martedì 20 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 19 Ottobre 2009 - Il messaggio di don Julián Carrón per la morte di don Giorgio Pontiggia (10 gennaio 1940 - 19 ottobre 2009) – Tempi.it
2) 19 Ottobre 2009 - Don Giorgio Pontiggia, il costruttore di uomini - In morte di un prete viscerale che ha tirato grandi migliaia di ragazzi insegnando che o Dio è tutto, o non è niente – di Luigi Amicone - Tempi.it
3) L’AIFA E LA RU 486: GARANZIE TEORICHE , RISCHI CONCRETI - Non si gioca con le parole né con la vita di figli e madri - FRANCESCO O GNIBENE – Avvenire, 20 ottobre 2009
4) Tiso: così si rende più difficile combattere l’aborto - Milano - Il direttore sanitario della Mangiagalli chiede linee guida: «La legge non può variare da Regione a Regione» - DA M ILANO - ENRICO N EGROTTI – Avvenire, 20 ottobre 2009
5) «L’informazione sia completa» - gli esperti - Il gruppo di studio Gisam: spiegare alla donna i rischi se non resta in ospedale. In caso non accetti, dovrebbe rinunciare - DA P ISA A NDREA B ERNARDINI – Avvenire, 20 ottobre 2009
6) Benedetto XVI: "L'Europa non permetta che il suo modello di civiltà si sfaldi" - Riceve il nuovo Capo della Delegazione della Commissione europea presso la Santa Sede - di Inma Álvarez
7) 6 ottobre 2009 – ilFoglio.it - L’ascia del vescovo pellerossa - Charles J. Chaput contro Notre Dame e l’illustre cardinale sedotto dall’abortista Obama
8) ESCLUSIVA/ La storia di mia figlia Holly, uccisa dalla Ru486 - Monty Patterson martedì 20 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
9) 19 Ottobre 2009 - Io e te. E i nostri sei figli unici - Camperisti per necessità, colf di se stessi e sempre con una lavatrice in funzione. Un giorno di ordinario e felice affollamento in una casa in cui la privacy è sepolta sotto i letti a castello – Tempi - di Laura Borselli
10) “Il sangue dell’agnello” – Cristiani perseguitati nel mondo - Autore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 19 ottobre 2009
11) Aborti tardivi, «Londra deve diffondere i dati» - LONDRA. Il movimento contro l’aborto britannico ha vinto ieri un’importante battaglia che costringerà ora il governo a rendere pubblici i numeri di aborti effettuati in tarda gravidanza di feti con anomalie non necessariamente gravi. - Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 20 ottobre 2009


19 Ottobre 2009 - Il messaggio di don Julián Carrón per la morte di don Giorgio Pontiggia (10 gennaio 1940 - 19 ottobre 2009) – Tempi.it

di Julian Carron
Il nostro carissimo don Giorgio Pontiggia ci ha lasciato. La sua dedizione totale all’educazione dei giovani nella sequela di don Giussani resterà sempre per noi una testimonianza unica.

Sono in tanti che oggi piangeranno la morte di un padre, uno che ha comunicato loro il significato del vivere. La sua passione per ciascuno di loro non potranno dimenticarla più. Quanti possono dire di avere incontrato attraverso di lui la fede come una cosa attrattiva e grande! Tutto in lui, fino al temperamento, diceva che essere cristiani significa essere uomini, senza censurare o dimenticare nulla.

Don Giorgio rimarrà per tutti noi un esempio di una sequela del carisma nell’oggi della vita del movimento: soprattutto negli ultimi anni, dopo la morte di don Giussani, era ancora più accanito nel volersi immedesimare coi passi che lo Spirito di Cristo continuava a indicare a ciascuno di noi per compiere la Sua opera nel mondo.

Domandiamo a don Giussani di ottenere per noi la stessa passione perché Cristo sia conosciuto e annunciato nel mondo che abbiamo visto in don Giorgio.

Milano, 19 ottobre 2009


19 Ottobre 2009 - Don Giorgio Pontiggia, il costruttore di uomini - In morte di un prete viscerale che ha tirato grandi migliaia di ragazzi insegnando che o Dio è tutto, o non è niente – di Luigi Amicone - Tempi.it
I funerali saranno celebrati mercoledì 21 ottobre alle h. 14.45 a Milano presso la parrocchia di Sant’Ignazio di Loyola (piazza Don Luigi Borotti 5 - ex via Pisani Dossi 25); il corteo funebre muoverà alle 14.00 dall'Istituto Sacro Cuore.


di Luigi Amicone
Don Giorgio e il Drago. Don Giorgio Pontiggia, prete in Milano, che se ne va a neanche settant’anni. E il Nemico dell’uomo di nuovo atterrato dalla lancia di un cristiano. Scusa, lettore, se mi prendo le pagine leggere della “Rosa dei Tempi” per dire due parole di una morte pesante. Scusa, perché se una sera di quarant’anni fa esatti io sono stato ri-partorito alla vita, questo è successo perché ho incontrato don Giorgio Pontiggia. Adesso, nei prossimi giorni, mesi, anni, verranno giù le cateratte. Verranno giù dalle Americhe e dalle Oceanie, dall’Africa e dall’Asia, tutti coloro che per un tratto di strada, piccolo o grande che fosse, hanno incrociato questo piccolo immenso uomo. Aveva le viscere a portata di mano, la presa d’acciaio, la parola dritta e dura come una lama corsa, don Giorgio. Non c’era scampo per l’adolescente davanti alla sua urgenza paterna di vederti col cuore e la mente al posto giusto. Parleranno e testimonieranno in tanti di questo indomabile educatore (cioè di uno che tira fuori da te tutto il bene, il bello, il giusto che Dio ha messo in te, anche se ti senti uno scarafaggio).


Don Giorgio aveva neanche trent’anni. Io neanche quattordici. Ci siamo incontrati lì. Pensate, dopo di me ha trascinato al riconoscimento della grande Presenza decine di migliaia di ragazzi. Non è una cifra sborona. Per dire, mia figlia Gloria aveva 18 anni il giugno scorso, quando don Giorgio era ancora lì, con lei e i suoi amici, dopo le migliaia e migliaia di Glorie e di amici con cui aveva conversato, cenato, inventato vacanze e doposcuola, caritative e volantinaggi, cineforum e battaglie culturali, cooperative di quartiere e scuole, scuole domestiche e scuole parrocchiali, scuole per grandi e scuole per piccini…

Don Giorgio è arrivato nella mia parrocchia, la parrocchia di Santa Maria alla Fontana, quartiere Stelvio-Farini, Milano, sul finire dell’anno 1970. C’era nell’aria la rivoluzione e noi ragazzini oscillavamo tra il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia. Come se niente fosse, a costo di vedere (come poi accadde) la fuga in massa verso l’utopia, don Giorgio piantò nella nostra comunità giovanile la sfida dell’ipotesi di Gesù come chiave di volta di tutta la vita. Inizialmente lo seguimmo in pochi, piccoli pulcini affascinati da un’umanità arrembante, sempre in lotta, sempre resistente a ogni conformismo, sempre pronta a ripartire, qualunque incoerenza tu avessi dimostrato. Ma poi molte anime, giovani e meno giovani, vennero conquistate. In breve tempo si formò intorno a questo prete singolare – che non le mandava a dire a nessuno, tanto meno ai propri superiori – una comunità vivace e numerosa di figli e di padri, di bambini e di nonni. Una comunità che imparò da lui che o Dio è tutto, o non è niente. Don Giorgio capovolse ogni regola e reinventò l’oratorio secondo forme e contenuti che non ho più visto applicati in giro, almeno con quel suo entusiasmo, forza, decisione e, oserei dire, slancio rivoluzionario. Dai quindici anni in su, in oratorio non si va più per fare i bulletti, giocare al pallone o al ping pong, emarginando i più piccoli. Si va per servirli, i piccoli, per fare catechismo e per farli giocare (caritativa), per andare in gita con loro e per farli studiare, iniziandoli a giudicare ogni cosa alla luce dell’“amicizia di Gesù”.

