lunedì 19 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La pillola abortiva Ru-486: arriva davvero? - Un medico del reparto di ginecologia dell'Ospedale Sant'Anna di Torino mostra la pillola abortiva Ru 486
2) Continuano le pressioni per aprire al suicidio assistito in Inghilterra - di padre John Flynn, LC
3) Popieluszko - “Non si può uccidere la speranza” - Il prossimo 19 ottobre verrà presentato al festival di Roma il film “Popieluszko”, sulla vita del “cappellano di Solidarnosc”, barbaramente ucciso il 19 ottobre 1984. Il film, che ha già riscosso un ampio successo in Polonia, verrà distribuito a fine mese nelle sale italiane.
4) La nuova proposta dei finiani: «Ora di religione islamica»
5) L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica - Vittorio Messori – Corriere della Sera 19 ottobre 2009


La pillola abortiva Ru-486: arriva davvero? - Un medico del reparto di ginecologia dell'Ospedale Sant'Anna di Torino mostra la pillola abortiva Ru 486
Che cos’è la pillola RU-486?
Il nome scientifico è Mifepristone ed è un farmaco utilizzato per l’aborto chimico nei primi due mesi di gravidanza. Il nome deriva dalle iniziali della casa farmaceutica che ne iniziò la sperimentazione in Francia negli Anni 80, la Roussel Uclaf.

Come funziona questo farmaco?
La pillola Ru-486 ha la caratteristica di produrre un aborto non chirurgico con una prassi articolata in due tempi. Nella prima fase si assume la pillola RU-486 (il che deve avvenire non oltre la settima settimana, altrimenti il farmaco è inefficace) e dopo 48 ore le prostaglandine (una seconda pillola). La prima serve a uccidere l’embrione, la seconda ad espellerlo.

Si tratta quindi di una pratica meno dolorosa dell’aborto tradizionale?
Normalmente no, anzi può essere perfino più dolorosa, in quanto. dopo l’assunzione della seconda pillola, non si sa quanto tempo può passare prima dell’espulsione: di solito 3-4 ore, ma anche molto di più, a seconda della persona. Durante questo tempo si subiscono gli effetti collaterali del trattamento e cioè crampi, febbre, vomito, diarrea, cefalea.

E’ comunque un metodo efficace?
Sì, in oltre il 90 per cento dei casi.

La pillola Ru-486 è la stessa nota come «pillola del giorno dopo»?
Assolutamente no, e con essa non va confusa, in quanto ha meccanismi di assunzione e di azione completamente diversi. Da un punto di vista pratico la differenza maggiore sta nel fatto che la pillola del giorno dopo dev’essere assunta entro 48-72 ore dal rapporto sessuale, mentre la RU-486 può agire entro i due mesi e solo in caso di gravidanza accertata.

Questo farmaco viene già utilizzato in altri Paesi?
La sperimentazione della pillola iniziò in Francia negli Anni 80 ed è quello il Paese in cui è più diffusa. Comunque, attualmente è commercializzata in tutti gli Stati dell'Unione Europea ad eccezione della Polonia e della Lituania, oltre che dell'Irlanda e di Malta, nazioni in cui l'aborto è vietato.

In Italia potrà essere utilizzata?
Da noi la sperimentazione di questo farmaco risale al 2002 ed ha avuto alterne vicende in questi anni. La parola definitiva sulla possibilità di ricorrere a questo prodotto è stata detta dall’Aifa, l’Agenzia del farmaco, il 30 luglio scorso. La stessa Agenzia oggi dovrà ratificare quella decisione e, attraverso un provvedimento detto «determina», dovrà stabilire le modalità di utilizzo e di somministrazione della pillola. Dopo di che la «determina» dovrà essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale (entro un mese). Solo dopo la Ru-486 avrà piena cittadinanza anche da noi.

Quale decisione si attende, in pratica, dall’Aifa?
In Francia, per esempio, la pillola può essere assunta anche al di fuori delle strutture ospedaliere, dopo di che la donna può tornare a casa. La legge italiana 194 non prevede che l’aborto possa essere praticato in ambiti privati e, meno che mai, in casa. Per cui è probabile che l’Aifa stabilisca la somministrazione della pillola in ospedale, in maniera che la donna possa essere assistita fino al momento dell’espulsione effettiva dell’embrione e che non possa correre rischi.

Il Parlamento ha in corso un’indagine conoscitiva: bisogna attendere, dopo l’Aifa, anche un’altra autorizzazione?
Tecnicamente no. Il Parlamento vuole indagare unicamente sulla compatibilità della pillola in questione con le norme della legge 194 sull’aborto. Per esempio, intende verificare se questo modo di abortire incoraggi le donne a farlo a casa, cosa espressamente vietata dalla legge.

Chi è favorevole e chi contrario all’utilizzo di questo farmaco?
Trattandosi di un prodotto abortivo, gli schieramenti sono quelli tradizionali, pro o contro l’aborto. In Italia, la Chiesa cattolica ha fatto e sta facendo una dura battaglia contro questa pillola che, dal suo punto di vista, faciliterebbe e addirittura banalizzerebbe la pratica abortiva. Insomma si prenderebbe la Ru-486 con la stessa facilità dell’aspirina. Sull’altro fronte ci sono molte associazioni radicali italiane, per esempio quella intitolata ad «Adelaide Aglietta», che propugnano una più vasta libertà di scelta da parte delle donne. A livello internazionale va ricordata l’iniziativa del gruppo femminista olandese «Women on wives», che si pone come obiettivo l'assistenza a donne che chiedono di praticare l'aborto. Tale pratica viene esercitata a bordo di una nave ancorata in acque internazionali al largo di Paesi in cui l'aborto è vietato e serve appunto a incentivare l'uso della pillola.


