" (Mt 28, 19-20; 10, 27). La parola di Dio deve correre per le strade del mondo che oggi sono anche quelle della comunicazione informatica, televisiva e virtuale. La Bibbia deve entrare nelle famiglie, perché genitori e figli la leggano, con essa preghino e sia per loro una lampada per i passi nel cammino dell'esistenza (cf. Sal 119, 105). Le Sacre Scritture devono entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché per secoli sono state il riferimento capitale dell'arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune. La loro ricchezza simbolica, poetica e narrativa le rende un vessillo di bellezza sia per la fede sia per la stessa cultura, in un mondo spesso sfregiato dalla bruttezza e dalle brutture.
La Bibbia, però, ci presenta anche il respiro di dolore che sale dalla terra, va incontro al grido degli oppressi e al lamento degli infelici. Essa ha al vertice la croce ove Cristo, solo e abbandonato, vive la tragedia della sofferenza più atroce e della morte. Proprio per questa presenza del Figlio di Dio, l'oscurità del male e della morte è irradiata dalla luce pasquale e dalla speranza della gloria. Ma sulle strade del mondo camminano con noi anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità cristiane che, pur nelle separazioni, vivono una reale unità anche se non piena, attraverso la venerazione e l'amore per la Parola di Dio. Lungo le strade del mondo incontriamo spesso uomini e donne di altre religioni che ascoltano e praticano fedelmente i dettami dei loro libri sacri e che con noi possono edificare un mondo di pace e di luce, perchè Dio vuole che "tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (1 Tim 2, 4).
Cari fratelli e sorelle, custodite nelle vostre case la Bibbia, leggete, approfondite e comprendete pienamente le sue pagine, trasformatele in preghiera e testimonianza di vita, ascoltatela con amore e fede nella liturgia. Create il silenzio per ascoltare con efficacia la Parola del Signore e conservate il silenzio dopo l'ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a voi. Fatela risuonare all'inizio del vostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciatela echeggiare in voi alla sera perché l'ultima parola sia di Dio.
"Vi affidiamo a Dio e alla parola della sua grazia" (At 20, 32). Con la stessa espressione di San Paolo nel suo discorso d'addio ai capi della Chiesa di Efeso, anche noi Padri Sinodali affidiamo i fedeli delle comunità sparse sulla faccia della terra alla parola divina che è anche giudizio ma soprattutto grazia, che è tagliente come una spada ma che è dolce come un favo di miele. Essa è potente e gloriosa e ci guida sulle strade della storia con la mano di Gesù che anche voi come noi "amate con amore incorruttibile" (Ef 6, 24).
Le radici cristiane di un’Europa laica. Il viaggio di Benedetto XVI in Francia - di Massimo Introvigne
Il viaggio di Benedetto XVI in Francia (12-15 settembre 2008) costituisce, secondo la sua stessa espressione, un «dittico» composto da due «pannelli» (Benedetto XVI 2008r). Il primo pannello – che comprende i discorsi tenuti a Parigi, e il discorso a Lourdes ai vescovi della Conferenza Episcopale Francese (Benedetto XVI 2008o) – presenta una riflessione sulle radici cristiane dell’Europa nel contesto francese segnato sia dalla laïcité, cioè da una laicità per secoli intesa come laicismo anticristiano e anticlericale, sia dal tentativo del presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, di proporre una nuova nozione di «laicità positiva», critica – o autocritica – nei confronti dei tradizionali laicismo e anticlericalismo francesi e disposta a riconoscere un ruolo pubblico alla religione in Francia (Sarkozy 2004). Il secondo pannello precisa ulteriormente che le radici cristiane dell’Europa sono radici mariane, e propone un’esegesi puntuale delle parole e dei gesti della Vergine Maria nelle apparizioni di Lourdes (11 febbraio – 16 luglio 1858), di cui il viaggio di Benedetto XVI intende celebrare in modo solenne il 150° anniversario. Tuttavia, nei discorsi di Lourdes, il secondo pannello è sempre collegato al primo, così che – pure nella distinzione dei due momenti del viaggio – il discorso resta comunque profondamente unitario: e come tale può essere studiato.
1. Le radici dell’Europa sono religiose
Nei suoi interventi di Parigi, in relazione implicita anche al dibattito sulla Costituzione europea – dalla quale proprio la Repubblica Francese, all’epoca presieduta da Jacques Chirac, chiese ripetutamente che fosse escluso ogni riferimento alle radici ebraiche e cristiane –, Benedetto XVI afferma con forza che non è possibile parlare di Europa, e neppure di Francia, senza considerare le loro radici religiose. È sufficiente camminare per le strade, osservare l’architettura, studiare la letteratura o visitare i musei per rendersi conto che un discorso sull’Europa che prescinda dalle radici religiose, semplicemente, non ha senso. «Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» (Benedetto XVI 2008d). Il riferimento, anzitutto, a radici religiose permette di valorizzare – come il Papa a Parigi ha fatto in termini a loro modo impegnativi – il contributo dell’ebraismo alla cultura europea, e in particolare «il ruolo eminente svolto dagli Ebrei di Francia per l’edificazione dell’intera Nazione e il loro prestigioso apporto al suo patrimonio spirituale» (Benedetto XVI 2008c). Un richiamo non scontato, ma che il Pontefice considera doveroso in un momento in cui tornano rischi di antisemitismo, di fronte ai quali la Chiesa ricorda, con le parole del cardinale Henri-Marie de Lubac, S.J. (1896-1991), citate a Parigi da Benedetto XVI, che «essere antisemiti significa[va] anche essere anticristiani» (ibidem). La Chiesa, dunque, ripete oggi le parole pronunciate da Pio XI (1857-1939) il 6 settembre 1938, nel pieno della tempesta nazista: «Spiritualmente, noi siamo semiti» (Allocuzione a dei pellegrini del Belgio, del 6-9-1938, cit. in Benedetto XVI 2008c).
Valorizzare le radici religiose dell’Europa offre anche un contesto e un quadro per il dialogo con le nuove presenze islamiche, a proposito delle quali il Papa invita anzitutto allo studio per «un reale impegno di conoscenza reciproca» (Benedetto XVI 2008o), in assenza del quale si rischia di cadere in percorsi di dialogo che «conducono a vicoli ciechi» (ibidem). Né il vivere in una «società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa» (ibidem) può essere pretesto per nascondere la Verità o rinunciare alla missione, anche nei confronti degli stessi musulmani. Una società dove convivono più religioni dev’essere al contrario vissuta come «un’opportunità che il Signore ci offre di proclamare la Verità» (ibidem). Se un tempo i missionari dovevano andare a cercare i seguaci di religioni non cristiane nei loro Paesi, oggi costoro vengono da noi come immigrati, e attraverso la loro presenza il Signore ci offre l’occasione di esercitare la missione, che rimane un aspetto imprescindibile della vita cristiana, senza dovere necessariamente partire verso terre lontane.
2. Le radici dell’Europa sono cristiane
Ma in ogni caso, mentre riconosce il contributo nella storia o nell’attualità di altre religioni, la Chiesa non può astenersi dal proclamare che le radici dell’Europa sono cristiane. Valutando positivamente gli elementi di novità introdotti dal presidente Sarkozy nel dibattito politico sulla religione in Francia, Benedetto XVI così gli si rivolge: «Signor Presidente, Ella ha ricordato che le radici della Francia – come quelle dell’Europa – sono cristiane. Basta la storia a dimostrarlo» (Benedetto XVI 2008b). Anzi, «il porre in evidenza le radici cristiane della Francia permetterà ad ogni abitante di questo Paese di meglio comprendere da dove egli venga e dove egli vada» (Benedetto XVI 2008o).
In Francia, il Papa ricorda in particolare la figura del Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione (130-202), particolarmente caro a Benedetto XVI come testimonianza vivente delle radici insieme greche e latine dell’Europa Occidentale (e si sa quanto il Pontefice tenga a ricordare sempre il contributo greco). Questo Padre della Chiesa di Francia, infatti, non era francese di nascita. «Sant’Ireneo era venuto da Sirme per predicare la fede nel Cristo risorto. Lione aveva dunque un vescovo la cui lingua materna era il greco» (Benedetto XVI 2008b).
Né si tratta solo di sant’Ireneo. «La fede del Medio Evo ha edificato le cattedrali» (Benedetto XVI 2008e), e proprio la Francia conta alcune delle più belle e famose cattedrali d’Europa, testimonianza viva delle radici cristiane che nessuno può ignorare. «Essendo un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008a), il Pontefice apprezza anche la letteratura cattolica francese dell’Ottocento, in cui ritrova un che di barocco. In particolare – ma cita anche i romanzi di Georges Bernanos (1888-1948; cfr. ibidem) – gli «piace molto» (ibidem) la poesia di Paul Claudel (1868-1955), la cui conversione è del resto legata al fascino delle cattedrali medievali e in particolare di quella di Parigi, Notre-Dame (Benedetto XVI 2008e), e testimonia che la vera arte cristiana – quella di ieri come quella di oggi – è sempre un «cammino verso Dio» (ibidem).
3. Le radici dell’Europa sono monastiche
Se il richiamo alle radici religiose e cristiane dell’Europa costituisce un tema consueto del magistero di Benedetto XVI – come già di quello di Giovanni Paolo II (1920-2005) – a Parigi il Papa c’invita a fare un passo in più, che costituisce il tema specifico del discorso al Collège des Bernardins, da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche, e che nei monasteri medievali le radici dell’Europa si confondono con le radici della teologia della Chiesa universale.
Le «radici della cultura europea» si trovano precisamente nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (Benedetto XVI 2008 d). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibidem). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibidem). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibidem).
La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq, O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea – e insieme la teologia cattolica – di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.
Ma di quale cultura si trattava? La cultura non è semplicemente l’insieme dei libri e delle biblioteche, ma «riguarda la comunità» (ibidem) e coinvolge anche i gesti e il corpo. «Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq» (ibidem). Leggere e cantare sono attività collegate, e sono attività essenziali in un rapporto con la Parola che è propriamente culturale ma che coinvolge insieme il corpo e lo spirito. «Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica» (ibidem). Del resto, «due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio» (ibidem). «Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”» (ibidem).
Il «criterio supremo» di questa cultura insieme della Parola e del corpo va ben al di là della bellezza di una melodia: si tratta «di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle [1090-1153], che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino [354-430] per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere» (ibidem). Di qui, secondo il Papa – di cui è noto l’interesse per la musica classica – «è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo» (ibidem). I monaci non hanno come punto di riferimento un compositore che «inventa» una melodia, ma chi è capace di riconoscere nel mondo una musica che Dio vi ha immesso e che nel cosmo già vive.
Le radici della cultura europea – cultura dello spirito e del corpo, che comprende la riflessione filosofica e teologica, la letteratura, l’arte e la musica – scaturiscono dunque dalla ricerca da parte dei monaci di un accostamento adeguato alla Parola di Dio. Per così dire, i monaci trovarono la cultura europea – che segna ancora oggi tutti noi – senza cercarla, mentre riflettevano sul modo migliore per comprendere e insegnare la Bibbia. Si trattava di un compito arduo – ma di qui vengono appunto la profondità della riflessione e la ricchezza della cultura prodotta dai monaci – in quanto la Bibbia è stata composta «lungo più di un millennio», presenta al suo interno «tensioni visibili» e il suo «aspetto divino […] non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia [O.P., ?-1282], Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica [cioè riferita allo Spirito Santo, Pneuma]. Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta» (ibidem).
Parte da qui il brano del discorso del Collège des Bernardins dove Benedetto XVI spiega come le radici della cultura europea sono al tempo stesso le radici della teologia cattolica di tutta la Chiesa. È una teologia che, proprio sulla base della consapevolezza originaria secondo cui la Parola di Dio necessita d’interpretazione, «esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibidem).
Il richiamo alle radici permette di evitare due rischi, non solo uno. Se un rischio, infatti, è costituito dal fondamentalismo – il quale pretende che la Parola di Dio non abbia bisogno d’interpretazione, perché la semplice «letteralità del testo» sarebbe più che sufficiente – un altro rischio, simmetrico, consiste nell’interpretazione arbitraria fondata semplicemente su «la propria idea, la visione personale di chi interpreta» (ibidem). Per non essere fondamentalisti, oggi si rischia spesso di cadere nell’arbitrarietà e nel soggettivismo. In realtà, proprio studiando l’esperienza dei monaci da cui sono nate insieme la cultura occidentale e la teologia, scopriamo che dagli scritti di san Paolo essi traevano la convinzione che l’interpretazione non è mai un’avventura individuale ma è sempre un incontro con il Signore Gesù che avviene nel luogo in cui Egli ha voluto farsi incontrare nella storia, cioè nella Chiesa. Si pone così «un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità» (ibidem). È una riflessione molto attuale oggi «di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione» (ibidem).
L’esame delle radici monastiche dell’Europa non sarebbe completo se non si considerasse che il motto dei monaci era ora et labora, dunque non solo «prega» ma anche «lavora». Per quanto Benedetto XVI sia attaccato al tema delle radici greche dell’Europa, qui nota che se la Grecia non avesse incontrato il cristianesimo avrebbe continuato a passare accanto, senza afferrarli, ad aspetti essenziali della cultura: il lavoro, l’economia, il rapporto con le cose. Per i greci, infatti, il lavoro non faceva parte della cultura: era una cosa da schiavi. «Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo» (ibidem).
Come spesso avviene, un diverso atteggiamento psicologico nasconde un problema dottrinale, legato addirittura a una diversa concezione di Dio. «Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata» (ibidem). Al contrario il Dio degli ebrei e dei cristiani è il creatore e «lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini» (ibidem). Se dunque «il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano» (ibidem) non ci troviamo di fronte soltanto a una buona pedagogia di formazione all’impegno della volontà, ma a una nozione di cultura più ricca di quella greca, di cui fanno parte a pieno titolo anche le attività economiche e produttive: una nozione che sta tra l’altro a fondamento del grande sviluppo economico dell’Occidente, le cui radici sono anch’esse cristiane e monastiche.
Ma Benedetto XVI, tirando le somme di questo grande affresco delle radici monastiche della cultura europea, torna a ricordare che lo scopo dei monaci non era creare cultura ma quaerere Deum, cercare Dio. Non ci si può mettere a cercare Dio, come sapeva sant’Agostino, senza averlo in un certo senso già trovato. Legati com’erano all’esperienza di san Paolo, i monaci sapevano che all’Areopago – quando di fronte all’ara del Dio Ignoto, l’apostolo esclama: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17, 23) – Paolo era partito dalla nozione (che è di ragione, non di fede) secondo cui «all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità ma la Ragione creativa» (Benedetto XVI 2008d). E tuttavia san Paolo era consapevole che «malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole» (ibidem).
«La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (ibidem). In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia fra fede e ragione, che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.
4. Le radici dell’Europa sono mariane
La «ragione principale» (Benedetto XVI 2008b) del viaggio di Benedetto XVI in Francia è la celebrazione del 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes: «il Papa aveva il dovere di venire a Lourdes» (Benedetto XVI 2008r). Non si tratta di una mera celebrazione: anzi, nel contesto del viaggio, il Papa ricorda che le radici cristiane e monastiche dell’Europa sono anche necessariamente radici mariane. Le apparizioni della Madonna che costellano la storia d’Europa negli ultimi secoli sono un forte e provvidenziale richiamo a queste radici, nel momento in cui l’Europa comincia a negarle. Lourdes – ma questo vale per ogni apparizione - «è come una luce nell’oscurità del nostro brancolare verso Dio. Maria vi ha aperto una porta verso un al-di-là che ci interroga e ci seduce» (Benedetto XVI 2008r).
Benedetto XVI si sente in qualche modo personalmente inserito nella storia di Lourdes: «il giorno della festa di Santa Bernadette [Soubirous, 1844-1879] è anche il giorno della mia nascita» (Benedetto XVI 2008a), e una figura cui il Papa si sente molto legato, il beato Charles de Foucauld (1858-1916), evangelizzatore e martire dei Tuareg musulmani del Sud dell’Algeria dopo essere stato militare, «nacque nel 1858, lo stesso anno delle apparizioni di Lourdes» (Benedetto XVI 2008p).
In un momento in cui le apparizioni mariane sono oggetto anche in best seller destinati al grande pubblico di critiche e di rifiuti fondati su pregiudizi razionalisti e laicisti (cfr. Augias e Cacitti 2008 e, per una critica, Introvigne 2008), il magistero s’impegna anzitutto in un giudizio sul fatto che non lascia spazio a equivoci. Il condizionale, utilizzato anche in qualche testo corrente che è opera di cattolici, è costantemente sostituito dal passato o dal presente storici: Bernadette «vide», Maria «rivela» (Benedetto XVI 2008l). Il testo delle apparizioni mariane è infatti secondo il Papa una «vera catechesi» della Madonna al mondo moderno (Benedetto XVI 2008m), che – in quanto tale – merita un’esegesi puntuale e sistematica da parte dello stesso magistero della Chiesa.
Questo testo a Lourdes non si compone soltanto di parole, ma anche di silenzi, di fenomeni che circondano le apparizioni e di gesti della Madonna. Tra questi il Papa ne commenta principalmente quattro: la luce – «Bernadette vide una luce e, dentro questa luce, una giovane signora» (Benedetto XVI 2008l) –; il segno della croce – che «introduce l’incontro» già in occasione della prima apparizione (Benedetto XVI 2008m) –; la corona del Rosario, che la Vergine tiene nelle mani – «durante le apparizioni è da rilevare che Bernadette recita la corona sotto gli occhi di Maria, che si unisce a lei al momento della dossologia» (ibidem) –; e il sorriso della Madonna, che ha tanto impressionato Bernadette e che è rimasto con lei per tutta la sua vita (Benedetto XVI 2008q).
Ognuno di questi segni è proposto alla nostra riflessione sulle radici mariane dell’Europa e sulla catechesi che mediante le apparizioni la Madonna stessa ha proposto al mondo. Il segno della luce è fondamentale per tutta la vita cristiana. In Mt 5, 14 «Cristo può ormai dire: “Voi siete la luce del mondo”» (Benedetto XVI 2008l). Lo dice a noi, che evidentemente «non siamo la luce» (ibidem). La nostra è una luce riflessa: diventiamo «luce del mondo» perché riceviamo la luce del Cristo per mezzo di Maria. Nel brano del Vangelo di Matteo richiamato dal segno mariano di Lourdes merita attenzione l’espressione «del mondo». Non solo «abbiamo bisogno di luce»: «siamo chiamati a divenire luce», «proporci come guide per i nostri fratelli» (ibidem). La luce non è qualche cosa che ci è donato solo per la nostra salvezza individuale, ma perché – in un mondo che progressivamente si scristianizza – ciascuno irradi la luce cristiana e mariana nel suo ambiente e nella società.
Il segno della Croce «è in qualche modo la sintesi della nostra fede» (Benedetto XVI 2008m): anch’esso rischia nel mondo moderno di essere banalizzato, ma il suo significato è molto profondo. Ogni volta che in pubblico facciamo il segno della Croce – che, «più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede» (ibidem) e che la Madonna stessa mostrò a Bernadette a Lourdes – stiamo almeno dando inizio alla missione affidata alla Chiesa di «mostrare a tutti» il volto di Dio (ibidem).
Il Rosario della Madonna a Lourdes è strettamente collegato al segno della luce: e forse, rileva Benedetto XVI, non è un caso che Giovanni Paolo II, tanto devoto alla Vergine di Lourdes, sia stato un Papa del Rosario «tra l’altro, in un modo del tutto singolare, arricchendo il Rosario con la meditazione dei Misteri della Luce», dal 2007 «rappresentati sulla facciata della Basilica [di Lourdes] nei nuovi mosaici» (Benedetto XVI 2008l). Il fatto che la Madonna stessa si unisca a Bernadette nella recita del Gloria «conferma il carattere profondamente teocentrico della preghiera del Rosario» (ibidem). Nello stesso tempo, il richiamo alle radici della cultura europea si precisa come richiamo a «quella straordinaria prossimità tra il cielo e la terra che non si è mai smentita e che non cessa di consolidarsi» (ibidem), in una storia d’Europa che non si comprende se si eliminano dal suo itinerario i segni e i prodigi del cielo e la forza della preghiera.
Il sorriso della Madonna – il «sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta» (Benedetto XVI 2008q) – non c’invita affatto a un «sentimentalismo devoto o antiquato» (ibidem). Non si deve infatti dimenticare che il sorriso di Maria nasce dall’«abisso del suo dolore» durante la Passione, suggerito «dal simbolo tradizionale delle sette spade» che le hanno trapassato il cuore: solo con la gloria della Resurrezione «le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà» (ibidem). Di questo sorriso la Madonna fa beneficiare la Chiesa e in particolare l’Europa attraverso il continuo «intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia» (ibidem). A Lourdes, prima d’iniziare con Bernadette una catechesi che comprende anche parole, «Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questo la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero» (ibidem). Questo sorriso è sempre disponibile per tutti i cristiani, ma occorre mettersi nell’atteggiamento giusto, quello dei frequenti «incontri di sguardo con la Vergine Maria», secondo un’espressione che Benedetto XVI cita dal monaco dom Jean-Baptiste Chautard, O.C.S.O. (1858-1935) – tra l’altro, anch’egli nato come il beato Charles de Foucauld nello stesso anno delle apparizioni di Lourdes – il cui insegnamento di «bella figura spirituale francese» il Papa raccomanda a ogni «cristiano fervoroso» (ibidem).
Anche se a Lourdes – rispetto, per esempio, alle successive apparizioni di Fatima, del 1917 – la Madonna ha pronunciato un numero limitato di parole, anche queste fanno parte della sua catechesi o direzione spirituale rivolta a un’Europa già nel 1858 in via di secolarizzazione. Pure queste parole sono oggetto di un commento dettagliato e puntuale da parte del Papa, che si sofferma in particolare su tre indicazioni della Madonna.
Nell’ottava delle diciotto apparizioni, il 24 febbraio 1858, la Madonna dice a Bernadette: «Penitenza! Penitenza! Penitenza! Pregate Dio per i peccatori! Andate a baciare la terra in penitenza per i peccatori!»; e nella nona apparizione, il giorno dopo 25 febbraio, aggiunge: «Andate a bere alla fonte e a lavarvi. Voi mangerete di quell'erba che è là». Il segno della terra e dell’erba e quello dell’acqua – che, come è noto, sarà in effetti trovata a Lourdes e sarà all’origine di tanti pellegrinaggi e miracoli – sono intimamente collegati alle radici, e intendono mostrarci che la radice è Maria stessa che al tempo stesso «è una sorgente di acqua viva» (Benedetto XVI 2008q). La liturgia della Chiesa la invoca come Fons amoris, ma lo fa nella sequenza della festa dell’Addolorata: ancora una volta l’amore nasce dal dolore (ibidem). Questo vale anzitutto per Maria nella sua vita terrena: e in questo senso Benedetto XVI – a fronte di equivoci vecchi e nuovi, secondo cui la decisione del Concilio Vaticano II di non dedicare un documento monotematico alla Madonna ma d’inserire la mariologia nella costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium avrebbe in qualche modo sminuito la sua importanza – ribadisce che, attraverso una scelta che aveva del resto solide ragioni teologiche e patristiche, «il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa» (ibidem). Ma il rapporto profondo – e non sentimentale – fra dolore e amore vale oggi anche per i malati di Lourdes, i quali apprendono che Gesù Cristo, cui sono invitati a donarsi per mezzo di Maria, «non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta: la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattie, per sopportarla e viverla con lui» (ibidem). In un mondo che, nonostante il progresso della medicina, troppo spesso rifiuta di vedere il malato e lo isola, «la presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento» (ibidem).