Una settimana rivoluzionaria
Lo raccontavo la sera della vigilia della morte di Giorgio a mia figlia Gloria. La nostra settimana “pontiggiana” sul principiare degli anni Settanta è la seguente: lodi a scuola (mentre intorno a te magari gridano “più croci e più leoni per i servi dei padroni”) e presenza in assemblea come comunità cristiana (mentre magari ti menano al “Satana, Lucifero, Belzebù, Paolo VI il diavolo sei tu”). E poi, quando non sei di turno in oratorio per la caritativa o il catechismo con i bambini, studio con i tuoi compagni a scuola, ora terza, Angelus, sesta e vesperi. Tutti i venerdì sera c’è, infine, la meditazione della liturgia domenicale. E domenica mattina, tutti gli adolescenti e la comunità giovanile alla Messa delle 11. La sua Messa. Quella delle sfuriate contro la vita borghese e dei silenzi pietratombali dei fedeli, atterriti davanti ai decibel del predicatore che faceva tremare i muri e a cui si gonfiavano paurosamente le vene del collo. Insomma cristianesimo totale e di comunità. Poiché, insegna don Giorgio, «Cristo è la risposta alla nostra sete di felicità» e «l’Essere è comunione».


Stiamo parlando di cose che anticipano Comunione e Liberazione. E che nel pieno dell’ubriacatura ideologica (della gioventù in piazza e delle azioni cattoliche in fuga nella scelta religiosa) vedevano protagonisti ragazzini tra i 14 e i 18 anni. Don Giorgio ha insegnato a generazioni di giovani a non avere timore di nulla. Il peccato più grave, quello sì da temere sopra ogni cosa? Il non essere seriamente impegnati con se stessi, il non prendere sul serio ogni desiderio, dalla politica alla simpatia per una ragazzina. «Il nulla non si sceglie – diceva il don – nel nulla ci si trova, ci si scivola per disimpegno con la vita».


Don Giorgio fece di ragazzi adolescenti dei veri piccoli grandi uomini. Per lui un sedicenne poteva guidare una comunità e, come successe ad Antonio Simone (mio “capo comunità giovanile” e cofondatore di Tempi), era così convinto di potere rischiare sui suoi ragazzi, che era capace di affidare in tutta tranquillità a un paio di ragazzini la responsabilità di portare in vacanza pazzi pericolosi o tossici incalliti. Ci ha messo addosso la tempra dei senzapaura, don Giorgio. E dei senzapatria. Così, quando fu il tempo, ci consegnò al suo stesso padre, don Luigi Giussani, perché anche noi conoscessimo di quale pasta era fatto lui. E così Giussani ci conobbe. Anzi, ci riconobbe. Poiché la farina del mulino pontiggiano si riconosceva di primo acchito e, come diceva il Giuss, «non c’è un prete che come don Giorgio ha l’educazione così nelle viscere, per cui i suoi si riconoscono subito». Irruento, focoso, devastatore di ogni luogo comune, don Giorgio è stato certamente un prete superiore per umanità e forza ai preti resi famosi dalla pubblicità progresso (penso ai don Milani, a i don Mazzolari eccetera), così avida di antipapi. Eppure, anch’egli che sapeva litigare molto più ferocemente dei vari preti del cosiddetto dissenso – e litigare di brutto – con superiori e monsignori, conosceva e, soprattutto, praticava e insegnava la virtù dell’obbedienza. Don Giorgio ha mantenuto la promessa fatta un giorno al mio padre biologico, fatta dopo avermi visto saltare giù come una scimmia dal primo piano del palazzo dell’oratorio. «Questa bestia diventerà un uomo». Porca miseria, don, come ci hai sempre azzeccato sui tuoi ragazzi!

Impossibile restare indifferenti
Dalla metà degli anni Ottanta, don Giorgio era diventato rettore dei licei del Sacro Cuore di Milano, oltre che leader indiscusso di Gioventù Studentesca. Innalzato sugli scudi giovanili, non c’era studente liceale che potesse rimanere indifferente, in un modo o nell’altro, pro o contro, nei confronti di quella furia della natura. Quanti giorni felici! E quanti dolori! Quanti ragazzi hai tolto dalla strada del nulla e quanti hai accompagnato a morire, di cancro, di incidente, di accidente misterioso, nella gioia e nella speranza in Cristo. Ti devo dire la verità, caro Giorgio, quando l’altra sera ti ho visto, ed era domenica sera, ed eri appeso a una flebo, ed eri in coma irreversibile, privo di conoscenza, addormentato, appeso alle amorevoli cure dei tuoi amici, delle tue amiche, il giorno prima della tua traversata verso Dio e verso il nostro caro Giuss, i tuoi cari e tutti gli amici, Lidia e tutti gli altri che ci hanno preceduto, appena fuori la tua casa in cui tutti i volti, sia pur nella mestizia e nel dolore, erano tutti – ma proprio tutti – caldi e lieti, ho incontrato un ragazzo dei tuoi che non riconoscevo nella sua bellezza e grandezza di uomo. Ho incontrato Pietro, quello che hai pure bocciato una volta – proprio tu che non volevi mai bocciare nessuno – e noi – dico io, mia moglie e i quattro nostri ragazzini – che eravamo lì a pendere dalla lingua diritta, tranquilla, autorevole, di quel ventenne lì. Pietro, il Pietro che hai tirato su tu, che ha vent’anni e che ti dice a bruciapelo: «Ho visto don Giorgio, ho visto la certezza della vittoria di Cristo sulla morte».


L’AIFA E LA RU 486: GARANZIE TEORICHE , RISCHI CONCRETI - Non si gioca con le parole né con la vita di figli e madri - FRANCESCO O GNIBENE – Avvenire, 20 ottobre 2009
S e si prende alla lettera quel che l’Agenzia del farmaco (Aifa) detta nei suoi comunicati sul sempre più imminente ingresso ufficiale della Ru486 negli ospedali italiani – e sono parole impegnative – sembra non esserci nulla da temere. Ancora ieri, mentre confermava che per il completamento dell’iter burocratico manca solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale tra un mese, l’organismo tecnico cui spetta il via libera confermava che «sono state disposte restrizioni importanti», e che non c’è alcun rischio né di «banalizzazione dell’aborto» né di «impiego come metodo contraccettivo». Data la delicatezza della materia (la stessa Aifa sostiene di condividere «le preoccupazioni di carattere etico»), non possiamo che prendere sul serio queste affermazioni. Se nel comunicato del 30 luglio, per spiegare il suo primo sì all’aborto chimico, l’Agenzia sillabava che «deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’articolo 8 della legge 194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza», non c’è motivo di dubitare che intendesse esattamente questo: la donna che chiede l’aborto con la Ru486 deve sapere che resterà in ospedale dai 3 ai 15 giorni, in alcuni casi anche di più, e questo esclusivamente per garantire la sua salute, ovvero il bene che tutti – sinistra, radicali e femministe in testa – dicono di voler tutelare senza se e senza ma. Tutti siamo infatti consapevoli che l’aborto con la pillola compiuto a domicilio, nella solitudine della toilette di casa, dell’ufficio o di un treno, oltre che un rischio è una vergogna non degna di un Paese che ha rispetto per le donne. Purtroppo però le garanzie promesse dall’Aifa sembrano declamate per restare sulla carta: parlare di «restrizioni importanti» senza dettarle con meticolosa precisione – parliamo di un abortivo, non di un colluttorio – fa pensare che si dica una cosa pensandone un’altra. Quale altra?
Quello che poi si spiega nel comunicato di ieri quando si demandano alle Regioni «le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco». Che è come dire che ognuno si arrangia da sé, in una sorta di federalismo abortivo che contraddice pesantemente le garanzie sbandierate a piena voce. Le dichiarazioni di principio dicono una cosa, mentre si sa bene che la realtà ne dirà un’altra, e in parte la sta già dicendo: è vero o no che una Regione – l’Emilia Romagna, con i suoi ispiratori politici – ha già fatto cadere ogni velo di ipocrisia varando un protocollo che prevede l’aborto chimico in day hospital? Non si sa bene quali «restrizioni importanti» riscontri l’Aifa in una simile procedura, a loro ben nota (l’assessore regionale è membro del Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia dal quale escono gli ispiratissimi comunicati). Al presidente dell’Aifa Sergio Pecorelli e al direttore generale Guido Rasi, responsabili primi di questo squarcio dal quale sta entrando in Italia l’aborto domiciliare, chiediamo se sembra serio loro continuare a giocare con le parole, e con la vita umana più fragile.


