Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mentre a Roma si discute, il Québec è già stato espugnato - Era la regione più cattolica del Nordamerica, oggi è la più secolarizzata. Viene da lì il cardinale Ouellet, relatore generale al sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio. E anche a lì Benedetto XVI guarda, come a una nuova terra di missione - di Sandro Magister
2) 08/10/2008 09:01 – IRAQ - Mosul, continua il martirio dei cristiani iracheni - Ieri altre tre vittime – tra cui padre e figlio – uccise dai fondamentalisti perché colpevoli di “essere cristiani” in una terra dove è ormai in atto una “persecuzione sistematica” contro i non musulmani. Una fonte denuncia “il silenzio” dei media iracheni e l’immobilismo della comunità internazionale.
3) Alla vigilia del Kippùr - Il giorno dell'Espiazione - di Riccardo Di Segni - Rabbino capo di Roma, L’Osservatore Romano 8 ottobre 2008
4) UE/ Contro la crisi, la strada degli Eurobond. Così si superano le divisioni tra gli stati membri - Gianni Pittella - mercoledì 8 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
5) CRISI/ Socci: il giudizio del Papa ci riporta dalla virtualità al mondo reale - INT. Antonio Socci - mercoledì 8 ottobre 2008 – IlSuddiario.net
6) POLEMICA/ Quei pregiudizi infondati contro Pio XII - Luciano Garibaldi - mercoledì 8 ottobre 2008, IlSussidiario.net
Questa rassegna stampa e le precedenti possono essere lette anche nel blog http://rsgiorgio.blogspot.com/
Mentre a Roma si discute, il Québec è già stato espugnato - Era la regione più cattolica del Nordamerica, oggi è la più secolarizzata. Viene da lì il cardinale Ouellet, relatore generale al sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio. E anche a lì Benedetto XVI guarda, come a una nuova terra di missione - di Sandro Magister
ROMA, 8 ottobre 2008 – Nell'omelia della messa con cui domenica scorsa ha aperto il sinodo dei vescovi dedicato alle Sacre Scritture, Benedetto XVI ha ricordato che dal primo annuncio del Vangelo "scaturirono comunità cristiane inizialmente fiorenti, che sono poi scomparse e sono oggi ricordate solo nei libri di storia".
Ed ha aggiunto:
"Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca? Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna".
Si può indovinare che, tra queste nazioni un tempo rigogliosamente cristiane e oggi non più, papa Joseph Ratzinger pensi al Canada, e per l'esattezza al Québec.
Benedetto XVI ha affidato proprio all'arcivescovo di Québec, il cardinale Marc Ouellet, il compito di introdurre e chiudere i lavori del sinodo con due relazioni generali. E il cardinale Ouellet è testimone tra i più consapevoli e critici della metamorfosi che in pochi decenni ha riportato il cattolicissimo Québec a essere terra di missione.
Il Québec, con capitale Montréal, è la provincia più estesa del Canada, grande cinque volte l'Italia ma con meno di 8 milioni di abitanti. Parla francese e conservava fino alla metà del secolo scorso una forte impronta cattolica. I suoi fiumi e villaggi portano nomi di santi, le chiese sono numerosissime, le scuole e gli ospedali sono quasi tutti sorti per iniziativa religiosa. Fiorenti erano anche le vocazioni.
Ma a partire dagli anni Sessanta il crollo è stato verticale. Senza clamori, una "quiet revolution" ha trasformato il Québec in punta avanzata della secolarizzazione. Oggi meno del 5 per cento dei cattolici vanno a messa la domenica. I matrimoni religiosi sono pochi, i funerali sono in gran parte civili, i battesimi sempre più rari.
E le leggi codificano questo stato di cose in nome di un fondamentalismo laicista che è arrivato, quest'anno, a imporre in tutte le scuole statali e private del Québec – primo caso al mondo – un corso obbligatorio di "etica e cultura delle religioni" con docenti cui è vietato presentarsi come credenti e appartenenti a una comunità di fede. Nel corso si danno informazioni sulle principali religioni del mondo e si discute dei temi controversi, come l'aborto e l'eutanasia, con l'obbligo di non prendere posizione in un senso o in un altro.
"È la dittatura del relativismo applicata a partire dalle scuole materne", ha denunciato il cardinale Ouellet. Ma la sua è una voce isolata. L'80 per cento delle famiglie continua a richiedere l'insegnamento della religione cattolica, ma una sola scuola, la Loyola High School di Montréal, ha fatto ricorso alla corte suprema contro il corso obbligatorio ora imposto per legge.
Georges Leroux, il filosofo dell'Università di Montréal che ha progettato il nuovo corso, sostiene che "è ormai tempo di pensare alla trasmissione della cultura religiosa non più come fede ma come storia, come patrimonio universale dell'umanità".
Va notato che le leggi più lontane dalla dottrina della Chiesa sono state varate in Québec da maggioranze non radicali ma moderate. Anche la legge sull'insegnamento obbligatorio di "etica e cultura delle religioni" è stata approvata da un governo conservatore, del quale fanno parte dei cattolici.