L’erroneo senso di pietà


Continuano le pressioni per aprire al suicidio assistito in Inghilterra - di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 18 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Il dibattito sul suicidio assistito si è riacceso qualche giorno fa in Inghilterra, in seguito al caso di una donna che è morta per aver intenzionalmente bevuto liquido antigelo, impedendo ai medici di intervenire.

Secondo un servizio della BBC del 1° ottobre, la donna di 26 anni, Kerrie Wooltorton, aveva preventivamente dichiarato la sua volontà in cui richiedeva l’astensione da ogni intervento nel caso in cui avesse tentato di porre fine alla propria vita. La notizia di questo caso si è diffusa dopo la conclusione della recente inchiesta sulla morte della donna avvenuta nel settembre 2007.

Secondo il coroner (l’organo inquirente), i medici del Norwich University Hospital avrebbero rischiato di violare la legge, qualora fossero intervenuti.

“La donna aveva la capacità di dare il consenso alle cure, che con ogni probabilità le avrebbero impedito di morire”, ha dichiarato il coroner nelle sue conclusioni. “La donna ha rifiutato le cure in piena consapevolezza delle conseguenze che poi l’hanno portata alla morte”.

Successivamente, il Ministro della sanità, Andy Burnham, ha suggerito al Parlamento di rivedere la legge sulla capacità mentale che regola casi come questo, secondo quanto riportato dal quotidiano Telegraph del 4 ottobre.

Burnham ha dichiarato che il caso Wooltorton ha portato la legge su un “nuovo terreno”, cosa che a suo avviso non era nelle intenzioni del legislatore.

Un portavoce della Conferenza episcopale americana si è espresso a sostegno di una revisione della normativa.

“Ciò che ora appare evidente, è che questa parte della legge non è sufficientemente chiara e vincolante”, ha affermato il portavoce.

Pressioni

Nonostante i ripetuti fallimenti legislativi in Parlamento, diretti a legalizzare l’eutanasia, le pressioni per un allentamento dei vincoli normativi non diminuiscono. Uno dei principali risvolti concreti della questione riguarda i casi di cittadini britannici che commettono suicidio avvalendosi dell’aiuto della società svizzera “Dignitas”.

Coloro che aiutano un’altra persona a servirsi dell’opera di Dignitas sono penalmente perseguibili dalle autorità britanniche. L’estate scorsa, a Debbie Purdy, affetta da sclerosi multipla, è stato riconosciuto il diritto di sapere in quali circostanze suo marito verrebbe posto sotto giudizio se l’accompagnasse alla clinica Dignitas.

Come riferito dal quotidiano Daily Mail del 31 luglio, i giudici della Camera dei Lord (istanza di cassazione) hanno disposto che il Direttore della pubblica accusa, che decide quali accuse siano da rinviare a giudizio, specifichi in quali circostanze si procederebbe contro una persona che prestasse aiuto a un amico o parente intenzionato a commettere suicidio all’estero.

Secondo l’articolo, Purdy ha in programma di recarsi in Svizzera per commettere suicidio quando il dolore le sarà diventato insopportabile e per tale occasione vorrebbe che suo marito, Omar Puente, la potesse accompagnare.

La decisione è stata criticata da Anthony Ozimic, dell’organizzazione pro-life Society for the Protection of Unborn Children: “Il terribile messaggio, per i disabili e i malati gravi, è che la loro vita vale meno di quella degli altri”.

Il Direttore della pubblica accusa, Keir Starmer, QC, ha recentemente reso note le linee guida richieste dai giudici della Camera dei Lord, pur avvertendo che queste non costituiscono garanzia per non essere sottoposti a giudizio, secondo quanto riferito dal quotidiano Times del 23 settembre.

Tuttavia, Starmer ha ammesso che l’avvio dell’inchiesta sarebbe improbabile fintanto che la persona non incoraggi dolosamente l’atto del suicidio e si limiti ad assistere solo “desideri chiari, definiti e informati” di porre fine alla propria vita.

Questo non implica la possibilità di aprire cliniche di suicidio assistito in Gran Bretagna, ha aggiunto. “Il suicidio assistito è reato penale da quasi 50 anni e la mia reggenza non si pone in discontinuità con questo”, ha affermato.

Secondo il Times, più di 100 britannici hanno posto fine alla propria vita presso la clinica Dignitas. Le linee guida illustrano 16 elementi in favore del procedimento e 13 elementi contro.

Dignitas

La clinica Dignitas è sicuramente rinomata tra gli inglesi, ma le sue attività sono diffusamente criticate. I medici inglesi hanno avvertito che un certo numero di persone che hanno posto fine alla propria vita in questo modo non erano affette da malattie in fase terminale, secondo quanto riferito dal quotidiano Guardian del 21 giugno.

Il Guardian ha ottenuto un elenco di 114 persone britanniche che sono andate a morire in quella clinica. Tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, mentre una soffriva di artrite.