Tiso: così si rende più difficile combattere l’aborto - Milano - Il direttore sanitario della Mangiagalli chiede linee guida: «La legge non può variare da Regione a Regione» - DA M ILANO - ENRICO N EGROTTI – 20 ottobre 2009
« N on credo che l’introduzio­ne della Ru486 sia un tema che ap­passioni il personale sanita­rio nel nostro ospedale. Ci sta molto più a cuore trova­re soluzioni per aiutare le ra- gazze in difficoltà a causa di una gravidanza non previ­sta ». Basilio Tiso, direttore sanitario della clinica «Man­giagalli » di Milano, il più grande presidio ospedalie­ro pubblico materno-infan­tile della Lombardia, ritiene che l’autorizzazione all’uso della pillola abortiva sollevi interrogativi nuovi: «Mi a­spetto che vengano istru­zioni precise dalle autorità, perché una legge nazionale non può essere applicata in modo differente nelle diver­se Regioni. E credo che dal punto di vista organizzativo ci darà non pochi problemi: rischiamo di dover sottrarre risorse ad altri servizi. A me­no che non si voglia proprio modificare di fatto la legge 194 attraverso questo far­maco ».
Come valuta l’introduzione della Ru486 nella pratica o­spedaliera?
In «Mangiagalli» il dibattito sulla pillola abortiva non ap­passiona. Siamo molto più coinvolti dal trovare solu­zioni per aiutare le ragazze in difficoltà per gravidanze non previste: ci sono pro­poste per incrementare il ruolo del volontariato (da noi opera anche un Centro di aiuto alla vita), oppure per creare un collegamento più efficace con i consultori. Questi sono i temi che sen­tiamo urgenti, nel tentativo di ridurre gli aborti, che spesso sono scelte quasi im­poste da circostanze socioe­conomiche particolari. E nel nostro piccolo in qualche anno siamo riusciti a scen­dere da 2200 a 1600 aborti l’anno.
È sufficiente l’indicazione dell’Aifa di rispettare la 194, completando la procedura in ospedale?
Non credo. Ci vorranno li­nee guida, indicazioni chia­re su come utilizzare questo farmaco. Non dimentichia­mo che l’aborto è depena­lizzato solo se si seguono le regole previste dalla legge 194. Sento dire che qualcu­no vorrebbe farlo in day-ho­spital, facendo firmare un consenso informato: mi pa­re che la legge non lo preve­da. E non credo che una leg­ge nazionale possa essere applicata in modo diverso da Regione a Regione. Del resto non solo la legge, ma anche il buon senso dice che per essere sicura la proce­dura abortiva deve essere completata in ospedale. È poi inopportuno pensare di lasciare sola una donna in un momento comunque di sofferenza psicologica, e­sposta a depressione, oltre che ai rischi fisici di emor­ragie e di altri effetti collate­rali.
La scelta di utilizzare la Ru486 solo fino alla 7ª set­timana nasce da una sua maggiore efficacia entro quel termine. Che cosa comporta per voi?
È un ulteriore colpo alla pos­sibilità di interagire con la donna per offrirle strumen­ti che le possano permette­re di ritornare sui suoi pas­si. Accorciare i tempi di ri­flessione non mi pare una buona cosa: l’ansia induce a scelte sbagliate.
Cosa cambierà per le inter­ruzioni di gravidanza in «Mangiagalli» con la Ru486?
Occorre tenere la donna ri­coverata per almeno tre giorni, mentre ora la proce­dura si completa in sei ore: quindi penso che ne faremo di meno. Inoltre dovremo aumentare gli spazi per que­sto servizio e questo mette a rischio la nostra organizza­zione: ora abbiamo il servi­zio nascite (7mila l’anno, u­no dei più alti in Italia), gli ambulatori per le patologie ginecologiche, per la terza età, per l’oncologia, eccete­ra. Più il servizio pubblico di interruzione della gravidan­za. Tutto è in equilibrio: se devono crescere lo spazio e il tempo dedicato agli abor­ti, e non aumentano le ri­sorse, rischiamo di penaliz­zare qualche altro compar­to. Ne valeva la pena? A me­no che, i fautori della pillola abortiva non siano in mala­fede e puntino – di fatto – a portare l’aborto a domicilio.


«L’informazione sia completa» - gli esperti - Il gruppo di studio Gisam: spiegare alla donna i rischi se non resta in ospedale. In caso non accetti, dovrebbe rinunciare - DA P ISA A NDREA B ERNARDINI – Avvenire, 20 ottobre 2009
I l protocollo adottato fino ad oggi negli ospe­dali di mezza Italia per l’aborto farmacologico ha le maglie troppo larghe: troppo spesso la donna rischia di abortire da sola a casa, magari perché «incoraggiata» a lasciare l’ospedale proprio dai medici che, invece, avrebbero dovuto convin­cerla a rimanere fino all’espulsione dell’embrione. È la preoccupazione di alcuni ginecologi, psicote­rapeuti, medici legali, bioeticisti toscani, pugliesi e lombardi, raccolti nella sigla Gisam ( Gruppo In­terdisciplinare Studio Aborto Medico). Esperti che nelle scorse settimane avevano fatto pervenire al­l’Agenzia italiana del farmaco e ai responsabili del­le istituzioni competenti un documento, in cui ri­levavano diverse criticità tra la procedura di abor­to chimico e la legge 194. Nello studio, il gruppo di lavoro raccomanda una informazione chiara e completa sul meccanismo d’azione dei farmaci abortivi, dei rischi e degli ef­fetti collaterali, sì che la donna possa scegliere pie­namente consapevole tra la procedura chirurgica e quella farmacologica. Il documento richiama più pareri espressi dal Consiglio superiore di sanità, secondo cui « i rischi connessi all’interruzione far­macologica della gravidanza si possono conside­rare equivalenti alla interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito o­spedaliero » ; e che pertanto « l’associazione di mi­fepristone e misoprostolo deve essere sommini­­strata in ospedale pubblico o in altra struttura pre­vista dalla legge e la donna deve essere ivi tratte­nuta fino ad aborto avvenuto » . « La letteratura scientifica – commenta la gineco­loga Lorella Battini, premio Ogash Awards 2008 per i suoi studi – ci dice come l’aborto chimico si com­pleta, nel 5% dei casi, entro due giorni (quindi sen­za nemmeno dover ricorrere alle prostaglandine), nel 75% entro le 24 ore seguenti all’assunzione del secondo farmaco, nel 15% fino a quindici giorni dopo, infine, nel 5% dei casi anche più tardi. La ca­sistica, dunque, è molto vasta. In ogni caso, la don­na dovrebbe disporre di un proprio letto in ospe­dale fino all’espulsione dell’embrione » .
Già, ma come fare se la donna sceglie o è invitata ( come ha messo in evidenza una recente inchie­sta di «Tempi») a firmare un foglio di dimissioni vo­lontarie dall’ospedale tra il primo ed il secondo farmaco? «Il medico dovrebbe sconsigliare alla pa­ziente l’allontanamento dall’ospedale – osserva il dottor Renzo Puccetti, bioeticista – in quanto, fuo­ri dalla struttura, l’aborto è meno sicuro » . Co­stringerla in ospedale però non è possibile: l’a­borto non è inquadrabile tra i trattamenti sanita­ri obbligatori... « Certo che no. Per questo abbiamo offerto un documento dove sono coniugate sicu­rezza, rispetto delle norme e autodeterminazione della donna, col vincolo che l’accettazione di una procedura deve avvenire nella sua interezza; rite­niamo che la dimissione volontaria debba corri­spondere a una rinuncia a proseguire la procedu­ra farmacologica». E se ci ripensasse, tornando nel­la struttura dopo qualche giorno? « Potrebbe co­munque abortire, ma con il metodo chirurgico, dal momento che la prosecuzione del metodo farma­cologico, non garantendo a domicilio lo stesso li­vello di sicurezza, si porrebbe oggettivamente in contrasto con l’interesse della donna e con l’arti­colo 15 della legge 194. La donna dovrebbe essere informata prima di decidere assieme al medico » . C’è un precedente che conforta la tesi del gruppo di lavoro: è il caso della isotretinoina, un derivato della vitamina A contenuto in alcuni farmaci uti­lizzati per il trattamento dell’acne. La isotretinoi­na è vietato alle donne in stato di gravidanza, per­ché potrebbe procurare malformazioni all’em­brione. Le donne che sono ancora in grado di pro­creare, durante la terapia, devono sottoporsi ad accertamenti e assumere specifici trattamenti, pe­na la rinuncia alla molecola. Lo ha stabilito la stes­sa Agenzia del farmaco in una determinazione pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 9 novembre del 2005.