Inoltre, la rivoluzione culturale che ha cambiato la faccia del Québec, da "quiet" che era, si è fatta ultimamente più ostile e sprezzante, contro chi le resiste. Ha detto il cardinale Ouellet in un'intervista ad "Avvenire" del 3 ottobre:
"Ho avuto una prova di questa avversione quando recentemente ho scritto una lettera aperta ai media, in cui tra l'altro chiedevo perdono a nome della Chiesa canadese, per ciò che in passato abbiamo sbagliato. Quella lettera ha suscitato una reazione di una vistosa ostilità".
Il cardinale Ouellet ha descritto e analizzato l'emblematico caso del Québec in un articolo sull'ultimo numero di "Vita e Pensiero", la rivista dell'Università Cattolica di Milano: articolo tanto più interessante in quanto uscito alla vigilia di un sinodo dei vescovi dedicato proprio a "come rendere sempre più efficace l’annuncio del Vangelo in questo nostro tempo".
Eccolo:
Dove va il Québec? A proposito di fede e laicità - di Marc Ouellet
Da subito dichiaro la mia convinzione che la crisi dei valori e la ricerca di significati sono così profonde e urgenti in Québec da avere delle ripercussioni gravi anche sulla salute pubblica, e questo genera costi enormi per il sistema sanitario. La società del Québec si poggia da quattrocento anni su due pilastri, la cultura francese e la religione cattolica, che formano l'armatura di base che ha permesso di integrare le altre componenti della sua attuale identità pluralista. Tuttavia, questa armatura è resa fragile dall'indebolimento dell'identità religiosa della maggioranza francofona.
Il dibattito attuale tocca direttamente la religione e le relazioni tra le comunità culturali, ma il vero problema non riguarda l'integrazione degli immigrati, resa più difficile dalle loro richieste di carattere religioso. Le statistiche rivelano che le richieste di accoglienza per motivi religiosi sono minime, il che significa che la ragione delle tensioni attuali è da ricercarsi altrove. Che non si addossi dunque la responsabilità della crisi profonda della società del Québec a coloro che vi sono arrivati alla ricerca di un rifugio o alla loro religione giudicata invasiva. I rifugiati e gli immigrati ci portano spesso la ricchezza della loro testimonianza e dei loro valori culturali, che si aggiungono ai valori propri della società del Québec. L'accoglienza, la condivisione e la solidarietà devono dunque rimanere atteggiamenti di base nei confronti degli immigrati e dei loro bisogni umani e religiosi.
Il vero problema, per riprendere l'espressione piuttosto vaga che incoraggia la diffusione dello slogan di moda "La religione nel privato o in chiesa ma non in pubblico", non è più quello del "posto che la religione occupa nello spazio pubblico". Che cos'è poi lo spazio pubblico? La strada, il parco, i media, la scuola, il comune, il parlamento nazionale? Bisogna forse far sparire dallo spazio pubblico il monumento dedicato a monsignor François de Laval e quello dedicato al cardinale Taschereau? Occorre bandire l'augurio "Buon Natale" dai seggi parlamentari e sostituirlo con "Buone Feste", per essere più corretti? I simboli religiosi caratteristici della nostra storia e quindi costitutivi della nostra identità collettiva sono diventati dei fastidi e dei brutti ricordi da mettere in un cassetto? Bisogna eliminarli dallo spazio comune per soddisfare una minoranza laicista radicale che è la sola a lamentarsene, in nome dell'uguaglianza assoluta dei cittadini e delle cittadine?
I credenti e i non credenti portano con sé il loro credo o il loro non credo in tutti gli spazi che frequentano. Sono chiamati a vivere insieme, ad accettarsi e a rispettarsi a vicenda, a non imporre il loro credo o non credo, né in privato né in pubblico. Togliere ogni segno religioso da un luogo pubblico identificato culturalmente secondo una tradizione ben definita con la sua dimensione religiosa non equivale forse a promuovere l'assenza di credo come unico valore avente diritto di affermazione? La presenza del crocifisso nel parlamento nazionale, al municipio e all'incrocio delle strade non è il segno di una qualsiasi religione di Stato. È un segno identificativo e culturale legato alla storia concreta di una popolazione che ha diritto alla continuità delle sue istituzioni e dei suoi simboli. Questo simbolo non è in primo luogo un segno confessionale, ma la testimonianza dell'eredità culturale di tutta una società marcata dalla sua vocazione storica di culla dell'evangelizzazione nell'America del Nord. Il governo della provincia canadese del Québec ha proprio di recente respinto una proposta per rimuovere il crocifisso dall'aula del parlamento.
Il vero problema del Québec non è dunque la presenza di segni religiosi o l'apparizione di nuovi segni religiosi invasivi dello spazio pubblico. Il vero problema del Québec è il vuoto spirituale creato da una rottura religiosa e culturale, dalla perdita sostanziale di memoria, che conduce alla crisi della famiglia e dell'educazione, che lascia le cittadine e i cittadini disorientati, demotivati, soggetti all'instabilità e attirati da valori passeggeri e superficiali. Questo vuoto spirituale e simbolico mina dall'interno la cultura del Québec, disperde le sue energie vitali e genera l'insicurezza e la mancanza di radicamento e di continuità con i valori evangelici e sacramentali che l'hanno nutrita sin dalle sue origini.