Nella tredicesima apparizione, il 2 marzo 1858, la Madonna chiede a Bernadette: «Andate a dire ai sacerdoti che si venga qui in processione e che si costruisca una cappella». Non chiede solo, nota Benedetto XVI, che si venga in pellegrinaggio ma che si venga «in processione». Vi è qui un insegnamento molto profondo sulla «comunione della Chiesa» (Benedetto XVI 2008l): non riscopriremo le radici e non risolveremo i nostri problemi da soli, né attraverso interpretazioni soggettive, ma soltanto nella Chiesa e con la Chiesa, in un’ideale processione sulla «strada luminosa» che da Lourdes «si apre nella storia degli uomini» (ibidem). Insieme, la processione cui siamo invitati dalla Vergine è molto di più, perché con noi sfilano grazie al mistero della comunione dei santi anche coloro che già si trovano in Paradiso, che realmente ci accompagnano e ci sostengono, così che il passato dell’Europa e del mondo cammina nel presente: la processione, infatti, «unisce eletti del cielo e pellegrini della terra» (ibidem).
Infine, con la sedicesima apparizione del 25 marzo 1858 si giunge al cuore teologico delle apparizioni. Dopo che Bernadette le aveva chiesto più volte di dirle il suo nome, la Signora rispose nel dialetto del luogo «que soy era Immaculada Concepciou», «che era l’Immacolata Concezione». Il beato Papa Pio IX (1792-1878) aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione – secondo cui la Vergine Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento – solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus dell'8 dicembre 1854. Bernadette, peraltro, non ne aveva mai sentito parlare. Ci si può chiedere se l’evento straordinario della conferma di un dogma da poco proclamato da parte della Madonna rimanga una mera curiosità storica o abbia a che fare con l’esperienza quotidiana di noi che purtroppo con le conseguenze del peccato originale dobbiamo avere a che fare tutti i giorni. Benedetto XVI risponde positivamente: «Questo privilegio [della Madonna] riguarda anche noi» (Benedetto XVI 2008m). «Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori» (Benedetto XVI 2008n). Di fatto, la Chiesa sa e sperimenta che «ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la tutta pura» (ibidem). «La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. […] In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione» (ibidem).
5. Le radici dell’Europa si mostrano ancora
Le radici religiose, cristiane, monastiche e mariane dell’Europa sono un semplice riferimento storico o una realtà viva e presente ancora oggi? Evidentemente, se si trattasse di un puro richiamo storico il loro interesse sarebbe limitato agli specialisti. Ma, ci assicura Benedetto XVI, non è così: le radici sono ancora tra noi. Lo sono, anzitutto, di fatto. Nel Paese europeo con la più bassa percentuale di partecipanti settimanali a riti religiosi, la Francia, il Papa non ha paura di testimoniare la «convinzione che i tempi siano favorevoli a un ritorno a Dio» (Benedetto XVI 2008r). Di fronte ai dati sociologici, questa convinzione potrebbe sembrare infondata. Tuttavia, il Papa ritiene che il grande interesse per le testimonianze artistiche, musicali e letterarie del cristianesimo – che si riscontra anche in un Paese molto secolarizzato come la Francia – possa diventare per molti, opportunamente evangelizzato e indirizzato, il primo passo di un itinerario di riscoperta della fede. I giovani, se da un lato sono «la preoccupazione più grande» del Papa (Benedetto XVI 2008b), dall’altro «pur vivendo in un mondo che li corteggia e blandisce i loro bassi istinti, e portando essi pure il fardello pesante di eredità difficili da assimilare, […] conservano una freschezza d’animo che ha suscitato la mia ammirazione», in particolare in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney (Benedetto XVI 2008o). La speranza, dunque, non solo – come afferma il proverbio – è l’ultima a morire, ma di fatto non è morta.
In secondo luogo, vi sono ragioni di principio per affermare che anche una società secolarizzata e che si dichiara laica come quella francese porta in sé il segno delle radici cristiane. Infatti, «la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall'inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato» (Benedetto XVI 2008a). Per comprendere come la vera laicità derivi dalla fede, e non vada confusa con un laicismo antireligioso, è necessario – soprattutto in Francia – superare antichi pregiudizi e tornare a riflettere sul significato della stessa laicità. Rivolgendosi all’Eliseo al presidente Sarkozy, Benedetto XVI afferma: «Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. […] Una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale, infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» così come alla diffusione di quella speranza di cui «ogni umana società» – specialmente nei suoi giovani – ha bisogno per sopravvivere (Benedetto XVI 2008b). A chi guarda le vecchie ostilità fra Stato e Chiesa in Francia e il carattere profondamente antireligioso dell’antica laïcité la possibilità di condurre con serenità questa riflessione può apparire difficile. Tuttavia, Benedetto XVI vuole provare a ripartire dalle aperture del presidente Sarkozy: «nel quadro istituzionale esistente e nel massimo rispetto delle Leggi in vigore, occorrerebbe trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita l’identità della Nazione. Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità. I presupposti socio-politici dell’antica diffidenza o persino ostilità svaniscono poco a poco» (Benedetto XVI 2008o). È almeno, per usare una parola cara sia al presidente Sarkozy sia a Benedetto XVI, una speranza.
6. Le radici dell’Europa vanno ravvivate
Uno dei temi cari a Benedetto XVI è la contemporaneità del politeismo. Potrebbe sembrare – il Papa ne ha trattato in modo approfondito nel corso del viaggio in Australia – che gli ammonimenti del Signore al popolo ebraico nell’Antico Testamento perché rifugga dal politeismo e dall’adorazione di molti falsi dèi non abbiano nulla da dire ai giovani di oggi. È precisamente il contrario: solo che oggi il politeismo non si manifesta nelle «divinità dell’Olimpo» (Benedetto XVI 2008i) ma in idoli che si chiamano ricchezza, sesso, potere e anche relativismo e secolarismo. Il «culto degli idoli» è dunque ancora ben presente oggi, e «distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza» (ibidem). Le radici cristiane dell’Europa fondano una cultura del monoteismo che si oppone agl’idoli. Oggi queste radici, che come si è visto sono ancora presenti ma rischiano di essere dimenticate o negate, vanno ravvivate con un programma sistematico di evangelizzazione.
Di questo programma sistematico Benedetto XVI propone quattro tappe. La prima si ricollega direttamente all’esperienza dei monaci, e invita – nell’imminenza di un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata alla Sacra Scrittura, e in un Paese dove le statistiche sull’ignoranza religiosa sono allarmanti – a studiare la Parola di Dio, tornando alla «celebre formula di san Girolamo» (347-420) secondo cui «ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Benedetto XVI 2008e). Per evitare tuttavia – secondo un rischio che abbiamo visto come già presente ai monaci – che l’interpretazione diventi arbitrio soggettivo, l’incontro con le Scritture dovrà essere mediato dalla catechesi, che «non è innanzitutto una questione di metodo, ma di contenuto» (Benedetto XVI 2008o). In un contesto dove si apprezza il «grande realismo» delle previsioni del «più grande catechista di tutti i tempi», san Paolo, secondo cui «verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2 Tm 4, 3-4), il Papa invita – come fa in tutti i suoi viaggi – all’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica e del relativo Compendio come bussola sicura per rimanere fedeli alla dottrina cattolica.
La seconda tappa è la meditazione sulla Croce che, forse non a caso, Benedetto XVI propone proprio su quel sagrato della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi dove la presenza di una grande croce era stata contrastata nel novembre 2004 dal sindaco socialista (nonché militante omosessuale) della capitale francese, Bertrand Delanoë, per presunto contrasto con le leggi sulla laïcité in vigore (AFP 2004). «Molti di voi – dice il Papa ai giovani – portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo» (Benedetto XVI 2008f). Perché la croce non sia solo un ornamento, è obbligatorio che sia occasione di meditazione sulla passione di Cristo e sul peccato degli uomini che l’ha resa necessaria. E che dalla meditazione sul peccato fiorisca il desiderio della confessione, un altro tema che ricorre in tutti i viaggi di Benedetto XVI, a fronte di statistiche davvero desolanti – anche in Francia – sullo scarso numero di cattolici che si accostano al sacramento della penitenza. Ai vescovi il Papa chiede di esortare senza sosta i sacerdoti a rendersi disponibili con generosità per le confessioni, sull’esempio di un grande santo francese, il santo curato d’Ars Giovanni Maria Vianney (1786-1859: Benedetto XVI 2008o).
La terza tappa di un itinerario che mira a ravvivare la coscienza delle radici cristiane è la cura della liturgia. In Francia, certo, pochi vanno a Messa: senza che questa sia l’unica causa, ci si deve chiedere se la qualità della liturgia sia sempre quella che auspicavano gli antichi monaci, come si è visto assai severi nei confronti di canti o preghiere recitate male. «La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita» (Benedetto XVI 2008e). Come modello di amore per l’Eucarestia e la Messa Benedetto XVI addita un altro santo francese, l’apostolo dell’adorazione eucaristica san Pier Giuliano Eymard (1811-1868: Benedetto XVI 2008p). Si situano qui anche le riflessioni del Papa sull’accoglienza – o talora sulla non accoglienza – in Francia del suo Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, che liberalizza la celebrazione della Messa secondo la liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. Di fronte alle controversie che derivano in Francia dalla riluttanza di alcuni vescovi ad aderire al Motu Proprio il Papa invoca «l’indispensabile pacificazione degli spiriti» (Benedetto XVI 2008o), ma nello stesso tempo è costretto a ricordare che «non c’è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» (Benedetto XVI 2008a). Lo spirito del Motu Proprio non è quello di creare piccole enclave di sostenitori dell’antico rito, ma di favorire la qualità della liturgia in genere attraverso il «mutuo arricchimento» (ibidem) fra i due riti, che dunque dovrebbero essere entrambi conosciuti da molti fedeli, fermo restando che «la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo» (ibidem). Purtroppo, da questa situazione si è ancora lontani, forse non solo in Francia.
La quarta tappa è la devozione mariana. «I cattolici in Francia hanno più che mai bisogno di rinnovare la loro fiducia in Maria» (Benedetto XVI 2008g), riscoprendo le loro radici che si trovano a Notre-Dame, a Lourdes, e in mille altri luoghi mariani, e superando obiezioni che vorrebbero considerare la devozione alla Madonna come obsoleta, sentimentale o magari un ostacolo al dialogo ecumenico con le comunità protestanti. In realtà, «tutto è venuto da Cristo, anche Maria; tutto è venuto mediante Maria, lo stesso Cristo» (Benedetto XVI 2008p).
Come frutto del ritorno alle radici cristiane, Benedetto XVI spera – in un Paese dove questo, da anni, lascia a desiderare – in un rinnovato impegno politico dei laici nel quadro di un’Europa cui chiede di tutelare, meglio di quanto non stia facendo, «i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi» (Benedetto XVI 2008b). Leggi ostili alla vita si paludano, oggi, di richiami alla scienza. Nella sua visita all’Institut de France Benedetto XVI cita – come qualcosa che è stato affermato «molto giustamente» – un’espressione del Pantagruel (1532) di François Rabelais (1494?-1553): «Scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima» (Benedetto XVI 2008h). La famiglia – nel Paese che ha inventato nel 1999 i PACS (Patti Civili di Solidarietà), estesi anche alle coppie omosessuali, ma anche altrove in Europa –, appare dovere affrontare «oggi delle vere burrasche» (Benedetto XVI 2008o). «Da vari decenni le leggi hanno relativizzato in molti Paesi la sua natura di cellula primordiale della società. Spesso le leggi cercano più di adattarsi ai costumi e alle rivendicazioni di particolari individui o gruppi, che non di promuovere il bene comune della società. L’unione stabile di un uomo e di una donna, ordinata alla edificazione di un benessere terreno, grazie alla nascita di bambini donati da Dio, non è più, nella mente di certuni, il modello a cui l’impegno coniugale mira» (ibidem). Torna qui un ulteriore tema che Benedetto XVI tratta spesso: lo Stato ordinato al bene comune adatta le sue leggi alla legge naturale; lo Stato relativista è semplicemente il notaio che prende atto di quanto – dalle unioni omosessuali alla poligamia – nella società già si trova, e lo traduce in legge. E il clima creato dallo Stato relativista talora insidia anche la Chiesa, che pure sa di non avere il potere di cambiare norme «che le ha affidato il suo Fondatore» (ibidem). In tema di famiglia, «una questione particolarmente dolorosa, come sappiamo, è quella dei divorziati risposati. La Chiesa, che non può opporsi alla volontà di Cristo, conserva con fedeltà il principio dell’indissolubilità del matrimonio, pur circondando del più grande affetto gli uomini e le donne che, per ragioni diverse, non giungono a rispettarlo. Non si possono dunque ammettere le iniziative che mirano a benedire le unioni illegittime» (ibidem).
La testimonianza di un numero socialmente significativo di laici cattolici nel campo della politica e delle leggi – sulla base di un’integrità di dottrina che oggi è minacciata – è, come si è accennato, un frutto che non potrà che venire al termine di un itinerario di cui la catechesi, la confessione, la Messa e la devozione mariana non sono momenti esortatori e in qualche modo superflui, ma sono i passaggi indispensabili e cruciali. Per riprendere il titolo dell’opera di dom Chautard citata dal Papa a Lourdes, L’anima di ogni apostolato è la vita spirituale, senza la quale non si dà propriamente apostolato neppure in campo sociale e politico. Nella Messa solenne per il 150° anniversario delle apparizioni di Lourdes, il Papa cita la sua stessa enciclica Deus caritas est, che al n. 36 si esprime in termini molto vicini all’insegnamento di dom Chautard: «Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione» (Benedetto XVI 2008m).
Riferimenti
AFP (Agence France Presse). «Controverses autour d’une croix». 14-11-2004.
Augias, Corrado - Remo Cacitti. 2008. Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione. Mondadori, Milano.
Benedetto XVI. 2008a. Intervista concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo verso la Francia, del 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5ooy8n.
Benedetto XVI. 2008b. Cerimonia di benvenuto. Incontro con le autorità dello Stato all’Elysée. Dicorso del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5gt2na.
Benedetto XVI. 2008c. Incontro con la Delegazione Ebraica. Discorso del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5wlo3x.
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Benedetto XVI. 2008e. Celebrazione dei Vespri con i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i seminaristi e i diaconi nella Cattedrale di Notre-Dame. Omelia del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5j7jbo.
Benedetto XVI. 2008f. Veglia di preghiera dei giovani sul Sagrato della Cattedrale di Notre Dame. Discorso del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/6483xw.
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Benedetto XVI. 2008h. Visita all’Institut de France. Saluto del Santo Padre, Parigi, 13-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/6zh9y2.
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Introvigne, Massimo. 2008. «Tutti i buchi dell’Inchiesta». Avvenire, 24-9-2008.
Sarkozy, Nicolas. 2004. La république, les religions, l’espérance. Entretiens avec Thibaud Collin et Philippe Verdin. Cerf, Parigi [trad. it. La Repubblica, le Religioni, la Speranza. Conversazioni con Thibaud Collin e Philippe Verdin, Nuove Idee, Roma 2005].
25/10/2008 10:07 – INDIA - Io, Sr Meena, violentata dagli indù, mentre la polizia stava a guardare - di Meena Barwa - Riportiamo di seguito la dichiarazione che Sr Meena Barwa ha letto ieri all’ Indian Social Institute. La suora vincendo lo stato di choc e il pudore, per la prima volta dopo due mesi dall’accaduto, ha accettato di parlare delle violenze e dello stupro che ha subito ad opera di gruppi di radicali indù lo scorso agosto, accuando la polizia dell’Orissa di connivenza con gli assalitori. Sr Meena lavorava al Centro pastorale Divyajyoti, a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal (Orissa), insieme a p. Thomas Chellan, anch’egli malmenato e umiliato. La dichiarazione pubblica di Sr Meena era necessaria perché la polizia in Orissa sta cercando di coprire il caso. Fra i fondamentalisti indù vi sono anche coloro che dicono che la suora fosse “consenziente” allo stupro.
New Delhi (AsiaNews) – Ecco la dichiarazione completa di Sr Meena Barwa (traduzione dall’inglese di AsiaNews).
Il 24 agosto scorso, verso le 4.30 del pomeriggio, sentendo le urla di una grande folla alle porte del Centro pastorale Divyajyoti, sono corsa fuori, dalla porta di servizio e fuggita nella foresta insieme ad altri. Abbiamo visto la nostra casa distruggersi fra le fiamme. Verso le 8.30 di sera siamo venuti fuori dalla foresta e andati nella casa di un signore indù che ci ha ospitato.
Il 25 agosto, verso 1.30 del pomeriggio, una folla è entrata nella stanza della casa dove stavo, uno di loro mi ha afferrato la faccia e poi trascinandomi per i capelli mi ha portato fuori. Due di loro mi tenevano il collo per tagliarmi la testa con un’ascia. Altri li consigliavano di portarmi fuori in strada; [lì] ho visto p. Chellan portato fuori e picchiato. La folla era composta da 40-40 uomini armati di lathis [bastone con punte di ferro, usato nelle arti marziali – ndr], asce, lance, bastoni, sbarre, falci, ecc… Ci hanno preso entrambi e portati sulla strada principale. Poi ci hanno portato alla casa Janavikas, che era stata bruciata, dicendo che ci avrebbero gettato nelle fiamme.
Giunti alla casa Janavikas, essi mi hanno gettata a terra sulla veranda, sul percorso che porta alla sala da pranzo, pieno di cenere e di vetri rotti. Uno di loro mi ha strappato la camicetta e altri i miei indumenti intimi. P Chellan ha protestato e loro lo hanno picchiato e trascinato lontano. Loro mi hanno tolto il sari e mentre uno mi bloccava il braccio destro e un altro quello sinistro, un terzo mi ha violentato sulla veranda a cui ho accennato. Quando è finito, sono riuscita ad alzarmi, e a mettermi la sottogonna e il sari. Poi un altro giovane mi ha afferrato e mi ha portato in una stanza vicina alle scale. Ha aperto i suoi pantaloni e ha tentato anche lui di stuprarmi, ma poi è stato raggiunto da altri.
Mi sono nascosta sotto le scale. La folla gridava: “Dov’è la suora? Venite, violentiamola, almeno 100 persone dovrebbero stuprarla”. Mi hanno scoperto dietro la scala e mi hanno portato sulla strada. Lì ho visto p. Chellan inginocchiato e la folla che lo picchiava. Loro cercavano una corda per legarci insieme e bruciarci vivi. Qualcuno ha suggerito di portarci in processione nudi. Ci hanno fatto camminare sulla strada fino al mercato di Nuagoan, che era a mezzo chilometro di distanza. Ci hanno legato insieme per le mani e fatto camminare. Io avevo indosso la sottoveste e il sari, perché prima mi avevano spogliato della camicetta e degli indumenti intimi. Hanno allora cercato di denudarmi ancora e siccome io resistevo, hanno cominciato a picchiarmi schiaffeggiandomi sul viso e sul capo, e dandomi diversi colpi di bastone sulla schiena.
Quando abbiamo raggiunto il mercato, nella zona vi erano una diecina di poliziotti. Sono andata lì chiedendo loro di proteggermi e mi sono seduta fra due poliziotti, ma essi non si sono mossi. Uno della folla è arrivato e mi ha trascinato via da lì: volevano rinchiuderci nel recinto [Mandap] del tempio. La folla ha trascinato me e p. Chellan all’edificio di Nuagaon, dicendo che ci avrebbero consegnato al Bdo [Block Development Officer, il responsabile della zona]. Da lì, insieme al Bdo, la folla ci ha portato alla stazione di polizia di Nuagaon, intanto altri poliziotti rimanevano distanti.
La folla ha detto poi che sarebbero tornati dopo aver mangiato e uno di loro che mi aveva attaccato è rimasto nella stazione di polizia, dove poi sono giunti gli altri poliziotti. Essi si sono messi a parlare in modo molto amichevole con l’uomo che mi aveva attaccato, stando lontano da noi. Siamo rimasti nella stazione di polizia fino a che l’ispettore capo di Balliguda, non è giunto con il suo gruppo per portarci a Balliguda. Essi avevano paura di portarci direttamente alla stazione di polizia e ci hanno tenuto per un certo tempo nella jeep. Poi, dal garage, ci hanno portato alla stazione. L’ispettore capo e altri rappresentanti del governo mi hanno preso in privato e chiesto cosa mi era accaduto. Io ho raccontato loor tutto in dettaglio: l’0attacco, lo stupro, l’essere strappata dalla polizia per farmi camminare seminuda nella strada e come i poliziotti non mi hanno aiutata quando ho chiesto loro aiuto piangendo a dirotto. Ho visto che l’ispettore scriveva tutto. Poi mi ha domandato: È interessata a stendere una denuncia? Sa quali possono essere le conseguenze?.
Alle 10 di sera sono stata presa e accompagnata da un poliziotto donna sono stata portata all’ospedale di Balliguda per un check-up medico. Essi avevano paura di tenerci alla stazione di polizia, dicendo che la folla avrebbe potuto attaccarli. Così la polizia ci ha portato nell’ Ib (Inspection Bungalow), dove dei poliziotti del Crp [Central reserve police] erano accampati.
Il 26 agosto, verso le 9 del mattino, siamo stati portati alla stazione di polizia di Balliguda. Mentre scrivevo la mia denuncia, l’ispettore mi diceva: Questo non è il modo di scrivere, lo faccia più breve. Così l’ho riscritta fino a tre volte, riducendola a una pagina e mezzo. L’ho consegnata, ma non mi hanno dato copia.
Alle 4 del pomeriggio, l’ispettore capo della stazione di polizia di Balliguda, insieme ad alcuni rappresentanti del governo, ci hanno messo su un pullman pper Bhubaneshwar, insieme ad altri sparuti passeggeri. La polizia è rimasta fino a Rangamati, dove tutti i passeggeri hanno preso la cena. Dopo di allora non ho più visto un poliziotto. Siamo scesi vicino a Nayagarh e lì, viaggiando su veicoli provati, abbiamo raggiunto Bhubaneshwar il 27 agosto alle 2 di notte.
