Nella rassegna stampa di oggi:
1) A che serve il lavoro? - Mario Mauro venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
2) CRISTIANESIMO/ Monaci, la radice comune di Oriente e Occidente - INT. Adriano Dell'Asta venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
3) L'uomo al centro della «Caritas in veritate» - Una boccata d'ossigeno per il mondo - L'Aula Gemelli dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma ospita, nel pomeriggio di giovedì 15, il convegno "Economia o utopia? Oltre la crisi, con la Caritas in veritate". Pubblichiamo quasi integralmente l'intervento del cardinale vicario generale per la diocesi di Roma. - di Agostino Vallini - L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009
A che serve il lavoro? - Mario Mauro venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera, in un’analisi in cui si descrivevano molto bene le distorsioni che hanno portato il mondo nella gravissima depressione economica odierna, Giulio Sapelli coglieva perfettamente quali sono state le vere cause e quale deve essere l’antidoto giusto per un vero rilancio dell’economia mondiale, un rilancio che non coincida semplicemente nel miglioramento temporaneo delle condizioni economiche di cittadini e stati, ma che sia un drastico cambiamento di prospettiva nella concezione del “fare soldi”.
La crisi deve aprire gli occhi a chi considera il mercato un mero strumento di fabbricazione del denaro, detto come Sapelli, “impersonale, anonimo e soprattutto perfetto”. Il nesso tra comportamento morale dell’imprenditore o del finanziere con il tornaconto economico deve tornare in primo piano, non perché il desiderio di ricchezza sia di per sé sbagliato o immorale, ma perché è stato proprio questo guardare solo al proprio tornaconto senza considerare l’aspetto umano del mercato e della finanza che ha prodotto l’attuale crisi. Non c’è una spiegazione più scientifica di questa. Non ci sono teorie economiche liberali o stataliste che tengano.
Nella nostra società l’idea che comunemente si ha del lavoro è di qualcosa che serve a fare i soldi. Il lavoro, al contrario, deve emergere come necessità di cambiare la realtà, di renderla più corrispondente a quelli che sono i bisogni dell’uomo, e anche occasione di cambiare sé. Infatti non si lavora veramente se non c’è un lavoro dentro il lavoro per approssimarsi, per avvicinarsi al Destino, cui è chiamato l’uomo attraverso la circostanza quotidiana. Da questo punto di vista non c’è reale differenza tra il lavare i piatti o fare il professore universitario perché ciò che definisce l’importanza di quello che si fa è la coscienza che si ha dello scopo.
Da parecchi anni ormai l’esecutivo europeo vede come priorità per un reale sviluppo economico la necessità di investire sui giovani, sulla ricerca e sull’innovazione, sollecitando i governi a mettere a disposizione risorse finanziarie per quella che viene chiamata la “strategia di Lisbona”. Le istituzioni politiche ed economiche dell’Unione stanno inoltre cercando giustamente di mettere in campo misure efficaci per restituire fiducia e stabilità ai cittadini europei.
Ma la difesa della capacità competitiva del nostro sistema economico, e quindi la capacità di produrre ricchezza, la capacità di creare sviluppo, di attivare occupazione passa attraverso questa diversa concezione del lavoro che vuole una riconquista della centralità dell’uomo.
Il compito della politica oggi è quindi quello di sostenere politiche per il lavoro e per l’occupazione che partano dal lavoro come risposta al desiderio di felicità dell’uomo. Il lavoro è uno strumento per la nostra felicità e che aiuta a manifestare quello che in ognuno di noi c’è. In questo modo sarebbe proprio nel lavoro che l’impegno del singolo può trovare una sua dimensione etica e quindi oltre che cercare giustamente la propria felicità si può guardare anche e soprattutto al bene del popolo di cui facciamo parte.
Educare al lavoro le nuove generazioni deve voler dire far capire che lavorare non è qualcosa a cui siamo costretti e chi è più furbo degli altri vince, ma al contrario deve essere concepito da ognuno come un contributo decisivo al bene del mondo.
CRISTIANESIMO/ Monaci, la radice comune di Oriente e Occidente - INT. Adriano Dell'Asta venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
L’annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana (Seriate, 17-18 ottobre) prende le mosse dall’ormai celebre discorso di Benedetto XVI al collegio dei Bernardini di Parigi, in cui il Papa parlò del monachesimo come determinato dalla ricerca dell’eterno e, quindi, come creatore di civiltà. Abbiamo chiesto ad Adriano Dell’Asta di introdurci ad alcuni aspetti dell’incontro
Professor Dell’Asta, la lettura fatta da Sua Santità Benedetto XVI si adatta anche al monachesimo orientale? Potrebbe fare qualche esemplificazione?
Il monachesimo occidentale e quello orientale, russo, sono il frutto di tradizioni diverse, ma queste diversità sono il modo originale e irripetibile di aderire all’unica verità di Cristo. Come spesso si dice, l’oriente può essere più liturgico, contemplativo e mistico, mentre l’occidente può essere più concettuale, attivo e normativo, ma quanto più quello che è decisivo diventa la vita con Cristo e in Cristo, tanto più le differenze diventano solo una ricchezza e non un’opposizione. Del resto, se davvero l’oriente è più liturgico e contemplativo dell’occidente, non si po’ certo immaginare un monachesimo occidentale senza contemplazione e vita liturgica. E sull’altro versante: la vita attiva, o addirittura l’influsso sulla società, non sono certo assenti nella tradizione monastica russa; di fatto, quando furono fedeli al carisma del fondatore e al desiderio di vivere radicalmente in compagnia di Cristo, i monasteri furono sempre un luogo di irradiazione della potenza di trasfigurazione del mondo che è tipica del cristianesimo. Se doveva cercare un sostegno e un modello di vita, il popolo guardava al monaco, anche in Russia.
Può farci qualche esempio?
Il monastero delle isole Solovki, nel mar Bianco, sorto nella prima metà del XV secolo, è un esempio in questo senso: fu un luogo attorno al quale la vita crebbe secondo tutta la sua complessità; e l’eredità della storia ce lo mostra: furono un luogo di bellezza incredibile, la bellezza della natura data da Dio, con il monastero e le sue icone create dagli uomini; e furono nello stesso tempo un luogo nel quale gli uomini imparavano a lavorare, per vivere, certo, ma per vivere nella bellezza, e allora il lavoro non era una condanna o qualcosa di facoltativo, ma una collaborazione con Dio, l’eterno che «è sempre all’opera».
Cosa ha significato essere monaci, nel senso compiuto descritto da Benedetto XVI, nella Russia sovietica?