Un popolo la cui identità si è fortemente configurata durante i secoli sulla fede cattolica non può dall'oggi al domani svuotarsi della sua essenza, senza che vi siano degli esiti gravi a tutti i livelli. Da qui lo smarrimento dei giovani, la caduta vertiginosa dei matrimoni, l'infimo tasso di natalità e il numero spaventoso di aborti e suicidi, per non parlare che di alcune delle conseguenze che si aggiungono alle condizioni precarie degli anziani e della salute pubblica. Per finire, questo vuoto spirituale e culturale è mantenuto da una retorica anticattolica infarcita di cliché, che sfortunatamente si ritrova troppo spesso nei media.
Ciò favorisce una vera cultura del disprezzo e della vergogna nei riguardi della nostra eredità religiosa e distrugge l'anima del Québec. È giunta l'ora di domandarsi: "Québec, che ne hai fatto del tuo battesimo?". E giunta l'ora di frenare il fondamentalismo laicista imposto per mezzo dei fondi pubblici e ritrovare un equilibrio migliore fra tradizione e innovazione creatrice al servizio del bene comune. Si deve imparare di nuovo il rispetto della religione che ha forgiato l'identità della popolazione e il rispetto di tutte le religioni, senza cedere alla pressione degli integralisti laici che reclamano l'esclusione della religione dallo spazio pubblico.
Il Québec è maturo per una nuova evangelizzazione profonda, che si disegna in certi ambiti attraverso iniziative catechistiche importanti, come anche attraverso sforzi comunitari di ritorno alle fonti della nostra storia. Un rinnovamento spirituale e culturale è possibile se il dialogo tra Stato, società e Chiesa riprende il suo corso, costruttivo e rispettoso della nostra identità collettiva ormai pluralista.
* * *
Nel quadro di un dibattito sui "compromessi ragionevoli", non si può ignorare il cambiamento radicale che lo Stato del Québec ha appena introdotto a riguardo del posto della religione nelle scuole.
Questo cambiamento provoca lo smarrimento e la collera di molti genitori che si vedono privati, nel nome di un'ultima riforma e della modernizzazione del sistema scolastico del Québec, di un loro diritto acquisito. Senza tener conto del primato del diritto dei genitori e della loro volontà chiaramente espressa di mantenere la libertà di scelta tra un insegnamento confessionale e uno morale, lo Stato sopprime l'insegnamento confessionale e impone un corso obbligatorio di etica e di cultura religiosa nelle scuole sia pubbliche sia private.
Nessuna nazione europea ha mai adottato un orientamento così radicale che rivoluziona le convinzioni e la libertà religiosa dei cittadini. Da qui deriva il malessere profondo e il sentimento d'impotenza che molte famiglie provano nei confronti di uno Stato onnipotente che sembra non temere l'influenza della Chiesa e che può dunque imporre la sua legge senza condizionamenti superiori. La sorte più scandalosa è quella riservata alle scuole cattoliche private che si vedono costrette dal gioco delle sovvenzioni governative a marginalizzare il proprio insegnamento confessionale a vantaggio del corso imposto dallo Stato dovunque e a tutti i livelli.
L'operazione di rifocalizzazione della formazione etica e religiosa del cittadino per mezzo di questo corso obbligatorio riuscirà a salvare un minimo di punti di riferimento per assicurare una vita comune armoniosa? Ne dubito e sono anzi convinto del contrario, poiché quest'operazione si fa a spese della libertà religiosa del cittadino, soprattutto di quella della maggioranza cattolica. Inoltre essa si fonda esclusivamente su una "conoscenza" delle credenze e dei riti di sei o sette religioni. Dubito che degli insegnanti veramente poco preparati a raccogliere questa sfida possano insegnare con completa neutralità e in modo critico delle nozioni che sono per loro ancor meno comprensibili della loro stessa religione. Occorre molta ingenuità per credere che questo miracolo di insegnamento culturale delle religioni fabbricherà un nuovo piccolo abitante del Québec, un pluralista, un esperto in relazioni interreligiose e un critico verso tutte le fedi. Il meno che si possa dire è che la sete di valori spirituali sarà ben lungi dall'essere appagata e che una dittatura del relativismo rischia di rendere ancor più difficile la trasmissione della nostra eredità religiosa.
La cultura rurale del Québec espone una croce un po' dovunque all'incrocio delle strade. Questa "croce del cammino" invita a pregare e a riflettere sul senso della vita. Quale scelta s'impone ora alla nostra società perché lo Stato prenda delle decisioni illuminate e veramente rispettose della coscienza religiosa degli individui, dei gruppi e delle Chiese? Malgrado certe devianze dovute agli stimoli ricorrenti ma limitati del fanatismo, la religione rimane una fonte d'ispirazione e una forza di pace nel mondo e nella nostra società, a patto che non sia manipolata da interessi politici o perseguitata nelle sue aspirazioni legittime.