La polizia di stato non ha fermato i crimini, non mi ha protetto da quelli che mi hanno assalito, erano amici degli assalitori. Essi hanno fatto di tutto perché io non registrassi alcuna denuncia, non mi lamentassi contro la polizia; la polizia non ha stilato tutto il mio racconto mentre lo raccontavo loro in dettaglio e mi hanno abbandonato a metà strada. Sono stata stuprata, ma adesso non voglio essere vittima anche della polizia dell’Orissa. Voglio un’inchiesta su questo.
Dio benedica l’India, Dio benedica tutti voi.
Sr Meena
SCUOLA/ Contro le false letture, ecco il declino delle elementari dopo l’abolizione del maestro unico - Giuseppe Valditara - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento tenuto in aula dal Senatore Giuseppe Valditara lo scorso 22 ottobre in cui si spiega, dati alla mano, la reale situazione della nostra scuola elementare, in questi giorni confusamente mitizzata. Un’analisi meticolosa, in cui si fa preciso riferimento anche a quanto emerge dal “Libro bianco” di Fioroni
«L'Unità» titolava il 24 settembre scorso: «L'OCSE sbugiarda la Gelmini: ottima la scuola elementare». Nel corso dell'articolo si leggeva, però, solo che l'Italia è il Paese che più spende per la sua scuola elementare (6.835 dollari per alunno, contro la media OCSE di 6.252): dunque, «l'Unità» ha scambiato l'eccellenza con il costo, cosicché la scuola elementare sarebbe eccellente in quanto molto costosa; un criterio assai discutibile.
Interessante, per altro, un dato tratto dal Libro bianco di Fioroni, che cito testualmente: «È più alta in Italia rispetto ad altri Paesi, sia per la matematica, sia per la lettura, la percentuale di studenti poveri di competenze (che non raggiungono il livello necessario per svolgere i compiti più elementari)». Ciò non solo con riguardo ai quindicenni. Si legge anche: «analoghe difficoltà si segnalano, infatti, anche per gli studenti di scuola secondaria di primo grado (medie)».
Una rilevazione INVALSI del dicembre 2005 avente ad oggetto studenti di prima media non a caso rilevava che solo uno studente su quattro sapeva calcolare il perimetro di un triangolo (che si dovrebbe imparare alla scuola elementare), due su tre ignoravano la forma di un triangolo rettangolo, uno su tre ha sbagliato addirittura le addizioni con calcoli decimali.
Già questi dati dovrebbero far riflettere chi parla di scuola elementare ottima.
Vi sono però altri dati interessanti. Il TIMSS 2007, che analizza i risultati ottenuti dagli studenti di quarta elementare in matematica, colloca il nostro Paese al quindicesimo posto su 22 Paesi partecipanti al test, dietro Cipro e la Repubblica Moldava, con un arretramento notevole rispetto agli anni Settanta. Ma soprattutto, a fronte di Paesi che hanno il 38 per cento di alunni che raggiungono rendimenti avanzati, l'Italia è fanalino di coda con solo il 6 per cento di studenti con prestazioni di eccellenza. Non diversamente nelle scienze. Se, infatti, Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone oscillano fra il 12 e il 15 per cento di studenti che hanno livelli avanzati di prestazioni, l'Italia si colloca appena sopra la media con il 9 per cento.
Come sottolineano i rapporti internazionali, la scuola elementare italiana manca di «politiche educative che incentivino l'eccellenza negli studenti».
Con riguardo alla lettura le cose stanno diversamente: siamo all'ottavo posto. Ma se andiamo a leggere la rielaborazione dei dati fatta da Mauro Laeng e da Aldo Visalberghi su analoghe rilevazioni internazionali degli anni Settanta vediamo un arretramento di tre posizioni: negli anni Settanta eravamo al quinto posto.
Che la scuola elementare italiana con il maestro unico fosse fra le migliori d'Europa lo riconosceva esplicitamente l'onorevole Soave del PCI-PDS intervenendo in Aula alla Camera dei deputati in sede di dichiarazione di voto sulla legge che introduceva i tre maestri nel 1990.
Insomma, una prima conclusione è che con i tre maestri, nonostante la enorme lievitazione dei costi, i risultati non sono migliorati anzi sono persino peggiorati. Ciò spiega perché nessun Paese europeo abbia adottato il modulo. In alcuni Paesi europei vi è semmai un insegnante prevalente che svolge 1'80-90 per cento della didattica e insegnanti con competenze particolari (lingua straniera, informatica eccetera). […]
Perché dunque è stato introdotto in Italia il modulo con i tre maestri? Sono andato a rileggermi l'intervento di Ortensio Zecchino, all'epoca senatore democristiano e poi ministro dell'università nei Governi D'Alema e Amato, che votò contro la legge del 1990 voluta fortemente dalla sinistra democristiana e condivisa ideologicamente dal PCI-PDS. Affiorano considerazioni più che mai attuali: «La riforma che ci apprestiamo a varare consegna al Paese una scuola elementare che con la sua nuova organizzazione contrasta con la pressante esigenza del nostro tempo di offrire un sapere unitario, quale valore etico ed insieme esigenza utilitaristica legata quest'ultima alla flessibilità professionale che sempre più spesso si impone nell'arco di una stessa vita lavorativa e che può essere soddisfatta soltanto sul presupposto di un'autentica formazione di base». E ancora: «frantumiamo l'insegnamento per affidarlo ad una pluralità di insegnanti con identica preparazione di base». Ed ecco arrivata la risposta al nostro quesito: alla base del modulo vi è «la pressione di quanti hanno inteso così tutelare in modo improprio interessi di categoria»... «stando così le cose» - continuava l'onorevole Zecchino - «non resta che prendere atto dell'esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale... svalutando il momento formativo e culturale».
Era la stessa ispirazione di altre leggi che in quegli stessi anni hanno, quelle sì, devastato la scuola italiana imponendo un reclutamento fondato su corsi abilitanti di poche ore, prescindendo dal merito e dalla selezione.
La pedagogia che ha ispirato il modulo con i tre maestri, al di là di qualche buona intenzione, ha finito comunque con l'esprimere una tendenza verso il relativismo culturale e verso la banalizzazione della professionalità, direi pure che ha favorito lo scadimento della professionalità. Era la pedagogia che ispirava soprattutto la posizione del PCI-PDS che si risolse a votare contro la legge del 1990 solo perché essa conteneva la figura dell'insegnante prevalente che, leggo testualmente nell'intervento del Capogruppo comunista in Commissione: «svalutava la rilevanza del lavoro di gruppo» e prevedeva livelli differenziati di impegno didattico fra i maestri.
Proprio per venire incontro alle critiche dei comunisti e alle pressioni sindacali la circolare attuativa violò la legge (perché la legge del 1990 introduceva il maestro prevalente e non il modulo) ed eliminò la figura dell'insegnante prevalente imponendo il team di insegnanti con pari competenze ed impegno. La suddetta circolare attuativa, sotto il ricatto dei sindacati e del Partito Comunista, violò una legge dello Stato.
Le perplessità su questo modello organizzativo erano emerse del resto già nella 7a Commissione del Senato nella XIII legislatura, all'interno della stessa maggioranza di centrosinistra. In una risoluzione votata nel maggio 1997 si legge che «occorre ovviare ai rischi di frammentazione e secondarizzazione dell'insegnamento elementare». Dopo aver quindi rifiutato l'eccesso di specializzazione, si sottolineava come «ai fini della qualità del rapporto educativo fra insegnanti ed alunni va risolto il problema della necessità di contenere entro limiti accettabili il numero delle figure docenti che intervengono per gruppi di alunni». Persino nel Libro bianco di Fioroni si legge un passaggio interessante, laddove, dopo aver stigmatizzato l'enormità della spesa per studente, si osserva che essa deriva fra l'altro da specifiche previsioni normative e al riguardo si fa riferimento esplicito «all'organizzazione dell'insegnamento nella scuola elementare», concludendo che questa spesa molto elevata «è il segno di problemi e di notevoli spazi e opportunità di miglioramento nella allocazione delle risorse».
Rivoluzione milanese: un nuovo sistema di Welfare - Redazione - sabato 25 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ancora una volta Milano dimostra di essere il punto di maggior innovazione politica e amministrativa in Italia.
Recependo un chiaro indirizzo della Regione Lombardia, la Giunta Moratti, ha fatto una scelta di fondo a favore del sistema di accreditamento per tutti i servizi di sua competenza, superando l’ormai inadeguato sistema di bandi e appalti che ha finora regolato il rapporto Comune/Terzo settore/Cittadino.
In particolare, oltre ad aver definito le linee guida di accreditamento valide per tutta l’Amministrazione, ne è stata avviata una robusta sperimentazione - certamente la più significativa nel Paese in ambito sociale - per l’assistenza domiciliare ad anziani, minori e disabili.
L’introduzione di tale architettura finalmente riconosce e valorizza la libertà di scelta dei singoli cittadini e il contributo indispensabile del Terzo settore alla vita della società.
I beneficiari del servizio, infatti, possono scegliere tra un’ampia platea di soggetti accreditati per qualità dei servizi mentre le associazioni e le cooperative vedono stabilizzata la propria posizione nei confronti del Comune, non dovendo più dipendere dall’esito alterno di continui bandi ed essere trattati come subfornitori di servizi a basso costo.
L’Amministrazione si concentra quindi sulla funzione di indirizzo, stabilendo i requisiti di accreditamento e su quella di controllo rispetto ai risultati delle prestazioni effettuate. I soggetti accreditati escono pertanto dal sistema solo in seguito all’accertamento del Comune del mancato rispetto dei requisiti in convenzione, fortemente incentrati sulla qualità della prestazione (nel caso della sperimentazione, sul miglioramento delle condizioni delle persone assistite).
Sono ancora molti i passi da compiere per costruire un sistema ancora più corrispondente alla complessità dei bisogni della gente e superare gli schemi con i quali finora si è ragionato. Oltre alla rapida introduzione di voucher che avverrà appena il sistema sarà rodato, speriamo di poter presto budgettizzare il servizio superando la rendicontazione oraria.
Il prossimo anno, tra l'altro, estenderemo l'accreditamento anche ad asili e scuole, ambiti che ben si prestano a tale impostazione.
Quanto sta accadendo a Milano va certamente in scia a quella “Vita buona in una società attiva” prospettata dal Ministro Sacconi nel Libro Verde sul Welfare, uscito in questi mesi e manifesto programmatico di una politica sociale finalmente unitaria e con la famiglia al centro delle politiche attive.
Il sistema di accreditamento, rispetto alla struttura attuale, richiede maggior responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti ma Comune, Terzo settore e singoli cittadini sapranno rispondere al proprio compito con quella “milanesità” che da sempre ha contraddistinto tutte quelle piccole e grandi “rivoluzioni” nate a Milano.
(Lorenzo Malagola, consigliere comunale di Milano)
SVEZIA/ Commissione etica: “la Lego fa giocattoli sessisti” - INT. Alessandro Meluzzi - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
Un'intera commissione per decidere la “pericolosità” o meno dei giocattoli “Lego”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti delle dimensioni dei mattoncini facilmente ingoiabili dai bambini al di sotto dei tre anni, ma (purtroppo) non è così. In ballo c'è una preoccupazione etica. Pare infatti che gli omini con la faccia sempre sorridente e le mani a forma di chiave inglese siano ritenuti, in Svezia, troppo “sessisti”. La loro pubblicità infatti riguarda, stranamente, i maschietti quando si parla di fortini e castelli medioevali assediati e le femminucce quando ci sono in ballo camerette rosa invase da pony colorati e principessine. Una situazione che, secondo gli Svedesi, è dichiaratamente classista e discriminatoria. Ma c'è (per fortuna) anche chi non la pensa così.
Dottor Meluzzi, in Svezia un consiglio etico imposto alla Lego di evitare di fare confezioni prettamente sessiste, e di favorire immagini che possano coinvolgere i gusti di entrambi i generi che cosa gliene pare?
È una proposta del tutto diseducativa. Ritengo che la creazione dell'identità di genere sia una ricchezza della natura umana e quindi credo che il fatto che la natura sia composta di maschile e di femminile in termini non soltanto biologici, ma anche emotivi, simbolici e relazionali, sia soltanto una qualità non solo per gli esseri umani, ma anche per tutti gli esseri viventi.
In che cosa consiste la qualità nella differenza fra sessi?
Il fatto che la vita sia ancorata a un fenomeno complesso come la meiosi, cioè l'incontro tra gameti maschili e femminili, per aumentare la variabilità, l'imprevedibilità, la creatività e la libertà, rappresenta un passaggio evolutivo in avanti, un progresso. La natura ci ha voluti maschi e femmine con i diversi caratteri in tutte le specie viventi, salvo le amebe e i batteri. A meno che non si voglia che l'uomo regredisca allo stato di procariote, ritengo assurde tutte le azioni politically correct tese a cancellare una simile differenza. Assimilare i generi da un punto di vista simbolico, culturale e identitario è un'operazione pericolosa non solo perché produce la tendenza alla confusività, con tutto quello che ne consegue, ma anche perché mortifica una ricchezza fornitaci dalla vita stessa. Cercare di costruire un mondo in cui tutti devono giocare con le bambole o tutti con il meccano appare un tentativo utopistico e irrazionale.
Una simile impostazione ideologica potrebbe compromettere anche la naturale inclinazione sessuale?
Non è necessariamente detto perché può capitare che alcuni ragazzini giochino con le bambole o, viceversa, alcune bambine giochino con i soldatini, senza che questo significhi per forza un'inversione della polarità dei desideri sessuali.
Però il fatto che esistano riti “iniziatici” di maturità e di passaggio, declinati nell'uno e nell'altro sesso, è stato finora uno dei fattori di organizzazione del mondo. Un'organizzazione che non si può certo definire “sbagliata”!
Perché rispecchia l'organizzazione della natura?
Sicuramente, e in particolar modo nella sua funzione principale che è la trasmissione della vita.
Questa strana preoccupazione espressa dalla commissione svedese rispecchia in un certo senso il modello ormai diffuso, soprattutto a livello pubblicitario, della donna mascolinizzata e dell'uomo effeminato?
Sì. È come se fosse passata nel tempo, insinuandosi nei più impensati interstizi della società, una cultura dell'unisex per la quale le particolarità individuali debbano essere sacrificate a una specie di presunta idea di livellamento. L'importante è non fare emergere la caratteristica di nessun individuo perché ciò potrebbe far sentire altri individui oggetto di discriminazione. Questo avviene per il maschio e per la femmina, ma riguarda una lunga serie di analoghe circostanze. Sotto il giusto principio che impedisce qualsiasi forma di discriminazione si commettono azioni assurde, come quella in questione, che hanno come obiettivo l'omologazione, la massificazione delle persone.
Perché, a suo avviso, ha preso piede questa tendenza?
La causa è l'enorme confusione ideologica presente oggi nel mondo. Si pensa che livellare tutto, come se fossimo in una specie di lager-infermeria, sia il modo migliore perché gli uomini siano più sicuri e più tranquilli. Si cerca quindi di trasformare la vita in una sorta di nursing generale. Una pericolosa idea che vuole azzerare le contraddizioni, i conflitti, le distinzioni e le particolarità, trasformando tutto in una melassa anestetizzata
Quali ne sono, a suo avviso, le radici culturali?
Si tratta di un retaggio ideologico che ha un'opinione positivista e illuminista dell'uomo unita all'idea neoromantica del futuro. È un atteggiamento che contiene dei nuclei di utopia della ragione e in definitiva è una delle ultime evoluzioni del giacobinismo in salsa pseudoprogressista.
Dal Sinodo dei vescovi appello per l'Oriente alla comunità internazionale - Giustizia e libertà religiosa - garantiscono la pace - Una reale libertà religiosa è garanzia della pace nella giustizia. È quanto affermano i Patriarchi e gli arcivescovi maggiori cattolici dell'Oriente, partecipanti all'assemblea del Sinodo dei vescovi, in un appello consegnato venerdì 24 ottobre a Benedetto XVI. – L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2008
"Cristo è la nostra pace" (Efesini 2, 14).
Nell'anno giubilare dell'apostolo Paolo, il Santo Padre Benedetto XVI ci ha radunati in Sinodo con i vescovi rappresentanti dell'intera Chiesa Cattolica.
Esprimiamo profonda riconoscenza al Papa per avere sempre prontamente e instancabilmente elevato la supplica a Dio e la voce in favore dei fratelli e delle sorelle dell'Oriente. Sul Suo esempio, anche noi, come discepoli di Cristo, padri e capi delle Chiese Orientali Cattoliche, rinnoviamo l'implorazione a Dio e facciamo appello a tutti perché sia confermato ogni intento per favorire ovunque la pace nella libertà, nella verità e nell'amore.
Avvertiamo nei cuori un fremito per le sofferenze di tanti nostri figli e figlie dell'Oriente: bambini e giovani; persone in difficoltà estrema per età, salute ed essenziali necessità spirituali e materiali; famiglie sempre più tentate dallo sconforto per il presente e per il futuro. E sentiamo il dovere di farci interpreti delle loro giustificate attese perché una vita dignitosa sia presto garantita a ciascuno in una proficua convivenza sociale.
Opera della giustizia è la pace! È un imperativo al quale non possiamo e non vogliamo sottrarci. Chiediamo, perciò, in particolare per la Terra Santa, che diede i natali a Cristo Redentore, per il Libano, l'Iraq e l'India la pace nella giustizia, di cui è garanzia una reale libertà religiosa.
Siamo vicini a quanti soffrono per la fede cristiana e a tutti i credenti impediti nella professione religiosa. Rendiamo omaggio ai cristiani che recentemente hanno perduto la vita in fedeltà al Signore.
Davanti al Papa e ai padri sinodali, incoraggiati dalla loro fraternità, presentiamo una vibrante richiesta:
- ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà perché pratichino il rispetto e l'accoglienza dell'altro nella vita quotidiana, facendosi prossimo di quanti sono nel bisogno, vicini e lontani;
- ai pastori e ai responsabili religiosi di predicare e favorire tale atteggiamento, appoggiando e moltiplicando le iniziative di mutua conoscenza, di dialogo e di soccorso;
- alla comunità internazionale e agli uomini di governo perché garantiscano a livello legislativo la vera libertà religiosa nel superamento di ogni discriminazione e l'aiuto a quanti sono costretti a lasciare la propria terra per motivi religiosi.
Si compia l'auspicio di Papa Benedetto XVI: "Possano le Chiese e i discepoli del Signore rimanere là dove li ha posti per nascita la divina Provvidenza; là dove meritano di rimanere per una presenza che risale agli inizi del cristianesimo. Nel corso dei secoli essi si sono distinti per un amore incontestabile e inscindibile alla propria fede, al proprio popolo e alla propria terra" (Benedetto XVI, in visita alla Congregazione per le Chiese Orientali il 9 giugno 2007).
"Cristo è la nostra pace". Questa divina Parola è portatrice di conforto e di speranza, e sprona a cercare vie nuove di pace, che trovino efficacia nella Benedizione di Dio. Via alla pace, noi pastori dell'Oriente, desideriamo possa essere l'umile ma accorato appello che poniamo nelle mani del Santo Padre, rendendo grazie a Dio e a quanti lo accoglieranno benevolmente.
Intercedano questo dono i santi apostoli Pietro e Paolo, e i martiri, vicini come siamo alle loro memorie romane. Sia potente avvocata la Santissima Madre di Dio: la Regina della Pace faccia giungere la nostra preoccupazione, i nostri intenti e le nostre preghiere a Cristo Signore e Dio, Principe della Pace.
Dal Vaticano, 24 ottobre 2008
CARI LAICI, LA FEDE MERITA RISPETTO - GIANNI GENNARI – Avvenire, 25 ottobre 2008
«Se la storia mette a disagio»: ieri su 'Repubblica' (p. 57) Corrado Augias replica con questo titolo alle osservazioni mosse qui l’altro ieri ad un articolo di Marco Politi che partendo da due libri suoi - di Augias - giungeva allegro a sostenere che oggi «la Chiesa ha paura». Di che? Del metodo storico-critico. E perché? Perché Benedetto XVI al Sinodo ha detto che esso è utile, benemerito e necessario, ma se usato col pregiudizio non scientifico, ma ideologico, che esclude ogni realtà divina, diventa inaccettabile per la fede cristiana. Paura? No! Ovvietà.
Il Papa poteva dire il contrario? Il metodo storico-critico è usato da più di un secolo anche dall’esegesi cattolica. Mezzo secolo fa, 1959, ragazzino di prima teologia, cominciai a studiare la Bibbia all’Università del Laterano, allora roccaforte della tradizione 'conservatrice', su testi come lo Strack Billerbeck, Simon Dorado e Zedda, metodo storico-critico ad ogni pagina… Il fatto è che Augias, pur di suo principiante in materia biblico-teologica, identifica con verità di critica storica le sue liberissime opinioni, anche se in termini di testi e vera storia, nero su bianco, sono smentite dai fatti. Libero, Augias, di non credere che Gesù sia Figlio di Dio, non libero di sostenere impudentemente - per iscritto nei libri, o a viva voce e faccia dolcemente sorridente a 'Che tempo che fa' - che Gesù non ha mai detto di essere Figlio di Dio e Dio stesso. Decine di citazioni testuali lo smentiscono, e la stessa accusa di 'bestemmia' che lo porterà alla Croce, «tu che sei un uomo dici di essere Dio» (Gv, 10, 33, e anche Mt. 9, 3 e 26, 66) stanno lì da 2000 anni, nei codici più antichi. Non ci crede?
Benissimo, ma ci sono lo stesso! Il disagio non viene dalla 'storia', ma dalle libere opinioni di Augias - chierichetti di casa a tappetino, pur diversi - spacciate come fatti incontrovertibili.
A proposito: qui apro una parentesi sui silenzi di Politi sulla libertà religiosa in Urss e Paesi satelliti. I suoi articoli dall’Est, e anche da Mosca, cominciano negli anni ’70, ben prima dell’era Gorbaciov, che del resto proprio nel primo discorso storico ribadì gli articoli 51 e 52 della Costituzione brezhneviana del giugno 1977, in cui la libertà religiosa era negata… Ma vale la pena di tornare alla sostanza.
Tesi ricorrente di Augias e compagnia di ballo in pagina e in Rai, è che nei testi di 'chiesa' cristiana si parla solo dopo il 135 e la seconda distruzione di Gerusalemme, e anche che la Trinità è un’invenzione successiva di secoli. Ebbene: metodo storicocritico alla mano, segnalo ad Augias, e se serve ai Pesce, Cacitti e Politi, che la prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, il testo indubitabilmente più antico del Nuovo Testamento, che risale agli anni 50/51 (cfr. gli studi di maestri del metodo storico-critico come G. Barbaglio, B. Rigaux, O. Kuss, J.M. Cambier e tanti altri) comincia con una decina di righe nelle quali si nomina «la chiesa dei Tessalonicesi», poi si leggono «Dio Padre», «Gesù Cristo nostro Signore» (in greco 'kyrios', termine tecnico per la divinità'), «lo Spirito Santo» e, guarda caso, anche «fede, speranza e carità», le tre virtù dette «teologali» perché divinizzano la nostra umanità.
