Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Città dell’amore di Mangalore dove gli anziani sconfiggono l’eutanasia - “Sfido chiunque a dire che i nostri anziani sono un peso. La loro esistenza è piena di significato, sono persone vive che ci comunicano una gioia profonda”. Suor Auxilia lavora alla Premnagar, la Città dell’amore, una casa di accoglienza per anziani poveri a Bajjodi, nei pressi di Mangalore, nel Karantaka. Dice ad AsiaNews: “L’eutanasia è il più grande diavolo nel mondo. I nostri anziani sono un grande tesoro, la loro esperienza di vita è una ricchezza per la società e per tutti noi; gli anziani sono una benedizione”.
2) La natura pubblica della fede - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 13 ottobre 2009
3) L’IMPICCAGIONE- VENDETTA DI UN RAGAZZO DI 17 ANNI A TEHERAN - Solo la morte vince se si toglie fiato alla speranza - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 ottobre 2009
La Città dell’amore di Mangalore dove gli anziani sconfiggono l’eutanasia - “Sfido chiunque a dire che i nostri anziani sono un peso. La loro esistenza è piena di significato, sono persone vive che ci comunicano una gioia profonda”. Suor Auxilia lavora alla Premnagar, la Città dell’amore, una casa di accoglienza per anziani poveri a Bajjodi, nei pressi di Mangalore, nel Karantaka. Dice ad AsiaNews: “L’eutanasia è il più grande diavolo nel mondo. I nostri anziani sono un grande tesoro, la loro esperienza di vita è una ricchezza per la società e per tutti noi; gli anziani sono una benedizione”.
Il centro Premnagar ha 80 posti, divisi equamente tra uomini e donne, dove “anziani poveri di tutte le religioni e caste vivono come in una famiglia”. Lo hanno costruito del Piccole sorelle dei poveri, la congregazione fondata nell’800 da suor Jeanne Jugan, canonizzata da Benedetto XVI l’11 ottobre di quest’anno.
Suor Auxilia è entrata nella congregazione 19 anni fa e spiega che “accogliere il primo santo del nostro ordine” è un invito a “continuare a riceve la grazia del Signore e a servirlo attraverso i poveri”.
La casa di Premnagar è una delle 13 aperte dallo Piccole sorelle lungo gli oltre 120 anni di presenza della congregazione in India. Arrivate a Calcutta nel 1882 hanno poi raggiunto anche Bangalore nel 1900 e quindi Mangalore nel 1978. Hospice come quello di Premnagar sono “un luogo benedetto, una casa di preghiera” dice suor Auxilia. “Tutti i nostri anziani sono poveri e sono la nostra gioia. Siamo noi ad imparare da loro: le sofferenze e le gioie della vita hanno dato loro una saggezza immensa”.
L’ospite più anziana della Città dell’amore è Cecilia D’Souza “una vecchietta di 104 anni che vive nella casa da 16 anni”, racconta la religiosa. “Si muove per la casa su una sedia a rotelle e infonde felicità e gioia in noi, negli altri ospiti ed anche nelle tante persone che vengono a visitarci” .
Suor Auxilia spiega che Premnagar ospita molte persone che hanno più di 90 anni “sono tutti felici di essere qui e il loro amore per la vita è istruttivo”. Affermala piccola sorella: “Questi anziani poveri partecipano ad ogni attività della Casa, si insegnano a vicenda mestieri, come fare oggetti di artigianato, cestini che poi vengono venduti e molte altre cose”. La Città dell’amore è una grande famiglia in cui le giornate sono scandite dalla vita comune e da attività quotidiane di ogni tipo.
Racconta suor Auxilia: “Il loro entusiasmo per le opere teatrali e gli spettacoli che organizziamo è incredibile. Anche se per alcuni la mobilità è una problema serio, questo non diminuisce il loro interesse a partecipare in modo attivo alle rappresentazioni teatrali o gli altri spettacoli”.