Quando si parla del monachesimo russo il pensiero va sempre alle Solovki, perché le Solovki sono addirittura un simbolo della Russia in quanto tale: furono un esempio di quella ricchezza e pienezza di cui abbiamo appena detto e poi, dopo la rivoluzione, furono anche uno dei primi lager sovietici, il modello del sistema concentrazionario: punizione ed isolamento, lavoro forzato, sterminio dei «nemici del popolo». Vivere nella Russia Sovietica, per un monaco che voleva vivere da monaco, era impensabile: tutti i monasteri erano stati chiusi, spesso trasformati in prigioni, essere cristiano era un’anomalia che andava eliminata, tanto più esserlo in quella forma di testimonianza esemplare per tutti che è il monaco. Come ho detto, questo era impensabile, ma avvenne; e la fede si è trasmessa proprio perché qualcuno, nel mondo (spesso, anzi normalmente, senza aver fatto nessun voto), viveva esattamente l’esperienza di un’appartenenza totale a Cristo nella quale era possibile vivere con un senso e una gioia reali anche nelle condizioni più tragiche, dando senso a tutto anche in queste condizioni. «Verginità» in russo si dice «celomudrie», una parola che letteralmente significa «sapienza integrale»: il monaco, con la sua verginità, è colui che indica a tutti come è possibile che tutto abbia un significato buono e che questo significato sia vivibile per tutti e sia una possibilità di incontro e di unità per tutti.
Attenzione particolare è data dal vostro convegno alle forme monastiche non isolate dal mondo ma inserite nel vivo del contesto sociale. Perché?
La «sapienza integrale» del monaco è integrale proprio perché è per tutto e per tutti, in tutto; è un’esperienza che tocca tutte le sfere dell’essere: la vita pratica non meno di quella spirituale; è un’esperienza alla quale l’uomo partecipa con tutto il suo essere: con il corpo non meno che con la mente; ed è un’esperienza che cambia tutto l’essere, genera una cultura nuova, nella quale Cristo è «luce della ragione», così si canta nel tempo di Natale. La sottolineatura data dal convegno, quindi, è nelle cose; ovviamente ci sono stati lunghi momenti in cui questa verità è stata oscurata, ma questo fa parte della storia della vita di un popolo e di una tradizione, come il peccato fa parte della vita di ogni uomo. Per altro, proprio da questa integralità è nata la grande cultura russa, cioè la riflessione sull’esperienza che la gente viveva; perché questo è la cultura, cercare di capire e di dare forma, visibilità, di rendere insomma comunicabile e condivisibile quello che si vive e si reputa degno di essere ricordato e trasmesso. E questo comincia da subito, da quando la lingua viene segnata dal cristianesimo e il contadino chiama se stesso con un termine che suona quasi come il termine che significa cristiano, a quando Dostoevskij fa dire a uno dei suoi personaggi che se non esiste Dio lui non è più quel capitano che pure è. Persino all’inizio del XX secolo, in un momento in cui la Chiesa attraversava una crisi tremenda (poi sfociata nella catastrofe della rivoluzione) fu proprio nel riferimento a questa stessa Chiesa che sorsero alcuni dei fenomeni culturalmente più interessanti anche per il periodo successivo.
Come ormai tradizione, il Convegno di Russia Cristiana alterna voci occidentali a voci russe. A che punto è il dialogo culturale tra le due Chiese sorelle?
Il dialogo culturale prosegue, per quello che ci riguarda con azioni comuni, come quella di questo convegno o come l’attività della «Biblioteca dello Spirito», che è nata a Mosca nel 1993, per iniziativa tra gli altri proprio di Russia Cristiana, e che è diventata oggi un punto di riferimento per tutto il mondo culturale moscovita, con gli incontri che organizza (conferenze, concerti, proiezione di film, mostre) in certi periodi a cadenza addirittura quotidiana. Ma ovviamente non si tratta soltanto di quello che è dato di fare a noi: è un fatto che si respira un’aria di grande collaborazione e di grande desiderio di amicizia, sia nei rapporti tra le due Chiese sia, come si diceva, in ambito culturale. Ma soprattutto prosegue il dialogo della vita e dell’amicizia; del resto, se la cultura è quello che abbiamo detto non potrebbe che essere così. Del resto l’idea del nostro convegno è nata proprio constatando che il modo nel quale Benedetto XVI rileggeva la storia della cultura europea coincideva con una chiarezza esemplare e assolutamente simpatetica con quelli che erano i contributi migliori e più autentici della grande cultura russa.
L'uomo al centro della «Caritas in veritate» - Una boccata d'ossigeno per il mondo - L'Aula Gemelli dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma ospita, nel pomeriggio di giovedì 15, il convegno "Economia o utopia? Oltre la crisi, con la Caritas in veritate". Pubblichiamo quasi integralmente l'intervento del cardinale vicario generale per la diocesi di Roma. - di Agostino Vallini - L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009
Con l'enciclica Caritas in veritate, il Papa ha offerto alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà una riflessione di grande impegno argomentativo sullo sviluppo umano, un documento organico di analisi e di progetto sul mondo nuovo, un manuale etico per l'economia, una guida per la politica, un testo di ampio respiro e di speranza, con l'intento anche di rendere omaggio al grande Pontefice Paolo VI, a poco più di quarant'anni dalla pubblicazione di un altro importante documento sociale, l'enciclica Populorum progressio (1967).
Per Benedetto XVI nessuna questione che interessa l'uomo - dunque anche quella sociale - può prescindere dal rinvio ai fondamenti. Come dire che non è possibile parlare di "sviluppo" cui non sia sottesa una visione antropologica ed etica. Se infatti cambia il concetto di uomo e il modo con cui si interpreta la relazione che sussiste tra uomo e natura, uomo e libertà, uomo e lavoro, uomo ed economia, cambiano conseguentemente il concetto di società, lo scopo del processo economico, le regole e gli obiettivi dello sviluppo. Ai problemi angosciosi della fame e del sottosviluppo, della pace e della guerra, della genetica e dell'ecologia, dell'aborto e dell'eutanasia, dell'educazione, della democrazia e dei diritti umani si danno risposte diverse se dell'uomo si ha una visione spiritualistica e trascendente, oppure materialistica, evoluzionistica o tecnicistica. Nel trapasso culturale dentro il quale ci troviamo lo spartiacque è dato dalla risposta all'interrogativo fondamentale del nostro tempo: chi è l'uomo e qual è il suo destino.
In realtà alcuni segni e le cause della mutazione del concetto di uomo sono facilmente individuabili.
Per una certa corrente di pensiero, che fa riferimento all'evoluzionismo cosmico e biologico, l'uomo non è altro che il risultato, seppure il più nobile, dell'evoluzione cosmica. Assume oggi spazio ed interesse il contributo delle neuroscienze che tendono a ridurre l'intelligenza e la libertà a funzioni dell'organo cerebrale, quindi in definitiva a funzioni della materia-energia di cui è composta tutta la natura. Se ci si rivolge invece solo alle scienze empiriche che considerano l'uomo "oggetto" conoscibile e misurabile soltanto attraverso la conoscenza scientifica e l'applicazione dell'indagine sperimentale, si nega all'uomo la dignità di "soggetto". In questo quadro si aggiunga l'apporto non secondario - che diventerà sempre più incisivo - delle tecnoscienze con gli sviluppi delle biotecnologie, che se non rettamente orientate condurranno verso traguardi deterministici.