“Questo elenco mi fa rabbrividire”, ha dichiarato il professor Steve Field, presidente del Royal College of General Practitioners. “La cosa mi preoccupa perché so che molte delle condizioni in cui si trovavano quelle persone sono condizioni con cui si convive e si può convivere per molti anni e continuare ad essere produttivi e a dare senso alla propria vita”.

La clinica è stata ulteriormente oggetto di critiche quando un’ex impiegata, Soraya Wernli, ha chiamato in causa il comportamento di alcuni medici. In un articolo pubblicato il 19 luglio sul Sunday Times, Wernli ha descritto Dignitas come un’attività di lucro del proprietario Ludwig Minelli.

“È diventata un’industria”, ha detto Wernli, 51 anni, aggiungendo che il prezzo richiesto da Dignitas è salito da 2.000 sterline (3.000 euro) di sette anni fa, a 7.000 sterline (8.000 euro) di oggi.

Nell’articolo, Wernli racconta di come persuase una donna inglese malata di cancro a non suicidarsi, convincendola che con le giuste cure poteva ancora avere una vita decente. Più tardi quella donna le scrisse ringraziandola per averle salvato la vita.

Secondo un articolo pubblicato il 18 luglio dal Telegraph, le autorità di Zurigo hanno reso note le nuove norme che disciplinano le attività di organizzazioni come Dignitas.

La nuova normativa, che entra in vigore nell’autunno di quest’anno, richiede che i pazienti siano sottoposti ad un periodo più lungo presso la clinica per ottenere maggiori consigli, prima di poter commettere suicidio.

“I viaggi del suicidio in Svizzera non saranno vietati, ma vi saranno controlli più rigorosi; i cosiddetti ‘suicidi lampo’ per i pazienti stranieri diventeranno illegali”, ha affermato il Ministro della giustizia di Zurigo, Markus Notter.

Altre preoccupazioni

Sebbene l’eutanasia rimanga illegale in Gran Bretagna, vi sono comunque preoccupazioni per come i malati terminali vengono gestiti. Un gruppo di esperti che si occupa di malati terminali ha scritto una lettera al quotidiano Telegraph, pubblicata il 2 settembre, in cui avverte che i pazienti vengono fatti morire prematuramente.

Sulla base delle linee guida del Servizio sanitario nazionale, ai pazienti terminali è possibile non somministrare fluidi e farmaci, e molti sono sottoposti a una continua sedazione finché non sopraggiunge la morte.

Gli esperti osservano che questi trattamenti possono mascherare eventuali segni di miglioramento nei pazienti.

“Le previsioni in tema di morte non sono una scienza esatta”, secondo gli esperti. Di conseguenza, i pazienti vengono definiti come vicini alla morte “senza tenere conto del fatto che la diagnosi potrebbe essere sbagliata”, prosegue la lettera.

Precedentemente, in un servizio pubblicato il 12 agosto dalla BBC, si afferma che l’uso continuo di sedazione profonda costituisce una forma lenta di eutanasia.

L’articolo cita la ricerca della London School of Medicine and Dentistry, secondo cui questo tipo di sedazione è responsabile di circa un decesso su sei.

Secondo l’articolo, il dr. Nigel Sykes, direttore sanitario del St. Christopher's Hospice in Sydenham, avrebbe affermato che solo per una manciata di pazienti ogni anno sarebbe necessaria una sedazione tale da impedire lo stato di veglia al punto di morte.

Cure adeguate

Se tutti avessero accesso a cure palliative di alta qualità, non vi sarebbero casi di suicidio assistito, ha dichiarato Steve Field, presidente del Royal College of General Practitioners, in un articolo d’opinione pubblicato il 22 giugno sul Guardian.

Purtroppo, i servizi sanitari e di assistenza sociale non sono adeguati a far fronte alle necessità delle persone che si avvicinano alla fine della propria vita, ha sottolineato Field. In queste condizioni, il suicidio assistito non è la soluzione giusta, ha rimarcato.

Da parte sua, in un articolo pubblicato il 16 luglio sul Telegraph, l’Arcivescovo di Westminster, mons. Vincent Nichols, ha sostenuto che la nozione di un diritto alla “buona morte” mina le fondamenta della società.

Se riduciamo la vita umana allo status di un prodotto, a una questione di controllo di qualità, allora non abbiamo chiaro il valore della vita umana, ha sostenuto l’Arcivescovo. Se invece ci prendiamo cura della vita umana, dal suo inizio alla sua fine naturale, allora ci eleviamo nella nostra umanità, ha concluso. Parole preziose mentre si continua a discutere su come considerare e gestire la sofferenza


Popieluszko - “Non si può uccidere la speranza” - Il prossimo 19 ottobre verrà presentato al festival di Roma il film “Popieluszko”, sulla vita del “cappellano di Solidarnosc”, barbaramente ucciso il 19 ottobre 1984. Il film, che ha già riscosso un ampio successo in Polonia, verrà distribuito a fine mese nelle sale italiane.