Nero su bianco: in pratica c’è già tutto, e dall’inizio. Augias può dire che non ci crede, e spiegare le sue ragioni - è libertà - ma se scrive e dice che testi come questo non ci sono o è un falsario che inganna gli altri, o uno che scrive di cose che non conosce: scelga lui. A un non credente tutto il rispetto dovuto - nessun credente degno di questo nome scriverà che è «un cretino», come va di moda su 'Repubblica' e dintorni - ma di fronte ai falsi il disagio è naturale.
E senza alcuna paura della storia…
1) Che cosa ha detto il Sinodo? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 24 ottobre 2008 XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi - Si è tenuta dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
2) Messaggio al Popolo di Dio al termine del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale del Messaggio del Sinodo dei Vescovi al Popolo di Dio, a conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria, approvato nella ventunesima Congregazione generale di questo venerdì.
3) Riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Presentiamo il riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi sulla Parola pubblicato venerdì.
4) Le radici cristiane di un’Europa laica. Il viaggio di Benedetto XVI in Francia - di Massimo Introvigne
5) 25/10/2008 10:07 – INDIA - Io, Sr Meena, violentata dagli indù, mentre la polizia stava a guardare di Meena Barwa - Riportiamo di seguito la dichiarazione che Sr Meena Barwa ha letto ieri all’ Indian Social Institute. La suora vincendo lo stato di choc e il pudore, per la prima volta dopo due mesi dall’accaduto, ha accettato di parlare delle violenze e dello stupro che ha subito ad opera di gruppi di radicali indù lo scorso agosto, accuando la polizia dell’Orissa di connivenza con gli assalitori. Sr Meena lavorava al Centro pastorale Divyajyoti, a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal (Orissa), insieme a p. Thomas Chellan, anch’egli malmenato e umiliato. La dichiarazione pubblica di Sr Meena era necessaria perché la polizia in Orissa sta cercando di coprire il caso. Fra i fondamentalisti indù vi sono anche coloro che dicono che la suora fosse “consenziente” allo stupro.
6) SCUOLA/ Contro le false letture, ecco il declino delle elementari dopo l’abolizione del maestro unico - Giuseppe Valditara - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
7) Rivoluzione milanese: un nuovo sistema di Welfare - Redazione - sabato 25 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SVEZIA/ Commissione etica: “la Lego fa giocattoli sessisti” - INT. Alessandro Meluzzi - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
9) Dal Sinodo dei vescovi appello per l'Oriente alla comunità internazionale - Giustizia e libertà religiosa - garantiscono la pace - Una reale libertà religiosa è garanzia della pace nella giustizia. È quanto affermano i Patriarchi e gli arcivescovi maggiori cattolici dell'Oriente, partecipanti all'assemblea del Sinodo dei vescovi, in un appello consegnato venerdì 24 ottobre a Benedetto XVI. – L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2008
10) CARI LAICI, LA FEDE MERITA RISPETTO - GIANNI GENNARI – Avvenire, 25 ottobre 2008
Che cosa ha detto il Sinodo? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 24 ottobre 2008 XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi - Si è tenuta dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa.
Il Sinodo dei Vescovi è una istituzione permanente decisa da Papa Paolo VI il 15 settembre 1965 e significa un luogo per l’incontro dei Vescovi tra di loro, attorno e con il Papa che lo convoca e lo presiede quale strumento di “consultazione e collaborazione” per lo scambio di informazioni ed esperienze, per la comune ricerca di soluzioni pastorali valide universalmente.
Il numero dei Padri sinodali è stato di 253, di cui 32 nominati direttamente dal Papa, gli altri dalle conferenze episcopali. Benedetto XVI ha anche approvato la partecipazione di 41 esperti e 37 uditori.
I Padri sinodali oltre alle proposizioni date al Santo Padre per un documento post-sinodale hanno inviato un Messaggio al Popolo di Dio, da cui traiamo una traccia.
E Dio dice a ciascuno di noi: “Figlio accetta le parole che ti dico, accogliele nel cuore e ascoltale con gli orecchi” (Ez 3,10).
Dio ha parlato agli inizi stessi della creazione. “In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,1.3). E Dio Padre continua a far risuonare la Sua Parola, il Verbo, il Figlio attraverso la creazione.
La parola divina è, però, anche alla radice della storia umana. L’uomo e la donna, che “sono immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,27) possono entrare in dialogo con il loro Creatore e possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato, perché Dio che è Amore non costringe mai creature intelligenti e libere: impedirebbe una risposta d’amore. La Parola di Dio di fronte al peccato salva e giudica, penetra nella trama della storia con il suo tessuto di vicende ed eventi.
C’è però una tappa ulteriore che la voce divina, creatrice e salvatrice, percorre dando vita a una autentica storia di amore con Israele suo popolo: è quella della parola scritta sotto la preminente e decisiva azione guida dello Spirito, le Sacre Scritture, memoriale dell’evento della Rivelazione creatrice e salvatrice.
E finalmente “il Verbo/Parola si fece carne”. La Parola eterna del Padre, la Ragione per cui tutto è stato creato e salvato nello Spirito, presente nella creazione, nella storia umana, soprattutto nella storia di Israele, entra nello spazio e nel tempo dilatando questa storia di amore all’intera umanità e la conduce all’estremo, al punto di rivolgersi contro se stesso nella croce per rialzare l’uomo e salvarlo, chiamandolo risorto a quell’unione di amore con Lui che culmina nella Mensa della Parola e dell’Eucaristia riattualizzando tutti i fatti e i detti della fase terrena per assimilare a Lui. E il Gesù Cristo è, quindi, carne fragile e mortale, è storia e umanità in tutto simile a noi, ma è anche gloria, divinità, mistero cioè il divino nella via umana. La Parola divina si fa carne “per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria”, si è fatta parola per mezzo dei profeti e Risorto, vivo parla ora attraverso le Scritture nello stesso Spirito come allora.
Ecco allora la continuità della “viva Tradizione di tutta la Chiesa” (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno in Cristo i 73 libri delle Sacre Scritture.
Pur necessaria, la conoscenza storica non si può fermare alla sola “lettera” perché la Bibbia rimarrebbe soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. La conoscenza esegetica deve intrecciarsi con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzato il continuo divino nell’umano di Gesù Cristo, del suo Corpo che è la Chiesa e delle Scritture. Come Paolo allora anche noi adesso ascoltiamo un Cristo vivo che ci ama, mi ama, con il quale posso ascoltare e parlare, che mi ascolta e mi risponde attraverso la testimonianza delle Scritture, dei Vangeli.
La casa della Parola di Dio è la Chiesa dove essa risuona continuamente, è compresa con la catechesi e resa attuale profeticamente soprattutto nell’Omelia.
Annuncio biblico, Catechesi e Omelia è un leggere e un comprendere, uno spiegare e un interpretare, un coinvolgimento personale e comunitario, con la mente e con il cuore.
Ma come il Crocefisso e risorto ha fatto con i due discepoli nell’itinerario da Gerusalemme a Emmaus spiegando le Scritture, culmina con l’incontro pieno nel Sacramento dell’Eucaristia e nei suoi gesti sacramentali.
Al centro dell’essere cristiani con un nuovo orizzonte di vita e la direzione decisiva c’è l’incontro con la Persona di Gesù Cristo nella “liturgia della parola e nella liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto” (SC 56).
Casa della Parola sono le preghiere intessute da “salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3,16). Un posto privilegiato la Liturgia delle Ore, ma anche la prassi della Lectio divina che si apre con la lettura (lectio): che cosa mi dice il testo? Segue la meditazione (meditatio): che cosa dice Dio attraverso il testo biblico a noi, a me? Si giunge alla preghiera (oratio): che cosa diciamo noi, io al Signore in risposta alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio): quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi, a me il Signore? Come in San Benedetto la Parola di Dio cioè l’assimilazione a Cristo diventa visibile nei testimoni della comunione con Dio e con i fratelli, nel vissuto familiare, in particolari vissuti fraterni, a livello personale e quindi in missione.
Messaggio al Popolo di Dio al termine del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale del Messaggio del Sinodo dei Vescovi al Popolo di Dio, a conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria, approvato nella ventunesima Congregazione generale di questo venerdì.
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Ai fratelli e sorelle «pace e carità con fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore incorruttibile». Con questo saluto così intenso e appassionato san Paolo concludeva la sua Lettera ai cristiani di Efeso (6, 23-24). Con queste stesse parole noi Padri sinodali, riuniti a Roma per la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sotto la guida del Santo Padre Benedetto XVI, apriamo il nostro messaggio rivolto all'immenso orizzonte di tutti coloro che nelle diverse regioni del mondo seguono Cristo come discepoli e continuano ad amarlo con amore incorruttibile.
A loro noi di nuovo proporremo la voce e la luce della Parola di Dio, ripetendo l'antico appello: «Questa parola è molto vicina a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore perché la metta in pratica» (Dt 30, 14). E Dio stesso dirà a ciascuno: «Figlio dell'uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi» (Ez 3, 10). A tutti ora proporremo un viaggio spirituale che si svolgerà in quattro tappe e che dall'eterno e dall'infinito di Dio ci condurrà fino nelle nostre case e lungo le strade delle nostre città.
I. LA VOCE DELLA PAROLA: LA RIVELAZIONE
1. «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole voi ascoltavate, nessuna immagine vedevate, solo una voce!» (Dt 4,12). È Mosè che parla evocando l'esperienza vissuta da Israele nell'aspra solitudine del deserto del Sinai. Il Signore si era presentato non come un'immagine o un'effigie o una statua simile al vitello d'oro, ma con "una voce di parole". È una voce che era entrata in scena agli inizi stessi della creazione, quando aveva squarciato il silenzio del nulla: «In principio… Dio disse: Sia la luce! E la luce fu… In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gn 1, 1.3; Gv 1, 1.3).
Il creato non nasce da una lotta intradivina, come insegnava l'antica mitologia mesopotamica, bensì da una parola che vince il nulla e crea l'essere. Canta il Salmista: «Dalle parole del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Sal 33, 6.9). E san Paolo ripeterà «Dio dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rm 4, 17). Si ha, così, una prima rivelazione "cosmica" che rende il creato simile a un'immensa pagina aperta davanti all'intera umanità, che in essa può leggere un messaggio del Creatore: «I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 19, 2-5).
2. La parola divina è, però, anche alla radice della storia umana. L'uomo e la donna, che sono «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1, 27) e che quindi recano in sé l'impronta divina, possono entrare in dialogo col loro Creatore o possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato. La Parola di Dio, allora, salva e giudica, penetra nella trama della storia col suo tessuto di vicende ed eventi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa…» (Es 3, 7-8). C'è, dunque, una presenza divina nelle vicende umane che, attraverso l'azione del Signore della storia, vengono inserite in un disegno più alto di salvezza, perché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4).
3. La parola divina efficace, creatrice e salvatrice, è quindi in principio all'essere e alla storia, alla creazione e alla redenzione. Il Signore viene incontro all'umanità proclamando: «Ho detto e ho fatto!» (Ez 37, 14). C'è, però, una tappa ulteriore che la voce divina percorre: è quella della parola scritta, la Graphé o le Graphaí, le Scritture sacre, come si dice nel Nuovo Testamento. Già Mosè era sceso dalla vetta del Sinai reggendo «in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall'altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio» (Es 32, 15-16). E lo stesso Mosè imporrà a Israele di conservare e riscrivere queste "tavole della Testimonianza": «Scriverai su pietre tutte le parole di questa legge, con scrittura ben chiara» (Dt 27, 8).
Le Sacre Scritture sono la "testimonianza" in forma scritta della parola divina, sono il memoriale canonico, storico e letterario attestante l'evento della Rivelazione creatrice e salvatrice. La Parola di Dio precede, dunque, ed eccede la Bibbia, che pure è "ispirata da Dio " e contiene la parola divina efficace (cf. 2 Tm 3, 16). È per questo che la nostra fede non ha al centro solo un libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l'orizzonte della parola divina abbraccia e si estende oltre la Scrittura, è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16, 13) chi legge la Bibbia. È questa la grande Tradizione, presenza efficace dello "Spirito di verità" nella Chiesa, custode delle Sacre Scritture, autenticamente interpretate dal Magistero ecclesiale. Con la Tradizione si giunge alla comprensione, all'interpretazione, alla comunicazione e alla testimonianza della Parola di Dio. Lo stesso san Paolo, proclamando il primo Credo cristiano, riconoscerà di "trasmettere" quello che egli «aveva ricevuto» dalla Tradizione (1 Cor 15, 3-5).
II. IL VOLTO DELLA PAROLA: GESÙ CRISTO
4. Nell'originale greco sono solo tre parole fondamentali: Lógos sarx eghéneto, «il Verbo/Parola si fece carne». Eppure, questo è l'apice non solo di quel gioiello poetico e teologico che è il prologo del Vangelo di Giovanni (1, 14), ma è il cuore stesso della fede cristiana. La Parola eterna e divina entra nello spazio e nel tempo e assume un volto e un'identità umana, tant'è vero che è possibile accostarvisi direttamente chiedendo, come fece quel gruppo di Greci presenti a Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12, 20-21). Le parole senza un volto non sono perfette, perché non compiono in pienezza l'incontro, come ricordava Giobbe, giunto al termine del suo drammatico itinerario di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).
Cristo è «il Verbo che è presso Dio ed è Dio», è «l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15); ma è anche Gesù di Nazaret che cammina per le strade di una marginale provincia dell'impero romano, che parla una lingua locale, che rivela i tratti di un popolo, l'ebraico, e della sua cultura. Il Gesù Cristo reale è, quindi, carne fragile e mortale, è storia e umanità, ma è anche gloria, divinità, mistero: Colui che ci ha rivelato il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1, 18). Il Figlio di Dio continua a essere tale anche in quel cadavere che è deposto nel sepolcro e la risurrezione ne è l'attestazione viva ed efficace.
5. Ebbene, la tradizione cristiana ha spesso posto in parallelo la Parola divina che si fa carne con la stessa Parola che si fa libro. È ciò che emerge già nel Credo quando si professa che il Figlio di Dio «si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria», ma anche si confessa la fede nello stesso «Spirito Santo che ha parlato per mezzo dei profeti». Il Concilio Vaticano II raccoglie questa antica tradizione secondo la quale «il corpo del Figlio è la Scrittura a noi trasmessa» – come afferma s. Ambrogio (In Lucam VI, 33) – e dichiara limpidamente: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini» (DV 13).
La Bibbia è, infatti, anch'essa "carne", "lettera", si esprime in lingue particolari, in forme letterarie e storiche, in concezioni legate a una cultura antica, conserva memorie di eventi spesso tragici, le sue pagine sono non di rado striate di sangue e violenza, al suo interno risuona il riso dell'umanità e scorrono le lacrime, così come si leva la preghiera degli infelici e la gioia degli innamorati. Per questa sua dimensione "carnale" essa esige un'analisi storica e letteraria, che si attua attraverso i vari metodi e approcci offerti dall'esegesi biblica. Ogni lettore delle Sacre Scritture, anche il più semplice, deve avere una proporzionata conoscenza del testo sacro ricordando che la Parola è rivestita di parole concrete a cui si piega e adatta per essere udibile e comprensibile all'umanità.
È, questo, un impegno necessario: se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che in pratica nega l'incarnazione della parola divina nella storia, non riconosce che quella parola si esprime nella Bibbia secondo un linguaggio umano, che dev'essere decifrato, studiato e compreso, e ignora che l'ispirazione divina non ha cancellato l'identità storica e la personalità propria degli autori umani. La Bibbia, però, è anche Verbo eterno e divino ed è per questo che essa esige un'altra comprensione, data dallo Spirito Santo che svela la dimensione trascendente della parola divina, presente nelle parole umane.
6. Ecco, allora, la necessità della «viva Tradizione di tutta la Chiesa» (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno le Sacre Scritture. Se ci si ferma alla sola "lettera", la Bibbia rimane soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. Se, però, si esclude l'incarnazione, si può cadere nell'equivoco fondamentalistico o in un vago spiritualismo o psicologismo. La conoscenza esegetica deve, quindi, intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l'unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture.
In questa armonia ritrovata, il volto di Cristo risplenderà nella sua pienezza e ci aiuterà a scoprire un'altra unità, quella profonda e intima delle Sacre Scritture, il loro essere, sì, 73 libri, ma inseriti in un unico "Canone", in un unico dialogo tra Dio e l'umanità, in unico disegno di salvezza. «Dio, infatti, molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ma ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2). Cristo getta, così, la sua luce retrospettivamente sull'intera trama della storia della salvezza e ne rivela la coerenza, il significato, la direzione.
Egli è il suggello, "l'alfa e l'omega" (Ap 1, 8) di un dialogo tra Dio e le sue creature distribuito nel tempo e attestato nella Bibbia. È alla luce di questo sigillo finale che acquistano il loro "senso pieno" le parole di Mosè e dei profeti, come aveva indicato lo stesso Gesù in quel pomeriggio primaverile, mentre egli procedeva da Gerusalemme verso il villaggio di Emmaus, dialogando con Cleofa e il suo amico, «spiegando loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27).
Proprio perché al centro della Rivelazione c'è la parola divina divenuta volto, l'approdo ultimo della conoscenza della Bibbia «non è in una decisione etica o in una grande idea, bensì nell'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1)
III. LA CASA DELLA PAROLA: LA CHIESA
Come la sapienza divina nell'Antico Testamento si era costruita la sua dimora nella città degli uomini e delle donne, sorreggendola su sette colonne (cf. Pr 9, 1), così anche la Parola di Dio ha una sua casa nel Nuovo Testamento: è la Chiesa che ha il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata su Pietro e sugli Apostoli e che oggi, attraverso i vescovi in communione col Successore di Pietro, continua ad essere custode, annunciatrice e interprete della parola (cf. LG 13). Luca, negli Atti degli Apostoli (2, 42), ne traccia l'architettura basata su quattro colonne ideali: «Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere».
7. Ecco innanzitutto la didaché apostolica, ossia la predicazione della Parola di Dio. L'apostolo Paolo, infatti, ci ammonisce che «la fede viene dall'ascolto e l'ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17). Dalla Chiesa esce la voce dell'araldo che a tutti propone il kérygma, ossia l'annunzio primario e fondamentale che Gesù stesso aveva proclamato agli esordi del suo ministero pubblico: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15). Gli apostoli annunciano l'inaugurazione del regno di Dio, e quindi dell'intervento decisivo divino nella storia umana, proclamando la morte e la risurrezione di Cristo: «in nessun altro c'è salvezza; non vi è, infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12). Il cristiano rende testimonianza di questa sua speranza «con dolcezza, rispetto e retta coscienza», pronto, però, anche ad essere coinvolto e forse travolto dalla bufera del rifiuto e della persecuzione, consapevole che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (1 Pt 3, 16-17).
Nella Chiesa risuona, poi, la catechesi: essa è destinata ad approfondire nel cristiano «il mistero di Cristo alla luce della Parola perché l'uomo intero sia irradiato da essa» (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae, 20). Ma il vertice della predicazione è nell'omelia che ancor oggi per molti cristiani è il momento capitale dell'incontro con la Parola di Dio. In questo atto il ministro dovrebbe trasformarsi anche in profeta. Egli, infatti, deve in un linguaggio nitido, incisivo e sostanzioso, non solo con autorevolezza «annunziare le mirabili opere di Dio nella storia della salvezza» (SC 35) – offerte prima attraverso una chiara e viva lettura del testo biblico proposto dalla liturgia – ma deve anche attualizzarle nei tempi e nei momenti vissuti dagli ascoltatori e far sbocciare nel loro cuore la domanda della conversione e dell'impegno vitale: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2, 37).
Annunzio, catechesi e omelia suppongono, quindi, un leggere e un comprendere, uno spiegare e un interpretare, un coinvolgimento della mente e del cuore. Nella predicazione si compie così un duplice movimento. Col primo si risale alla radice dei testi sacri, degli eventi, dei detti generatori della storia di salvezza, per comprenderli nel loro significato e nel loro messaggio. Col secondo movimento si ridiscende al presente, all'oggi vissuto da chi ascolta e legge, sempre alla luce del Cristo che è il filo luminoso destinato a unire le Scritture. È ciò che Gesù stesso aveva fatto – come si è già detto – nell'itinerario da Gerusalemme a Emmaus in compagnia di due suoi discepoli. È ciò che farà il diacono Filippo sulla strada da Gerusalemme a Gaza, quando col funzionario etiope intesserà quel dialogo emblematico: «Capisci quello che stai leggendo?... E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8, 30-31). E la meta sarà l'incontro pieno con Cristo nel sacramento. Si presenta, così, la seconda colonna che regge la Chiesa, casa della parola divina.
8. È la frazione del pane. La scena di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35) è ancora una volta esemplare e riproduce quanto accade ogni giorno nelle nostre chiese: all'omelia di Gesù su Mosè e i profeti subentra, alla mensa, la frazione del pane eucaristico. È, questo, il momento del dialogo intimo di Dio col suo popolo, è l'atto della nuova alleanza suggellata nel sangue di Cristo (cf. Lc 22, 20), è l'opera suprema del Verbo che si offre come cibo nel suo corpo immolato, è la fonte e il culmine della vita e della missione della Chiesa. La narrazione evangelica dell'ultima cena, memoriale del sacrificio di Cristo, quando è proclamata nella celebrazione eucaristica, nell'invocazione dello Spirito Santo diventa evento e sacramento. È per questo che il Concilio Vaticano II, in un passo di forte intensità, dichiarava: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio sia del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21). Si dovrà, perciò, riportare al centro della vita cristiana «la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56).
9. Il terzo pilastro dell'edificio spirituale della Chiesa, casa della Parola, è costituito dalle preghiere, intessute – come ricordava san Paolo – da «salmi, inni, cantici spirituali» (Col 3, 16). Un posto privilegiato è occupato naturalmente dalla Liturgia delle Ore, la preghiera della Chiesa per eccellenza, destinata a ritmare i giorni e i tempi dell'anno cristiano, offrendo, soprattutto col Salterio, il cibo quotidiano spirituale del fedele. Accanto ad essa e alle celebrazioni comunitarie della Parola, la tradizione ha introdotto la prassi della Lectio divina, lettura orante nello Spirito Santo, capace di schiudere al fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l'incontro col Cristo, parola divina vivente.
Essa si apre con la lettura (lectio) del testo che provoca una domanda di conoscenza autentica del suo contenuto reale: che cosa dice il testo biblico in sé? Segue la meditazione (meditatio) nella quale l'interrogativo è: che cosa dice il testo biblico a noi? Si giunge, così, alla preghiera (oratio) che suppone quest'altra domanda: che cosa diciamo noi al Signore in risposta alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio) durante la quale noi assumiamo come dono di Dio lo stesso suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi il Signore?