Su un altro versante gioca un ruolo decisivo il concetto di libertà. Intesa come valore assoluto, sganciato cioè da altri valori, ad esempio la vita, la giustizia, la solidarietà, che la possono misurare, da apparentemente domina vitae, paradossalmente - per il fatto di essere priva di relazione - la libertà finisce per schiacciare lo stesso individuo. Ogni desiderio individuale è preteso come diritto che la società deve garantire. In questa direzione si scivola inevitabilmente verso il nichilismo, la disgregazione dell'uomo e una società sazia e disperata, dove la fa da padrona l'ingiustizia e la violenza.
Naturalmente nessuno nega gli autentici apporti della cultura del nostro tempo, né gli importanti contributi di questi saperi, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, quali espressione delle potenzialità dell'intelligenza umana, e neppure si sottovaluta il valore della libertà, ma la domanda è se devono essere lasciati a se stessi o debbano essere orientati all'interno di un sistema di fini che sono oltre gli stessi orizzonti scientifici e, quanto alla libertà, se essa non sia un valore non-assoluto ma uno dei valori, seppure di primaria grandezza, nel concerto di altri altrettanto grandi e decisivi per le sorti del vivere personale e sociale.
La visione antropologica che sottende la dottrina dell'enciclica, per la quale appaiono riduttive e inaccettabili quelle naturalistiche e immanentistiche sopra appena accennate, può essere adombrata già dal tema del documento, che è quello non di un qualunque sviluppo umano, ma dello sviluppo umano "integrale".
Richiamando le linee di fondo della Populorum progressio, in continuità con il magistero sociale dei suoi predecessori, il Papa ribadisce che "la Chiesa in tutto il suo essere e il suo agire, (...) è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo", che è "l'autentico sviluppo", perché "riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione" (Caritas in veritate, 11). E citando Paolo VI, afferma: "Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo di uomini, fino a comprendere l'umanità tutta intera" (ibidem, 18).
Si intuisce già da queste prime battute quale orizzonte antropologico il Papa abbia dinanzi a sé; quello cioè di uno sviluppo dell'umanità secondo il piano di Dio nel quale la concezione dell'uomo è fondata in Cristo, che "rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (Gaudium et spes, 22). Dunque di un uomo considerato non solo nella sua dimensione terrena, ma nella prospettiva eterna, senza la quale - egli scrive - "il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro", perché "chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere" (Caritas in veritate, 11). L'uomo integrale è la "verità dello sviluppo".
In un momento di crisi che spinge a rinchiudersi nel proprio "particolare" o a trovare soluzioni soltanto di tipo economicistico, il Papa ci invita a pensare in grande o - per usare un'altra immagine suggestiva da lui stesso usata recentemente in altro contesto (adattandola al nostro tema) - a guardare le cose attraverso la "grande finestra che Cristo ci ha aperto sull'intera verità" dell'uomo, e a non lasciarci guidare dalla "piccola finestra" di prospettive parziali e riduttive.
Ma procediamo per gradi. Anzitutto il punto di partenza di un'antropologia cristianamente ispirata muove dalla concezione che l'uomo, pur essendo sotto il profilo biologico simile agli altri animali, si distingue da essi per natura e non solo per grado, per cui dal punto di vista genetico non può essere manipolato - si pensi alle sperimentazioni genetiche e eugenetiche, o al commercio di esseri umani per il prelievo di organi. C'è qualcosa in lui che lo distingue radicalmente da tutti gli altri esseri viventi, con i quali tuttavia ha in comune le essenziali leggi biologiche. Questo qualcosa, su cui ci si è interrogati fin dagli albori della civiltà soprattutto occidentale, è riconducibile a un principio vitale informatore o a una struttura non materiale che permane sempre, per cui l'essere umano è un organismo da essa informato, cioè un sistema strutturato di elementi finalisticamente ordinato alla sua conservazione e al suo sviluppo.
In secondo luogo, l'uomo è persona, "capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso"; a differenza di tutte le altre creature ha coscienza del senso di sé. Per qualificarne l'identità specifica non basta dire che l'uomo è dotato di ragione e di consapevolezza, occorre aggiungere che è capace di relazionarsi con la realtà secondo una modalità specifica e unica attraverso la quale, trasformando la realtà, la assoggetta finalizzandola a se stesso.
In questa prospettiva personalistica, ad esempio, il lavoro umano, come attività prettamente umana, è espressione della "ricerca del senso" e coopera a configurare l'economia come "razionale e benefica gestione della ricchezza materiale", finalizzata al benessere e allo sviluppo dell'intera comunità umana.
Ma la domanda sull'uomo-persona nella visione cristiana, illuminata dalla rivelazione biblica, va oltre: si connette intimamente col mistero di Dio, che in Gesù Cristo ne illumina la vita, l'intelligenza, l'amore, la libertà, le relazioni, lo sviluppo umano in tutte le sue dimensioni. "La fede cristiana - scrive il Papa - si occupa dello sviluppo (...) contando (...) solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano integrale. "Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo"" (Caritas in veritate, 18).
In questa prospettiva antropologica e cristocentrica c'è un altro aspetto da considerare. La persona umana "porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta".
Nell'impianto argomentativo generale dell'enciclica l'amore-carità non occupa un posto, seppure di rilievo, tra i diversi segmenti di cui tener conto per una ammodernata dottrina sociale della Chiesa, una sorta di correttivo accanto al principio di giustizia. "La carità - afferma il Papa - è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa (...) Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni (...) ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici (...) la carità è tutto (...) è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Nei rapporti sociali dunque la carità non ha una posizione marginale e compensativa quando i rapporti secondo giustizia sono compromessi, ma una posizione centrale, perché l'uomo si deve misurare con essa e da essa esprime la forma piena. I rapporti sociali sono adeguati alla dignità dell'uomo non solo se garantiscono a ciascuno il suo, ma se a essi si coestende la carità, che è dunque da considerare "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera" (ibidem, 1).
La carità tuttavia va congiunta alla verità. Dio, oltre che Amore eterno è Verità assoluta. "Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui" in esso "trova la sua verità ed è aderendo (ad essa) che egli diventa libero" (ivi).
D'altra parte, "senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente (...) La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano universale" (ibidem, 3).
Se da questi principi generali, si passa a considerare più direttamente il tema dello sviluppo, non è difficile trovare nelle argomentazioni dell'enciclica un'affermazione che, a mio parere, può essere un'importante chiave di lettura dell'intero documento.
Riprendendo il messaggio della Populorum progressio, il Papa afferma: "L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno (...) Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione" (Caritas in veritate, 11). Che cosa vuol dire ?
In primo luogo, "dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall'altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo" (ibidem, 16). Sul piano naturale lo sviluppo umano integrale "domanda il proprio inveramento in un umanesimo trascendente, che (...) conferisce [all'uomo] la sua (...) pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale" (ibidem, 18). Ne consegue che l'orizzonte di uno sviluppo integrale non può eclissare Dio; in caso contrario non vi sarebbe un umanesimo vero.