La riforma impone che la legge sottometta le religioni al controllo e agli interessi dello Stato, mettendo fine alle libertà religiose acquisite da generazioni. Questa legge non serve il bene comune e non potrà essere imposta senza che sia percepita come una violazione della libertà religiosa dei cittadini e delle cittadine. Non sarebbe ragionevole mantenerla com'è stata emanata, poiché instaurerebbe un legalismo laicista ristretto che esclude la religione dallo spazio pubblico. I due pilastri della nostra identità culturale nazionale, la lingua e la religione, sono chiamati storicamente e sociologicamente a spalleggiarsi o a crollare insieme. Non è giunto il momento in cui una nuova alleanza tra la fede cattolica e la cultura emergente ridia alla società del Québec più sicurezza e fiducia nell'avvenire?
Il Québec vive da sempre dell'eredità di una tradizione religiosa forte e positiva, esente da grandi conflitti e caratterizzata dalla condivisione, dall'accoglienza dello straniero e dalla compassione verso i più bisognosi. Bisogna proteggere e coltivare questa eredità religiosa fondata sull'amore, che è una forza di integrazione sociale molto più efficace della conoscenza astratta di qualche nozione superficiale di sei o sette religioni. È importante soprattutto, in questo momento, che la maggioranza cattolica si svegli, che riconosca i suoi veri bisogni spirituali e si riallacci alle sue pratiche tradizionali per essere all'altezza della missione che le è propria sin dalle sue origini.
08/10/2008 09:01 – IRAQ - Mosul, continua il martirio dei cristiani iracheni - Ieri altre tre vittime – tra cui padre e figlio – uccise dai fondamentalisti perché colpevoli di “essere cristiani” in una terra dove è ormai in atto una “persecuzione sistematica” contro i non musulmani. Una fonte denuncia “il silenzio” dei media iracheni e l’immobilismo della comunità internazionale.
Mosul (AsiaNews) – Ancora sangue cristiano a Mosul: ieri, martedì 7 ottobre, padre e figlio sono stati ammazzati nel quartiere di Sukkar mentre lavoravano. Amjad Hadi Petros e il figlio sono morti perché “colpevoli di essere cristiani” in una terra dove si registra ormai una “persecuzione sistematica”. In un secondo attacco, registrato in un altro quartiere della città, un gruppo fondamentalista è penetrato in una farmacia e ha ucciso un assistente anch’egli di religione cristiana.
Ieri vi avevamo raccontato dell’esecuzione, lunedì 6 ottobre, di Ziad Kamal, 25enne disabile e proprietario di un’attività commerciale in città. Il giovane, affetto da handicap, possedeva un negozio nel quartiere di Karama; egli è stato prelevato da un gruppo armato all’interno del suo negozio e condotto in un luogo poco distante, dove è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. E ancora, sabato 4 ottobre, altri due uomini erano stati barbaramente assassinati in due diverse zone di Mosul: Hazim Thomaso Youssif, di 40 anni, era stato freddato di fronte al negozio di abbigliamento di sua proprietà, mentre un giovane di 15 anni, Ivan Nuwya, era stato ucciso a colpi di pistola nel quartiere di Tahrir, davanti alla soglia di casa, di fronte alla locale moschea di Alzhara.
Una fonte anonima di AsiaNews a Mosul denuncia la “persecuzione sistematica” contro la comunità cristiana il cui unico desiderio è quello “di vivere in pace”, mentre da tempo è vittima di “esecuzioni mirate” a causa della “fede”. La fonte ribadisce “il silenzio” sui media locali e nella comunità internazionale “sul martirio” compiuto ai danni dei cristiani di Mosul e in tutto l’Iraq, e parla di una “solidarietà di facciata” mentre nel concreto non vi sono passi tangibili che dimostrino la precisa volontà di migliorare la situazione.
Il dato più preoccupante è che i fondamentalisti islamici – ai quali vengono imputati i recenti attacchi – sembrano aver preso di mira una parte ben precisa della comunità cristiana: i proprietari di negozi e attività commerciali nella cittadina a nord dell’Iraq. Un segnale chiaro dei terroristi che mirano a sradicare la comunità cristiana, azzerarne le attività economiche e costringere la popolazione ad andarsene.(DS)
Alla vigilia del Kippùr - Il giorno dell'Espiazione - di Riccardo Di Segni - Rabbino capo di Roma, L’Osservatore Romano 8 ottobre 2008
Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell'Espiazione - Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm - è il più importante dell'anno; in aramaico è yomà, "il giorno" per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. "Il giorno" cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest'anno corrispondente alla sera dell'8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l'altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l'espressione e il concetto di "capro espiatorio". Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d'obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché "in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore" (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell'anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l'obbligo principale dell'uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà; letteralmente è il "ritorno" ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l'intenzione di non commettere nuovamente l'errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell'uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un'esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l'intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell'impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d'inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore - dal quale sono esenti i malati - insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c'è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l'austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell'osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l'1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l'intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall'unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 8 ottobre 2008)
UE/ Contro la crisi, la strada degli Eurobond. Così si superano le divisioni tra gli stati membri
Gianni Pittella
mercoledì 8 ottobre 2008
La congiuntura economica sfavorevole e il clima di incertezza conseguente alla crisi dei mercati finanziari internazionali stanno determinando un preoccupante rallentamento dell'economia europea e condizionando negativamente l'attuazione degli investimenti previsti nel quadro della Strategia di Lisbona.