Di seguito riportiamo una recensione del film ed una breve biografia del “Servo di Dio” P. Jerzy Popieluszko…
Il cappellano di Solidarnosc - Al Festival di Roma l'Evento Speciale sarà Popieluszko: storia di un martire che ispirò Walesa e guidò la Polonia alla libertà
Il corpo di Padre Jerzy Popieluszko venne ritrovato il 30 ottobre 1984 nelle acque della Vistola. Aveva 37 anni ed era considerato da tutti il cappellano di Solidarnosc. Dimenticata per anni, la sua storia - che testimonia ad un tempo il sacrificio individuale per la verità, la dignitosa fermezza di un popolo vessato da anni di totalitarismo e il volto criminale del regime comunista polacco - riemerge precisa e tragica in Popieluszko, il film che sarà presentato come Evento Speciale al festival di Roma il prossimo 19 ottobre, esattamente 25 anni dopo il suo rapimento a Torun e la barbara uccisione per mano di tre funzionari dei servizi segreti (più un complice). E' allora che la vita di Padre Jerzy entra di diritto nella rosa delle biografie straordinarie del novecento, piccole onde che si allungano nelle paludi della storia come maremoti, travolgendo argini e regimi. La sua vicenda ricorda da vicino quella del nostro Padre Puglisi, l'uno e l'altro martiri della libertà contro la sopraffazione organizzata. Il film di Rafal Wieczynski - che sul "Servo di Dio" (titolo che la Chiesa cattolica assegna dopo la morte a persone che si sono distinte per «santità di vita» o «eroicità delle virtù») aveva già realizzato il documentario I vincitori non muoiono. Documento su padre Popieluszko, inedito in Italia - ripercorre passo dopo passo la vita del cappellano, dall'infanzia nelle campagne di Okopy (dove Popieluszko, figlio di contadini, era nato nel 1947) al servizio militare obbligatorio presso l'unità di Bartoszyce, riservata ai seminaristi, dal trasferimento a Varsavia sotto le cure spirituali di Padre Teofil Bocucki all'attività pastorale in seno al neonato sindacato libero degli operai polacchi (Solidarnosc), con cui condivise speranze e scoramento, aneliti e lotte, divenendone alla fine simbolo di libertà e rettitudine. Troppo scomodo per il regime, che già nel 1981 aveva introdotto nel Paese la legge marziale e finito per praticare l'eliminazione sistematica di tutti gli avversari: padre Jerzy non fu né il primo né l'ultimo, ma era considerato tra i più pericolosi. "Senza per questo aver mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote - sottolinea Padre Kazimierz Nycz, Arcivescovo di Varsavia - o aver ridotto la Chiesa e il suo messaggio a strumento di lotta politica. Il suo era davvero il vangelo dell'amore, incentrato sulla salvaguardia della dignità umana. Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni". Quasi mezzo milione di persone parteciparono al funerale di padre Jerzy il 3 novembre 1984, presso la chiesa di San Stanislao Kostka di Varsavia, dove il cappellano aveva operato dal 1980. Tra questi c'era anche il regista del film, allora sedicenne: "A dispetto dei divieti - ricorda Rafal Wieczynski - mi assentai da scuola per partecipare alle esequie. Fu un'esperienza nuova, di libertà e comunione. Tornando a casa, attraversando le strade di Varsavia, ricordo che pensai molto a Padre Jerzy. Mi chiedevo se sarei stato capace come lui di sacrificare la mia vita per la Verità. Mi appariva come un grande eroe, un extraterrestre. Oggi invece, che ho quasi la stessa età che aveva lui quando venne ucciso, vedo in Padre Jerzy un uomo come noi che, messo alla prova, fece le sue scelte con grande fatica". Il corpo di Popieluszko venne seppellito nel giardino della chiesa di San Stanislao. La sua tomba da allora è stata luogo di pellegrinaggio per 18 milioni di persone, ma qui a Varsavia ricordano soprattutto la visita di Giovanni Paolo II del 14 giugno 1987, e la commossa preghiera sulla sua lapide. Accanto alla Chiesa è nato una decina d'anni fa anche un museo dedicato a Padre Jerzy, messo su da una delle più strette collaboratrici, Caterina Sobora. Il percorso del Museo è una sorta di Via Crucis nella vita del sacerdote e della Nazione, uno scrigno aperto di foto, filmati e oggetti personali a restituirci la tragica normalità degli eroi dinnanzi alle sciagure della storia. "Eppure le generazioni più giovani - sottolinea Wieczynski - non conoscono quelle lotte, non immaginano nemmeno cosa hanno significato per noi polacchi quei mutamenti radicali. Perciò desideravo che l'avventura di questo testimone di Cristo, che combatteva senza violenza contro la falsità, diventasse anche per loro memoria condivisa: volevo che Popieluszko fosse la storia vera, e insieme romantica, delle radici di libertà di cui oggi gode tutta l'Europa Centrale". Diversamente dal cinema politico di Wajda - che ha raccontato il regime e le lotte di Solidarnosc con L'uomo di marmo (1977) e L'uomo di ferro (Palma d'oro a Cannes nel 1981) - e di Agnieszka Holland (che aveva già affrontato la vicenda del cappellano di Solidarnosc nel malriuscito Un prete da uccidere, con Christopher Lambert), Popieluszko di Wieczynski privilegia un approccio intimista nel tentativo di svelare "come un cammino spirituale diventi anche un percorso di liberazione politico e civile". La controparte comunista nel film non ha tentennamenti né dubbi, umanamente non esiste: "Nel mio Paese troppi film hanno speculato sui comunisti buoni e pentiti, elevandoli al rango di eroi. Io volevo fornire invece una rappresentazione astratta del regime, svelarne il meccanismo implacabile e oppressivo. Gli eroi erano altri. Erano i preti che sostenevano, sfamavano e curavano le sofferenze dei perseguitati, fino a morire per loro". "La figura di Popieluszko - racconta Adam Woronowicz, l'attore che interpreta il cappellano nel film e che vanta con lui una somiglianza fisica impressionante - continua a interrogarmi e a mettere in discussione le mie qualità di padre, marito, amico. Spero che le domande che ancora oggi mi tormentano, nonostante abbia interpretato nel frattempo diversi altri ruoli, scuotano anche il pubblico in sala". Un auspicio che ha trovato finora riscontri positivi in Polonia, dove più di un milione di persone ha già visto il film. Il battesimo internazionale, come detto, sarà invece in Italia, al Festiva di Roma, dove la pellicola sarà accompagnata da Lech Walesa, leader di Solidarnosc, e Jozef Glemp, Primate di Varsavia, amico di Padre Jerzy e interprete del film nel ruolo di se stesso. Sempre in Italia Popieluszko sarà distribuito a fine ottobre da Rainieri Made srl, mentre la RAI ha già acquistato i diritti dei futuri passaggi televisivi. L'attenzione del cinema e della cultura verso la figura di Padre Jerzy va di pari passo con il processo di beatificazione (per martirio) del presbitero, iniziato l'8 febbraio 1997 e non ancora concluso. Nonostante la comunità internazionale abbia riconosciuto a Popieluszko un ruolo decisivo nei cambiamenti politici che interessarono la Polonia nella seconda metà degli anni '80, il suo sacrificio non ha ancora ottenuto la giustizia dei tribunali: Grzegor Piotrowski, Adam Pietruszka, Leszek Pekala e Waldemar Chmielewski, esecutori materiali del delitto, non si sono mai pentiti e hanno già lasciato il carcere. Hanno cambiato nome, residenza e aspetto fisico. I mandanti invece - tra i quali figurerebbero gli alti apparati dello Stato (Jaruzelski nega però ogni coinvolgimento) e alcune spie russe di stanza in Polonia - restano ancora nell'ombra.
di Gianluca Arnone
Libero News 12 ottobre 2009