Benedetto XVI: "L'Europa non permetta che il suo modello di civiltà si sfaldi" - Riceve il nuovo Capo della Delegazione della Commissione europea presso la Santa Sede - di Inma Álvarez

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 19 ottobre 2009 (ZENIT.org).- "È importante che l'Europa non permetta che il suo modello di civiltà si sfaldi, pezzo dopo pezzo. Il suo slancio originale non deve essere soffocato dall'individualismo o dall'utilitarismo", ha affermato Papa Benedetto XVI questo lunedì.

Il Pontefice ha insistito sull'importanza di riconoscere le radici cristiane dei valori europei ricevendo il nuovo Capo della delegazione della Commissione delle Comunità Europee presso la Santa Sede, l'ambasciatore Yves Gazzo.

Il Papa ha ricordato che l'Europa non si limita a condividere dei valori, "ma che sono stati piuttosto questi valori condivisi a farla nascere".

"Questi valori sono il frutto di una lunga e tortuosa storia nella quale, nessuno lo può negare, il cristianesimo ha svolto un ruolo di primo piano", ha ricordato.

Se l'Europa dimentica le sue radici cristiane, ha avvertito, questi valori "rischiano di essere strumentalizzati da individui e da gruppi di pressione desiderosi di far valere interessi particolari" a detrimento del bene comune.

Tra i valori più importanti, il Pontefice ha citato la questione "del giusto e delicato equilibrio fra l'efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia dell'ambiente, e soprattutto dell'indispensabile e necessario sostegno alla vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, e alla famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna".

"Le immense risorse intellettuali, culturali ed economiche del continente continueranno a recare frutto se continueranno a essere fecondate dalla visione trascendente della persona umana che costituisce il tesoro più prezioso dell'eredità europea", ha affermato.

Questa tradizione umanista, "nella quale si riconoscono tante famiglie dal pensiero a volte molto diverso, rende l'Europa capace di affrontare le sfide di domani e di rispondere alle attese della popolazione".

Oblio storico

Benedetto XVI ha negato che ricordare le radici cristiane dell'Europa rappresenti la "ricerca di uno statuto privilegiato per se stessa".

La Chiesa, ha sottolineato, "vuole fare opera di memoria storica ricordando in primo luogo una verità - sempre più passata sotto silenzio - ossia l'ispirazione decisamente cristiana dei Padri fondatori dell'Unione Europea".

Allo stesso modo, "desidera mostrare anche che la base dei valori proviene soprattutto dall'eredità cristiana che continua ancora oggi ad alimentarla".

"La pari dignità di tutti gli esseri umani, la libertà d'atto di fede alla radice di tutte le altre libertà civili, la pace come elemento decisivo del bene comune, lo sviluppo umano - intellettuale, sociale ed economico - in quanto vocazione divina e il senso della storia che ne deriva, sono altrettanti elementi centrali della Rivelazione cristiana che continuano a modellare la civiltà europea".

In tal senso, il Papa ha voluto ricordare il suo recente viaggio nella Repubblica Ceca nell'anno in cui si celebra il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.

"In quella terra provata dal giogo di una dolorosa ideologia, ho potuto rendere grazie per il dono della libertà recuperata che ha permesso al continente europeo di ritrovare la sua integrità e la sua unità", ha affermato.

Richiamando il discorso pronunciato a Praga il 26 settembre davanti alle autorità e al Corpo Diplomatico, ha osservato che l'Europa è "più che un continente", è una "patria spirituale".

"La Chiesa desidera 'accompagnare' la costruzione dell'Unione Europea. Per questo si permette di ricordarle quali sono i valori fondatori e costitutivi della società europea affinché possano essere promossi per il bene di tutti", ha concluso.


6 ottobre 2009 – ilFoglio.it - L’ascia del vescovo pellerossa - Charles J. Chaput contro Notre Dame e l’illustre cardinale sedotto dall’abortista Obama
L’arcivescovo di Denver Charles J. Chaput non è uno che la manda a dire. Sessantacinque anni, nato in Kansas, membro della tribù pellerossa “Prairie Band Potawat”, francescano dell’ordine dei cappuccini, è tra i vescovi americani uno dei più strenui difensori della morale della chiesa in campo pubblico. Una difesa esercitata attraverso interventi forti e incuranti delle critiche che sollevano. Ne è un esempio l’ultimo suo libro, un lavoro che già dal titolo dice molto: “Render Unto Caesar. Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life”. E’ giusto dare a Cesare quel che gli spetta. Ma si serve la nazione vivendo la propria fede cattolica nella vita politica. Chaput si muove contro la corrente culturale che prevale nei media, nelle università, tra gli attivisti politici: quella che vorrebbe espellere la fede dalla scena pubblica. E l’articolo riportato qui sotto ne è un esempio. Si tratta di una risposta a un intervento che lo scorso 10 luglio, il giorno in cui Obama veniva ricevuto in Vaticano dal Papa, scrisse sulla rivista cattolica “30Giorni” il pro-teologo emerito della casa pontificia, il cardinale domenicano francese Georges Cottier. Questi, a sorpresa, parlò in termini entusiastici dei discorsi tenuti da Obama all’Università di Notre Dame e all’Università di al-Azhar, al Cairo. Sulle colonne di una delle riviste più lette tra i diplomatici d’Oltretevere – si ritiene ne rifletta appieno le politiche realiste –, Cottier trovò la visione di Obama consonante con quella cattolica, a cominciare dalla consapevolezza del peccato originale. Non solo: il porporato riconobbe a Obama intendimenti buoni e costruttivi anche sul terreno minato dell’aborto. Della cosa ne parlò anche il vaticanista Sandro Magister sul suo blog: chiesa.espresso.repubblica.it

Una grande forza della chiesa sta nella sua prospettiva globale. Sotto questo aspetto, il recente saggio pubblicato dal cardinale Georges Cottier sul presidente Barack Obama (“Politics, morality and original sin”) ha dato un autorevole contributo al dibattito cattolico sul nuovo presidente americano. La nostra fede ci unisce attraverso i confini. Ciò che accade in una nazione può avere un importante impatto su molte altre. E’ giusto e opportuno che si ponga attenzione all’opinione mondiale sui leader americani.
Tuttavia, il mondo non vive e non vota negli Stati Uniti. Gli americani invece sì. Le realtà pastorali di ciascun paese sono conosciute soprattutto dai vescovi locali a diretto contatto con la popolazione. Così, sull’argomento dei leader americani, le riflessioni di un vescovo americano possono certamente avere un significativo interesse. Possono approfondire il positivo giudizio del cardinale offrendo una prospettiva diversa.
Si noti che qui io parlo soltanto a titolo personale. Non parlo a nome dei vescovi statunitensi intesi come organismo, né in nome di qualsiasi altro vescovo. E non intendo nemmeno riferirmi al discorso del presidente Obama sul mondo islamico, che il cardinale Cottier menziona nel suo saggio. Per questo sarebbe necessario un altro articolo.