Uno scenario particolarmente complicato che sta frenando la competitività dell'Unione Europea e più in particolare della zona euro rispetto agli altri attori globali. Mi pare evidente che gli attuali strumenti di cui dispone l'Europa non le permettono di abbozzare una risposta adeguata al rilancio dell'economia.
Partendo da queste riflessioni ho presentato, insieme al collega Mario Mauro vicepresidente del Parlamento europeo, una Dichiarazione scritta: "Eurobond, nuova strategia per la crescita”. Un'iniziativa dal carattere bipartisan per chiedere alleistituzioni europee di promuovere un piano coordinato di investimenti capace di colmare il gap infrastrutturale che in molti Paesi dell'Unione è stato indotto dalle politiche restrittive necessarie per adeguarsi prima ai parametri di Maastricht e poi ai vincoli del Patto di stabilità.
Un piano che dovrebbe essere indirizzato ad ambiti strategici come le energie alternative, la banda larga, la ricerca e sviluppo, le reti trans europee di trasporto, il capitale umano.
Utilizzare gli Eurobond come strumento finanziario addizionale per sostenere la politica di investimenti pubblici infrastrutturali, è una proposta che per la prima volta viene dal Parlamento europeo. Sarebbe davvero importante trovare il consenso dell'assemblea parlamentare su una proposta tanto ambiziosa. Si tratterebbe di un forte segnale politico lanciato a Commissione e Consiglio per riflettere sull'introduzione di uno strumento che a differenza delle altre fonti di finanziamento comunitario, come la risorsa Iva o il prodotto nazionale lordo, non avrebbe alcun legame, per così dire, "nazionale", permettendo quindi all'Europa di non essere più condizionata dalla (scarsa) generosità degli stati nazionali in termine di risorse.
Le strade percorribili per introdurre gli Eurobond, come fonte di finanziamento collegata al bilancio comunitario, sono almeno due. Si potrebbe pensare a strumenti di garanzia, oppure a strumenti di debito veri e propri, sfruttando la forza che deriva dall’euro forte, garantiti dal bilancio comunitario e dalla Banca centrale europea.
L'idea é quella di riprendere il “Piano Delors”, perché il debito, se utilizzato con intelligenza, è un autentico volano della crescita. In questa maniera possiamo rafforzare la crescita dell'economia attraverso l'emissione di un grande prestito per lo sviluppo dell'Europa.
UE/ Contro la crisi, la strada degli Eurobond. Così si superano le divisioni tra gli stati membri - Gianni Pittella - mercoledì 8 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La congiuntura economica sfavorevole e il clima di incertezza conseguente alla crisi dei mercati finanziari internazionali stanno determinando un preoccupante rallentamento dell'economia europea e condizionando negativamente l'attuazione degli investimenti previsti nel quadro della Strategia di Lisbona.
Uno scenario particolarmente complicato che sta frenando la competitività dell'Unione Europea e più in particolare della zona euro rispetto agli altri attori globali. Mi pare evidente che gli attuali strumenti di cui dispone l'Europa non le permettono di abbozzare una risposta adeguata al rilancio dell'economia.
Partendo da queste riflessioni ho presentato, insieme al collega Mario Mauro vicepresidente del Parlamento europeo, una Dichiarazione scritta: "Eurobond, nuova strategia per la crescita”. Un'iniziativa dal carattere bipartisan per chiedere alleistituzioni europee di promuovere un piano coordinato di investimenti capace di colmare il gap infrastrutturale che in molti Paesi dell'Unione è stato indotto dalle politiche restrittive necessarie per adeguarsi prima ai parametri di Maastricht e poi ai vincoli del Patto di stabilità.
Un piano che dovrebbe essere indirizzato ad ambiti strategici come le energie alternative, la banda larga, la ricerca e sviluppo, le reti trans europee di trasporto, il capitale umano.
Utilizzare gli Eurobond come strumento finanziario addizionale per sostenere la politica di investimenti pubblici infrastrutturali, è una proposta che per la prima volta viene dal Parlamento europeo. Sarebbe davvero importante trovare il consenso dell'assemblea parlamentare su una proposta tanto ambiziosa. Si tratterebbe di un forte segnale politico lanciato a Commissione e Consiglio per riflettere sull'introduzione di uno strumento che a differenza delle altre fonti di finanziamento comunitario, come la risorsa Iva o il prodotto nazionale lordo, non avrebbe alcun legame, per così dire, "nazionale", permettendo quindi all'Europa di non essere più condizionata dalla (scarsa) generosità degli stati nazionali in termine di risorse.
Le strade percorribili per introdurre gli Eurobond, come fonte di finanziamento collegata al bilancio comunitario, sono almeno due. Si potrebbe pensare a strumenti di garanzia, oppure a strumenti di debito veri e propri, sfruttando la forza che deriva dall’euro forte, garantiti dal bilancio comunitario e dalla Banca centrale europea.
L'idea é quella di riprendere il “Piano Delors”, perché il debito, se utilizzato con intelligenza, è un autentico volano della crescita. In questa maniera possiamo rafforzare la crescita dell'economia attraverso l'emissione di un grande prestito per lo sviluppo dell'Europa.