Padre Jerzy Popieluszko (Polonia)
(1947 - 1984)
Il Servo di Dio Padre Jerzy Popieluszko nasce nella regione di Bialystok da genitori contadini. È un ragazzino molto religioso e solitario. Entra in seminario a Varsavia nel 1965. Durante il servizio militare (1966 – 1968) viene più volte punito per “atteggiamento ribelle”. È ordinato sacerdote nel 1972. Presta la sua opera in diverse chiese di Varsavia, fra cui la chiesa di sant’Anna, sede della pastorale accademica da cui ogni anno parte il pellegrinaggio a Czestochowa degli studenti universitari e centro di numerose attività dell’opposizione. Alla fine degli anni Settanta ha seri problemi di salute, per cui deve limitare i suoi impegni.
Nel giugno 1980 viene assegnato come sacerdote residente alla parrocchia di san Stanislao Kostka, sul cui territorio si trova la grande acciaieria “Huta Warszawa”. Il 28 agosto è inviato dal primate di Polonia, cardinal Stefan Wyszynski, dagli operai della Huta in sciopero che chiedono un sacerdote per dire la Messa: diventa così il cappellano di Solidarnosc della Huta. Dopo l’introduzione dello stato di guerra è uno degli organizzatori del Comitato del Primate di Aiuto ai Perseguitati e alle loro famiglie, che coordina i comitati locali e nel gennaio 1982 assiste al processo contro gli operai della Huta. Insieme al parroco della chiesa di san Stanislao Kostka organizza ogni mese una Messa per la Patria, che raccoglie migliaia di persone: operai, intellettuali, artisti, e anche persone lontane dalla fede. Nelle sue omelie chiede il ripristino delle libertà civili e di Solidarnosc. Svolge un’ampia opera di sostegno materiale e spirituale e si mantiene in stretto contatto con gli intellettuali dell’opposizione e con le strutture clandestine di Solidarnosc. Le autorità temono la sua influenza e si fanno sempre più frequenti le proteste alla Curia di Varsavia in cui lo si accusa di attività anti statale. Viene strettamente controllato dai Servizi di Sicurezza, anche con la collaborazione di agenti segreti, fra cui una sacerdote e almeno quattro laici che fanno parte del gruppo dei suoi più stretti collaboratori (come è emerso dai dossier dei Servizi di Sicurezza), ed è continuamente convocato dalla polizia. Durante le Messe per la Patria la chiesa viene spesso circondata da un cordone di automezzi della polizia e fanno la loro comparsa dei gruppi di provocatori. Il 14 dicembre 1982 ignoti gettano nella sua stanza un mattone con una carica esplosiva. Da quel momento gli operai della Huta Warszawa decidono di garantirgli una scorta giorno e notte. Nel maggio 1983 organizza i funerali di Grzegorz Przemyk, il figlio della poetessa Barbara Sadowska, esponente di spicco dell’opposizione, ucciso dalla polizia. Nel settembre 1983 padre Popielusko organizza per la prima volta un pellegrinaggio di operai a Czestochowa, divenuto una tradizione che resiste ancora, e nell’autunno organizza presso la sua chiesa un’università parrocchiale per gli operai.
Il 12 dicembre 1983 è convocato per un interrogatorio durante il quale viene fermato come indagato per “aver abusato della libertà di coscienza e di confessione, sia durante gli uffici religiosi, che nelle sue omelie”. Rischia 10 anni di carcere e solo l’intervento dell’arcivescovo di Varsavia presso il Ministro degli Interni lo riporta in libertà senza che si arrivi al processo. I servizi di sicurezza, comunque, continuano a tenerlo sotto controllo, e il Primate Glemp gli propone di andare a studiare a Roma, ma rifiuta. Il 1 maggio 1984 celebra la Messa per gli operai, durante la quale parla della dignità del lavoro e al termine della funzione la polizia chiude le strade attorno alla chiesa e attacca la folla degli operai con gli idranti. Nello stesso periodo i mass media conducono una feroce campagna denigratoria contro di lui, definito dal portavoce del governo: “un fanatico politico, un Savonarola dell’anticomunismo, mentre le sue Messe non sono altro che rappresentazioni intrise di odio”.
Il 13 ottobre 1984 tre ufficiali dei Servizi di Sicurezza cercano di provocare un incidente automobilistico mentre si trova sulla strada per Danzica. Il 19 ottobre, durante la recita serale del Rosario in una chiesa di Bydgoszcz, il sacerdote ripete ancora una volta: “Chiediamo di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza”. Mentre rientra a Varsavia viene rapito da quegli stessi tre ufficiali. Il suo autista, Waldemar Chrostowski, riesce a fuggire e racconta l’accaduto: immediatamente a Varsavia cominciano le veglie di preghiera in un clima di grande apprensione. Il 30 ottobre il suo corpo viene ritrovato nel lago di Wloclawek. L’autopsia rivela che prima di morire è stato torturato e seviziato. Il processo contro gli esecutori del delitto si svolge dal 27 dicembre 1984 al 7 febbraio 1985. Nonostante l’accusa chieda per due degli imputati la pena di morte, le condanne vanno da 25 a 14 anni di carcere, mentre i mandanti restano ignoti. Gli autori materiali torneranno presto in libertà a seguito di riduzioni della pena.
I funerali, che si svolgono il 3 novembre, a cui partecipano decine di migliaia di persone, si trasformano in una grande manifestazione popolare. La salma viene tumulata nel cortile della chiesa di san Stanislao Kostka e ben presto la sua tomba diviene meta di pellegrinaggi e di visite ufficiali di uomini politici stranieri. Si stima che in dieci anni sia stata visitata da 18 milioni di persone. L’8 febbraio 1997 è stato ufficialmente aperto il processo di beatificazione diocesano, che si è concluso quattro anni dopo. Il 3 maggio 2001 sono iniziati i lavori per il processo di canonizzazione.