Mi concentrerò invece sul discorso pronunciato dal presidente all’Università di Notre Dame in occasione della cerimonia di consegna delle lauree, e sulle osservazioni del cardinale Cottier a questo proposito. Questa scelta è dettata da due motivi.
Primo, i membri della mia diocesi appartengono alla comunità di Notre Dame come studenti, laureati e genitori. Ogni cardinale ha un ruolo decisivo nella fede delle persone affidate alle sue cure, e Notre Dame è sempre stata ben più che una semplice università cattolica. E’ un simbolo dell’esperienza cattolica americana. Secondo, quando il vescovo locale di Notre Dame si dichiara in disaccordo con un determinato oratore, e circa altri ottanta vescovi e trecentomila laici sostengono apertamente la sua posizione, ogni persona ragionevole deve dedurne che esiste un problema concreto relativamente a quell’oratore, o almeno al suo specifico discorso. Una persona ragionevole può inoltre ritenere opportuno riferirsi al giudizio dei pastori cattolici più direttamente coinvolti nella vicenda. Sfortunatamente, e inconsapevolmente, il saggio del cardinale Cottier sottovaluta la gravità di quanto è accaduto a Notre Dame. E, corrispondentemente, sopravvaluta la consonanza del pensiero di Obama con la dottrina cattolica.

Ci sono diversi punti importanti da sottolineare. Primo, il disaccordo sul suo intervento all’Università di Notre Dame non ha nulla a che fare con la questione se Obama sia un uomo buono o cattivo. E’ senza dubbio un uomo con grandi doti. Possiede un ottimo istinto morale e politico, e mostra un’ammirevole devozione alla propria famiglia. Queste sono cose che contano. Ma, sfortunatamente, contano anche queste: la posizione del presidente su decisive questioni bioetiche, come l’aborto, è radicalmente diversa da quella cattolica. E’ proprio per questo che Obama ha potuto contare per molti anni sull’appoggio di potenti organizzazioni per il “diritto all’aborto”. Si parla molto, in alcune cerchie religiose, della simpatia del presidente per la dottrina sociale cattolica. Ma la difesa del feto è un’esigenza di giustizia sociale. Non esiste alcuna “giustizia sociale” se i membri più giovani e indifesi della nostra specie possono essere legalmente uccisi. I programmi per i poveri hanno certamente una straordinaria importanza, ma non possono rappresentare una giustificazione per questa fondamentale violazione dei diritti umani.

Secondo, in un altro momento e in altre circostanze, la controversia di Notre Dame avrebbe potuto facilmente svanire se l’università avesse semplicemente chiesto al presidente di fare una conferenza pubblica. Ma in un momento in cui i vescovi americani avevano già espresso una forte preoccupazione per le politiche abortiste della nuova Amministrazione, l’Università di Notre Dame ha fatto del discorso di Obama l’evento clou della cerimonia per la consegna degli attestati di laurea e gli ha pure consegnato un dottorato honoris causa in Legge – e questo nonostante le inquietanti posizioni del presidente a proposito della legge sull’aborto e altre questioni sociali ad essa connesse.
La vera causa delle preoccupazioni cattoliche sull’intervento di Obama a Notre Dame sta nella sua stessa posizione apertamente negativa circa il tema dell’aborto e altre questioni controverse. Con la sua iniziativa, l’Università di Notre Dame ha ignorato e violato le linee guida espresse dai vescovi americani nel documento “Catholics in Political Life”, pubblicato nel 2004. In questo documento, i vescovi invitavano le istituzioni cattoliche a non concedere onorificenze pubbliche a funzionari di governo in aperto dissenso con la dottrina della chiesa su questioni di primaria importanza. Così, l’aspro dibattito che la scorsa primavera ha lacerato gli ambienti cattolici americani a proposito dell’onorificenza rilasciata a Barack Obama dall’Università di Notre Dame non è stato affatto un fenomeno di schieramento politico. Riguardava invece questioni essenziali della fede cattolica, di identità e testimonianza religiosa, che il cardinale Cottier, non conoscendo direttamente il contesto americano, potrebbe avere frainteso.

Terzo, il cardinale nota giustamente un punto di contatto tra la tesi, frequentemente ribadita da Obama, della ricerca di un “terreno politico comune” e l’aspirazione cattolica al “bene comune”. Questi due obiettivi (la ricerca di un terreno politico comune e quella del bene comune) possono spesso coincidere. Ma non sono la stessa cosa. Possono essere molto diversi nella pratica. Le cosiddette politiche di “terreno comune” sull’aborto possono in realtà minare alla radice il bene comune perché implicano una falsa unità: stabiliscono una piattaforma di accordo pubblico troppo stretta e debole per sostenere il peso di un autentico consenso morale. Il bene comune non potrà mai essere favorito da chiunque tolleri l’uccisione dei più deboli, a cominciare dai bambini che devono ancora nascere.

Quarto, il cardinale Cottier ricorda giustamente ai propri lettori il rispetto reciproco e lo spirito collaborativo richiesto dal principio della cittadinanza in una democrazia pluralista. Ma il pluralismo non è un fine in se stesso. E non può essere in alcun modo una scusa per l’inazione. Come ha riconosciuto lo stesso Obama nel suo discorso all’Università di Notre Dame, la vita e la solidità della democrazia dipendono dalla convinzione con cui la gente è pronta a combattere per ciò in cui crede: in modo pacifico e legale, ma con vigore e senza equivoci. Sfortunatamente, il presidente ha anche aggiunto una curiosa osservazione, e precisamente che “la grande ironia della fede è che comporta necessariamente la presenza del dubbio… Ma questo dubbio non ci deve allontanare dalla nostra fede. Deve invece renderci più umili”. In un certo senso questo, ovviamente, è verissimo: su questo versante dell’eternità, il dubbio fa parte integrante della condizione umana. Ma il dubbio significa assenza di qualcosa; non è un valore positivo. Se trattiene i credenti dall’agire in base alle esigenze della fede, il dubbio diventa una fatale debolezza.

La consuetudine del dubbio si adatta fin troppo facilmente a una sorta di “scetticismo battezzato”: un cristianesimo limitato a una vaga lealtà tribale e a un conveniente vocabolario spirituale. Troppo spesso, nelle più recenti vicende americane, il pluralismo e il dubbio sono diventati un alibi per l’inerzia e il letargo politico e morale dei cattolici. Forse l’Europa è diversa. Ma mi sembra che l’attuale momento storico (che accomuna cattolici americani e europei) non abbia alcuna rassomiglianza con le circostanze sociali che dovettero affrontare gli antichi legislatori cristiani citati dal cardinale. Questi uomini avevano fede e avevano anche lo zelo necessario (temperato dalla pazienza e dall’intelligenza) per incarnare nella cultura il contenuto morale della loro fede. In altre parole, hanno costruito una civiltà plasmata dalla credenza cristiana.

Quello che sta accadendo oggi è una cosa completamente diversa. Il saggio del cardinale Cottier è un’autentica testimonianza della generosità del suo spirito. Sono rimasto colpito in particolare dalle sue lodi per l’“umile realismo” del presidente Obama. Mi auguro che abbia ragione. I cattolici americani vogliono che abbia ragione. L’umiltà e il realismo sono il terreno sul quale può crescere una politica fondata sul buon senso, modesta, a misura d’uomo e morale. Rimane da vedere se il presidente Obama sarà capace di realizzare una leadership di questo genere. Abbiamo il dovere di pregare per lui, nella speranza che non soltanto possa farlo ma che lo faccia veramente. (nella foto: 20 maggio 2005. L’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush insieme con Charles Chaput)

di Charles J. Chaput
(traduzione di Aldo Piccato)


ESCLUSIVA/ La storia di mia figlia Holly, uccisa dalla Ru486 - Monty Patterson martedì 20 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Monty Patterson sei anni fa perse la propria figlia che, a sua insaputa, si era recata in una clinica per abortire. Le fu prescritto del mifepristone, o RU-486, e le venne fissato un appuntamento. Le complicazioni la portarono però alla morte. Aveva 18 anni. Il padre racconta a ilsussidiario.net la sua esperienza.

L’ultimo giorno di Holly

Io, Monty Patterson, ho sentito per la prima volta parlare del mifepristone, o RU-486, il 17 Settembre 2003, il giorno peggiore della mia vita.
Mi arrivò una chiamata, quella mattina presto, mentre ero al lavoro: un’infermiera mi disse che mia figlia diciottenne, Holly, era in ospedale e in condizioni molto serie. Mi precipitai all’ospedale che era vicino a Livermore, alla periferia di San Francisco, dove io e Holly vivevamo. Una volta là, la trovai nel reparto di terapia intensiva, a mala pena cosciente, troppo debole per parlare, pallida, con la faccia gonfia, e che respirava a fatica.