In secondo luogo, lo sviluppo come vocazione richiede una risposta libera e responsabile della persona e dei popoli (ibidem, 17). La chiamata in gioco della libertà e della responsabilità mette anzitutto in guardia dal grave pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica economica, che da sola non può orientarlo in senso umano secondo giustizia e in vista del bene comune, in quanto la sola ragione tecnica è insufficiente, anzi è pericolosa, perché può condurre verso mete deterministiche radicalmente antiumane. L'appello alla libertà inoltre apre orizzonti affascinanti, capaci di coinvolgere le migliori energie verso prospettive di progresso. L'uomo per natura tende a svilupparsi: è "costitutivamente proteso verso "l'essere di più"" (ibidem, 14). Il concetto di sviluppo dunque è intrinseco all'uomo stesso, che non è solo fruitore di aiuto, è anche autore del proprio sviluppo e dei rapporti fra le persone. L'enciclica, riprendendo la Gaudium est spes, afferma: "L'uomo è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale". Solo se lo sviluppo è una vocazione dell'uomo e non l'esito di un destino indipendente da lui, è possibile che evolva in senso umano.
Tuttavia per evitare che le capacità umane percorrano strade che possano produrre distorsioni dello sviluppo (la storia ci insegna di non sottovalutare la fragilità della natura umana che minaccia di continuo il cammino dell'umanità) c'è bisogno di altro: va difeso il collegamento tra la centralità della persona e l'etica, secondo criteri o principi orientativi dell'azione morale. L'etica non è qualcosa di esteriore allo sviluppo dell'economia, è un principio interiore, perché un'economia in funzione dell'uomo non può non tener conto dei diritti umani e dei più ampi valori umani.
Orbene, l'enciclica ricorda anzitutto due criteri o principi dell'agire morale: la giustizia e il bene comune, ambedue - beninteso - coniugati o, forse meglio, inglobati nella carità e nella verità. Quanto alla giustizia il Papa afferma che ""la città dell'uomo" non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione" (ibidem, 6). Se la giustizia impone di dare a ciascuno il suo ed è "la prima via della carità" - Paolo VI la definiva la "misura minima della carità" - "la carità eccede la giustizia", perché amare è donare, per cui la carità "supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono" (ivi). Accanto al bene individuale c'è poi il bene comune. "Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale (...). Ogni cristiano è chiamato a questa carità. È questa la via istituzionale (...) della carità, non meno qualificata e incisiva" della carità individuale (ibidem, 7).
Questa carità per il bene comune è tanto più urgente in una società in via di globalizzazione, nella quale all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e tra i popoli non è detto che corrisponda "l'interazione delle coscienze e delle intelligenze", dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. "Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (ibidem, 9). Un volto umano allo sviluppo, inteso come vocazione, può essere assicurato solo ponendo al centro la carità.
Riferendosi ancora una volta alla Populorum progressio, il Papa afferma che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale", vanno ricercate altrove e ne ricorda tre: il sottosviluppo è figlio della non osservanza dei doveri di solidarietà, della carenza di pensiero, per cui "servono uomini(...) capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso", ma soprattutto della "mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli". Il Papa si domanda: "Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli?". E risponde. "La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". La fraternità "ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna" (ibidem, 19). Dobbiamo "mobilitarci con il "cuore", per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani" (ibidem, 20).
A oltre quarant'anni dalla Populorum progressio lo sviluppo integrale dell'uomo e dei popoli "resta ancora un problema aperto" (ibidem, 33). Il quadro dello sviluppo è "policentrico", molteplici sono i protagonisti e le cause dello sviluppo e del sottosviluppo, come pure vanno differenziati i meriti e le colpe. La questione sociale deve essere ricondotta alla questione antropologica. Così al centro del vero sviluppo c'è anzitutto "l'apertura alla vita". "Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo" (ibidem, 28). Al contrario, "l'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica" (ibidem, 44). Va dunque garantito uno stretto rapporto tra etica della vita umana e etica sociale. Giovanni Paolo II, nell'Evangelium vitae, aveva scritto: "Non può avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata".
Lo sviluppo integrale domanda che gli Stati varino politiche che promuovano "la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna" (Caritas in veritate, 44). La questione familiare non è una questione privata ma sociale.
Strettamente collegato con lo sviluppo è l'effettivo esercizio del diritto alla libertà religiosa, negato in molte aree del mondo. "Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto avendolo creato a sua immagine, ne fonda (...) la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"". "Le lotte e i conflitti che nel mondo si combattono per motivazioni religiose (...) frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale" (ibidem, 29).
Se il retto agire economico non può prescindere dalla centralità della persona umana, dalla giustizia, dalla solidarietà e dal bene comune, ne consegue che la sfera dell'economia non può percorrere strade parallele alla sfera del sociale, né gli strumenti economici (tra questi anzitutto il mercato) possono essere usati in regime di totale autonomia da "influenze" di carattere morale, perché così facendo si dà luogo alla "sopraffazione del forte sul debole" (ibidem, 36) e inoltre il processo di sviluppo deve "fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità" (ibidem, 34). Bisogna riportare l'etica e la carità al centro del sistema dei mercati. D'altra parte - si legge nell'enciclica - il mercato "non esiste allo stato puro", né deve essere demonizzato, perché può offrire molti vantaggi. È uno strumento che chiama sempre "in causa l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale" (ibidem, 36). Pertanto la logica mercantile non può soggiacere soltanto alla regola del massimo profitto o a criteri di giustizia commutativa rigidamente intesa. Ha bisogno di un concetto espansivo di giustizia e del principio di gratuità, nella logica del dono come espressione della fraternità, che abbia come obiettivo il bene comune (ivi). "L'essere umano è fatto per il dono, che ne attua ed esprime la dimensione della trascendenza". E "il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza" (ibidem, 34).
È certamente una "grande sfida che abbiamo davanti" (ibidem, 36) e che dobbiamo affrontare, divenuta ancora più urgente in questo tempo di globalizzazione e di crisi economico-finanziaria. L'economia di mercato deve essere, per così dire, contaminata da altre forme di economia sociale. Per usare il linguaggio di alcuni economisti: va recuperata l'idea di "economia civile" perché non basta più quella di "economia politica" di Adam Smith.
Il profitto, come unico obiettivo dell'economia, mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, "rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". È utile se, "in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo" (ibidem, 21).
Lo sviluppo economico, che "continua a essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi" (ivi), deve essere concepito in chiave planetaria, vale a dire che è necessario riconoscere che tutti i popoli sono una sola famiglia e che le economie mondiali sono chiamate a cooperare alla soluzione della grave crisi nel segno della solidarietà (cfr. ibidem, 53).
Questi e molti altri aspetti, trattati dall'enciclica, domandano un profondo rinnovamento culturale e la riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La vocazione insita nell'uomo a essere di più - afferma il Papa - "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole a trovare nuove forme di impegno (...) La crisi economica, che ha perso di vista la radice sociale e umana dell'economia e dello sviluppo, diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità" (ibidem, 21). Non basta allora inventare nuove strategie economiche e nuovi strumenti tecnologici. È "necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo" (ibidem, 23), "una nuova sintesi umanistica", che muova da una convinzione condivisa secondo cui l'obiettivo di fondo è che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità" (ibidem, 25).
La Caritas in veritate è una boccata d'ossigeno per ripensare l'umanizzazione del mondo e ci educa a saper valutare, alla luce congiunta della ragione e della fede, i fatti sociali e l'economia, avendo dinanzi le sfide del presente e lo scandalo non più sopportabile di ingiustizie e di disparità dei popoli.