Testi di Padre Popieluszko:Il cammino della mia croce. Messe a Varsavia,
Queriniana, Brescia, 1985

La mia vita per la verità. Diario, altri scritti, testimonianze,
Ed. M, Padova, 1988

Omelie per la Patria
La Nuova Agape, Forlì, 1985


La nuova proposta dei finiani: «Ora di religione islamica»
"Sulle tematiche dei diritti degli omosessuali ho lavorato molto più e molto meglio con Gianfranco Fini. Senz'altro il presidente della Camera è più coraggioso del segretario del nostro partito". Lo ha detto, in un'intervista al Corriere della Sera, Paola Concia del Pd, relatrice della proposta di legge che voleva introdurre il reato di omofobia bocciata alla Camera. Non si fatica a crederlo, dato che i “finiani” presenti in Aula hanno votato con il Pd…
Oggi giunge la notizia di un’altra iniziativa dei “finiani”: l`introduzione dell`ora di religione islamica facoltativa nelle scuole pubbliche.
Un’iniziativa che – grazie a Dio - riceve l’immediata stoppata dalla Lega.
Chiederemmo al Sig. Gianfranco Fini ed ai suoi amici di leggersi durante il fine settimana l’articolo pubblicato oggi su Il Giornale: La colpevole indifferenza dei cristiani. Probabilmente sarà inutile, ma la speranza è l’ultima a morire…


Introdurre nelle scuole pubbliche e private, un’ora di religione islamica, alternativa a quella cattolica.