CRISI/ Socci: il giudizio del Papa ci riporta dalla virtualità al mondo reale - INT. Antonio Socci - mercoledì 8 ottobre 2008 – IlSuddiario.net
«Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente». Erano parole non scritte nel discorso; eppure Benedetto XVI, introducendo i lavori del Sinodo dei Vescovi, ha voluto inserire, improvvisando, questo passaggio sulla stringente attualità della crisi finanziaria, che proprio lunedì, mentre il Papa parlava, stava vivendo uno dei giorni più bui. Un riferimento brevissimo, quasi «fulmineo», ma che è bastato, secondo Antonio Socci, per esprime «un giudizio culturale dirompente».
Socci, qual è la portata culturale di queste brevi parole che il Papa ha voluto dedicare al tema dell’attuale crisi finanziaria?
Il giudizio espresso dal Papa colpisce innanzitutto per la fulmineità: in poche e quasi scarne parole ha espresso un concetto che per semplicità di sguardo si impone al buon senso comune, ma al tempo stesso ne rovescia i criteri. Si tratta cioè di uno sguardo sulla realtà che è in qualche modo rivelativo, tipico della tradizione cristiana. Ciò che il Santo Padre ha fatto comprendere è che, sia nella prosperità che nelle circostanze nefaste, tutto passa, e l’unica cosa che resta è il rapporto con Cristo. Questo fa impressione, perché anche chi non è cristiano percepisce l’effimero della vita, il lato per così dire “leopardiano” dell’esistenza. È quindi un giudizio che magari può irritare o far polemizzare, ma va a cogliere una cosa che tutti possono constatare.
In cosa allora questo giudizio si differenzia dal normale “senso comune”?
La cosa positiva è il fatto che quello del Papa non è il grido disperato del nichilista, per cui tutto passa e quindi non vale la pena vivere; tutto passa, dice Benedetto XVI, ma una cosa resta, e quello che resta è la roccia, è Cristo. Questo libera dalla schiavitù delle circostanze, della storia e della cronaca, che sbattono le persone qua e là, come foglie al vento. È l’origine di una grande liberazione, perché indica qual è l’ancora grazie alla quale l’io può trovare la propria consistenza. Nel piccolo di una breve affermazione, emerge dunque un giudizio culturale dirompente. Nessuno può indicare una sola cosa al mondo che resta; ma questa rimane una constatazione con cui solitamente non si fanno i conti, se non in termini nichilisti, come invito al carpe diem.
Benedetto XVI non è il primo che rileva la profonda spaccatura culturale che questa crisi finanziaria sta aprendo. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, André Glucksmann ipotizzava addirittura la fine del post-moderno, con la sua ideologia secondo cui «una cosa diventa vera per il solo fatto che la diciamo»: cosa ne pensa di questo giudizio?
Direi che è troppo bello per essere vero. Non credo che questa crisi possa portare alla fine di questa ideologia. Certo, sarebbe bello se si arrivasse al superamento di una concezione della vita come pura virtualità. Ma il vero problema è che questa virtualità in cui noi tutti viviamo, prima che nell’economia – che pure ne è la struttura portante – si manifesta soprattutto nel circo mediatico: televisioni, internet, giornali. E questo mondo non è in crisi, e continuerà a dominare le nostre esistenze. Tutti viviamo in questo surrealismo di massa.
“Surrealismo di massa” è una strana espressione: che cosa significa?
Franco Fortini, in una bellissima introduzione a un libro sui poeti surrealisti francesi, diceva che la situazione in cui vivono soprattutto i giovani è proprio questo surrealismo di massa. Quello che negli anni Venti-Trenta era l’esperienza di alcune élites – si pensi ad esempio alla dimensione delle droghe – è diventata una situazione di massa. È la peste del nostro tempo, e gli effetti di questo li vediamo noi stessi nella fatica che facciamo nel ricapitolare i termini esatti della nostra esperienza. Parlando con qualcuno, soprattutto con i giovani (ma anche con gli adulti), basta chiedere un’opinione su una cosa qualsiasi: rispondendo esprimono uno sdoppiamento forte tra quello che pensano e quella che è la loro esperienza. Mentre la loro esperienza dice una cosa, la loro testa ne dice un’altra, proprio perché la testa è imbottita di questo mondo virtuale.
Se è la caratteristica fondamentale del mondo in cui tutti viviamo, significa che questa condizione riguarda anche i cristiani.
Questa è la mentalità dominante, è l’aria in cui tutti noi viviamo, anche i cristiani. Il cardinale Ratzinger, in un libro su Origene, disse che le “potenze dell’aria” di una volta, cioè le divinità pagane, ora non sono altro che l’opinione pubblica. I nostri figli ci nascono, e noi pure ci siamo dentro completamente. Questo effettivamente rende difficile anche vivere l’esperienza cristiana e fare un cammino. Poi ci sono momenti in cui la realtà butta in faccia tutto, e si torna a toccare terra coi piedi e a riaprire gli occhi; poi però immediatamente si ritorna alla tentazione di costruire un’identità fittizia o di fuggire in altri mondi. È un meccanismo molto complesso e difficilmente scardinabile. E questo accade anche perché l’uomo ha bisogno di fuggire: l’uomo riconosce l’esperienza vera, la realtà vera soltanto quando questa si presenta con un significato, con un ordine e con una sua bellezza. Altrimenti l’uomo di per sé ha come un automatismo che lo porta a fuggire, perché ha paura della morte e dell’effimero della vita, e non può dire in maniera indolore, come se nulla fosse, che tutto passa e tutto è niente.