Era una cosa assolutamente senza senso. Holly, una splendida bionda con gli occhi azzurri, era una fanatica del fitness in perfetta salute. Mentre le stavo accanto, il dottore arrivò e spiegò frettolosamente: «Stiamo facendo tutto il possibile per lei, ma potrebbe non farcela. Queste cose a volte accadono come conseguenza della pillola». Ero completamente disorientato: «Come, scusi? La pillola anticoncezionale?». Chiesi. «No, la pillola abortiva». Replicò il dottore. Scioccato, gli chiesi: «Di che cosa sta parlando? Quale pillola abortiva?».

Il dottore si rese conto che brancolavo completamente nel buio. Spiegò brevemente che Holly si era sottoposta a una “interruzione precoce di gravidanza” con la somministrazione doppia di mifepristone (nota come Ru-486) e di misoprostolo. Disse che stava soffrendo di un aborto incompleto e di un’infezione massiccia. I suoi organi vitali cominciavano a non funzionare più e i suoi polmoni si stavano riempiendo di liquido. «Shock settico», mi fu detto.

Poco dopo la crisi aumentò. Le condizioni di Holly deterioravano rapidamente; i monitor attorno a Holly cominciarono a suonare l’allarme. Sentii le parole: «Codice blu!», e fui fatto uscire dalla stanza. Non riuscendo a reggere oltre, a un certo punto irruppi nella stanza e spostai la tenda.
Porterò quell’immagine nella mia mente per il resto della mia vita. Lo staff dell’ospedale stava lavorando freneticamente per salvare la fragile vita di Holly. Qualcuno stava premendo sul suo torace cercando di rianimarla, le venivano somministrati dei farmaci e i monitor continuavano a suonare. La linea di Holly era piatta. Tutti mi guardarono increduli e costernati. Holly era morta, appena prima delle 14:00.

La morte di Holly ci lasciò tutti scioccati. Non sapevo cosa pensare a parte il fatto che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. Volevo scoprire cos’era successo e fare qualcosa in merito.


Gli avvenimenti

Nell’Agosto 2003, Holly Patterson, allora diciassettenne, aveva scoperto di essere rimasta incinta dopo un rapporto col suo ragazzo, di sette anni più grande. Il 10 Settembre, poco dopo il suo diciottesimo compleanno, la coppia si recò in una clinica di controllo delle nascite per terminare la sua gravidanza di sette settimane. Alla clinica somministrarono oralmente a Holly 200mg di mifepristone (RU-486), che blocca l’ormone progesterone, necessario per mantenere una gravidanza. A casa, ventiquattro ore dopo, seguendo le istruzioni della clinica, inserì in vagina 800mcg di misoprostolo per indurre le contrazioni ed espellere il feto.
ESCLUSIVA/ La storia di mia figlia Holly, uccisa dalla Ru486
Monty Patterson martedì 20 ottobre 2009

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Il 13 Settembre chiamò la linea diretta della clinica di controllo delle nascite lamentando violenti crampi. Le fu detto che erano sintomi normali e di prendere l’antidolorifico prescritto dalla clinica. Il 14 Settembre, soffrendo ancora di crampi e sanguinamento, Holly si recò al pronto soccorso del centro medico di Pleasanton; i dottori del centro, ai quali disse dell’aborto, la rimandarono a casa con un’ulteriore dose di antidolorifici. I dolori continuavano. Holly era debole, vomitava, e non riusciva a camminare.

Alle prime ore del mattino del 17 Settembre Holly fu riammessa al pronto soccorso del centro medico, dove morì più tardi quel pomeriggio, il settimo giorno dopo aver cominciato la procedura d’aborto della RU-486 e giorno in cui era stata fissata una visita di routine per verificare che l’aborto fosse completo. Il 31 Ottobre 2003 il medico legale dell’ufficio di Alameda, California, emise un rapporto nel quale si concludeva che Holly Patterson era morta per shock settico, dovuto a endometriosi (infezione del sangue legata all’utero), causata dai farmaci utilizzati nella terapia dell’aborto indotto.


Le mie opinioni sulla RU-486

Penso che mia figlia non avesse avuto adeguate informazioni né sufficiente appoggio per affrontare un aborto da sola. I passi previsti dalla procedura possono essere troppo superficiali: la paziente prende una pillola, quindi è mandata a casa a fare il resto da sé. Ci sono troppe cose che possono andare storte.

RU-486 e misoprostolo sono una combinazione pericolosa da poter somministrare con sicurezza, se non altro perché è impossibile dire la differenza fra gli effetti considerati normali della sostanza e i possibili sintomi di una grave infezione. Alle donne viene detto che devono aspettarsi dolori addominali e sanguinamenti maggiori di quelli di un normale ciclo mestruale; inoltre, le donne che sono morte di infezione provocata dal batterio Clostridium Sordellii come conseguenza della pillola abortiva non hanno avuto febbre, un effetto collaterale normale per un’infezione, secondo quando affermato dall’FDA (Food’s and Drug Association, l’associazione americana per il controllo dei cibi e dei farmaci). Diventa quindi molto problematico per una donna capire se i suoi sintomi vanno al di là dei cosiddetti “normali effetti collaterali”.

Le donne e le loro famiglie devono sapere che la procedura dell’RU-486 può finire in una tragedia. Holly, a diciotto anni, era legalmente responsabile della sua decisione, ma cosa succederà con ragazzine di sedici anni o ancor meno? E comunque anche una donna sposata trentenne con due bambini ha perso la vita cinque giorni dopo aver preso la pillola abortiva.

Holly non si è forse resa conto che aveva di fronte altre possibili alternative e che la sua famiglia l’avrebbe sostenuta durante la gravidanza. I genitori dovrebbero comunicare con le loro figlie e porre la domanda che io vorrei aver posto: “Cosa faresti se tu avessi una gravidanza imprevista, e come pensi che io reagirei?” Assicuratevi che sappiano che siete lì per loro, non importa cosa accade. Holly voleva tenere il suo aborto segreto e credo che pensasse che avrebbe deluso tutti attorno a sé e che doveva portare questo peso da sola.
È un giorno molto triste quello in cui un padre seppellisce sua figlia perché le sono mancate conoscenze per fare una scelta cosciente e informata, ha sofferto in silenzio e ha pagato da ultimo con la sua vita. Forse sono state paura e vergogna che l’hanno portata a decidere che poteva prendere una pillola e far svanire tutto. Vorrei che me l’avesse detto, così avrei potuto aiutarla. Se solo mi avesse parlato, le cose sarebbero andate diversamente.


La mia lotta per la verità sulla morte di Holly

La lotta per la verità sulla morte di Holly ha significato per me che la sua morte non è stata vana, non è finita “sotto il tappeto”, non è diventata un altro dato statistico sugli accettabili effetti collaterali nell’avanzata del movimento in favore dell’aborto farmaceutico. La pubblicizzazione della morte di Holly è stata importante per informare il pubblico e aumentare la consapevolezza sui pericoli dell’aborto con la RU-486. Le donne possono fare scelte consapevoli se hanno informazioni affidabili e veritiere.

Si dovrebbero porre domande alle case farmaceutiche produttrici della pillola e mettere in discussione le dichiarazioni enfatiche dei loro sostenitori sul fatto che l’aborto con mifepristone e misoprostolo sia sicuro, efficace, e ben sopportato dalle donne. Anche dopo le morti e i danni causati da queste sostanze, i produttori e i loro sostenitori hanno dichiarato l’inesistenza di consistenti relazioni causali fra le medicine e queste rari casi di morte.

Conoscere la verità sulla RU-486 ha incoraggiato alcuni genitori e famiglie ad aumentare il dialogo coi loro figli sui reali rischi e pericoli dell’aborto farmaceutico. Se vi è la possibilità, le scelte di fronte a una gravidanza indesiderata dovrebbero prima essere discusse a casa col supporto della famiglia. I genitori preferirebbero che le loro figlie si astenessero dal sesso, e alcune così fanno, ma dobbiamo accettare che in realtà molte non lo fanno.