Il momento della morte a Premnagar è speciale e commovente. A rotazione le Piccole sorelle sono accanto al letto del morente, non lo lasciano mai solo per accompagnarlo a morire circondato dall’amore. Suor Virginia, la madre superiora, racconta: “È un momento segnato dalla grazia, i nostri poveri anziani muoiono con dignità e amore, soprattutto pieni di gratitudine”.
Suor Virginia spiega che “il carisma delle Piccole sorelle è prendersi cura dei poveri. Chiediamo elemosina nelle strade, nei mercati, facciamo il giro della città, bussando alla porte per chiedere cibo, vestiti, qualunque cosa ci possa essere donata. Delle volte veniamo derise, altre volte insultate, ma rispondiamo al disprezzo con una benedizione”.
La madre superiora racconta: “Non ci manca nulla, ogni giorno dipendiamo dalla provvidenza e ci sono anche molte persone che sono davvero generose con noi. Oggi il mondo sta elemosinando l’amore e questo è ciò per cui pregano i nostri anziani poveri: che il mondo possa essere riempito di amore, l’amore vicendevole delle persone”.
(Nirmala Carvalho)
(12/10/09 - (C) AsiaNews.it)
La natura pubblica della fede - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 13 ottobre 2009
Erba, 11 ottobre 2009. Un teatro gremitissimo: 5000 persone attratte dalla Presenza e dallo sguardo di Maria.
Arriviamo con Magdi Cristiano Allam senza sapere bene dove andare e cosa dover dire. L’impressione iniziale, infatti, è quella di una organizzazione latente.
Scortati dagli uomini di Magdi raggiungiamo il palco dove la veggente di Medjugorie Marija Pavlovic sta già parlando.
L’arrivo di Magdi sul palco scatena uno scroscio di applausi, un gesto poi ripetuto sottolineando i passi più significativi della sua esperienza.
Magdi parla con decisione e fermezza del suo passato islamico, della sua educazione cristiana in un Egitto liberale, della sua appassionata ricerca di Dio cui papa Benedetto XVI ha risposto pienamente.
Poi è la volta di sr Maria Gloria alla quale Magdi Cristiano passa il testimone.
Con lei l’attenzione della folla diventa più evidente.
Ogni passaggio è puntualmente sottolineato da un battito di mani: non è lo scroscio di applausi dettato dall’enfasi per la presenza del personaggio famoso, ma è davvero l’attenzione alle opere della fede che ancora si compiono fra gli uomini.
Il momento più applaudito, quello più toccante fra i tanti è quando, ricordando il deposito di fede nascosto nelle opere d’arte, sr Maria Gloria ricorda la natura pubblica della fede.
L’arte che ci circonda parla di Cristo, non solo nelle Chiese, ma nelle piazze, negli edifici pubblici e negli angoli più laici della città. La fede privata non esiste, la fede cattolica o è pubblica o non è fede.
Nel discorso si è citato poi il giudizio sostenuto da Magdi e da noi di CulturaCattolica.it su Eluana, la denuncia che ci è piovuta addosso per amore alla vita e alla verità. Anche qui la risposta del popolo è stata immediata. Forse soltanto 630, come ci è stato ricordato citando le pagine viste sulla Englaro, possono essere interessati al nostro sito, ma le sue idee sono condivise da un popolo di cui i 5000 di ieri non erano che la piccola rappresentanza.
Tutto si è concluso con un secondo intervento di Magdi, in cui egli, citando papa Benedetto, ha chiamato ciascuno ad adoperarsi per la difesa chiara e quotidiana dell’identità cristiana, attraverso la testimonianza personale riguardo ai valori non negoziabili dell’esistenza.
Abbiamo lasciato il Teatro congressi mentre si preparava la Messa. Lo abbiamo lasciato con la soddisfazione di aver vissuto un gesto pubblico significativo, uno di quelli che ci ha riportati agli inizi del Movimento di don Giussani: aprire lo sguardo a quanti, desiderosi di verità ma ostacolati da un modus vivendi mondano, cercano le chiavi interpretative per un giudizio netto e liberante sulla storia.