Un altro intervento significativo sul tema delle cause culturali della crisi finanziaria è stato un recente editoriale del direttore di Repubblica Ezio Mauro, in cui l’autore introduceva un’immagine significativa: il broker per strada con lo scatolone in mano «esce dall'indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale». Non si salta però il passaggio che quel broker era ed è, prima che figura sociale, figura umana, persona?
Il punto è che siamo sempre alla ricerca di identità, di categorie e di schemi dentro cui collocare i fatti che accadono. Se si guarda all’accadere in sé del fatto, se ne coglie la drammaticità, e questo spaventa. Un conto è fare l’analisi sociologica, un conto è incontrare la persona per strada che ti chiede di aiutarla. Rispetto all’immagine del broker, mi viene in mente che il medesimo giudizio del Papa io l’ho sentito dire una volta da don Giussani, in una circostanza esattamente opposta. Ed è quella che illumina e fa capire ancora di più la profonda verità delle parole di Benedetto XVI. Giussani parlava con persone a lui vicine, in un momento di forte entusiasmo al termine di un Meeting di Rimini andato particolarmente bene. Nel mezzo dell’entusiasmo lui se ne uscì con una frase impressionante e vertiginosa: «tutto passa, l’unica cosa che resta è il tuo faccia a faccia con Cristo». E questo è anche il giudizio finale su tutta la nostra esistenza. Ma la cosa veramente impressionante è che egli lo disse in circostanze opposte a quelle attuali: quando tutto crolla questo è più evidente, ma il punto è saperlo affermare quando tutto va a gonfie vele. Ed è questo che permette di capire l’immenso valore di questo giudizio.
POLEMICA/ Quei pregiudizi infondati contro Pio XII - Luciano Garibaldi - mercoledì 8 ottobre 2008, IlSussidiario.net
Chi critica Pio XII accusandolo di non avere mai pronunciato, prima del crollo del nazismo, una solenne e pubblica condanna del razzismo hitleriano, evidentemente sa poco di Hitler, di Rosenberg («Il mito del XX secolo») e dei metodi della più implacabile dittatura di tutta la storia europea. Ma soprattutto ignora che la condanna di Eugenio Pacelli nei confronti del nazismo venne addirittura prima della presa del potere da parte di Hitler. E precisamente quando i vescovi tedeschi – con la piena approvazione dell’allora nunzio apostolico in Germania Pacelli – si erano pronunciati sulla inconciliabilità del nazismo con la fede in Cristo, e «L’Osservatore Romano», l’11 ottobre 1930, aveva proclamato l’appartenenza al NSDAP «incompatibile con la coscienza cattolica». Secondo una testimonianza di suor Pasqualina Lehnert nel suo libro «Pio XII: il privilegio di servirlo», Milano, 1984, Pacelli aveva letto «Mein Kampf» già nella sua prima edizione del 1925 ed aveva espresso su Hitler un severo giudizio: «Quest’uomo è completamente invasato. Tutto ciò che non gli è utile, egli lo distrugge. E’ capace di calpestare i morti. Eppure, tanti in Germania, anche tra le persone migliori, non lo capiscono. Chi di costoro ha almeno letto il raccapricciante “Mein Kampf”?».
A partire dall’indomani del Reichskonkordat (il concordato tra Stato tedesco e Chiesa, settembre 1933), e fino al 14 marzo 1937, data di pubblicazione dell’enciclica di Pio XI «Mit brennender Sorge», solenne condanna del nazismo, Eugenio Pacelli inviò ben 70 note di protesta al governo del Terzo Reich. Fu poi lui, nominato nel frattempo segretario di Stato, a scrivere, dalla prima riga all’ultima, la famosa enciclica, che Papa Ratti firmò il 14 marzo 1937 senza cambiare una virgola. Eletto Sommo Pontefice, ebbe subito cura di sostenere in ogni modo i vescovi tedeschi oppositori del regime hitleriano, in primis monsignor Clemens August von Galen, il vescovo di Münster che nel 1941, in piena guerra, aveva pronunciato tre prediche di durissima condanna del razzismo hitleriano, di fronte a migliaia di fedeli. Dopo quell’evento, che aveva avuto profonda eco sulla stampa di tutto il mondo, tutti attendevano, da un momento all’altro, l’arresto di Von Galen e la sua condanna a morte. Sull’organo delle organizzazioni giovanili delle SS, il Gauleiter della Westfalia, Alfred Mayer, aveva scritto: «Noi chiamiamo il porco Clemens August. Questo traditore della patria, questo porco ha osato parlare contro il Führer. Egli deve essere impiccato!». Ma le cose presero un’altra piega. Il 18 agosto 1941 Joseph Göbbels, il ministro della propaganda, ebbe un incontro con Martin Bormann, il gerarca più implacabile nel sollecitare l’arresto e l’impiccagione di Von Galen. In quell’occasione, lo invitò a non insistere: «L’intera Westfalia sarebbe persa per l’impegno bellico, se procedessimo ora contro il Vescovo». Pochi giorni dopo, Göbbels si recò da Hitler consigliandogli di rinviare ogni provvedimento. Così avvenne. Il Führer impartì personalmente l’ordine di non toccare Von Galen. In compenso, ebbe luogo una retata di 566 sacerdoti e 96 religiosi della diocesi di Münster, tutti rinchiusi nel Lager di Dachau, da cui pochi faranno ritorno. In quei giorni, ad Amburgo, tre sacerdoti furono decapitati per aver dato lettura, dal pulpito, delle tre prediche.