ASOLO (Treviso) — L’ora di religione? Cattolica, ma anche islamica. L’idea è del viceministro Adolfo Urso, che propone l’introduzione nelle scuole pubbliche e private di una nuova materia, facoltativa e alternativa a quella cattolica, per evitare di lasciare i piccoli musulmani «nei ghetti delle madrasse e delle scuo­le islamiche integraliste». Si parla molto di Islam ad Asolo e non potrebbe essere diversamente, visto che qui si svolge il workshop «Le nuove politiche per l’immigrazione», seconda edizione dei «Dialoghi asolani», laboratorio di confronto bipartisan animato dalle Fondazioni FareFuturo e ItalianiEuropei e dai rispettivi politici di riferimento, Gianfranco Fini e Massimo D’Alema.«Eccoci qui ad Asolo, nel covo di congiurati», scherza Lucia Annunziata, riferendosi ai timori di un patto tra­sversale che scardini l’attuale maggioranza e rivolgendosi all’intervistato Beppe Pisanu. «Domani ne arrivano altri due», risponde a tono l’ex mi­nistro. Che naturalmente ne­ga complotti: «Se il dialogo non viene praticato neanche nel buio di questa crisi, c’è davvero da temere per l’avve­nire del Paese».
PER ATTIRARE NELLE SCUOLE I RAGAZZI MUSULMANI - E il dialogo parte, con il segretario gene­rale di FareFuturo Urso: «Potrebbe essere utile, per attirare nei nostri istituti i ragazzi musulmani, prevedere un’ora di storia della religione islamica». E gli insegnanti? Saranno imam? «Dovrebbero essere docenti riconosciuti, italiani che parlano in italiano. Al limite anche imam, a patto che abbiano i requisiti e che siano registrati in un apposito albo. Stiamo parlando di insegnanti reclu­tati con criteri pubblici». Nel documento di ItalianiEuropei, a cura di Marcella Lucidi, sul tema ci si tiene più sul vago, auspicando «una riflessione non occasionale» e chiedendo un insegnamento che «promuova la conoscenza della cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi e delle loro famiglie». Urso rilancia anche l’idea di «classi miste temperate» e dice no al velo negli uffici pubblici.
NORME SULL'IMMIGRAZIONE - Ma è soprattutto sulle norme per l’immigrazione che si colgono grandi punti di con­vergenza. A leggere il paper di FareFuturo, a cura di Valentina Cardinali, si coglie subito un dissenso netto dalle posizione leghiste: «No a scontri di civiltà e no alla strumentalizzazione delle paure». Ma si nota anche una divergenza con Silvio Berlusconi, che ha dichiarato di essere contrario a un Paese «multietnico»: «L’Italia già da alcuni decenni è senza dubbio un paese multietnico » spiega il dossier. FareFuturo cita il progetto di legge bipartisan Granata-Sarubbi e lancia alcune propo­ste: cittadinanza dopo cinque anni, in cambio di esame di lingua e test di cultura, diritto di voto amministrativo, status giuridico a 10 anni per i figli di immigrati nati in Ita­lia, meno discrezionalità dell’atto di concessione. Non che FareFuturo rinneghi le politiche di contrasto del go­verno, a partire dal reato di clandestinità e dai respingimenti: «Ma sono solo una fac­cia della medaglia - spiega Urso - . Servono anche integrazione e cittadinanza e dobbiamo allargare le maglie sui flussi». Il dossier di ItalianiEuropei concorda in alcuni punti (cittadinanza, diritto di voto), in altri va oltre (cittadinanza subito ai figli degli stranieri nati in Italia) e lancia il concetto di «cittadinanza sociale», chiedendo di svincolare il per­messo di soggiorno dalla du­rata del contratto di lavoro. Non è escluso che oggi, presenti D’Alema e Fini, si pongano le basi per arrivare a un documento congiunto.

di Alessandro Trocino
Corriere della Sera 17 ottobre 2009



Il viceministro leghista delle Infrastrutture
Castelli: «È soltanto un’idea strumentale e inaccettabile»
Lanciano provocazioni per seminare zizzania. «Non è neanche da prendere in considerazione»

ROMA — «Mi sembra solo una provocazione». Roberto Castelli senatore della Lega e vice ministro alle Infrastrutture - pensa che l’idea dell’ora di religione islamica a scuola «non sia neanche da prendere in considerazione».
Perché?
«È una proposta strumentale. Penso che nemmeno ad Urso, a Fini e ai suoi importi nulla di questo problema. Perché privilegiare gli islamici e non altri gruppi che pure sono in Italia?».
Perché sono molto più numerosi degli altri ed in questo modo si potrebbe favorire l’integrazione.
«No, no, è solo una provocazione. Guarda caso arriva pochi giorni dopo l’attentato di Milano, proprio per suscitare una nostra reazione e seminare zizzania. Sono giochini tristi e prevedibili. Mi viene in mente Follini».
Follini?
«Sì, il Follini del 2004 quando, mandato avanti da Casini, cercava solo di creare problemi alla maggioranza sui temi più diversi ma sempre a prescindere dalla sostanza delle cose».
Da quella maggioranza Follini e Casini sono usciti. Pensa che finirà nello stesso modo?
«Non mi interessa, adesso la maggioranza è molto più solida di allora. Ma Fini ha avuto un’accelerazione che lo mette fuori dal comune sentire del Popolo della libertà».
E qual è il comune sentire del Pdl? «Occuparsi dei problemi della crisi e della finanza pubblica, come il governo sta già facendo. L’ora di religione islamica non è nel programma, non esiste. Chi ne parla ha in mente altre cose».

di Lorenzo Salvia
Corriere della Sera 17 ottobre 2009


L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica - Vittorio Messori – Corriere della Sera 19 ottobre 2009
Ancora una volta, riecco l’invocazione scaramantica: «Ci vorrebbe l’ora di…». Stavolta, quella nuova, da istituire subito nelle scuole pubbliche, sarebbe «l’ora di Islam». C’è qualcosa di drammati­co, ma anche di grotte­sco, nella parabola, vec­chia ormai di due secoli, delle funzioni che si so­gna di affidare alla «scuo­la di Stato». C’è, qui, un mito nato — come tanti — dagli schemi ideologi­ci di giacobini e girondi­ni.