L’IMPICCAGIONE- VENDETTA DI UN RAGAZZO DI 17 ANNI A TEHERAN - Solo la morte vince se si toglie fiato alla speranza - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 ottobre 2009
B ehnoud Shojai aveva 17 anni il giorno in cui l’hanno arrestato per l’omicidio di un coetaneo, in un parco di Teheran. Si è sempre detto innocente. L’altra notte, la sentenza è stata eseguita. A tirare il cappio della impiccagione sono stati i genitori del ragazzo ucciso, secondo una atroce declinazione della sharia praticata dal totalitarismo iraniano. Ad aspettare quel padre e quella madre, c’erano duecento persone davanti ai cancelli del carcere di Evin. Gridavano: «Perdonatelo». Ma i due non hanno ascoltato. Forse, presi dentro la macchina mostruosa della giustizia dimostrativa del regime, non avrebbero nemmeno più potuto.
Sono entrati dunque. Il condannato aspettava. C’è, in questa livida alba a Teheran, più della violazione di ogni diritto umano. Non è la prima esecuzione di un ragazzo, in un Paese che esegue quasi quotidianamente impiccagioni per 'educare' il popolo e gli oppositori politici. Nel tendersi di questa ultima corda, la 232esima dall’inizio dell’anno, c’è però un oltre di bestialità. Il padre e la madre di un diciassettenne portati a farsi boia del suo presunto assassino. Già orfani del figlio, accompagnati, sospinti sul patibolo: giustizieri di uno che del figlio perduto aveva la sua stessa età.
Innocente, colpevole? Se anche Behnoud davvero fosse stato l’assassino, non cambierebbe molto, in quell’alba di Teheran, dove si è portato alla luce il peggio degli uomini. Di tutti gli uomini, non solo dei seguaci della più integralista sharia. Perché anche fra noi in quanti, di fronte all’assassinio di un bambino o di un ragazzo, non abbiamo detto o pensato almeno una volta: fosse mio figlio, quello là lo ucciderei con le mie mani? Le più tenere madri, al pensiero che qualcuno tocchi il loro bambino, sono capaci di dire: ucciderei. È un istinto profondo, ferino, che emerge solo all’idea di una minaccia al figlio. Poi, di fatto, nessuno o quasi di tanti genitori orbati arriva mai a realizzare questo rigurgito viscerale dell’anima. Soffrono atrocemente, sopravvivono, invecchiano; qualcuno riesce, per una grazia, a perdonare. Ma, mai accade da noi che ti sia data questa possibilità: ecco il patibolo, ecco la corda, vieni. Mai quella radice ferina che pure abbiamo nascosta dentro viene ammessa alla realtà e riconosciuta legittima, e benedetta dalla legge.
Presentata come giustizia, anzi: Giustizia, da torvi giudici intenti ad ammaestrare un popolo nel terrore. E quasi non sappiamo, in quell’alba fra le mura di un carcere, se la pietà più grande spetti a un ragazzo tremante, inchiodato al suo primo e neanche provato errore come a una croce; o invece a quei due, con la corda in mano. Già con la morte addosso, già segnati dalle unghie della morte nel lutto del figlio; e ora corteggiati e quasi costretti, dentro a un congegno inarrestabile, a farsi boia di uno che aveva, di quel figlio, gli stessi anni. Come sobillati da demoni incitanti alla vendetta, come affannosamente convinti che in quella vendetta ci sarà la pace. La corda tesa, un grido. E la coscienza immediata che non c’è, in quella morte, alcuna consolazione. Nello sbalordimento, la intuizione dell’inganno orrendo. Morto, adesso, oltre al figlio anche il presunto casuale compagno di una rissa; quello sconosciuto ragazzo, che del figlio avrebbe potuto essere amico. Forse, nella lucidità ubriaca di un istante, la dolorosa idea che ora i figli perduti sono due. E la scoperta che la vendetta stringe altri cappi: ossessivi, tenaci. (Nei pensieri, il sobillatore ora tace, esaudito e soddisfatto). Ma quanto soli quei due appena oltre la soglia del carcere, mentre i manifestanti arrotolano i loro inutili striscioni e vanno. Morti, quei due, due volte. Inceneriti da una giustizia che trasforma l’istinto atavico della vendetta in legge. Non un sogno: un incubo. Solo la morte vince, se si toglie ogni fiato alla speranza e al perdono.