(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009)
1) A che serve il lavoro? - Mario Mauro venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
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3) L'uomo al centro della «Caritas in veritate» - Una boccata d'ossigeno per il mondo - L'Aula Gemelli dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma ospita, nel pomeriggio di giovedì 15, il convegno "Economia o utopia? Oltre la crisi, con la Caritas in veritate". Pubblichiamo quasi integralmente l'intervento del cardinale vicario generale per la diocesi di Roma. - di Agostino Vallini - L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009
A che serve il lavoro? - Mario Mauro venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera, in un’analisi in cui si descrivevano molto bene le distorsioni che hanno portato il mondo nella gravissima depressione economica odierna, Giulio Sapelli coglieva perfettamente quali sono state le vere cause e quale deve essere l’antidoto giusto per un vero rilancio dell’economia mondiale, un rilancio che non coincida semplicemente nel miglioramento temporaneo delle condizioni economiche di cittadini e stati, ma che sia un drastico cambiamento di prospettiva nella concezione del “fare soldi”.
La crisi deve aprire gli occhi a chi considera il mercato un mero strumento di fabbricazione del denaro, detto come Sapelli, “impersonale, anonimo e soprattutto perfetto”. Il nesso tra comportamento morale dell’imprenditore o del finanziere con il tornaconto economico deve tornare in primo piano, non perché il desiderio di ricchezza sia di per sé sbagliato o immorale, ma perché è stato proprio questo guardare solo al proprio tornaconto senza considerare l’aspetto umano del mercato e della finanza che ha prodotto l’attuale crisi. Non c’è una spiegazione più scientifica di questa. Non ci sono teorie economiche liberali o stataliste che tengano.
Nella nostra società l’idea che comunemente si ha del lavoro è di qualcosa che serve a fare i soldi. Il lavoro, al contrario, deve emergere come necessità di cambiare la realtà, di renderla più corrispondente a quelli che sono i bisogni dell’uomo, e anche occasione di cambiare sé. Infatti non si lavora veramente se non c’è un lavoro dentro il lavoro per approssimarsi, per avvicinarsi al Destino, cui è chiamato l’uomo attraverso la circostanza quotidiana. Da questo punto di vista non c’è reale differenza tra il lavare i piatti o fare il professore universitario perché ciò che definisce l’importanza di quello che si fa è la coscienza che si ha dello scopo.
Da parecchi anni ormai l’esecutivo europeo vede come priorità per un reale sviluppo economico la necessità di investire sui giovani, sulla ricerca e sull’innovazione, sollecitando i governi a mettere a disposizione risorse finanziarie per quella che viene chiamata la “strategia di Lisbona”. Le istituzioni politiche ed economiche dell’Unione stanno inoltre cercando giustamente di mettere in campo misure efficaci per restituire fiducia e stabilità ai cittadini europei.
Ma la difesa della capacità competitiva del nostro sistema economico, e quindi la capacità di produrre ricchezza, la capacità di creare sviluppo, di attivare occupazione passa attraverso questa diversa concezione del lavoro che vuole una riconquista della centralità dell’uomo.
Il compito della politica oggi è quindi quello di sostenere politiche per il lavoro e per l’occupazione che partano dal lavoro come risposta al desiderio di felicità dell’uomo. Il lavoro è uno strumento per la nostra felicità e che aiuta a manifestare quello che in ognuno di noi c’è. In questo modo sarebbe proprio nel lavoro che l’impegno del singolo può trovare una sua dimensione etica e quindi oltre che cercare giustamente la propria felicità si può guardare anche e soprattutto al bene del popolo di cui facciamo parte.
Educare al lavoro le nuove generazioni deve voler dire far capire che lavorare non è qualcosa a cui siamo costretti e chi è più furbo degli altri vince, ma al contrario deve essere concepito da ognuno come un contributo decisivo al bene del mondo.
CRISTIANESIMO/ Monaci, la radice comune di Oriente e Occidente - INT. Adriano Dell'Asta venerdì 16 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
L’annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana (Seriate, 17-18 ottobre) prende le mosse dall’ormai celebre discorso di Benedetto XVI al collegio dei Bernardini di Parigi, in cui il Papa parlò del monachesimo come determinato dalla ricerca dell’eterno e, quindi, come creatore di civiltà. Abbiamo chiesto ad Adriano Dell’Asta di introdurci ad alcuni aspetti dell’incontro
Professor Dell’Asta, la lettura fatta da Sua Santità Benedetto XVI si adatta anche al monachesimo orientale? Potrebbe fare qualche esemplificazione?
Il monachesimo occidentale e quello orientale, russo, sono il frutto di tradizioni diverse, ma queste diversità sono il modo originale e irripetibile di aderire all’unica verità di Cristo. Come spesso si dice, l’oriente può essere più liturgico, contemplativo e mistico, mentre l’occidente può essere più concettuale, attivo e normativo, ma quanto più quello che è decisivo diventa la vita con Cristo e in Cristo, tanto più le differenze diventano solo una ricchezza e non un’opposizione. Del resto, se davvero l’oriente è più liturgico e contemplativo dell’occidente, non si po’ certo immaginare un monachesimo occidentale senza contemplazione e vita liturgica. E sull’altro versante: la vita attiva, o addirittura l’influsso sulla società, non sono certo assenti nella tradizione monastica russa; di fatto, quando furono fedeli al carisma del fondatore e al desiderio di vivere radicalmente in compagnia di Cristo, i monasteri furono sempre un luogo di irradiazione della potenza di trasfigurazione del mondo che è tipica del cristianesimo. Se doveva cercare un sostegno e un modello di vita, il popolo guardava al monaco, anche in Russia.
Può farci qualche esempio?
Il monastero delle isole Solovki, nel mar Bianco, sorto nella prima metà del XV secolo, è un esempio in questo senso: fu un luogo attorno al quale la vita crebbe secondo tutta la sua complessità; e l’eredità della storia ce lo mostra: furono un luogo di bellezza incredibile, la bellezza della natura data da Dio, con il monastero e le sue icone create dagli uomini; e furono nello stesso tempo un luogo nel quale gli uomini imparavano a lavorare, per vivere, certo, ma per vivere nella bellezza, e allora il lavoro non era una condanna o qualcosa di facoltativo, ma una collaborazione con Dio, l’eterno che «è sempre all’opera».
Cosa ha significato essere monaci, nel senso compiuto descritto da Benedetto XVI, nella Russia sovietica?