Di fronte al lettore orante della Parola di Dio si erge idealmente il profilo di Maria, la madre del Signore, che «custodisce tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19; cf. 2, 51), cioè – come dice l'originale greco – trovando il nodo profondo che unisce eventi, atti e cose, apparentemente disgiunti, nel grande disegno divino. O anche si può presentare agli occhi del fedele che legge la Bibbia l'atteggiamento di Maria, sorella di Marta, che si asside ai piedi del Signore in ascolto della sua parola, impedendo che le agitazioni esteriori assorbano totalmente l'anima, occupando anche lo spazio libero per «la parte migliore» che non ci dev'essere tolta (cf. Lc 10, 38-42).
10. Eccoci, infine, davanti all'ultima colonna che sorregge la Chiesa, casa della parola: la koinonía, la comunione fraterna, altro nome dell'agápe, cioè dell'amore cristiano. Come ricordava Gesù, per diventare suoi fratelli e sue sorelle bisogna essere «coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21). L'ascoltare autentico è obbedire e operare, è far sbocciare nella vita la giustizia e l'amore, è offrire nell'esistenza e nella società una testimonianza nella linea dell'appello dei profeti, che costantemente univa Parola di Dio e vita, fede e rettitudine, culto e impegno sociale. È ciò che ribadiva a più riprese Gesù, a partire dal celebre monito del Discorso della montagna: «Non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). In questa frase sembra echeggiare la parola divina proposta da Isaia: «Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi invoca con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (29, 13). Questi ammonimenti riguardano anche le Chiese quando non sono fedeli all'ascolto obbediente della Parola di Dio.
Essa, quindi, dev'essere visibile e leggibile già sul volto stesso e nelle mani del credente, come suggeriva san Gregorio Magno che vedeva in san Benedetto, e negli altri grandi uomini di Dio, testimoni di comunione con Dio e coi fratelli, la Parola di Dio fatta vita. L'uomo giusto e fedele non solo "spiega" le Scritture, ma le "dispiega" davanti a tutti come realtà viva e praticata. È per questo che viva lectio, vita bonorum, la vita dei buoni è una lettura/lezione vivente della parola divina. Era già stato san Giovanni Crisostomo a osservare che gli apostoli scesero dal monte di Galilea, ove avevano incontrato il Risorto, senza nessuna tavola di pietra scritta come era accaduto a Mosè: la loro stessa vita sarebbe divenuta da quel momento il Vangelo vivente.
Nella casa della Parola divina incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità ecclesiali che, pur nelle separazioni ancora esistenti, si ritrovano con noi nella venerazione e nell'amore per la Parola di Dio, principio e sorgente di una prima e reale unità, anche se non piena. Questo vincolo dev'essere sempre rafforzato attraverso le traduzioni bibliche comuni, la diffusione del testo sacro, la preghiera biblica ecumenica, il dialogo esegetico, lo studio e il confronto tra le varie interpretazioni delle Sacre Scritture, lo scambio dei valori insiti nelle diverse tradizioni spirituali, l'annuncio e la testimonianza comune della Parola di Dio in un mondo secolarizzato.
IV. LE STRADE DELLA PAROLA: LA MISSIONE
«Da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 3). La Parola di Dio personificata "esce" dalla sua casa, il tempio, e si avvia lungo le strade del mondo per incontrare il grande pellegrinaggio che i popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace. C'è, infatti, anche nella moderna città secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue vie – ove sembrano dominare incredulità e indifferenza, ove il male sembra prevalere sul bene, creando l'impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme – un anelito nascosto, una speranza germinale, un fremito d'attesa. Come si legge nel libro del profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8, 11). A questa fame vuole rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa.
Anche il Cristo risorto agli apostoli esitanti lancia l'appello a uscire dai confini del loro orizzonte protetto: «Andate e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). La Bibbia è tutta attraversata da appelli a "non tacere", a "gridare con forza", ad "annunciare la parola al momento opportuno e non opportuno", ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell'indifferenza. Le strade che si aprono davanti a noi non sono ora soltanto quelle sulle quali si incamminava san Paolo o i primi evangelizzatori e, dietro di loro, tutti i missionari che s'inoltrano verso le genti in terre lontane.
11. La comunicazione stende ora una rete che avvolge tutto il globo e un nuovo significato acquista l'appello di Cristo: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sulle terrazze» (Mt 10, 27). Certo, la parola sacra deve avere una sua prima trasparenza e diffusione attraverso il testo stampato, con traduzioni eseguite secondo la variegata molteplicità delle lingue del nostro pianeta. Ma la voce della parola divina deve risuonare anche attraverso la radio, le arterie informatiche di Internet, i canali della diffusione virtuale on line, i CD, i DVD, gli podcast e così via; deve apparire sugli schermi televisivi e cinematografici, nella stampa, negli eventi culturali e sociali.
Questa nuova comunicazione, rispetto a quella tradizionale, ha adottato una sua specifica grammatica espressiva ed è, quindi, necessario essere attrezzati non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa. In un tempo dominato dall'immagine, proposta in particolare da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, significativo e suggestivo è ancor oggi il modello privilegiato da Cristo. Egli ricorreva al simbolo, alla narrazione, all'esempio, all'esperienza quotidiana, alla parabola: «Parlava loro di molte cose in parabole… e fuor di parabola non diceva nulla alle folle» (Mt 13, 3.34). Gesù nel suo annuncio del regno di Dio non passava mai sopra le teste dei suoi interlocutori con un linguaggio vago, astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra ove erano piantati i loro piedi per condurli, dalla quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli. Significativa diventa, allora, la scena evocata da Giovanni: «Alcuni volevano arrestare Gesù, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato così!» (7, 44-46).
12. Cristo avanza lungo le vie delle nostre città e sosta davanti alle soglie delle nostre case: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). La famiglia, racchiusa tra le mura domestiche con le sue gioie e i suoi drammi, è uno spazio fondamentale in cui far entrare la Parola di Dio. La Bibbia è tutta costellata di piccole e grandi storie familiari e il Salmista raffigura con vivacità il quadretto sereno di un padre assiso alla mensa, circondato dalla sua sposa, simile a vite feconda, e dai figli, «virgulti d'ulivo» (Sal 128). La stessa cristianità delle origini celebrava la liturgia nella quotidianità di una casa, così come Israele affidava alla famiglia la celebrazione della pasqua (cf. Es 12, 21-27). La trasmissione della Parola di Dio avviene proprio attraverso la linea generazionale, per cui i genitori diventano «i primi araldi della fede» (LG 11). Ancora il Salmista ricordava che «ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto…e anch'essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli» (Sal 78, 3-4.6).
Ogni casa dovrà, allora, avere la sua Bibbia e custodirla in modo concreto e dignitoso, leggerla e con essa pregare, mentre la famiglia dovrà proporre forme e modelli di educazione orante, catechetica e didattica sull'uso delle Scritture, perché «giovani e ragazze, vecchi insieme ai bambini» (Sal 148, 12) ascoltino, comprendano, lodino e vivano la Parola di Dio. In particolare le nuove generazioni, i bambini e i giovani, dovranno essere destinatari di un'appropriata e specifica pedagogia che li conduca a provare il fascino della figura di Cristo, aprendo la porta della loro intelligenza e del loro cuore, anche attraverso l'incontro e la testimonianza autentica dell'adulto, l'influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale.
13. Gesù, nella sua parabola del seminatore, ci ricorda che ci sono terreni aridi, sassosi, soffocati dai rovi (cf. Mt 13, 3-7). Chi si inoltra per le strade del mondo scopre anche i bassifondi ove si annidano sofferenze e povertà, umiliazioni e oppressioni, emarginazioni e miserie, malattie fisiche e psichiche e solitudini. Spesso le pietre delle strade sono insanguinate dalle guerre e dalle violenze, nei palazzi del potere la corruzione s'incrocia con l'ingiustizia. Si leva il grido dei perseguitati per la fedeltà alla loro coscienza e alla loro fede. C'è chi è travolto dalla crisi esistenziale o ha l'anima priva di un significato che dia senso e valore allo stesso vivere. Simili a «ombre che passano, a un soffio che s'affanna» (Sal 39, 7), molti sentono incombere su di sé anche il silenzio di Dio, la sua apparente assenza e indifferenza: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2). E alla fine si erge davanti a tutti il mistero della morte.Questo immenso respiro di dolore che sale dalla terra al cielo è ininterrottamente rappresentato dalla Bibbia, che propone appunto una fede storica e incarnata. Basterebbe solo pensare alle pagine segnate dalla violenza e dall'oppressione, al grido acre e continuo di Giobbe, alle veementi suppliche salmiche, alla sottile crisi interiore che percorre l'anima di Qohelet, alle vigorose denuncie profetiche contro le ingiustizie sociali. Senza attenuanti è, poi, la condanna del peccato radicale che appare in tutta la sua potenza devastante fin dagli esordi dell'umanità in un testo fondamentale della Genesi (c. 3). Infatti, il "mistero di iniquità" è presente e agisce nella storia, ma è svelato dalla Parola di Dio che assicura in Cristo la vittoria del bene sul male.
Ma soprattutto nelle Scritture a dominare è la figura di Cristo che apre il suo ministero pubblico proprio con un annuncio di speranza per gli ultimi della terra: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Le sue mani si posano ripetutamente su carni malate o infette, le sue parole proclamano la giustizia, infondono coraggio agli infelici, donano perdono ai peccatori. Alla fine, lui stesso si accosta al livello più basso, «svuotando se stesso» della sua gloria, «assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini…, umiliando se stesso e facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).
Così, egli prova la paura del morire («Padre, se è possibile, passi da me questo calice!»), sperimenta la solitudine con l'abbandono e il tradimento degli amici, penetra nell'oscurità del più crudele dolore fisico con la crocifissione e persino nella tenebra del silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») e giunge all'abisso ultimo di ogni uomo, quello della morte («lanciando un forte grido, spirò»). Veramente a lui si può applicare la definizione che Isaia riserva al Servo del Signore: «uomo dei dolori che ben conosce il patire» (53, 3).
Eppure egli, anche in quel momento estremo, non cessa di essere il Figlio di Dio: nella sua solidarietà d'amore e col sacrificio di sé depone nel limite e nel male dell'umanità un seme di divinità, ossia un principio di liberazione e di salvezza; col suo donarsi a noi irradia di redenzione il dolore e la morte, da lui assunti e vissuti, e apre anche a noi l'alba della risurrezione. Il cristiano ha, allora, la missione di annunciare questa parola divina di speranza, attraverso la sua condivisione coi poveri e i sofferenti, attraverso la testimonianza della sua fede nel Regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace, attraverso la vicinanza amorosa che non giudica e condanna, ma che sostiene, illumina, conforta e perdona, sulla scia delle parole di Cristo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28).
14. Sulle strade del mondo la parola divina genera per noi cristiani un incontro intenso col popolo ebraico a cui siamo intimamente legati attraverso il comune riconoscimento e amore per le Scritture dell'Antico Testamento e perché da Israele «proviene il Cristo secondo la carne» (Rm 9, 5). Tutte le pagine sacre ebraiche illuminano il mistero di Dio e dell'uomo, rivelano tesori di riflessione e di morale, delineano il lungo itinerario della storia della salvezza fino al suo pieno compimento, illustrano con vigore l'incarnazione della parola divina nelle vicende umane. Esse ci permettono di comprendere in pienezza la figura di Cristo, il quale aveva dichiarato di «non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a dare ad essi pieno compimento» (Mt 5, 17), sono via di dialogo col popolo dell'elezione che ha ricevuto da Dio «l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse» (Rm 9, 4), e ci consentono di arricchire la nostra interpretazione delle Sacre Scritture con le risorse feconde della tradizione esegetica giudaica.
«Benedetto sia l'egiziano mio popolo, l'assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Is 19, 25). Il Signore stende, quindi, il manto protettivo della sua benedizione su tutti i popoli della terra, desideroso che «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2, 4). Anche noi cristiani, lungo le strade del mondo, siamo invitati – senza cadere nel sincretismo che confonde e umilia la propria identità spirituale – a entrare in dialogo con rispetto nei confronti degli uomini e delle donne delle altre religioni, che ascoltano e praticano fedelmente le indicazioni dei loro libri sacri, a partire dall'Islam che nella sua tradizione accoglie innumerevoli figure, simboli e temi biblici e che ci offre la testimonianza di una fede sincera nel Dio unico, compassionevole e misericordioso, Creatore di tutto l'essere e Giudice dell'umanità.
Il cristiano trova, inoltre, sintonie comuni con le grandi tradizioni religiose dell'Oriente che ci insegnano nelle loro testi sacri il rispetto della vita, la contemplazione, il silenzio, la semplicità, la rinuncia, come accade nel buddhismo. Oppure, come nell'induismo, esaltano il senso della sacralità, il sacrificio, il pellegrinaggio, il digiuno, i simboli sacri. O ancora, come nel confucianesimo, insegnano la sapienza e i valori familiari e sociali. Anche alle religioni tradizionali con i loro valori spirituali espressi nei riti e nelle culture orali, vogliamo prestare la nostra cordiale attenzione e intrecciare con loro un rispettoso dialogo. Anche a quanti non credono in Dio, ma che si sforzano di «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare con umiltà» (Mi 6, 8), dobbiamo con loro lavorare per un mondo più giusto e pacificato, e offrire in dialogo la nostra genuina testimonianza della Parola di Dio che può rivelare a loro nuovi e più alti orizzonti di verità e di amore.
15. Nella sua Lettera agli artisti (1999), Giovanni Paolo II ricordava che «la S. Scrittura è diventata una sorta di "immenso vocabolario" (Paul Claudel) e di "atlante iconografico" (Marc Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l'arte cristiana» (n. 5). Goethe era convinto che il Vangelo fosse la «lingua materna dell'Europa». La Bibbia, come ormai si è soliti dire, è «il grande codice» della cultura universale: gli artisti hanno idealmente intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato di storie, simboli, figure che sono le pagine bibliche; i musicisti è attorno ai testi sacri, soprattutto salmici, che hanno intessuto le loro armonie; gli scrittori hanno per secoli ripreso quelle antiche narrazioni che divenivano parabole esistenziali; i poeti si sono interrogati sul mistero dello spirito, sull'infinito, sul male, sull'amore, sulla morte e sulla vita spesso raccogliendo i fremiti poetici che animavano le pagine bibliche; i pensatori, gli uomini di scienza e la stessa società avevano non di rado come riferimento, sia pure per contrasto, le concezioni spirituali ed etiche (si pensi al Decalogo) della Parola di Dio. Anche quando la figura o l'idea presente nelle Scritture veniva deformata, si riconosceva che essa era imprescindibile e costitutiva della nostra civiltà.
È per questo che la Bibbia – la quale ci insegna anche la via pulchritudinis, cioè il percorso della bellezza per comprendere e raggiungere Dio («cantate a Dio con arte!», ci invita il Sal 47, 8) – è necessaria non solo al credente, ma a tutti per riscoprire i significati autentici delle varie espressioni culturali e soprattutto per ritrovare la nostra stessa identità storica, civile, umana e spirituale. È in essa la radice della nostra grandezza ed è attraverso essa che noi possiamo presentarci con un nobile patrimonio alle altre civiltà e culture, senza nessun complesso di inferiorità. La Bibbia dovrebbe, quindi, essere da tutti conosciuta e studiata, sotto questo straordinario profilo di bellezza e di fecondità umana e culturale.
Tuttavia, la Parola di Dio – per usare una significativa immagine paolina – «non è incatenata» (2 Tm 2, 9) a una cultura; anzi, aspira a varcare le frontiere e proprio l'Apostolo è stato un eccezionale artefice di inculturazione del messaggio biblico entro nuove coordinate culturali. È ciò che la Chiesa è chiamata a fare anche oggi attraverso un processo delicato ma necessario, che ha ricevuto un forte impulso dal magistero di Papa Benedetto XVI. Essa deve far penetrare la Parola di Dio nella molteplicità delle culture ed esprimerla secondo i loro linguaggi, le loro concezioni, i loro simboli e le loro tradizioni religiose. Deve, però, essere sempre capace di custodire la genuina sostanza dei suoi contenuti, sorvegliando e controllando i rischi di degenerazione.La Chiesa deve, quindi, far brillare i valori che la Parola di Dio offre alle altre culture, così che ne siano purificate e fecondate. Come aveva detto Giovanni Paolo II all'episcopato del Kenya durante il suo viaggio in Africa nel 1980, «l'inculturazione sarà realmente un riflesso dell'incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce nella sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
CONCLUSIONE
«La voce che avevo udito dal cielo mi disse: "Prendi il libro aperto dalla mano dell'angelo…". E l'angelo mi disse: "Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele". Presi quel piccolo libro dalle mani dell'angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito, ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza» (Ap 10, 8-11).
Fratelli e sorelle di tutto il mondo, accogliamo anche noi questo invito; accostiamoci alla mensa della Parola di Dio, così da nutrirci e vivere «non soltanto di pane ma anche di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8, 3; Mt 4, 4). La Sacra Scrittura - come affermava una grande figura della cultura cristiana - «ha passi adatti a consolare tutte le condizioni umane e passi adatti a intimorire in tutte le condizioni» (B. Pascal, Pensieri, n. 532 ed. Brunschvicg).
La Parola di Dio, infatti, è «più dolce del miele e di un favo stillante» (Sal 19, 11), è «lampada per i passi e luce sul cammino» (Sal 119, 105), ma è anche « come il fuoco ardente e come un martello che spacca la roccia» (Ger 23, 29). È come una pioggia che irriga la terra, la feconda e la fa germogliare, facendo così fiorire anche l'aridità dei nostri deserti spirituali (cf. Is 55, 10-11). Ma è anche «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).
Il nostro sguardo si rivolge con affetto a tutti gli studiosi, ai catechisti e agli altri servitori della Parola di Dio per esprimere ad essi la nostra più intensa e cordiale gratitudine per il loro prezioso e importante ministero. Ci rivolgiamo anche ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che sono perseguitati o che sono messi a morte a causa della Parola di Dio e della testimonianza che rendono al Signore Gesù (cf. Ap 6, 9): quali testimoni e martiri ci raccontano "la forza della parola" (Rm 1, 16), origine della loro fede, della loro speranza e del loro amore per Dio e per gli uomini.
Creiamo ora silenzio per ascoltare con efficacia la parola del Signore e conserviamo il silenzio dopo l'ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a noi. Facciamola risuonare all'inizio del nostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciamola echeggiare in noi alla sera perché l'ultima parola sia di Dio.
Cari fratelli e sorelle, «vi salutano tutti coloro che sono con noi. Salutate tutti quelli che ci amano nella fede. La grazia sia con tutti voi!» (Tt 3, 15).
Riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Presentiamo il riassunto del Messaggio al Popolo di Dio del Sinodo dei Vescovi sulla Parola pubblicato venerdì.
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Cari Fratelli e Sorelle,
"che in ogni luogo invocate il nome del Signore nostro Gesù Cristo, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!" (1 Cor 1, 2-3). È col saluto dell'Apostolo Paolo - in quest'anno a lui dedicato - che noi, Padri Sinodali riuniti a Roma per la XII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi col Santo Padre Benedetto XVI, indirizziamo a voi un messaggio di ampia riflessione e proposta sulla Parola di Dio che è stata al centro dei lavori della nostra assemblea.
È un messaggio che affidiamo innanzitutto ai vostri pastori, ai tanti e generosi catechisti e a tutti coloro che vi guidano nell'ascolto e nella lettura amorosa della Bibbia. A voi ora vogliamo delineare l'anima e la sostanza di quel testo perchè cresca e si approfondisca la conoscenza e l'amore per la Parola di Dio. Quattro sono i punti cardinali dell'orizzonte che vogliamo invitarvi a conoscere e che esprimeremo attraverso altrettante immagini.
Ecco innanzitutto la Voce divina. Essa risuona alle origini della creazione, spezzando il silenzio del nulla e dando origine alle meraviglie dell'universo. È una Voce che penetra poi nella storia, ferita dal peccato umano e sconvolta dal dolore e dalla morte. Essa vede anche il Signore in cammino con l'umanità per offrire la sua grazia, la sua alleanza, la sua salvezza. È una Voce che scende poi nelle pagine delle Sacre Scritture che noi ora leggiamo nella Chiesa con la guida dello Spirito Santo che ad essa e ai suoi pastori è stato donato come luce di verità.
Inoltre, come scrive S. Giovanni, "la Parola si fece carne" (1, 14). Ecco, allora, apparire il Volto. È Gesù Cristo, che è Figlio del Dio eterno e infinito, ma anche uomo mortale, legato a un'epoca storica, a un popolo e a una terra. Egli vive l'esistenza faticosa dell'umanità fino alla morte, ma risorge glorioso e vive per sempre. È lui che rende perfetto il nostro incontro con la Parola di Dio. È lui che ci svela il "senso pieno" e unitario della Sacre Scritture per cui il Cristianesimo è una religione che ha al centro una persona, Gesù Cristo, rivelatore del Padre. È lui che ci fa capire che anche le Scritture sono "carne", cioè parole umane da comprendere e studiare nel loro modo di esprimersi, ma che custodiscono al loro interno la luce della verità divina che solo con lo Spirito Santo possiamo vivere e contemplare.
È lo stesso Spirito di Dio a condurci al terzo punto cardinale del nostro itinerario, la Casa della parola divina, cioè la Chiesa, che, come ci suggerisce san Luca (At 2, 42), è sorretta da quattro colonne ideali. C'è "l'insegnamento", cioè il leggere e il comprendere la Bibbia nell'annunzio fatto a tutti, nella catechesi, nell'omelia, attraverso una proclamazione che coinvolga mente e cuore. C'è, poi, "la frazione del pane", cioè l'Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Come accadde in quel giorno a Emmaus, i fedeli sono invitati a nutrirsi nella liturgia alla mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. Una terza colonna sono le "preghiere" con "salmi, inni, e cantici spirituali" (Col 3, 16). È la Liturgia delle Ore, preghiera della Chiesa destinata a ritmare i giorni e i tempi dell'anno cristiano. C'è anche la Lectio divina, la lettura orante delle Sacre Scritture capace di condurre, nella meditazione, nell'orazione, nella contemplazione, all'incontro col Cristo, parola di Dio vivente. E, alla fine, ecco la "comunione fraterna" perché per essere veri cristiani non basta essere "coloro che ascoltano la parola di Dio" ma anche che "la mettono in pratica" nell'amore operoso (Lc 8, 21). Nella casa della parola di Dio noi incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità cristiane che, pur nelle separazioni, vivono una reale unità, sebbene non piena, attraverso la venerazione e l'amore per la Parola divina.