Non lo scettico Voltaire ma il fervoroso Rousseau fu il maestro di quei signori: si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo. Sorgono difficoltà sempre nuove? Ma dov’è il problema?
Basterà inserire nella scuola pubblica delle apposite «ore di…» che educhino al bene e al buono i nuovi virgulti; e tutto sarà ripianato.

Da noi, il Cuore deamicisiano è l’icona caricaturale di questi nuovi templi di un’umanità plasmata dalla Ragione e strappata alla superstizione. Succede, però, che proprio nell’Occidente laicamente formato, abbiano trovato folle entusiaste le ideologie mortifere che hanno devastato i due secoli seguiti al trionfo delle utopie roussoiane. Ma poiché gli ideologi hanno per motto «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», il mito ha continuato ad agire. Il sesso fra gli adolescenti crea gravidanze incongrue e favorisce violenze? Si istituiscano nelle scuole «corsi di educazione sessuale». Alcol e droghe devastano i giovanissimi? Ecco gli esperti per gli appositi «corsi contro le dipendenze». C’è strage su moto e automobili? Subito «corsi di educazione stradale».

La convivenza sociale è sempre più turbolenta? Ecco dei bei «corsi di educazione civica».
Si potrebbe continuare, ma la realtà è chiara: a ogni problema, una risposta affidata alla scuola. Con il risultato, segnalato da pedagogisti ovviamente inascoltati, o di effetti irrilevanti o addirittura di aggravamento delle situazioni: il confuso istinto di ribellione dei giovani porta a sperimentare e a praticare ciò che è condannato nelle prediche degli adulti, soprattutto se insegnanti.
Trasgredire al professore dà tanto gusto come, un tempo, trasgredire al parroco.

E ora, tocca all’Islam, la cui presenza tra noi, ogni giorno in crescita, è tra gli eventi che meritano l’inflazionato aggettivo di «storico». Non siamo davanti a una immigrazione, ma a una di quelle migrazioni che si verificano una o due volte in un millennio. Per quanto importa, sono tra i convinti che, sulla lunga durata, l’Occidente si rivelerà per l’islamismo una trappola mortale. I nostri valori e, più ancora, i nostri vizi, corroderanno e, alla fine, faranno implodere una fede il cui Testo fondante non è per nulla in grado di affrontare la critica cui sono state sottoposte le Scritture ebraico-cristiane.

Una fede che, in 1400 anni, non è mai riuscita ad uscire durevolmente dalle zone attorno ai tropici, essendo una Legge nata per remote organizzazioni tribali. Una fede che, priva di clero e di un’organizzazione unitaria, impossibilitata a interpretare il Corano — da applicare sempre e solo alla lettera — è incapace di affrontare le sfide della modernità e deve rinserrarsi dietro le sue mura, tentando di esorcizzare la paura con l’aggressività. Ma poi: panini al prosciutto, vini e liquori, minigonne e bikini, promiscuità sessuale, pornografia, aborti liberi e gratuiti, «orgogli» omosessuali, persino la convivenza con cani e gatti, esseri impuri, e tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo — nel bene e nel male — farà sì che chi si credeva conquistatore si ritroverà conquistato.

Ma questo, dicevo, in una prospettiva storica: per arrivarci passerà molto tempo e molti saranno i travagli, magari i drammi. Per adesso, che fare? Sorprende che, proprio da destra, si proponga lo pseudorimedio che è, da sempre, quello caro alle sinistre: nelle scuole «corsi di Islam», quello buono, quello politically correct . L’idea non ha né capo né coda.

Brevemente: poiché, a parte casi particolari, gli allievi islamici sono ancora pochi in ogni classe, bisognerebbe riunirli tutti assieme in una classe sola, almeno per quelle ore. Ed ecco pronta la madrassa, la scuola coranica, che esige che i credenti in Allah stiano unicamente con altri credenti. Stretti in comunità, a cura della nostra Repubblica, chi farà loro lezione? E che gli si insegnerà? Gli ingenui, o insipienti, promotori della proposta si cullano forse nel mito di un «Islam moderato», pensano che esistano schiere di intellettuali musulmani «laici, pluralisti, democratici», pronti ad affrontare concorsi per cattedre di Islam «corretto»?

Ignorano che incorrerebbe in una fatwa di morte il muslìm che presentasse la sua religione come una verità tra le altre? Non sanno che relativismo e neutralità religiosa sono frutti dell’illuminismo europeo, ma bestemmie per il credente coranico? Ignorano che l’anno islamico inizia da Maometto e che il tempo e il mondo sono solo del suo Allah? Non sanno che è impensabile il concetto stesso di «storia delle religioni» per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere? I politici pensano, allora, di affidare le «ore di Islam» a non islamici, di far spiegare il Corano — in modo «laico e neutrale» — a chi non lo crede la Parola eterna e immutabile di Dio?

Fossi un assicuratore, mai stipulerei una polizza sulla vita per simili, improbabili, introvabili docenti. Se l’insegnamento nelle istituende «madrasse della Repubblica italiana» differisse anche di poco da quello delle moschee, l’esplosione di violenza sarebbe inevitabile. E, come troppo spesso è successo con i fautori delle «ore di…», le buone intenzioni produrrebbero frutti disastrosi.


Vittorio Messori
19 ottobre 2009