Quando si parla del monachesimo russo il pensiero va sempre alle Solovki, perché le Solovki sono addirittura un simbolo della Russia in quanto tale: furono un esempio di quella ricchezza e pienezza di cui abbiamo appena detto e poi, dopo la rivoluzione, furono anche uno dei primi lager sovietici, il modello del sistema concentrazionario: punizione ed isolamento, lavoro forzato, sterminio dei «nemici del popolo». Vivere nella Russia Sovietica, per un monaco che voleva vivere da monaco, era impensabile: tutti i monasteri erano stati chiusi, spesso trasformati in prigioni, essere cristiano era un’anomalia che andava eliminata, tanto più esserlo in quella forma di testimonianza esemplare per tutti che è il monaco. Come ho detto, questo era impensabile, ma avvenne; e la fede si è trasmessa proprio perché qualcuno, nel mondo (spesso, anzi normalmente, senza aver fatto nessun voto), viveva esattamente l’esperienza di un’appartenenza totale a Cristo nella quale era possibile vivere con un senso e una gioia reali anche nelle condizioni più tragiche, dando senso a tutto anche in queste condizioni. «Verginità» in russo si dice «celomudrie», una parola che letteralmente significa «sapienza integrale»: il monaco, con la sua verginità, è colui che indica a tutti come è possibile che tutto abbia un significato buono e che questo significato sia vivibile per tutti e sia una possibilità di incontro e di unità per tutti.
Attenzione particolare è data dal vostro convegno alle forme monastiche non isolate dal mondo ma inserite nel vivo del contesto sociale. Perché?
La «sapienza integrale» del monaco è integrale proprio perché è per tutto e per tutti, in tutto; è un’esperienza che tocca tutte le sfere dell’essere: la vita pratica non meno di quella spirituale; è un’esperienza alla quale l’uomo partecipa con tutto il suo essere: con il corpo non meno che con la mente; ed è un’esperienza che cambia tutto l’essere, genera una cultura nuova, nella quale Cristo è «luce della ragione», così si canta nel tempo di Natale. La sottolineatura data dal convegno, quindi, è nelle cose; ovviamente ci sono stati lunghi momenti in cui questa verità è stata oscurata, ma questo fa parte della storia della vita di un popolo e di una tradizione, come il peccato fa parte della vita di ogni uomo. Per altro, proprio da questa integralità è nata la grande cultura russa, cioè la riflessione sull’esperienza che la gente viveva; perché questo è la cultura, cercare di capire e di dare forma, visibilità, di rendere insomma comunicabile e condivisibile quello che si vive e si reputa degno di essere ricordato e trasmesso. E questo comincia da subito, da quando la lingua viene segnata dal cristianesimo e il contadino chiama se stesso con un termine che suona quasi come il termine che significa cristiano, a quando Dostoevskij fa dire a uno dei suoi personaggi che se non esiste Dio lui non è più quel capitano che pure è. Persino all’inizio del XX secolo, in un momento in cui la Chiesa attraversava una crisi tremenda (poi sfociata nella catastrofe della rivoluzione) fu proprio nel riferimento a questa stessa Chiesa che sorsero alcuni dei fenomeni culturalmente più interessanti anche per il periodo successivo.
Come ormai tradizione, il Convegno di Russia Cristiana alterna voci occidentali a voci russe. A che punto è il dialogo culturale tra le due Chiese sorelle?
Il dialogo culturale prosegue, per quello che ci riguarda con azioni comuni, come quella di questo convegno o come l’attività della «Biblioteca dello Spirito», che è nata a Mosca nel 1993, per iniziativa tra gli altri proprio di Russia Cristiana, e che è diventata oggi un punto di riferimento per tutto il mondo culturale moscovita, con gli incontri che organizza (conferenze, concerti, proiezione di film, mostre) in certi periodi a cadenza addirittura quotidiana. Ma ovviamente non si tratta soltanto di quello che è dato di fare a noi: è un fatto che si respira un’aria di grande collaborazione e di grande desiderio di amicizia, sia nei rapporti tra le due Chiese sia, come si diceva, in ambito culturale. Ma soprattutto prosegue il dialogo della vita e dell’amicizia; del resto, se la cultura è quello che abbiamo detto non potrebbe che essere così. Del resto l’idea del nostro convegno è nata proprio constatando che il modo nel quale Benedetto XVI rileggeva la storia della cultura europea coincideva con una chiarezza esemplare e assolutamente simpatetica con quelli che erano i contributi migliori e più autentici della grande cultura russa.
L'uomo al centro della «Caritas in veritate» - Una boccata d'ossigeno per il mondo - L'Aula Gemelli dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma ospita, nel pomeriggio di giovedì 15, il convegno "Economia o utopia? Oltre la crisi, con la Caritas in veritate". Pubblichiamo quasi integralmente l'intervento del cardinale vicario generale per la diocesi di Roma. - di Agostino Vallini - L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009
Con l'enciclica Caritas in veritate, il Papa ha offerto alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà una riflessione di grande impegno argomentativo sullo sviluppo umano, un documento organico di analisi e di progetto sul mondo nuovo, un manuale etico per l'economia, una guida per la politica, un testo di ampio respiro e di speranza, con l'intento anche di rendere omaggio al grande Pontefice Paolo VI, a poco più di quarant'anni dalla pubblicazione di un altro importante documento sociale, l'enciclica Populorum progressio (1967).
Per Benedetto XVI nessuna questione che interessa l'uomo - dunque anche quella sociale - può prescindere dal rinvio ai fondamenti. Come dire che non è possibile parlare di "sviluppo" cui non sia sottesa una visione antropologica ed etica. Se infatti cambia il concetto di uomo e il modo con cui si interpreta la relazione che sussiste tra uomo e natura, uomo e libertà, uomo e lavoro, uomo ed economia, cambiano conseguentemente il concetto di società, lo scopo del processo economico, le regole e gli obiettivi dello sviluppo. Ai problemi angosciosi della fame e del sottosviluppo, della pace e della guerra, della genetica e dell'ecologia, dell'aborto e dell'eutanasia, dell'educazione, della democrazia e dei diritti umani si danno risposte diverse se dell'uomo si ha una visione spiritualistica e trascendente, oppure materialistica, evoluzionistica o tecnicistica. Nel trapasso culturale dentro il quale ci troviamo lo spartiacque è dato dalla risposta all'interrogativo fondamentale del nostro tempo: chi è l'uomo e qual è il suo destino.
In realtà alcuni segni e le cause della mutazione del concetto di uomo sono facilmente individuabili.
Per una certa corrente di pensiero, che fa riferimento all'evoluzionismo cosmico e biologico, l'uomo non è altro che il risultato, seppure il più nobile, dell'evoluzione cosmica. Assume oggi spazio ed interesse il contributo delle neuroscienze che tendono a ridurre l'intelligenza e la libertà a funzioni dell'organo cerebrale, quindi in definitiva a funzioni della materia-energia di cui è composta tutta la natura. Se ci si rivolge invece solo alle scienze empiriche che considerano l'uomo "oggetto" conoscibile e misurabile soltanto attraverso la conoscenza scientifica e l'applicazione dell'indagine sperimentale, si nega all'uomo la dignità di "soggetto". In questo quadro si aggiunga l'apporto non secondario - che diventerà sempre più incisivo - delle tecnoscienze con gli sviluppi delle biotecnologie, che se non rettamente orientate condurranno verso traguardi deterministici.
Su un altro versante gioca un ruolo decisivo il concetto di libertà. Intesa come valore assoluto, sganciato cioè da altri valori, ad esempio la vita, la giustizia, la solidarietà, che la possono misurare, da apparentemente domina vitae, paradossalmente - per il fatto di essere priva di relazione - la libertà finisce per schiacciare lo stesso individuo. Ogni desiderio individuale è preteso come diritto che la società deve garantire. In questa direzione si scivola inevitabilmente verso il nichilismo, la disgregazione dell'uomo e una società sazia e disperata, dove la fa da padrona l'ingiustizia e la violenza.