Giungiamo, così, all'ultima immagine della mappa spirituale. È la strada su cui s'incammina la parola di Dio: "Andate e fate discepoli tutti i popoli, insegnando loro ad osservare ciò che vi ho comandato…Quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sulle terrazze" (Mt 28, 19-20; 10, 27). La parola di Dio deve correre per le strade del mondo che oggi sono anche quelle della comunicazione informatica, televisiva e virtuale. La Bibbia deve entrare nelle famiglie, perché genitori e figli la leggano, con essa preghino e sia per loro una lampada per i passi nel cammino dell'esistenza (cf. Sal 119, 105). Le Sacre Scritture devono entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché per secoli sono state il riferimento capitale dell'arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica comune. La loro ricchezza simbolica, poetica e narrativa le rende un vessillo di bellezza sia per la fede sia per la stessa cultura, in un mondo spesso sfregiato dalla bruttezza e dalle brutture.
La Bibbia, però, ci presenta anche il respiro di dolore che sale dalla terra, va incontro al grido degli oppressi e al lamento degli infelici. Essa ha al vertice la croce ove Cristo, solo e abbandonato, vive la tragedia della sofferenza più atroce e della morte. Proprio per questa presenza del Figlio di Dio, l'oscurità del male e della morte è irradiata dalla luce pasquale e dalla speranza della gloria. Ma sulle strade del mondo camminano con noi anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità cristiane che, pur nelle separazioni, vivono una reale unità anche se non piena, attraverso la venerazione e l'amore per la Parola di Dio. Lungo le strade del mondo incontriamo spesso uomini e donne di altre religioni che ascoltano e praticano fedelmente i dettami dei loro libri sacri e che con noi possono edificare un mondo di pace e di luce, perchè Dio vuole che "tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (1 Tim 2, 4).
Cari fratelli e sorelle, custodite nelle vostre case la Bibbia, leggete, approfondite e comprendete pienamente le sue pagine, trasformatele in preghiera e testimonianza di vita, ascoltatela con amore e fede nella liturgia. Create il silenzio per ascoltare con efficacia la Parola del Signore e conservate il silenzio dopo l'ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a voi. Fatela risuonare all'inizio del vostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciatela echeggiare in voi alla sera perché l'ultima parola sia di Dio.
"Vi affidiamo a Dio e alla parola della sua grazia" (At 20, 32). Con la stessa espressione di San Paolo nel suo discorso d'addio ai capi della Chiesa di Efeso, anche noi Padri Sinodali affidiamo i fedeli delle comunità sparse sulla faccia della terra alla parola divina che è anche giudizio ma soprattutto grazia, che è tagliente come una spada ma che è dolce come un favo di miele. Essa è potente e gloriosa e ci guida sulle strade della storia con la mano di Gesù che anche voi come noi "amate con amore incorruttibile" (Ef 6, 24).
Le radici cristiane di un’Europa laica. Il viaggio di Benedetto XVI in Francia - di Massimo Introvigne
Il viaggio di Benedetto XVI in Francia (12-15 settembre 2008) costituisce, secondo la sua stessa espressione, un «dittico» composto da due «pannelli» (Benedetto XVI 2008r). Il primo pannello – che comprende i discorsi tenuti a Parigi, e il discorso a Lourdes ai vescovi della Conferenza Episcopale Francese (Benedetto XVI 2008o) – presenta una riflessione sulle radici cristiane dell’Europa nel contesto francese segnato sia dalla laïcité, cioè da una laicità per secoli intesa come laicismo anticristiano e anticlericale, sia dal tentativo del presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, di proporre una nuova nozione di «laicità positiva», critica – o autocritica – nei confronti dei tradizionali laicismo e anticlericalismo francesi e disposta a riconoscere un ruolo pubblico alla religione in Francia (Sarkozy 2004). Il secondo pannello precisa ulteriormente che le radici cristiane dell’Europa sono radici mariane, e propone un’esegesi puntuale delle parole e dei gesti della Vergine Maria nelle apparizioni di Lourdes (11 febbraio – 16 luglio 1858), di cui il viaggio di Benedetto XVI intende celebrare in modo solenne il 150° anniversario. Tuttavia, nei discorsi di Lourdes, il secondo pannello è sempre collegato al primo, così che – pure nella distinzione dei due momenti del viaggio – il discorso resta comunque profondamente unitario: e come tale può essere studiato.
1. Le radici dell’Europa sono religiose
Nei suoi interventi di Parigi, in relazione implicita anche al dibattito sulla Costituzione europea – dalla quale proprio la Repubblica Francese, all’epoca presieduta da Jacques Chirac, chiese ripetutamente che fosse escluso ogni riferimento alle radici ebraiche e cristiane –, Benedetto XVI afferma con forza che non è possibile parlare di Europa, e neppure di Francia, senza considerare le loro radici religiose. È sufficiente camminare per le strade, osservare l’architettura, studiare la letteratura o visitare i musei per rendersi conto che un discorso sull’Europa che prescinda dalle radici religiose, semplicemente, non ha senso. «Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» (Benedetto XVI 2008d). Il riferimento, anzitutto, a radici religiose permette di valorizzare – come il Papa a Parigi ha fatto in termini a loro modo impegnativi – il contributo dell’ebraismo alla cultura europea, e in particolare «il ruolo eminente svolto dagli Ebrei di Francia per l’edificazione dell’intera Nazione e il loro prestigioso apporto al suo patrimonio spirituale» (Benedetto XVI 2008c). Un richiamo non scontato, ma che il Pontefice considera doveroso in un momento in cui tornano rischi di antisemitismo, di fronte ai quali la Chiesa ricorda, con le parole del cardinale Henri-Marie de Lubac, S.J. (1896-1991), citate a Parigi da Benedetto XVI, che «essere antisemiti significa[va] anche essere anticristiani» (ibidem). La Chiesa, dunque, ripete oggi le parole pronunciate da Pio XI (1857-1939) il 6 settembre 1938, nel pieno della tempesta nazista: «Spiritualmente, noi siamo semiti» (Allocuzione a dei pellegrini del Belgio, del 6-9-1938, cit. in Benedetto XVI 2008c).
Valorizzare le radici religiose dell’Europa offre anche un contesto e un quadro per il dialogo con le nuove presenze islamiche, a proposito delle quali il Papa invita anzitutto allo studio per «un reale impegno di conoscenza reciproca» (Benedetto XVI 2008o), in assenza del quale si rischia di cadere in percorsi di dialogo che «conducono a vicoli ciechi» (ibidem). Né il vivere in una «società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa» (ibidem) può essere pretesto per nascondere la Verità o rinunciare alla missione, anche nei confronti degli stessi musulmani. Una società dove convivono più religioni dev’essere al contrario vissuta come «un’opportunità che il Signore ci offre di proclamare la Verità» (ibidem). Se un tempo i missionari dovevano andare a cercare i seguaci di religioni non cristiane nei loro Paesi, oggi costoro vengono da noi come immigrati, e attraverso la loro presenza il Signore ci offre l’occasione di esercitare la missione, che rimane un aspetto imprescindibile della vita cristiana, senza dovere necessariamente partire verso terre lontane.
2. Le radici dell’Europa sono cristiane
Ma in ogni caso, mentre riconosce il contributo nella storia o nell’attualità di altre religioni, la Chiesa non può astenersi dal proclamare che le radici dell’Europa sono cristiane. Valutando positivamente gli elementi di novità introdotti dal presidente Sarkozy nel dibattito politico sulla religione in Francia, Benedetto XVI così gli si rivolge: «Signor Presidente, Ella ha ricordato che le radici della Francia – come quelle dell’Europa – sono cristiane. Basta la storia a dimostrarlo» (Benedetto XVI 2008b). Anzi, «il porre in evidenza le radici cristiane della Francia permetterà ad ogni abitante di questo Paese di meglio comprendere da dove egli venga e dove egli vada» (Benedetto XVI 2008o).
In Francia, il Papa ricorda in particolare la figura del Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione (130-202), particolarmente caro a Benedetto XVI come testimonianza vivente delle radici insieme greche e latine dell’Europa Occidentale (e si sa quanto il Pontefice tenga a ricordare sempre il contributo greco). Questo Padre della Chiesa di Francia, infatti, non era francese di nascita. «Sant’Ireneo era venuto da Sirme per predicare la fede nel Cristo risorto. Lione aveva dunque un vescovo la cui lingua materna era il greco» (Benedetto XVI 2008b).
Né si tratta solo di sant’Ireneo. «La fede del Medio Evo ha edificato le cattedrali» (Benedetto XVI 2008e), e proprio la Francia conta alcune delle più belle e famose cattedrali d’Europa, testimonianza viva delle radici cristiane che nessuno può ignorare. «Essendo un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008a), il Pontefice apprezza anche la letteratura cattolica francese dell’Ottocento, in cui ritrova un che di barocco. In particolare – ma cita anche i romanzi di Georges Bernanos (1888-1948; cfr. ibidem) – gli «piace molto» (ibidem) la poesia di Paul Claudel (1868-1955), la cui conversione è del resto legata al fascino delle cattedrali medievali e in particolare di quella di Parigi, Notre-Dame (Benedetto XVI 2008e), e testimonia che la vera arte cristiana – quella di ieri come quella di oggi – è sempre un «cammino verso Dio» (ibidem).
3. Le radici dell’Europa sono monastiche
Se il richiamo alle radici religiose e cristiane dell’Europa costituisce un tema consueto del magistero di Benedetto XVI – come già di quello di Giovanni Paolo II (1920-2005) – a Parigi il Papa c’invita a fare un passo in più, che costituisce il tema specifico del discorso al Collège des Bernardins, da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche, e che nei monasteri medievali le radici dell’Europa si confondono con le radici della teologia della Chiesa universale.
Le «radici della cultura europea» si trovano precisamente nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (Benedetto XVI 2008 d). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibidem). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibidem). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibidem).
La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq, O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea – e insieme la teologia cattolica – di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.
Ma di quale cultura si trattava? La cultura non è semplicemente l’insieme dei libri e delle biblioteche, ma «riguarda la comunità» (ibidem) e coinvolge anche i gesti e il corpo. «Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq» (ibidem). Leggere e cantare sono attività collegate, e sono attività essenziali in un rapporto con la Parola che è propriamente culturale ma che coinvolge insieme il corpo e lo spirito. «Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica» (ibidem). Del resto, «due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio» (ibidem). «Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”» (ibidem).
Il «criterio supremo» di questa cultura insieme della Parola e del corpo va ben al di là della bellezza di una melodia: si tratta «di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle [1090-1153], che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino [354-430] per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere» (ibidem). Di qui, secondo il Papa – di cui è noto l’interesse per la musica classica – «è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo» (ibidem). I monaci non hanno come punto di riferimento un compositore che «inventa» una melodia, ma chi è capace di riconoscere nel mondo una musica che Dio vi ha immesso e che nel cosmo già vive.
Le radici della cultura europea – cultura dello spirito e del corpo, che comprende la riflessione filosofica e teologica, la letteratura, l’arte e la musica – scaturiscono dunque dalla ricerca da parte dei monaci di un accostamento adeguato alla Parola di Dio. Per così dire, i monaci trovarono la cultura europea – che segna ancora oggi tutti noi – senza cercarla, mentre riflettevano sul modo migliore per comprendere e insegnare la Bibbia. Si trattava di un compito arduo – ma di qui vengono appunto la profondità della riflessione e la ricchezza della cultura prodotta dai monaci – in quanto la Bibbia è stata composta «lungo più di un millennio», presenta al suo interno «tensioni visibili» e il suo «aspetto divino […] non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia [O.P., ?-1282], Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica [cioè riferita allo Spirito Santo, Pneuma]. Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta» (ibidem).
Parte da qui il brano del discorso del Collège des Bernardins dove Benedetto XVI spiega come le radici della cultura europea sono al tempo stesso le radici della teologia cattolica di tutta la Chiesa. È una teologia che, proprio sulla base della consapevolezza originaria secondo cui la Parola di Dio necessita d’interpretazione, «esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibidem).
Il richiamo alle radici permette di evitare due rischi, non solo uno. Se un rischio, infatti, è costituito dal fondamentalismo – il quale pretende che la Parola di Dio non abbia bisogno d’interpretazione, perché la semplice «letteralità del testo» sarebbe più che sufficiente – un altro rischio, simmetrico, consiste nell’interpretazione arbitraria fondata semplicemente su «la propria idea, la visione personale di chi interpreta» (ibidem). Per non essere fondamentalisti, oggi si rischia spesso di cadere nell’arbitrarietà e nel soggettivismo. In realtà, proprio studiando l’esperienza dei monaci da cui sono nate insieme la cultura occidentale e la teologia, scopriamo che dagli scritti di san Paolo essi traevano la convinzione che l’interpretazione non è mai un’avventura individuale ma è sempre un incontro con il Signore Gesù che avviene nel luogo in cui Egli ha voluto farsi incontrare nella storia, cioè nella Chiesa. Si pone così «un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità» (ibidem). È una riflessione molto attuale oggi «di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione» (ibidem).
L’esame delle radici monastiche dell’Europa non sarebbe completo se non si considerasse che il motto dei monaci era ora et labora, dunque non solo «prega» ma anche «lavora». Per quanto Benedetto XVI sia attaccato al tema delle radici greche dell’Europa, qui nota che se la Grecia non avesse incontrato il cristianesimo avrebbe continuato a passare accanto, senza afferrarli, ad aspetti essenziali della cultura: il lavoro, l’economia, il rapporto con le cose. Per i greci, infatti, il lavoro non faceva parte della cultura: era una cosa da schiavi. «Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo» (ibidem).
Come spesso avviene, un diverso atteggiamento psicologico nasconde un problema dottrinale, legato addirittura a una diversa concezione di Dio. «Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata» (ibidem). Al contrario il Dio degli ebrei e dei cristiani è il creatore e «lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini» (ibidem). Se dunque «il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano» (ibidem) non ci troviamo di fronte soltanto a una buona pedagogia di formazione all’impegno della volontà, ma a una nozione di cultura più ricca di quella greca, di cui fanno parte a pieno titolo anche le attività economiche e produttive: una nozione che sta tra l’altro a fondamento del grande sviluppo economico dell’Occidente, le cui radici sono anch’esse cristiane e monastiche.
Ma Benedetto XVI, tirando le somme di questo grande affresco delle radici monastiche della cultura europea, torna a ricordare che lo scopo dei monaci non era creare cultura ma quaerere Deum, cercare Dio. Non ci si può mettere a cercare Dio, come sapeva sant’Agostino, senza averlo in un certo senso già trovato. Legati com’erano all’esperienza di san Paolo, i monaci sapevano che all’Areopago – quando di fronte all’ara del Dio Ignoto, l’apostolo esclama: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17, 23) – Paolo era partito dalla nozione (che è di ragione, non di fede) secondo cui «all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità ma la Ragione creativa» (Benedetto XVI 2008d). E tuttavia san Paolo era consapevole che «malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole» (ibidem).
«La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (ibidem). In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia fra fede e ragione, che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.
4. Le radici dell’Europa sono mariane
La «ragione principale» (Benedetto XVI 2008b) del viaggio di Benedetto XVI in Francia è la celebrazione del 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes: «il Papa aveva il dovere di venire a Lourdes» (Benedetto XVI 2008r). Non si tratta di una mera celebrazione: anzi, nel contesto del viaggio, il Papa ricorda che le radici cristiane e monastiche dell’Europa sono anche necessariamente radici mariane. Le apparizioni della Madonna che costellano la storia d’Europa negli ultimi secoli sono un forte e provvidenziale richiamo a queste radici, nel momento in cui l’Europa comincia a negarle. Lourdes – ma questo vale per ogni apparizione - «è come una luce nell’oscurità del nostro brancolare verso Dio. Maria vi ha aperto una porta verso un al-di-là che ci interroga e ci seduce» (Benedetto XVI 2008r).
Benedetto XVI si sente in qualche modo personalmente inserito nella storia di Lourdes: «il giorno della festa di Santa Bernadette [Soubirous, 1844-1879] è anche il giorno della mia nascita» (Benedetto XVI 2008a), e una figura cui il Papa si sente molto legato, il beato Charles de Foucauld (1858-1916), evangelizzatore e martire dei Tuareg musulmani del Sud dell’Algeria dopo essere stato militare, «nacque nel 1858, lo stesso anno delle apparizioni di Lourdes» (Benedetto XVI 2008p).
In un momento in cui le apparizioni mariane sono oggetto anche in best seller destinati al grande pubblico di critiche e di rifiuti fondati su pregiudizi razionalisti e laicisti (cfr. Augias e Cacitti 2008 e, per una critica, Introvigne 2008), il magistero s’impegna anzitutto in un giudizio sul fatto che non lascia spazio a equivoci. Il condizionale, utilizzato anche in qualche testo corrente che è opera di cattolici, è costantemente sostituito dal passato o dal presente storici: Bernadette «vide», Maria «rivela» (Benedetto XVI 2008l). Il testo delle apparizioni mariane è infatti secondo il Papa una «vera catechesi» della Madonna al mondo moderno (Benedetto XVI 2008m), che – in quanto tale – merita un’esegesi puntuale e sistematica da parte dello stesso magistero della Chiesa.
Questo testo a Lourdes non si compone soltanto di parole, ma anche di silenzi, di fenomeni che circondano le apparizioni e di gesti della Madonna. Tra questi il Papa ne commenta principalmente quattro: la luce – «Bernadette vide una luce e, dentro questa luce, una giovane signora» (Benedetto XVI 2008l) –; il segno della croce – che «introduce l’incontro» già in occasione della prima apparizione (Benedetto XVI 2008m) –; la corona del Rosario, che la Vergine tiene nelle mani – «durante le apparizioni è da rilevare che Bernadette recita la corona sotto gli occhi di Maria, che si unisce a lei al momento della dossologia» (ibidem) –; e il sorriso della Madonna, che ha tanto impressionato Bernadette e che è rimasto con lei per tutta la sua vita (Benedetto XVI 2008q).
Ognuno di questi segni è proposto alla nostra riflessione sulle radici mariane dell’Europa e sulla catechesi che mediante le apparizioni la Madonna stessa ha proposto al mondo. Il segno della luce è fondamentale per tutta la vita cristiana. In Mt 5, 14 «Cristo può ormai dire: “Voi siete la luce del mondo”» (Benedetto XVI 2008l). Lo dice a noi, che evidentemente «non siamo la luce» (ibidem). La nostra è una luce riflessa: diventiamo «luce del mondo» perché riceviamo la luce del Cristo per mezzo di Maria. Nel brano del Vangelo di Matteo richiamato dal segno mariano di Lourdes merita attenzione l’espressione «del mondo». Non solo «abbiamo bisogno di luce»: «siamo chiamati a divenire luce», «proporci come guide per i nostri fratelli» (ibidem). La luce non è qualche cosa che ci è donato solo per la nostra salvezza individuale, ma perché – in un mondo che progressivamente si scristianizza – ciascuno irradi la luce cristiana e mariana nel suo ambiente e nella società.
Il segno della Croce «è in qualche modo la sintesi della nostra fede» (Benedetto XVI 2008m): anch’esso rischia nel mondo moderno di essere banalizzato, ma il suo significato è molto profondo. Ogni volta che in pubblico facciamo il segno della Croce – che, «più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede» (ibidem) e che la Madonna stessa mostrò a Bernadette a Lourdes – stiamo almeno dando inizio alla missione affidata alla Chiesa di «mostrare a tutti» il volto di Dio (ibidem).
Il Rosario della Madonna a Lourdes è strettamente collegato al segno della luce: e forse, rileva Benedetto XVI, non è un caso che Giovanni Paolo II, tanto devoto alla Vergine di Lourdes, sia stato un Papa del Rosario «tra l’altro, in un modo del tutto singolare, arricchendo il Rosario con la meditazione dei Misteri della Luce», dal 2007 «rappresentati sulla facciata della Basilica [di Lourdes] nei nuovi mosaici» (Benedetto XVI 2008l). Il fatto che la Madonna stessa si unisca a Bernadette nella recita del Gloria «conferma il carattere profondamente teocentrico della preghiera del Rosario» (ibidem). Nello stesso tempo, il richiamo alle radici della cultura europea si precisa come richiamo a «quella straordinaria prossimità tra il cielo e la terra che non si è mai smentita e che non cessa di consolidarsi» (ibidem), in una storia d’Europa che non si comprende se si eliminano dal suo itinerario i segni e i prodigi del cielo e la forza della preghiera.
Il sorriso della Madonna – il «sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta» (Benedetto XVI 2008q) – non c’invita affatto a un «sentimentalismo devoto o antiquato» (ibidem). Non si deve infatti dimenticare che il sorriso di Maria nasce dall’«abisso del suo dolore» durante la Passione, suggerito «dal simbolo tradizionale delle sette spade» che le hanno trapassato il cuore: solo con la gloria della Resurrezione «le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà» (ibidem). Di questo sorriso la Madonna fa beneficiare la Chiesa e in particolare l’Europa attraverso il continuo «intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia» (ibidem). A Lourdes, prima d’iniziare con Bernadette una catechesi che comprende anche parole, «Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questo la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero» (ibidem). Questo sorriso è sempre disponibile per tutti i cristiani, ma occorre mettersi nell’atteggiamento giusto, quello dei frequenti «incontri di sguardo con la Vergine Maria», secondo un’espressione che Benedetto XVI cita dal monaco dom Jean-Baptiste Chautard, O.C.S.O. (1858-1935) – tra l’altro, anch’egli nato come il beato Charles de Foucauld nello stesso anno delle apparizioni di Lourdes – il cui insegnamento di «bella figura spirituale francese» il Papa raccomanda a ogni «cristiano fervoroso» (ibidem).
Anche se a Lourdes – rispetto, per esempio, alle successive apparizioni di Fatima, del 1917 – la Madonna ha pronunciato un numero limitato di parole, anche queste fanno parte della sua catechesi o direzione spirituale rivolta a un’Europa già nel 1858 in via di secolarizzazione. Pure queste parole sono oggetto di un commento dettagliato e puntuale da parte del Papa, che si sofferma in particolare su tre indicazioni della Madonna.