I danni e le morti dell’aborto farmaceutico non possono essere ignorati, soprattutto a livello normativo e tutto questo ha alla fine forzato FDA e produttori della pillola a una revisione delle dichiarazioni sulla sicurezza della RU-486, inserendo nell’etichettatura della pillola due avvertimenti sulle potenziali infezioni e sul rischio di morte. Questo è un inizio, ma non basta. Questa pillola ha proprietà farmacologiche che possono seriamente danneggiare o alterare il sistema immunitario di una donna, predisponendola a infezioni gravi e persino fatali. Quante donne devono morire prima che questa pillola sia tolta dal mercato?


19 Ottobre 2009 - Io e te. E i nostri sei figli unici - Camperisti per necessità, colf di se stessi e sempre con una lavatrice in funzione. Un giorno di ordinario e felice affollamento in una casa in cui la privacy è sepolta sotto i letti a castello – Tempi - di Laura Borselli
«Raccontami cos’hai fatto a scuola, possibilmente utilizzando fonemi non gutturali». Prima di interrogarsi sul significato delle parole di sua madre Emanuele (detto Lele), 11 anni, ha già iniziato a raccontare che sì a scuola è andata bene e cantare nel coro è divertente ma «dai almeno una partita ai videogiochi quando torniamo a casa». Chiara (9) dichiara solennemente che la maestra l’ha fatta arrabbiare, di mezzo c’è una matita sequestrata dalla maestra ovviamente senza motivo «perché io stavo solo disegnando e non stavo facendo niente di male. E no ti prego al catechismo non ci voglio andare è noioso e poi ci continuano a dire che discendiamo dalle scimmie. Ma possibile che non lo possiamo comprare questo cane?». «Possibile che non ti bastino quelle bestie rare dei tuoi fratelli?», ribatte la mamma parando il fuoco di fila delle richieste che spuntano a tradimento, perché è noto che «i videogiochi sono vietati tranne una partita nel week-end, al catechismo ci devi andare se vuoi fare la Comunione e il cane come facciamo a portarcelo dietro in camper?».
Camperisti si diventa per necessità quando la truppa delle vacanze estive si compone di mamma Laura, papà Benedetto, Tommaso (21), Vittorio (20), Maria, (17), Benedetta (14) e poi gli implacabili Lele e Chiara. Quando arrivano nei campeggi i turisti a impatto zero faticano a credere ai loro occhi. Soprattutto a credere che siano italiani, che vivano nel centro di Milano e non siano atterrati per errore a casa Tusa a distanza di una manciata di anni l’uno dall’altro. C’è stato un periodo in cui un paio di milioni di lire all’anno se ne andavano solo in pannolini, rigorosamente sottomarche in offerta speciale. Come quell’estate all’isola d’Elba ospiti della nonna, quando, cambiato un bambino, ce n’era subito un altro che se la faceva addosso. «Inquinatori», sibilò sprezzante un bagnante alzando gli occhi dal giornale su quel viavai dall’ombrellone al cestino.
Due lavatrici, almeno una sempre in funzione, panni stesi a tutte le ore del giorno, ognuno dei ragazzi più grandi stira almeno una volta a settimana, «teoricamente devo stirare solo le mie cose – racconta Maria – però qualche favore ce lo facciamo». A spanne le calze nel cestino della biancheria saranno una ventina, poi c’è la pila di quelle spaiate. La sera, tra una chiacchiera e un preghiera insieme, il cesto si porta in mezzo alla sala e ognuno cerca il compagno al calzino rimasto solo. Alle 7.15 del mattino sui fornelli bolle l’acqua per la pasta, riposa l’arrosto, sta per venire su il caffè. Prima di andare a lavorare Laura prepara il pranzo, imposta la cena, imbandisce la tavola per la colazione. C’è il latte speciale per Vittorio, allergico al lattosio, ci sono i biscotti per Maria, affetta da una grave sindrome autoimmune che le permette di mangiare solo pochissimi cibi senza soffocare. Ogni giorno bisogna ingegnarsi a cucinare qualcosa che vada bene anche per lei, centellinando la costosa farina di kamut e studiando focacce senza lieviti di sorta.
«Io non ho mai amato cucinare. E non ho istinto materno». Laura Salvetti, oggi avvocato matrimonialista, da grande si immaginava morta o ridotta in clandestinità, come del resto la gran parte dei suoi coetanei negli anni di piombo. Figlia di una rispettabile famiglia borghese, negli anni Settanta sta con la fierezza di un camerata dai capelli biondissimi nel rossissimo liceo Cremona di Milano. Un giorno in bagno vede una scritta: “Tusa fascista ti spacchiamo il cranio”. Un moto di simpatia irrefrenabile e profetico come solo l’adolescenza può produrre: «Lo devo conoscere», pensa. Anni dopo è all’Università cattolica che bigia le lezioni per studiare tedesco con gli amici più grandi quando qualcuno le indica da lontano Benedetto Tusa. Dieci anni più grande di lei, quel ragazzo biondo non è più quello delle botte e degli assalti al liceo Manzoni. Tusa si è avvicinato alla fede, ha conosciuto Alleanza Cattolica, soprattutto ha l’espressione di chi ha annaspato per ravanare in qualche corteo politico il senso di un’indomita ricerca della verità. Si conoscono, si frequentano, anche lei si converte. Un giorno lui se ne esce dicendo di aver capito che lei è la donna della sua vita e che ci pensi pure, lui l’aspetterà. La ragazza resiste ventiquattro ore.

Nove aborti in 24 anni
Quattro anni dopo si sposano, consapevoli che le possibilità di avere figli sono molto scarse. Laura è portatrice sana di un’anomalia genetica raramente compatibile con la vita. In 24 anni hanno sei figli e ne perdono nove, tutti intorno ai quattro mesi di gestazione. «Un giorno stavamo facendo l’ecografia quando il cuore ha smesso di battere. Il dottore rimase di sasso. Due giorni dopo ho perso il bambino». Per diverso tempo le foto dei sei magnifici Tusa che hanno polverizzato tutte le statistiche rimettendoci qualche dito delle mani e dei piedi (unica malformazione che alcuni di loro hanno dalla nascita), campeggiano sulla scrivania del ginecologo di mamma Laura. Servono a dire a donne disperate che niente è impossibile.
Laura non ha mai fatto un mese di maternità. Lo studio di fronte a casa che condivide col marito, lei civilista lui penalista, si improvvisa nursery alla bisogna. Cioè molto spesso. «Siamo fortunati perché abbiamo i mezzi e la possibilità per gestirci in totale libertà». L’ancora più agiata vita borghese che potrebbero condurre è stata barattata con la scelta di un’educazione cattolica per tutti i figli. «Lavoro per pagare le rette delle loro scuole e non me ne pento», commenta Laura. Vittorio e Tommaso, entrambi studenti di giurisprudenza, tengono la cancelleria per lo studio dei genitori; quando non sono occupati a fare da babysitter ai fratelli, s’intende. La truppa è fatta di soldati addestrati a rimboccarsi le maniche e per niente cammellati. Il giorno che Tommaso è tornato a casa col piercing si è beccato uno «stronzo» e un sorriso dalla mamma e un’alzata di sopracciglio del padre: «Non mi piace per niente, ma ormai l’hai fatto. Però nel mio studio con quel coso non ci entri». Tutte le volte che deve andare in Tribunale a depositare qualche documento Tommaso infila la cravatta e sfila il piercing. Con tutti, piccoli compresi, si parla di sesso. «La scienza è la mia più grande alleata», spiega Laura, molto fiera che i suoi ragazzi non abbiano bisogno di cicogne di sorta e sappiano benissimo come funzionano cicli mestruali, annessi e connessi. C’è chi ha giurato di rimanere casto fino al matrimonio e chi ha detto che si vedrà. La casa è equamente divisa tra milanisti e interisti. Prima di ogni derby le bandiere avversarie sventolano una su un balcone e una sull’altro. Laura non fa da mangiare per i milanisti e tutta la casa è in trincea per difendersi dal consueto tentativo di ratto della bandiera. A volte Benedetto si porta i maschi allo stadio di nascosto dalle femmine. «Facciamo molte cose insieme, ma abbiamo sempre cercato di trattarli come figli unici, non come i membri di un gruppo», spiega Laura. Il timore che siano appiattiti l’uno sull’altro si sgretola salendo nel regno di Tommaso, tra i pesci su cui conduce i suoi esperimenti, i suoi disegni manga e lo studio clandestino del giapponese che gli è costato una bocciatura al liceo.
Difficile prevedere al mattino chi si troverà in casa la sera. Spesso ci sono gruppi di preghiera, riunioni, cene. Laura e Benedetto sono epicentro di una girandola di iniziative e amicizie. Circa cinquecento euro alla settimana se ne vanno per la spesa base, poi ogni giorno si fa quella dei cibi freschi. I compagni di scuola che capitano qui all’inizio non si capacitano di come si possa vivere in una casa in cui la privacy è seppellita sotto i letti a castello, poi tornano e alla fine è faticoso mandarli via. Come la sera. Quando Benedetto tira fuori il prezioso barolo chinato e Laura la chitarra. Si suonano musiche celtiche, De Andrè e clandestini omaggi a un passato di cui è rimasto l’ardore ma non la nostalgia. «Loro sono la mia regola monastica», dice Laura guardando i ragazzi. Poi guarda Benedetto: «Tutto quello che facevamo insieme si moltiplicava, lui è l’architetto che ha colorato e arredato la mia vita». A lui piace tanto sentirselo dire.