Naturalmente nessuno nega gli autentici apporti della cultura del nostro tempo, né gli importanti contributi di questi saperi, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, quali espressione delle potenzialità dell'intelligenza umana, e neppure si sottovaluta il valore della libertà, ma la domanda è se devono essere lasciati a se stessi o debbano essere orientati all'interno di un sistema di fini che sono oltre gli stessi orizzonti scientifici e, quanto alla libertà, se essa non sia un valore non-assoluto ma uno dei valori, seppure di primaria grandezza, nel concerto di altri altrettanto grandi e decisivi per le sorti del vivere personale e sociale.
La visione antropologica che sottende la dottrina dell'enciclica, per la quale appaiono riduttive e inaccettabili quelle naturalistiche e immanentistiche sopra appena accennate, può essere adombrata già dal tema del documento, che è quello non di un qualunque sviluppo umano, ma dello sviluppo umano "integrale".
Richiamando le linee di fondo della Populorum progressio, in continuità con il magistero sociale dei suoi predecessori, il Papa ribadisce che "la Chiesa in tutto il suo essere e il suo agire, (...) è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo", che è "l'autentico sviluppo", perché "riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione" (Caritas in veritate, 11). E citando Paolo VI, afferma: "Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo di uomini, fino a comprendere l'umanità tutta intera" (ibidem, 18).
Si intuisce già da queste prime battute quale orizzonte antropologico il Papa abbia dinanzi a sé; quello cioè di uno sviluppo dell'umanità secondo il piano di Dio nel quale la concezione dell'uomo è fondata in Cristo, che "rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (Gaudium et spes, 22). Dunque di un uomo considerato non solo nella sua dimensione terrena, ma nella prospettiva eterna, senza la quale - egli scrive - "il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro", perché "chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere" (Caritas in veritate, 11). L'uomo integrale è la "verità dello sviluppo".
In un momento di crisi che spinge a rinchiudersi nel proprio "particolare" o a trovare soluzioni soltanto di tipo economicistico, il Papa ci invita a pensare in grande o - per usare un'altra immagine suggestiva da lui stesso usata recentemente in altro contesto (adattandola al nostro tema) - a guardare le cose attraverso la "grande finestra che Cristo ci ha aperto sull'intera verità" dell'uomo, e a non lasciarci guidare dalla "piccola finestra" di prospettive parziali e riduttive.
Ma procediamo per gradi. Anzitutto il punto di partenza di un'antropologia cristianamente ispirata muove dalla concezione che l'uomo, pur essendo sotto il profilo biologico simile agli altri animali, si distingue da essi per natura e non solo per grado, per cui dal punto di vista genetico non può essere manipolato - si pensi alle sperimentazioni genetiche e eugenetiche, o al commercio di esseri umani per il prelievo di organi. C'è qualcosa in lui che lo distingue radicalmente da tutti gli altri esseri viventi, con i quali tuttavia ha in comune le essenziali leggi biologiche. Questo qualcosa, su cui ci si è interrogati fin dagli albori della civiltà soprattutto occidentale, è riconducibile a un principio vitale informatore o a una struttura non materiale che permane sempre, per cui l'essere umano è un organismo da essa informato, cioè un sistema strutturato di elementi finalisticamente ordinato alla sua conservazione e al suo sviluppo.
In secondo luogo, l'uomo è persona, "capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso"; a differenza di tutte le altre creature ha coscienza del senso di sé. Per qualificarne l'identità specifica non basta dire che l'uomo è dotato di ragione e di consapevolezza, occorre aggiungere che è capace di relazionarsi con la realtà secondo una modalità specifica e unica attraverso la quale, trasformando la realtà, la assoggetta finalizzandola a se stesso.
In questa prospettiva personalistica, ad esempio, il lavoro umano, come attività prettamente umana, è espressione della "ricerca del senso" e coopera a configurare l'economia come "razionale e benefica gestione della ricchezza materiale", finalizzata al benessere e allo sviluppo dell'intera comunità umana.
Ma la domanda sull'uomo-persona nella visione cristiana, illuminata dalla rivelazione biblica, va oltre: si connette intimamente col mistero di Dio, che in Gesù Cristo ne illumina la vita, l'intelligenza, l'amore, la libertà, le relazioni, lo sviluppo umano in tutte le sue dimensioni. "La fede cristiana - scrive il Papa - si occupa dello sviluppo (...) contando (...) solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano integrale. "Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo"" (Caritas in veritate, 18).
In questa prospettiva antropologica e cristocentrica c'è un altro aspetto da considerare. La persona umana "porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta".
Nell'impianto argomentativo generale dell'enciclica l'amore-carità non occupa un posto, seppure di rilievo, tra i diversi segmenti di cui tener conto per una ammodernata dottrina sociale della Chiesa, una sorta di correttivo accanto al principio di giustizia. "La carità - afferma il Papa - è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa (...) Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni (...) ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici (...) la carità è tutto (...) è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Nei rapporti sociali dunque la carità non ha una posizione marginale e compensativa quando i rapporti secondo giustizia sono compromessi, ma una posizione centrale, perché l'uomo si deve misurare con essa e da essa esprime la forma piena. I rapporti sociali sono adeguati alla dignità dell'uomo non solo se garantiscono a ciascuno il suo, ma se a essi si coestende la carità, che è dunque da considerare "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera" (ibidem, 1).
La carità tuttavia va congiunta alla verità. Dio, oltre che Amore eterno è Verità assoluta. "Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui" in esso "trova la sua verità ed è aderendo (ad essa) che egli diventa libero" (ivi).
D'altra parte, "senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente (...) La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano universale" (ibidem, 3).
Se da questi principi generali, si passa a considerare più direttamente il tema dello sviluppo, non è difficile trovare nelle argomentazioni dell'enciclica un'affermazione che, a mio parere, può essere un'importante chiave di lettura dell'intero documento.
Riprendendo il messaggio della Populorum progressio, il Papa afferma: "L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno (...) Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione" (Caritas in veritate, 11). Che cosa vuol dire ?
In primo luogo, "dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall'altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo" (ibidem, 16). Sul piano naturale lo sviluppo umano integrale "domanda il proprio inveramento in un umanesimo trascendente, che (...) conferisce [all'uomo] la sua (...) pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale" (ibidem, 18). Ne consegue che l'orizzonte di uno sviluppo integrale non può eclissare Dio; in caso contrario non vi sarebbe un umanesimo vero.