Nell’ottava delle diciotto apparizioni, il 24 febbraio 1858, la Madonna dice a Bernadette: «Penitenza! Penitenza! Penitenza! Pregate Dio per i peccatori! Andate a baciare la terra in penitenza per i peccatori!»; e nella nona apparizione, il giorno dopo 25 febbraio, aggiunge: «Andate a bere alla fonte e a lavarvi. Voi mangerete di quell'erba che è là». Il segno della terra e dell’erba e quello dell’acqua – che, come è noto, sarà in effetti trovata a Lourdes e sarà all’origine di tanti pellegrinaggi e miracoli – sono intimamente collegati alle radici, e intendono mostrarci che la radice è Maria stessa che al tempo stesso «è una sorgente di acqua viva» (Benedetto XVI 2008q). La liturgia della Chiesa la invoca come Fons amoris, ma lo fa nella sequenza della festa dell’Addolorata: ancora una volta l’amore nasce dal dolore (ibidem). Questo vale anzitutto per Maria nella sua vita terrena: e in questo senso Benedetto XVI – a fronte di equivoci vecchi e nuovi, secondo cui la decisione del Concilio Vaticano II di non dedicare un documento monotematico alla Madonna ma d’inserire la mariologia nella costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium avrebbe in qualche modo sminuito la sua importanza – ribadisce che, attraverso una scelta che aveva del resto solide ragioni teologiche e patristiche, «il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa» (ibidem). Ma il rapporto profondo – e non sentimentale – fra dolore e amore vale oggi anche per i malati di Lourdes, i quali apprendono che Gesù Cristo, cui sono invitati a donarsi per mezzo di Maria, «non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta: la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattie, per sopportarla e viverla con lui» (ibidem). In un mondo che, nonostante il progresso della medicina, troppo spesso rifiuta di vedere il malato e lo isola, «la presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento» (ibidem).
Nella tredicesima apparizione, il 2 marzo 1858, la Madonna chiede a Bernadette: «Andate a dire ai sacerdoti che si venga qui in processione e che si costruisca una cappella». Non chiede solo, nota Benedetto XVI, che si venga in pellegrinaggio ma che si venga «in processione». Vi è qui un insegnamento molto profondo sulla «comunione della Chiesa» (Benedetto XVI 2008l): non riscopriremo le radici e non risolveremo i nostri problemi da soli, né attraverso interpretazioni soggettive, ma soltanto nella Chiesa e con la Chiesa, in un’ideale processione sulla «strada luminosa» che da Lourdes «si apre nella storia degli uomini» (ibidem). Insieme, la processione cui siamo invitati dalla Vergine è molto di più, perché con noi sfilano grazie al mistero della comunione dei santi anche coloro che già si trovano in Paradiso, che realmente ci accompagnano e ci sostengono, così che il passato dell’Europa e del mondo cammina nel presente: la processione, infatti, «unisce eletti del cielo e pellegrini della terra» (ibidem).
Infine, con la sedicesima apparizione del 25 marzo 1858 si giunge al cuore teologico delle apparizioni. Dopo che Bernadette le aveva chiesto più volte di dirle il suo nome, la Signora rispose nel dialetto del luogo «que soy era Immaculada Concepciou», «che era l’Immacolata Concezione». Il beato Papa Pio IX (1792-1878) aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione – secondo cui la Vergine Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento – solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus dell'8 dicembre 1854. Bernadette, peraltro, non ne aveva mai sentito parlare. Ci si può chiedere se l’evento straordinario della conferma di un dogma da poco proclamato da parte della Madonna rimanga una mera curiosità storica o abbia a che fare con l’esperienza quotidiana di noi che purtroppo con le conseguenze del peccato originale dobbiamo avere a che fare tutti i giorni. Benedetto XVI risponde positivamente: «Questo privilegio [della Madonna] riguarda anche noi» (Benedetto XVI 2008m). «Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori» (Benedetto XVI 2008n). Di fatto, la Chiesa sa e sperimenta che «ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la tutta pura» (ibidem). «La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. […] In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione» (ibidem).
5. Le radici dell’Europa si mostrano ancora
Le radici religiose, cristiane, monastiche e mariane dell’Europa sono un semplice riferimento storico o una realtà viva e presente ancora oggi? Evidentemente, se si trattasse di un puro richiamo storico il loro interesse sarebbe limitato agli specialisti. Ma, ci assicura Benedetto XVI, non è così: le radici sono ancora tra noi. Lo sono, anzitutto, di fatto. Nel Paese europeo con la più bassa percentuale di partecipanti settimanali a riti religiosi, la Francia, il Papa non ha paura di testimoniare la «convinzione che i tempi siano favorevoli a un ritorno a Dio» (Benedetto XVI 2008r). Di fronte ai dati sociologici, questa convinzione potrebbe sembrare infondata. Tuttavia, il Papa ritiene che il grande interesse per le testimonianze artistiche, musicali e letterarie del cristianesimo – che si riscontra anche in un Paese molto secolarizzato come la Francia – possa diventare per molti, opportunamente evangelizzato e indirizzato, il primo passo di un itinerario di riscoperta della fede. I giovani, se da un lato sono «la preoccupazione più grande» del Papa (Benedetto XVI 2008b), dall’altro «pur vivendo in un mondo che li corteggia e blandisce i loro bassi istinti, e portando essi pure il fardello pesante di eredità difficili da assimilare, […] conservano una freschezza d’animo che ha suscitato la mia ammirazione», in particolare in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney (Benedetto XVI 2008o). La speranza, dunque, non solo – come afferma il proverbio – è l’ultima a morire, ma di fatto non è morta.
In secondo luogo, vi sono ragioni di principio per affermare che anche una società secolarizzata e che si dichiara laica come quella francese porta in sé il segno delle radici cristiane. Infatti, «la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall'inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato» (Benedetto XVI 2008a). Per comprendere come la vera laicità derivi dalla fede, e non vada confusa con un laicismo antireligioso, è necessario – soprattutto in Francia – superare antichi pregiudizi e tornare a riflettere sul significato della stessa laicità. Rivolgendosi all’Eliseo al presidente Sarkozy, Benedetto XVI afferma: «Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. […] Una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale, infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» così come alla diffusione di quella speranza di cui «ogni umana società» – specialmente nei suoi giovani – ha bisogno per sopravvivere (Benedetto XVI 2008b). A chi guarda le vecchie ostilità fra Stato e Chiesa in Francia e il carattere profondamente antireligioso dell’antica laïcité la possibilità di condurre con serenità questa riflessione può apparire difficile. Tuttavia, Benedetto XVI vuole provare a ripartire dalle aperture del presidente Sarkozy: «nel quadro istituzionale esistente e nel massimo rispetto delle Leggi in vigore, occorrerebbe trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita l’identità della Nazione. Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità. I presupposti socio-politici dell’antica diffidenza o persino ostilità svaniscono poco a poco» (Benedetto XVI 2008o). È almeno, per usare una parola cara sia al presidente Sarkozy sia a Benedetto XVI, una speranza.
6. Le radici dell’Europa vanno ravvivate
Uno dei temi cari a Benedetto XVI è la contemporaneità del politeismo. Potrebbe sembrare – il Papa ne ha trattato in modo approfondito nel corso del viaggio in Australia – che gli ammonimenti del Signore al popolo ebraico nell’Antico Testamento perché rifugga dal politeismo e dall’adorazione di molti falsi dèi non abbiano nulla da dire ai giovani di oggi. È precisamente il contrario: solo che oggi il politeismo non si manifesta nelle «divinità dell’Olimpo» (Benedetto XVI 2008i) ma in idoli che si chiamano ricchezza, sesso, potere e anche relativismo e secolarismo. Il «culto degli idoli» è dunque ancora ben presente oggi, e «distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza» (ibidem). Le radici cristiane dell’Europa fondano una cultura del monoteismo che si oppone agl’idoli. Oggi queste radici, che come si è visto sono ancora presenti ma rischiano di essere dimenticate o negate, vanno ravvivate con un programma sistematico di evangelizzazione.
Di questo programma sistematico Benedetto XVI propone quattro tappe. La prima si ricollega direttamente all’esperienza dei monaci, e invita – nell’imminenza di un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata alla Sacra Scrittura, e in un Paese dove le statistiche sull’ignoranza religiosa sono allarmanti – a studiare la Parola di Dio, tornando alla «celebre formula di san Girolamo» (347-420) secondo cui «ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Benedetto XVI 2008e). Per evitare tuttavia – secondo un rischio che abbiamo visto come già presente ai monaci – che l’interpretazione diventi arbitrio soggettivo, l’incontro con le Scritture dovrà essere mediato dalla catechesi, che «non è innanzitutto una questione di metodo, ma di contenuto» (Benedetto XVI 2008o). In un contesto dove si apprezza il «grande realismo» delle previsioni del «più grande catechista di tutti i tempi», san Paolo, secondo cui «verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2 Tm 4, 3-4), il Papa invita – come fa in tutti i suoi viaggi – all’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica e del relativo Compendio come bussola sicura per rimanere fedeli alla dottrina cattolica.
La seconda tappa è la meditazione sulla Croce che, forse non a caso, Benedetto XVI propone proprio su quel sagrato della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi dove la presenza di una grande croce era stata contrastata nel novembre 2004 dal sindaco socialista (nonché militante omosessuale) della capitale francese, Bertrand Delanoë, per presunto contrasto con le leggi sulla laïcité in vigore (AFP 2004). «Molti di voi – dice il Papa ai giovani – portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo» (Benedetto XVI 2008f). Perché la croce non sia solo un ornamento, è obbligatorio che sia occasione di meditazione sulla passione di Cristo e sul peccato degli uomini che l’ha resa necessaria. E che dalla meditazione sul peccato fiorisca il desiderio della confessione, un altro tema che ricorre in tutti i viaggi di Benedetto XVI, a fronte di statistiche davvero desolanti – anche in Francia – sullo scarso numero di cattolici che si accostano al sacramento della penitenza. Ai vescovi il Papa chiede di esortare senza sosta i sacerdoti a rendersi disponibili con generosità per le confessioni, sull’esempio di un grande santo francese, il santo curato d’Ars Giovanni Maria Vianney (1786-1859: Benedetto XVI 2008o).
La terza tappa di un itinerario che mira a ravvivare la coscienza delle radici cristiane è la cura della liturgia. In Francia, certo, pochi vanno a Messa: senza che questa sia l’unica causa, ci si deve chiedere se la qualità della liturgia sia sempre quella che auspicavano gli antichi monaci, come si è visto assai severi nei confronti di canti o preghiere recitate male. «La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita» (Benedetto XVI 2008e). Come modello di amore per l’Eucarestia e la Messa Benedetto XVI addita un altro santo francese, l’apostolo dell’adorazione eucaristica san Pier Giuliano Eymard (1811-1868: Benedetto XVI 2008p). Si situano qui anche le riflessioni del Papa sull’accoglienza – o talora sulla non accoglienza – in Francia del suo Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, che liberalizza la celebrazione della Messa secondo la liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. Di fronte alle controversie che derivano in Francia dalla riluttanza di alcuni vescovi ad aderire al Motu Proprio il Papa invoca «l’indispensabile pacificazione degli spiriti» (Benedetto XVI 2008o), ma nello stesso tempo è costretto a ricordare che «non c’è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» (Benedetto XVI 2008a). Lo spirito del Motu Proprio non è quello di creare piccole enclave di sostenitori dell’antico rito, ma di favorire la qualità della liturgia in genere attraverso il «mutuo arricchimento» (ibidem) fra i due riti, che dunque dovrebbero essere entrambi conosciuti da molti fedeli, fermo restando che «la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo» (ibidem). Purtroppo, da questa situazione si è ancora lontani, forse non solo in Francia.
La quarta tappa è la devozione mariana. «I cattolici in Francia hanno più che mai bisogno di rinnovare la loro fiducia in Maria» (Benedetto XVI 2008g), riscoprendo le loro radici che si trovano a Notre-Dame, a Lourdes, e in mille altri luoghi mariani, e superando obiezioni che vorrebbero considerare la devozione alla Madonna come obsoleta, sentimentale o magari un ostacolo al dialogo ecumenico con le comunità protestanti. In realtà, «tutto è venuto da Cristo, anche Maria; tutto è venuto mediante Maria, lo stesso Cristo» (Benedetto XVI 2008p).
Come frutto del ritorno alle radici cristiane, Benedetto XVI spera – in un Paese dove questo, da anni, lascia a desiderare – in un rinnovato impegno politico dei laici nel quadro di un’Europa cui chiede di tutelare, meglio di quanto non stia facendo, «i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi» (Benedetto XVI 2008b). Leggi ostili alla vita si paludano, oggi, di richiami alla scienza. Nella sua visita all’Institut de France Benedetto XVI cita – come qualcosa che è stato affermato «molto giustamente» – un’espressione del Pantagruel (1532) di François Rabelais (1494?-1553): «Scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima» (Benedetto XVI 2008h). La famiglia – nel Paese che ha inventato nel 1999 i PACS (Patti Civili di Solidarietà), estesi anche alle coppie omosessuali, ma anche altrove in Europa –, appare dovere affrontare «oggi delle vere burrasche» (Benedetto XVI 2008o). «Da vari decenni le leggi hanno relativizzato in molti Paesi la sua natura di cellula primordiale della società. Spesso le leggi cercano più di adattarsi ai costumi e alle rivendicazioni di particolari individui o gruppi, che non di promuovere il bene comune della società. L’unione stabile di un uomo e di una donna, ordinata alla edificazione di un benessere terreno, grazie alla nascita di bambini donati da Dio, non è più, nella mente di certuni, il modello a cui l’impegno coniugale mira» (ibidem). Torna qui un ulteriore tema che Benedetto XVI tratta spesso: lo Stato ordinato al bene comune adatta le sue leggi alla legge naturale; lo Stato relativista è semplicemente il notaio che prende atto di quanto – dalle unioni omosessuali alla poligamia – nella società già si trova, e lo traduce in legge. E il clima creato dallo Stato relativista talora insidia anche la Chiesa, che pure sa di non avere il potere di cambiare norme «che le ha affidato il suo Fondatore» (ibidem). In tema di famiglia, «una questione particolarmente dolorosa, come sappiamo, è quella dei divorziati risposati. La Chiesa, che non può opporsi alla volontà di Cristo, conserva con fedeltà il principio dell’indissolubilità del matrimonio, pur circondando del più grande affetto gli uomini e le donne che, per ragioni diverse, non giungono a rispettarlo. Non si possono dunque ammettere le iniziative che mirano a benedire le unioni illegittime» (ibidem).
La testimonianza di un numero socialmente significativo di laici cattolici nel campo della politica e delle leggi – sulla base di un’integrità di dottrina che oggi è minacciata – è, come si è accennato, un frutto che non potrà che venire al termine di un itinerario di cui la catechesi, la confessione, la Messa e la devozione mariana non sono momenti esortatori e in qualche modo superflui, ma sono i passaggi indispensabili e cruciali. Per riprendere il titolo dell’opera di dom Chautard citata dal Papa a Lourdes, L’anima di ogni apostolato è la vita spirituale, senza la quale non si dà propriamente apostolato neppure in campo sociale e politico. Nella Messa solenne per il 150° anniversario delle apparizioni di Lourdes, il Papa cita la sua stessa enciclica Deus caritas est, che al n. 36 si esprime in termini molto vicini all’insegnamento di dom Chautard: «Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione» (Benedetto XVI 2008m).
Riferimenti
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Introvigne, Massimo. 2008. «Tutti i buchi dell’Inchiesta». Avvenire, 24-9-2008.
Sarkozy, Nicolas. 2004. La république, les religions, l’espérance. Entretiens avec Thibaud Collin et Philippe Verdin. Cerf, Parigi [trad. it. La Repubblica, le Religioni, la Speranza. Conversazioni con Thibaud Collin e Philippe Verdin, Nuove Idee, Roma 2005].
25/10/2008 10:07 – INDIA - Io, Sr Meena, violentata dagli indù, mentre la polizia stava a guardare - di Meena Barwa - Riportiamo di seguito la dichiarazione che Sr Meena Barwa ha letto ieri all’ Indian Social Institute. La suora vincendo lo stato di choc e il pudore, per la prima volta dopo due mesi dall’accaduto, ha accettato di parlare delle violenze e dello stupro che ha subito ad opera di gruppi di radicali indù lo scorso agosto, accuando la polizia dell’Orissa di connivenza con gli assalitori. Sr Meena lavorava al Centro pastorale Divyajyoti, a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal (Orissa), insieme a p. Thomas Chellan, anch’egli malmenato e umiliato. La dichiarazione pubblica di Sr Meena era necessaria perché la polizia in Orissa sta cercando di coprire il caso. Fra i fondamentalisti indù vi sono anche coloro che dicono che la suora fosse “consenziente” allo stupro.
New Delhi (AsiaNews) – Ecco la dichiarazione completa di Sr Meena Barwa (traduzione dall’inglese di AsiaNews).
Il 24 agosto scorso, verso le 4.30 del pomeriggio, sentendo le urla di una grande folla alle porte del Centro pastorale Divyajyoti, sono corsa fuori, dalla porta di servizio e fuggita nella foresta insieme ad altri. Abbiamo visto la nostra casa distruggersi fra le fiamme. Verso le 8.30 di sera siamo venuti fuori dalla foresta e andati nella casa di un signore indù che ci ha ospitato.
Il 25 agosto, verso 1.30 del pomeriggio, una folla è entrata nella stanza della casa dove stavo, uno di loro mi ha afferrato la faccia e poi trascinandomi per i capelli mi ha portato fuori. Due di loro mi tenevano il collo per tagliarmi la testa con un’ascia. Altri li consigliavano di portarmi fuori in strada; [lì] ho visto p. Chellan portato fuori e picchiato. La folla era composta da 40-40 uomini armati di lathis [bastone con punte di ferro, usato nelle arti marziali – ndr], asce, lance, bastoni, sbarre, falci, ecc… Ci hanno preso entrambi e portati sulla strada principale. Poi ci hanno portato alla casa Janavikas, che era stata bruciata, dicendo che ci avrebbero gettato nelle fiamme.
Giunti alla casa Janavikas, essi mi hanno gettata a terra sulla veranda, sul percorso che porta alla sala da pranzo, pieno di cenere e di vetri rotti. Uno di loro mi ha strappato la camicetta e altri i miei indumenti intimi. P Chellan ha protestato e loro lo hanno picchiato e trascinato lontano. Loro mi hanno tolto il sari e mentre uno mi bloccava il braccio destro e un altro quello sinistro, un terzo mi ha violentato sulla veranda a cui ho accennato. Quando è finito, sono riuscita ad alzarmi, e a mettermi la sottogonna e il sari. Poi un altro giovane mi ha afferrato e mi ha portato in una stanza vicina alle scale. Ha aperto i suoi pantaloni e ha tentato anche lui di stuprarmi, ma poi è stato raggiunto da altri.
Mi sono nascosta sotto le scale. La folla gridava: “Dov’è la suora? Venite, violentiamola, almeno 100 persone dovrebbero stuprarla”. Mi hanno scoperto dietro la scala e mi hanno portato sulla strada. Lì ho visto p. Chellan inginocchiato e la folla che lo picchiava. Loro cercavano una corda per legarci insieme e bruciarci vivi. Qualcuno ha suggerito di portarci in processione nudi. Ci hanno fatto camminare sulla strada fino al mercato di Nuagoan, che era a mezzo chilometro di distanza. Ci hanno legato insieme per le mani e fatto camminare. Io avevo indosso la sottoveste e il sari, perché prima mi avevano spogliato della camicetta e degli indumenti intimi. Hanno allora cercato di denudarmi ancora e siccome io resistevo, hanno cominciato a picchiarmi schiaffeggiandomi sul viso e sul capo, e dandomi diversi colpi di bastone sulla schiena.
Quando abbiamo raggiunto il mercato, nella zona vi erano una diecina di poliziotti. Sono andata lì chiedendo loro di proteggermi e mi sono seduta fra due poliziotti, ma essi non si sono mossi. Uno della folla è arrivato e mi ha trascinato via da lì: volevano rinchiuderci nel recinto [Mandap] del tempio. La folla ha trascinato me e p. Chellan all’edificio di Nuagaon, dicendo che ci avrebbero consegnato al Bdo [Block Development Officer, il responsabile della zona]. Da lì, insieme al Bdo, la folla ci ha portato alla stazione di polizia di Nuagaon, intanto altri poliziotti rimanevano distanti.
La folla ha detto poi che sarebbero tornati dopo aver mangiato e uno di loro che mi aveva attaccato è rimasto nella stazione di polizia, dove poi sono giunti gli altri poliziotti. Essi si sono messi a parlare in modo molto amichevole con l’uomo che mi aveva attaccato, stando lontano da noi. Siamo rimasti nella stazione di polizia fino a che l’ispettore capo di Balliguda, non è giunto con il suo gruppo per portarci a Balliguda. Essi avevano paura di portarci direttamente alla stazione di polizia e ci hanno tenuto per un certo tempo nella jeep. Poi, dal garage, ci hanno portato alla stazione. L’ispettore capo e altri rappresentanti del governo mi hanno preso in privato e chiesto cosa mi era accaduto. Io ho raccontato loor tutto in dettaglio: l’0attacco, lo stupro, l’essere strappata dalla polizia per farmi camminare seminuda nella strada e come i poliziotti non mi hanno aiutata quando ho chiesto loro aiuto piangendo a dirotto. Ho visto che l’ispettore scriveva tutto. Poi mi ha domandato: È interessata a stendere una denuncia? Sa quali possono essere le conseguenze?.
Alle 10 di sera sono stata presa e accompagnata da un poliziotto donna sono stata portata all’ospedale di Balliguda per un check-up medico. Essi avevano paura di tenerci alla stazione di polizia, dicendo che la folla avrebbe potuto attaccarli. Così la polizia ci ha portato nell’ Ib (Inspection Bungalow), dove dei poliziotti del Crp [Central reserve police] erano accampati.
Il 26 agosto, verso le 9 del mattino, siamo stati portati alla stazione di polizia di Balliguda. Mentre scrivevo la mia denuncia, l’ispettore mi diceva: Questo non è il modo di scrivere, lo faccia più breve. Così l’ho riscritta fino a tre volte, riducendola a una pagina e mezzo. L’ho consegnata, ma non mi hanno dato copia.
Alle 4 del pomeriggio, l’ispettore capo della stazione di polizia di Balliguda, insieme ad alcuni rappresentanti del governo, ci hanno messo su un pullman pper Bhubaneshwar, insieme ad altri sparuti passeggeri. La polizia è rimasta fino a Rangamati, dove tutti i passeggeri hanno preso la cena. Dopo di allora non ho più visto un poliziotto. Siamo scesi vicino a Nayagarh e lì, viaggiando su veicoli provati, abbiamo raggiunto Bhubaneshwar il 27 agosto alle 2 di notte.
La polizia di stato non ha fermato i crimini, non mi ha protetto da quelli che mi hanno assalito, erano amici degli assalitori. Essi hanno fatto di tutto perché io non registrassi alcuna denuncia, non mi lamentassi contro la polizia; la polizia non ha stilato tutto il mio racconto mentre lo raccontavo loro in dettaglio e mi hanno abbandonato a metà strada. Sono stata stuprata, ma adesso non voglio essere vittima anche della polizia dell’Orissa. Voglio un’inchiesta su questo.
Dio benedica l’India, Dio benedica tutti voi.