“Il sangue dell’agnello” – Cristiani perseguitati nel mondo - Autore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 19 ottobre 2009
Alle porte di Milano il Circolino di Crescenzago organizza una volta al mese incontri culturali di alto livello, concludendo poi con un momento conviviale raffinato e gustoso.
Per la prima serata di Ottobre 2009 (mese dedicato alle missioni) è stato invitato Rodolfo Casadei, vicedirettore di Tempi, ed inviato speciale del settimanale sui teatri più sanguinosi e dolenti del nostro pianeta.
Il tema era quello della persecuzione dei cristiani nel mondo. I due terzi dei 64 milioni di martiri cristiani dall’inizio dell’era cristiana ad oggi sono concentrati nel XX e XXI secolo: sono dati sicuramente sconosciuti ai più e sottovalutati anche all’interno della Chiesa.
Casadei ha parlato soprattutto di due drammatiche situazioni, che ha raccontato anche nel suo ultimo libro, “Il sangue dell’agnello” (Guerini e associati, 2008, € 17,50): l’Iraq e la Turchia.
Il giornalista ha raccolto testimonianze dirette, seguendo i cristiani iracheni fuggiti nel Curdistan o all’estero (in Libano, Siria, Giordania) dopo l’inizio della guerra nel 2003/4. Un incontro di straordinario valore è stato quello con Mons. Paulo Faraj Rahho, arcivescovo caldeo di Mossul: quest’ultimo ha testimoniato lo stato di terribile oppressione dei cristiani caldei nella zona Nord-Est dell’Iraq: “Ci accusano di essere spie dei crociati, alleati degli invasori, ci spingono ad andarcene o a convertirci all’Islam o a pagare la giza, cioè la tassa all’autorità islamica. Vogliono portarci via le proprietà, cacciarci dal paese, ci sono rapimenti e distruzioni…finora Maria e san Michele mi hanno protetto”. Pochi mesi dopo questa intervista Mons. Rahho è stato rapito e lasciato morire: il pastore ha offerto il suo sangue per il gregge.
Casadei ha risposto quindi alle obiezioni che cercano di minimizzare le dimensioni della persecuzione anticristiana, o di ridurla a un caso particolare della generale violenza presente in Iraq. Sicuramente in Iraq tutti soffrono, ma sono le proporzioni ad essere differenti (i cristiani sono in tutto il 3% della popolazione): è profugo un iracheno su 6, ma un cristiano su 2: dai cristiani è stato pagato il prezzo più alto. Inoltre mentre sunniti e sciiti hanno le loro milizie e rispondono colpo su colpo con atroci vendette, fino ad ora mai i cristiani si sono vendicati delle ingiustizie subite. E le “guardie” armate davanti alle chiese, per vigilare e impedire possibili attentati, sono spesso le prime vittime quando un’autobomba esplode presso il luogo sacro.
Diversa dovrebbe essere la situazione in Turchia, stato laico che consente la libertà di convertirsi e di non seguire l’Islam. Ma qui i cristiani sono emarginati, diseredati, colpiti con false accuse che rendono la loro vita difficile e tormentosa. E spesso ci sono assassinî mirati, come quello dei tre evangelici assassinati a Malatya; i funerali sono stati emozionanti, col perdono delle vedove: “Noi perdoniamo gli assassini dei nostri mariti… Gesù ce lo aveva annunciato: avrete il centuplo con persecuzioni… prima abbiamo avuto il centuplo, ora le persecuzioni”. Queste donne – è stato detto – hanno fatto per la fede più di mille missionari cristiani.
Casadei, dopo aver mostrato i volti, i luoghi, le ferite dei martiri, ha concluso chiedendo a sé e a tutti i presenti che cosa si possa fare di fronte a questo spettacolo. Rabbia, indignazione anche per la tiepidezza con cui questi avvenimenti sono recepiti in Occidente, portano solo ad un doloroso senso di impotenza… c’è qualcosa di più grande: lo spettacolo della santità, di una bellezza che ferisce. Ma ancora più grande è il prendere atto che questi martiri sono persone semplici, come noi, non superuomini. Noi possiamo essere così, è possibile vivere così, testimoniando fino in fondo. Più che noi per loro, sono loro a sacrificarsi per noi, loro offrono la loro vita per noi.


Aborti tardivi, «Londra deve diffondere i dati» - LONDRA. Il movimento contro l’aborto britannico ha vinto ieri un’importante battaglia che costringerà ora il governo a rendere pubblici i numeri di aborti effettuati in tarda gravidanza di feti con anomalie non necessariamente gravi. - Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 20 ottobre 2009
In Gran Bretagna l’aborto è consentito fino alla ventiquattresima settimana di gestazione; dopo è permesso solo se il feto viene diagnosticato con malattie molto gravi e incurabili o se rappresenta una seria minaccia alla vita della madre. Da cinque anni la Pro Life Alliance si batte per raggiungere lo scopo di fare trasparenza nel numero di aborti dopo le 24 settimane, compreso quello delle madri che hanno scelto di terminare la gravidanza perché i loro bambini erano stati diagnosticati con malformazioni curabili come la palatoschisi, un difetto del palato, il labbro leporino o il piede equino. Il ministero della Sanità, ha stabilito qualche giorno fa il tribunale, ha ora tempo fino a metà novembre per rilasciare i dati. Secondo la legge sull’aborto, l’Abortion Act del 1967, un feto può essere abortito dopo le 24 settimane di gestazione se esiste una seria anomalia fisica o mentale ma questo, spiega Julia Millington della Pro Life Alliance, «è stato spesso abusato per scartare quei bambini che sono un po’ meno che perfetti. Ora finalmente l’aborto esce dalle tenebre». Il ministero della Sanità aveva tentato di respingere le pressioni della Pro Life Alliance per proteggere, ha spiegato qualche giorno fa un portavoce, «informazioni delicate, personali e private». Ma anche una buona parte del mondo medico ha appoggiato la decisione di diffondere i dati che dal 2005 vengono tenuti sottochiave dopo che il caso di un bambino abortito con il palato difettoso sollevò molto clamore. «È giusto che l’opinione pubblica sappia», ha dichiarato un portavoce della British Medical Association.
«Siamo molto felici di questa decisione – ha detto ieri Andrea Williams, direttore del Christian Legal Centre –. Fare luce sulla pratica e la realtà dell’aborto in Gran Bretagna è essenziale se vogliamo avere un impatto significativo sulla legge e arrivare a dei cambiamenti. Fortunatamente abbiamo avuto l’appoggio di molti e ci teniamo a ringraziare soprattutto il deputato conservatore Anne Widdecombe e il professore Stuart Campbell che si sono battuti senza tregua per questa causa».
Elisabetta Del Soldato