In secondo luogo, lo sviluppo come vocazione richiede una risposta libera e responsabile della persona e dei popoli (ibidem, 17). La chiamata in gioco della libertà e della responsabilità mette anzitutto in guardia dal grave pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica economica, che da sola non può orientarlo in senso umano secondo giustizia e in vista del bene comune, in quanto la sola ragione tecnica è insufficiente, anzi è pericolosa, perché può condurre verso mete deterministiche radicalmente antiumane. L'appello alla libertà inoltre apre orizzonti affascinanti, capaci di coinvolgere le migliori energie verso prospettive di progresso. L'uomo per natura tende a svilupparsi: è "costitutivamente proteso verso "l'essere di più"" (ibidem, 14). Il concetto di sviluppo dunque è intrinseco all'uomo stesso, che non è solo fruitore di aiuto, è anche autore del proprio sviluppo e dei rapporti fra le persone. L'enciclica, riprendendo la Gaudium est spes, afferma: "L'uomo è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale". Solo se lo sviluppo è una vocazione dell'uomo e non l'esito di un destino indipendente da lui, è possibile che evolva in senso umano.
Tuttavia per evitare che le capacità umane percorrano strade che possano produrre distorsioni dello sviluppo (la storia ci insegna di non sottovalutare la fragilità della natura umana che minaccia di continuo il cammino dell'umanità) c'è bisogno di altro: va difeso il collegamento tra la centralità della persona e l'etica, secondo criteri o principi orientativi dell'azione morale. L'etica non è qualcosa di esteriore allo sviluppo dell'economia, è un principio interiore, perché un'economia in funzione dell'uomo non può non tener conto dei diritti umani e dei più ampi valori umani.
Orbene, l'enciclica ricorda anzitutto due criteri o principi dell'agire morale: la giustizia e il bene comune, ambedue - beninteso - coniugati o, forse meglio, inglobati nella carità e nella verità. Quanto alla giustizia il Papa afferma che ""la città dell'uomo" non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione" (ibidem, 6). Se la giustizia impone di dare a ciascuno il suo ed è "la prima via della carità" - Paolo VI la definiva la "misura minima della carità" - "la carità eccede la giustizia", perché amare è donare, per cui la carità "supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono" (ivi). Accanto al bene individuale c'è poi il bene comune. "Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale (...). Ogni cristiano è chiamato a questa carità. È questa la via istituzionale (...) della carità, non meno qualificata e incisiva" della carità individuale (ibidem, 7).
Questa carità per il bene comune è tanto più urgente in una società in via di globalizzazione, nella quale all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e tra i popoli non è detto che corrisponda "l'interazione delle coscienze e delle intelligenze", dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. "Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (ibidem, 9). Un volto umano allo sviluppo, inteso come vocazione, può essere assicurato solo ponendo al centro la carità.
Riferendosi ancora una volta alla Populorum progressio, il Papa afferma che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale", vanno ricercate altrove e ne ricorda tre: il sottosviluppo è figlio della non osservanza dei doveri di solidarietà, della carenza di pensiero, per cui "servono uomini(...) capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso", ma soprattutto della "mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli". Il Papa si domanda: "Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli?". E risponde. "La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". La fraternità "ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna" (ibidem, 19). Dobbiamo "mobilitarci con il "cuore", per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani" (ibidem, 20).
A oltre quarant'anni dalla Populorum progressio lo sviluppo integrale dell'uomo e dei popoli "resta ancora un problema aperto" (ibidem, 33). Il quadro dello sviluppo è "policentrico", molteplici sono i protagonisti e le cause dello sviluppo e del sottosviluppo, come pure vanno differenziati i meriti e le colpe. La questione sociale deve essere ricondotta alla questione antropologica. Così al centro del vero sviluppo c'è anzitutto "l'apertura alla vita". "Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo" (ibidem, 28). Al contrario, "l'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica" (ibidem, 44). Va dunque garantito uno stretto rapporto tra etica della vita umana e etica sociale. Giovanni Paolo II, nell'Evangelium vitae, aveva scritto: "Non può avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata".
Lo sviluppo integrale domanda che gli Stati varino politiche che promuovano "la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna" (Caritas in veritate, 44). La questione familiare non è una questione privata ma sociale.
Strettamente collegato con lo sviluppo è l'effettivo esercizio del diritto alla libertà religiosa, negato in molte aree del mondo. "Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto avendolo creato a sua immagine, ne fonda (...) la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"". "Le lotte e i conflitti che nel mondo si combattono per motivazioni religiose (...) frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale" (ibidem, 29).
Se il retto agire economico non può prescindere dalla centralità della persona umana, dalla giustizia, dalla solidarietà e dal bene comune, ne consegue che la sfera dell'economia non può percorrere strade parallele alla sfera del sociale, né gli strumenti economici (tra questi anzitutto il mercato) possono essere usati in regime di totale autonomia da "influenze" di carattere morale, perché così facendo si dà luogo alla "sopraffazione del forte sul debole" (ibidem, 36) e inoltre il processo di sviluppo deve "fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità" (ibidem, 34). Bisogna riportare l'etica e la carità al centro del sistema dei mercati. D'altra parte - si legge nell'enciclica - il mercato "non esiste allo stato puro", né deve essere demonizzato, perché può offrire molti vantaggi. È uno strumento che chiama sempre "in causa l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale" (ibidem, 36). Pertanto la logica mercantile non può soggiacere soltanto alla regola del massimo profitto o a criteri di giustizia commutativa rigidamente intesa. Ha bisogno di un concetto espansivo di giustizia e del principio di gratuità, nella logica del dono come espressione della fraternità, che abbia come obiettivo il bene comune (ivi). "L'essere umano è fatto per il dono, che ne attua ed esprime la dimensione della trascendenza". E "il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza" (ibidem, 34).
È certamente una "grande sfida che abbiamo davanti" (ibidem, 36) e che dobbiamo affrontare, divenuta ancora più urgente in questo tempo di globalizzazione e di crisi economico-finanziaria. L'economia di mercato deve essere, per così dire, contaminata da altre forme di economia sociale. Per usare il linguaggio di alcuni economisti: va recuperata l'idea di "economia civile" perché non basta più quella di "economia politica" di Adam Smith.
Il profitto, come unico obiettivo dell'economia, mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, "rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". È utile se, "in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo" (ibidem, 21).
Lo sviluppo economico, che "continua a essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi" (ivi), deve essere concepito in chiave planetaria, vale a dire che è necessario riconoscere che tutti i popoli sono una sola famiglia e che le economie mondiali sono chiamate a cooperare alla soluzione della grave crisi nel segno della solidarietà (cfr. ibidem, 53).
Questi e molti altri aspetti, trattati dall'enciclica, domandano un profondo rinnovamento culturale e la riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La vocazione insita nell'uomo a essere di più - afferma il Papa - "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole a trovare nuove forme di impegno (...) La crisi economica, che ha perso di vista la radice sociale e umana dell'economia e dello sviluppo, diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità" (ibidem, 21). Non basta allora inventare nuove strategie economiche e nuovi strumenti tecnologici. È "necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo" (ibidem, 23), "una nuova sintesi umanistica", che muova da una convinzione condivisa secondo cui l'obiettivo di fondo è che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità" (ibidem, 25).
La Caritas in veritate è una boccata d'ossigeno per ripensare l'umanizzazione del mondo e ci educa a saper valutare, alla luce congiunta della ragione e della fede, i fatti sociali e l'economia, avendo dinanzi le sfide del presente e lo scandalo non più sopportabile di ingiustizie e di disparità dei popoli.
(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009)