Questo era il nazismo. Se Pio XII avesse pronunciato una omelia sul tipo delle prediche di Von Galen, migliaia di sacerdoti sarebbero stati eliminati e l’organizzazione della Chiesa non avrebbe più potuto mettere in salvo gli ebrei che invece dovettero la vita – come lo stesso mondo israeliano riconosce – alle strutture della Chiesa.
Ciò tuttavia non impedì a Hitler di progettare la cattura di Pio XII. La rabbia del Führer contro il Papa esplose violenta nei giorni 25, 26 e 27 luglio 1943, durante le drammatiche conferenze militari convocate quasi ogni ora in seguito alla caduta di Mussolini e all'avvento di Badoglio. Devo queste notizie alle rivelazione fattemi dal generale Karl Wolff, capo delle SS e della polizia tedesca in Italia, nel 1983, un anno prima della sua morte. Ero andato ad intervistarlo per una serie di servizi a puntate usciti sul settimanale «Gente». Mi disse, tra l’altro: «Fui presente a tutte le conferenze, perché nel frattempo ero stato nominato rappresentante del Reichsführer Himmler presso il quartier generale. Poco prima della conferenza di mezzogiorno del 26 luglio 1943, quando ormai era chiaro che Mussolini era prigioniero del Re, Hitler puntò l'indice su di me urlando: "Lei, Wolff, a che punto è con il progetto per catturare il Papa? Deve riprenderlo immediatamente! Si tenga pronto a partire per Roma!"».
Della conferenza di quel giorno esiste peraltro il resoconto stenografico, pubblicato in «Hitler directs his war», a cura di Felix Gilbert, Oxford University Press, New York, 1950. Ecco i passi più interessanti, con le battute dei diversi interlocutori.
Hitler: «Bisogna restituire il colpo, e restituirlo facendo in modo di acchiappare il governo Badoglio al completo».
Hewel: «Dobbiamo comunicare o no che le uscite dal Vaticano saranno bloccate?».
Hitler: «Per me fa lo stesso, io il Vaticano lo occupo subito. Lei crede forse che il Vaticano mi metta soggezione? Lo occuperemo subito. C'è dentro l'intero corpo diplomatico, ma io me ne frego, più tardi faremo le nostre scuse. La banda è la dentro, e noi lo tireremo fuori, quel branco di porci!».
Bodenschatz: «La maggior parte si è rifugiata là dentro. Si credono al sicuro».
Hewel: «Ne troveremo, lì, di documenti!».
Hitler: «Lì? Ah, già, chissà quanti documenti troveremo. Ne caveremo fuori un bel po' di roba, sul tradimento».
Poche ore dopo quella tempestosa conferenza, arrivò il comunicato di Badoglio con la famosa frase «La guerra continua». Anche i primi rapporti dell'ambasciatore tedesco a Roma, Von Mackensen, rassicuranti sulla fedeltà all'alleanza da parte del Re d’Italia e del nuovo governo, intervennero a gettare acqua sul fuoco. Il Führer si limitò ad ordinare il massiccio invio di divisioni tedesche in territorio italiano, in attesa dell'evolversi degli avvenimenti. Di rapire il Papa, almeno per il momento, non si parlò più. Ma il progetto tornò caldo poche settimane prima della presa di Roma da parte degli Alleati. E anche in quella circostanza, il vero protagonista fu il generale Wolff che aveva ricevuto da Hitler l’ordine di catturare il Papa e trasferirlo in un castello del Liechtenstein (sull’esempio di quanto aveva fatto Napoleone con Pio VII, imprigionato a Savona). Fu Wolff, in quella lunga intervista durata giorni, a raccontarmi i trucchi da lui posti in atto per rinviare il più possibile la data del sequestro del Papa. Uno dei non pochi elementi che giocheranno a suo favore a Norimberga, facendogli guadagnare il pieno proscioglimento.
Infine, ultima ma non ultima annotazione: come ho dimostrato nel mio ultimo libro «Operazione Walchiria: Hitler deve morire» (edizioni Ares), Pio XII «non poteva non sapere» tutto del complotto del 20 luglio 1944, dato che il colonnello Von Stauffenberg, dieci giorni prima di cercare di uccidere il Führer, era andato a confessarsi, aveva ottenuto l’assoluzione e si era comunicato dal vescov di Berlino, Konrad Von Preysing, l’uomo di fiducia numero uno del Papa in Germania.
Alla luce di queste annotazioni storiche, appare del tutto fuori luogo, e frutto di mancata conoscenza degli eventi, l’esortazione del rabbino capo di Haifa, Shera Yshuv Cohen, al Sinodo dei Vescovi, di non avviare il processo di beatificazione di Pio XII.