Sr Meena
SCUOLA/ Contro le false letture, ecco il declino delle elementari dopo l’abolizione del maestro unico - Giuseppe Valditara - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento tenuto in aula dal Senatore Giuseppe Valditara lo scorso 22 ottobre in cui si spiega, dati alla mano, la reale situazione della nostra scuola elementare, in questi giorni confusamente mitizzata. Un’analisi meticolosa, in cui si fa preciso riferimento anche a quanto emerge dal “Libro bianco” di Fioroni
«L'Unità» titolava il 24 settembre scorso: «L'OCSE sbugiarda la Gelmini: ottima la scuola elementare». Nel corso dell'articolo si leggeva, però, solo che l'Italia è il Paese che più spende per la sua scuola elementare (6.835 dollari per alunno, contro la media OCSE di 6.252): dunque, «l'Unità» ha scambiato l'eccellenza con il costo, cosicché la scuola elementare sarebbe eccellente in quanto molto costosa; un criterio assai discutibile.
Interessante, per altro, un dato tratto dal Libro bianco di Fioroni, che cito testualmente: «È più alta in Italia rispetto ad altri Paesi, sia per la matematica, sia per la lettura, la percentuale di studenti poveri di competenze (che non raggiungono il livello necessario per svolgere i compiti più elementari)». Ciò non solo con riguardo ai quindicenni. Si legge anche: «analoghe difficoltà si segnalano, infatti, anche per gli studenti di scuola secondaria di primo grado (medie)».
Una rilevazione INVALSI del dicembre 2005 avente ad oggetto studenti di prima media non a caso rilevava che solo uno studente su quattro sapeva calcolare il perimetro di un triangolo (che si dovrebbe imparare alla scuola elementare), due su tre ignoravano la forma di un triangolo rettangolo, uno su tre ha sbagliato addirittura le addizioni con calcoli decimali.
Già questi dati dovrebbero far riflettere chi parla di scuola elementare ottima.
Vi sono però altri dati interessanti. Il TIMSS 2007, che analizza i risultati ottenuti dagli studenti di quarta elementare in matematica, colloca il nostro Paese al quindicesimo posto su 22 Paesi partecipanti al test, dietro Cipro e la Repubblica Moldava, con un arretramento notevole rispetto agli anni Settanta. Ma soprattutto, a fronte di Paesi che hanno il 38 per cento di alunni che raggiungono rendimenti avanzati, l'Italia è fanalino di coda con solo il 6 per cento di studenti con prestazioni di eccellenza. Non diversamente nelle scienze. Se, infatti, Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone oscillano fra il 12 e il 15 per cento di studenti che hanno livelli avanzati di prestazioni, l'Italia si colloca appena sopra la media con il 9 per cento.
Come sottolineano i rapporti internazionali, la scuola elementare italiana manca di «politiche educative che incentivino l'eccellenza negli studenti».
Con riguardo alla lettura le cose stanno diversamente: siamo all'ottavo posto. Ma se andiamo a leggere la rielaborazione dei dati fatta da Mauro Laeng e da Aldo Visalberghi su analoghe rilevazioni internazionali degli anni Settanta vediamo un arretramento di tre posizioni: negli anni Settanta eravamo al quinto posto.
Che la scuola elementare italiana con il maestro unico fosse fra le migliori d'Europa lo riconosceva esplicitamente l'onorevole Soave del PCI-PDS intervenendo in Aula alla Camera dei deputati in sede di dichiarazione di voto sulla legge che introduceva i tre maestri nel 1990.
Insomma, una prima conclusione è che con i tre maestri, nonostante la enorme lievitazione dei costi, i risultati non sono migliorati anzi sono persino peggiorati. Ciò spiega perché nessun Paese europeo abbia adottato il modulo. In alcuni Paesi europei vi è semmai un insegnante prevalente che svolge 1'80-90 per cento della didattica e insegnanti con competenze particolari (lingua straniera, informatica eccetera). […]
Perché dunque è stato introdotto in Italia il modulo con i tre maestri? Sono andato a rileggermi l'intervento di Ortensio Zecchino, all'epoca senatore democristiano e poi ministro dell'università nei Governi D'Alema e Amato, che votò contro la legge del 1990 voluta fortemente dalla sinistra democristiana e condivisa ideologicamente dal PCI-PDS. Affiorano considerazioni più che mai attuali: «La riforma che ci apprestiamo a varare consegna al Paese una scuola elementare che con la sua nuova organizzazione contrasta con la pressante esigenza del nostro tempo di offrire un sapere unitario, quale valore etico ed insieme esigenza utilitaristica legata quest'ultima alla flessibilità professionale che sempre più spesso si impone nell'arco di una stessa vita lavorativa e che può essere soddisfatta soltanto sul presupposto di un'autentica formazione di base». E ancora: «frantumiamo l'insegnamento per affidarlo ad una pluralità di insegnanti con identica preparazione di base». Ed ecco arrivata la risposta al nostro quesito: alla base del modulo vi è «la pressione di quanti hanno inteso così tutelare in modo improprio interessi di categoria»... «stando così le cose» - continuava l'onorevole Zecchino - «non resta che prendere atto dell'esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale... svalutando il momento formativo e culturale».
Era la stessa ispirazione di altre leggi che in quegli stessi anni hanno, quelle sì, devastato la scuola italiana imponendo un reclutamento fondato su corsi abilitanti di poche ore, prescindendo dal merito e dalla selezione.
La pedagogia che ha ispirato il modulo con i tre maestri, al di là di qualche buona intenzione, ha finito comunque con l'esprimere una tendenza verso il relativismo culturale e verso la banalizzazione della professionalità, direi pure che ha favorito lo scadimento della professionalità. Era la pedagogia che ispirava soprattutto la posizione del PCI-PDS che si risolse a votare contro la legge del 1990 solo perché essa conteneva la figura dell'insegnante prevalente che, leggo testualmente nell'intervento del Capogruppo comunista in Commissione: «svalutava la rilevanza del lavoro di gruppo» e prevedeva livelli differenziati di impegno didattico fra i maestri.
Proprio per venire incontro alle critiche dei comunisti e alle pressioni sindacali la circolare attuativa violò la legge (perché la legge del 1990 introduceva il maestro prevalente e non il modulo) ed eliminò la figura dell'insegnante prevalente imponendo il team di insegnanti con pari competenze ed impegno. La suddetta circolare attuativa, sotto il ricatto dei sindacati e del Partito Comunista, violò una legge dello Stato.
Le perplessità su questo modello organizzativo erano emerse del resto già nella 7a Commissione del Senato nella XIII legislatura, all'interno della stessa maggioranza di centrosinistra. In una risoluzione votata nel maggio 1997 si legge che «occorre ovviare ai rischi di frammentazione e secondarizzazione dell'insegnamento elementare». Dopo aver quindi rifiutato l'eccesso di specializzazione, si sottolineava come «ai fini della qualità del rapporto educativo fra insegnanti ed alunni va risolto il problema della necessità di contenere entro limiti accettabili il numero delle figure docenti che intervengono per gruppi di alunni». Persino nel Libro bianco di Fioroni si legge un passaggio interessante, laddove, dopo aver stigmatizzato l'enormità della spesa per studente, si osserva che essa deriva fra l'altro da specifiche previsioni normative e al riguardo si fa riferimento esplicito «all'organizzazione dell'insegnamento nella scuola elementare», concludendo che questa spesa molto elevata «è il segno di problemi e di notevoli spazi e opportunità di miglioramento nella allocazione delle risorse».
Rivoluzione milanese: un nuovo sistema di Welfare - Redazione - sabato 25 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ancora una volta Milano dimostra di essere il punto di maggior innovazione politica e amministrativa in Italia.
Recependo un chiaro indirizzo della Regione Lombardia, la Giunta Moratti, ha fatto una scelta di fondo a favore del sistema di accreditamento per tutti i servizi di sua competenza, superando l’ormai inadeguato sistema di bandi e appalti che ha finora regolato il rapporto Comune/Terzo settore/Cittadino.
In particolare, oltre ad aver definito le linee guida di accreditamento valide per tutta l’Amministrazione, ne è stata avviata una robusta sperimentazione - certamente la più significativa nel Paese in ambito sociale - per l’assistenza domiciliare ad anziani, minori e disabili.
L’introduzione di tale architettura finalmente riconosce e valorizza la libertà di scelta dei singoli cittadini e il contributo indispensabile del Terzo settore alla vita della società.
I beneficiari del servizio, infatti, possono scegliere tra un’ampia platea di soggetti accreditati per qualità dei servizi mentre le associazioni e le cooperative vedono stabilizzata la propria posizione nei confronti del Comune, non dovendo più dipendere dall’esito alterno di continui bandi ed essere trattati come subfornitori di servizi a basso costo.
L’Amministrazione si concentra quindi sulla funzione di indirizzo, stabilendo i requisiti di accreditamento e su quella di controllo rispetto ai risultati delle prestazioni effettuate. I soggetti accreditati escono pertanto dal sistema solo in seguito all’accertamento del Comune del mancato rispetto dei requisiti in convenzione, fortemente incentrati sulla qualità della prestazione (nel caso della sperimentazione, sul miglioramento delle condizioni delle persone assistite).
Sono ancora molti i passi da compiere per costruire un sistema ancora più corrispondente alla complessità dei bisogni della gente e superare gli schemi con i quali finora si è ragionato. Oltre alla rapida introduzione di voucher che avverrà appena il sistema sarà rodato, speriamo di poter presto budgettizzare il servizio superando la rendicontazione oraria.
Il prossimo anno, tra l'altro, estenderemo l'accreditamento anche ad asili e scuole, ambiti che ben si prestano a tale impostazione.
Quanto sta accadendo a Milano va certamente in scia a quella “Vita buona in una società attiva” prospettata dal Ministro Sacconi nel Libro Verde sul Welfare, uscito in questi mesi e manifesto programmatico di una politica sociale finalmente unitaria e con la famiglia al centro delle politiche attive.
Il sistema di accreditamento, rispetto alla struttura attuale, richiede maggior responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti ma Comune, Terzo settore e singoli cittadini sapranno rispondere al proprio compito con quella “milanesità” che da sempre ha contraddistinto tutte quelle piccole e grandi “rivoluzioni” nate a Milano.
(Lorenzo Malagola, consigliere comunale di Milano)
SVEZIA/ Commissione etica: “la Lego fa giocattoli sessisti” - INT. Alessandro Meluzzi - sabato 25 ottobre 2008 - IlSussidiario.net
Un'intera commissione per decidere la “pericolosità” o meno dei giocattoli “Lego”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti delle dimensioni dei mattoncini facilmente ingoiabili dai bambini al di sotto dei tre anni, ma (purtroppo) non è così. In ballo c'è una preoccupazione etica. Pare infatti che gli omini con la faccia sempre sorridente e le mani a forma di chiave inglese siano ritenuti, in Svezia, troppo “sessisti”. La loro pubblicità infatti riguarda, stranamente, i maschietti quando si parla di fortini e castelli medioevali assediati e le femminucce quando ci sono in ballo camerette rosa invase da pony colorati e principessine. Una situazione che, secondo gli Svedesi, è dichiaratamente classista e discriminatoria. Ma c'è (per fortuna) anche chi non la pensa così.
Dottor Meluzzi, in Svezia un consiglio etico imposto alla Lego di evitare di fare confezioni prettamente sessiste, e di favorire immagini che possano coinvolgere i gusti di entrambi i generi che cosa gliene pare?
È una proposta del tutto diseducativa. Ritengo che la creazione dell'identità di genere sia una ricchezza della natura umana e quindi credo che il fatto che la natura sia composta di maschile e di femminile in termini non soltanto biologici, ma anche emotivi, simbolici e relazionali, sia soltanto una qualità non solo per gli esseri umani, ma anche per tutti gli esseri viventi.
In che cosa consiste la qualità nella differenza fra sessi?
Il fatto che la vita sia ancorata a un fenomeno complesso come la meiosi, cioè l'incontro tra gameti maschili e femminili, per aumentare la variabilità, l'imprevedibilità, la creatività e la libertà, rappresenta un passaggio evolutivo in avanti, un progresso. La natura ci ha voluti maschi e femmine con i diversi caratteri in tutte le specie viventi, salvo le amebe e i batteri. A meno che non si voglia che l'uomo regredisca allo stato di procariote, ritengo assurde tutte le azioni politically correct tese a cancellare una simile differenza. Assimilare i generi da un punto di vista simbolico, culturale e identitario è un'operazione pericolosa non solo perché produce la tendenza alla confusività, con tutto quello che ne consegue, ma anche perché mortifica una ricchezza fornitaci dalla vita stessa. Cercare di costruire un mondo in cui tutti devono giocare con le bambole o tutti con il meccano appare un tentativo utopistico e irrazionale.
Una simile impostazione ideologica potrebbe compromettere anche la naturale inclinazione sessuale?
Non è necessariamente detto perché può capitare che alcuni ragazzini giochino con le bambole o, viceversa, alcune bambine giochino con i soldatini, senza che questo significhi per forza un'inversione della polarità dei desideri sessuali.
Però il fatto che esistano riti “iniziatici” di maturità e di passaggio, declinati nell'uno e nell'altro sesso, è stato finora uno dei fattori di organizzazione del mondo. Un'organizzazione che non si può certo definire “sbagliata”!
Perché rispecchia l'organizzazione della natura?
Sicuramente, e in particolar modo nella sua funzione principale che è la trasmissione della vita.
Questa strana preoccupazione espressa dalla commissione svedese rispecchia in un certo senso il modello ormai diffuso, soprattutto a livello pubblicitario, della donna mascolinizzata e dell'uomo effeminato?
Sì. È come se fosse passata nel tempo, insinuandosi nei più impensati interstizi della società, una cultura dell'unisex per la quale le particolarità individuali debbano essere sacrificate a una specie di presunta idea di livellamento. L'importante è non fare emergere la caratteristica di nessun individuo perché ciò potrebbe far sentire altri individui oggetto di discriminazione. Questo avviene per il maschio e per la femmina, ma riguarda una lunga serie di analoghe circostanze. Sotto il giusto principio che impedisce qualsiasi forma di discriminazione si commettono azioni assurde, come quella in questione, che hanno come obiettivo l'omologazione, la massificazione delle persone.
Perché, a suo avviso, ha preso piede questa tendenza?
La causa è l'enorme confusione ideologica presente oggi nel mondo. Si pensa che livellare tutto, come se fossimo in una specie di lager-infermeria, sia il modo migliore perché gli uomini siano più sicuri e più tranquilli. Si cerca quindi di trasformare la vita in una sorta di nursing generale. Una pericolosa idea che vuole azzerare le contraddizioni, i conflitti, le distinzioni e le particolarità, trasformando tutto in una melassa anestetizzata
Quali ne sono, a suo avviso, le radici culturali?
Si tratta di un retaggio ideologico che ha un'opinione positivista e illuminista dell'uomo unita all'idea neoromantica del futuro. È un atteggiamento che contiene dei nuclei di utopia della ragione e in definitiva è una delle ultime evoluzioni del giacobinismo in salsa pseudoprogressista.
Dal Sinodo dei vescovi appello per l'Oriente alla comunità internazionale - Giustizia e libertà religiosa - garantiscono la pace - Una reale libertà religiosa è garanzia della pace nella giustizia. È quanto affermano i Patriarchi e gli arcivescovi maggiori cattolici dell'Oriente, partecipanti all'assemblea del Sinodo dei vescovi, in un appello consegnato venerdì 24 ottobre a Benedetto XVI. – L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2008
"Cristo è la nostra pace" (Efesini 2, 14).
Nell'anno giubilare dell'apostolo Paolo, il Santo Padre Benedetto XVI ci ha radunati in Sinodo con i vescovi rappresentanti dell'intera Chiesa Cattolica.
Esprimiamo profonda riconoscenza al Papa per avere sempre prontamente e instancabilmente elevato la supplica a Dio e la voce in favore dei fratelli e delle sorelle dell'Oriente. Sul Suo esempio, anche noi, come discepoli di Cristo, padri e capi delle Chiese Orientali Cattoliche, rinnoviamo l'implorazione a Dio e facciamo appello a tutti perché sia confermato ogni intento per favorire ovunque la pace nella libertà, nella verità e nell'amore.
Avvertiamo nei cuori un fremito per le sofferenze di tanti nostri figli e figlie dell'Oriente: bambini e giovani; persone in difficoltà estrema per età, salute ed essenziali necessità spirituali e materiali; famiglie sempre più tentate dallo sconforto per il presente e per il futuro. E sentiamo il dovere di farci interpreti delle loro giustificate attese perché una vita dignitosa sia presto garantita a ciascuno in una proficua convivenza sociale.
Opera della giustizia è la pace! È un imperativo al quale non possiamo e non vogliamo sottrarci. Chiediamo, perciò, in particolare per la Terra Santa, che diede i natali a Cristo Redentore, per il Libano, l'Iraq e l'India la pace nella giustizia, di cui è garanzia una reale libertà religiosa.
Siamo vicini a quanti soffrono per la fede cristiana e a tutti i credenti impediti nella professione religiosa. Rendiamo omaggio ai cristiani che recentemente hanno perduto la vita in fedeltà al Signore.
Davanti al Papa e ai padri sinodali, incoraggiati dalla loro fraternità, presentiamo una vibrante richiesta:
- ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà perché pratichino il rispetto e l'accoglienza dell'altro nella vita quotidiana, facendosi prossimo di quanti sono nel bisogno, vicini e lontani;
- ai pastori e ai responsabili religiosi di predicare e favorire tale atteggiamento, appoggiando e moltiplicando le iniziative di mutua conoscenza, di dialogo e di soccorso;
- alla comunità internazionale e agli uomini di governo perché garantiscano a livello legislativo la vera libertà religiosa nel superamento di ogni discriminazione e l'aiuto a quanti sono costretti a lasciare la propria terra per motivi religiosi.
Si compia l'auspicio di Papa Benedetto XVI: "Possano le Chiese e i discepoli del Signore rimanere là dove li ha posti per nascita la divina Provvidenza; là dove meritano di rimanere per una presenza che risale agli inizi del cristianesimo. Nel corso dei secoli essi si sono distinti per un amore incontestabile e inscindibile alla propria fede, al proprio popolo e alla propria terra" (Benedetto XVI, in visita alla Congregazione per le Chiese Orientali il 9 giugno 2007).
"Cristo è la nostra pace". Questa divina Parola è portatrice di conforto e di speranza, e sprona a cercare vie nuove di pace, che trovino efficacia nella Benedizione di Dio. Via alla pace, noi pastori dell'Oriente, desideriamo possa essere l'umile ma accorato appello che poniamo nelle mani del Santo Padre, rendendo grazie a Dio e a quanti lo accoglieranno benevolmente.
Intercedano questo dono i santi apostoli Pietro e Paolo, e i martiri, vicini come siamo alle loro memorie romane. Sia potente avvocata la Santissima Madre di Dio: la Regina della Pace faccia giungere la nostra preoccupazione, i nostri intenti e le nostre preghiere a Cristo Signore e Dio, Principe della Pace.
Dal Vaticano, 24 ottobre 2008
CARI LAICI, LA FEDE MERITA RISPETTO - GIANNI GENNARI – Avvenire, 25 ottobre 2008
«Se la storia mette a disagio»: ieri su 'Repubblica' (p. 57) Corrado Augias replica con questo titolo alle osservazioni mosse qui l’altro ieri ad un articolo di Marco Politi che partendo da due libri suoi - di Augias - giungeva allegro a sostenere che oggi «la Chiesa ha paura». Di che? Del metodo storico-critico. E perché? Perché Benedetto XVI al Sinodo ha detto che esso è utile, benemerito e necessario, ma se usato col pregiudizio non scientifico, ma ideologico, che esclude ogni realtà divina, diventa inaccettabile per la fede cristiana. Paura? No! Ovvietà.
Il Papa poteva dire il contrario? Il metodo storico-critico è usato da più di un secolo anche dall’esegesi cattolica. Mezzo secolo fa, 1959, ragazzino di prima teologia, cominciai a studiare la Bibbia all’Università del Laterano, allora roccaforte della tradizione 'conservatrice', su testi come lo Strack Billerbeck, Simon Dorado e Zedda, metodo storico-critico ad ogni pagina… Il fatto è che Augias, pur di suo principiante in materia biblico-teologica, identifica con verità di critica storica le sue liberissime opinioni, anche se in termini di testi e vera storia, nero su bianco, sono smentite dai fatti. Libero, Augias, di non credere che Gesù sia Figlio di Dio, non libero di sostenere impudentemente - per iscritto nei libri, o a viva voce e faccia dolcemente sorridente a 'Che tempo che fa' - che Gesù non ha mai detto di essere Figlio di Dio e Dio stesso. Decine di citazioni testuali lo smentiscono, e la stessa accusa di 'bestemmia' che lo porterà alla Croce, «tu che sei un uomo dici di essere Dio» (Gv, 10, 33, e anche Mt. 9, 3 e 26, 66) stanno lì da 2000 anni, nei codici più antichi. Non ci crede?
Benissimo, ma ci sono lo stesso! Il disagio non viene dalla 'storia', ma dalle libere opinioni di Augias - chierichetti di casa a tappetino, pur diversi - spacciate come fatti incontrovertibili.
A proposito: qui apro una parentesi sui silenzi di Politi sulla libertà religiosa in Urss e Paesi satelliti. I suoi articoli dall’Est, e anche da Mosca, cominciano negli anni ’70, ben prima dell’era Gorbaciov, che del resto proprio nel primo discorso storico ribadì gli articoli 51 e 52 della Costituzione brezhneviana del giugno 1977, in cui la libertà religiosa era negata… Ma vale la pena di tornare alla sostanza.
Tesi ricorrente di Augias e compagnia di ballo in pagina e in Rai, è che nei testi di 'chiesa' cristiana si parla solo dopo il 135 e la seconda distruzione di Gerusalemme, e anche che la Trinità è un’invenzione successiva di secoli. Ebbene: metodo storicocritico alla mano, segnalo ad Augias, e se serve ai Pesce, Cacitti e Politi, che la prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, il testo indubitabilmente più antico del Nuovo Testamento, che risale agli anni 50/51 (cfr. gli studi di maestri del metodo storico-critico come G. Barbaglio, B. Rigaux, O. Kuss, J.M. Cambier e tanti altri) comincia con una decina di righe nelle quali si nomina «la chiesa dei Tessalonicesi», poi si leggono «Dio Padre», «Gesù Cristo nostro Signore» (in greco 'kyrios', termine tecnico per la divinità'), «lo Spirito Santo» e, guarda caso, anche «fede, speranza e carità», le tre virtù dette «teologali» perché divinizzano la nostra umanità.
Nero su bianco: in pratica c’è già tutto, e dall’inizio. Augias può dire che non ci crede, e spiegare le sue ragioni - è libertà - ma se scrive e dice che testi come questo non ci sono o è un falsario che inganna gli altri, o uno che scrive di cose che non conosce: scelga lui. A un non credente tutto il rispetto dovuto - nessun credente degno di questo nome scriverà che è «un cretino», come va di moda su 'Repubblica' e dintorni - ma di fronte ai falsi il disagio è naturale.
E senza alcuna paura della storia…