1) La Città dell’amore di Mangalore dove gli anziani sconfiggono l’eutanasia - “Sfido chiunque a dire che i nostri anziani sono un peso. La loro esistenza è piena di significato, sono persone vive che ci comunicano una gioia profonda”. Suor Auxilia lavora alla Premnagar, la Città dell’amore, una casa di accoglienza per anziani poveri a Bajjodi, nei pressi di Mangalore, nel Karantaka. Dice ad AsiaNews: “L’eutanasia è il più grande diavolo nel mondo. I nostri anziani sono un grande tesoro, la loro esperienza di vita è una ricchezza per la società e per tutti noi; gli anziani sono una benedizione”.
2) La natura pubblica della fede - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 13 ottobre 2009
3) L’IMPICCAGIONE- VENDETTA DI UN RAGAZZO DI 17 ANNI A TEHERAN - Solo la morte vince se si toglie fiato alla speranza - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 ottobre 2009
La Città dell’amore di Mangalore dove gli anziani sconfiggono l’eutanasia - “Sfido chiunque a dire che i nostri anziani sono un peso. La loro esistenza è piena di significato, sono persone vive che ci comunicano una gioia profonda”. Suor Auxilia lavora alla Premnagar, la Città dell’amore, una casa di accoglienza per anziani poveri a Bajjodi, nei pressi di Mangalore, nel Karantaka. Dice ad AsiaNews: “L’eutanasia è il più grande diavolo nel mondo. I nostri anziani sono un grande tesoro, la loro esperienza di vita è una ricchezza per la società e per tutti noi; gli anziani sono una benedizione”.
Il centro Premnagar ha 80 posti, divisi equamente tra uomini e donne, dove “anziani poveri di tutte le religioni e caste vivono come in una famiglia”. Lo hanno costruito del Piccole sorelle dei poveri, la congregazione fondata nell’800 da suor Jeanne Jugan, canonizzata da Benedetto XVI l’11 ottobre di quest’anno.
Suor Auxilia è entrata nella congregazione 19 anni fa e spiega che “accogliere il primo santo del nostro ordine” è un invito a “continuare a riceve la grazia del Signore e a servirlo attraverso i poveri”.
La casa di Premnagar è una delle 13 aperte dallo Piccole sorelle lungo gli oltre 120 anni di presenza della congregazione in India. Arrivate a Calcutta nel 1882 hanno poi raggiunto anche Bangalore nel 1900 e quindi Mangalore nel 1978. Hospice come quello di Premnagar sono “un luogo benedetto, una casa di preghiera” dice suor Auxilia. “Tutti i nostri anziani sono poveri e sono la nostra gioia. Siamo noi ad imparare da loro: le sofferenze e le gioie della vita hanno dato loro una saggezza immensa”.
L’ospite più anziana della Città dell’amore è Cecilia D’Souza “una vecchietta di 104 anni che vive nella casa da 16 anni”, racconta la religiosa. “Si muove per la casa su una sedia a rotelle e infonde felicità e gioia in noi, negli altri ospiti ed anche nelle tante persone che vengono a visitarci” .
Suor Auxilia spiega che Premnagar ospita molte persone che hanno più di 90 anni “sono tutti felici di essere qui e il loro amore per la vita è istruttivo”. Affermala piccola sorella: “Questi anziani poveri partecipano ad ogni attività della Casa, si insegnano a vicenda mestieri, come fare oggetti di artigianato, cestini che poi vengono venduti e molte altre cose”. La Città dell’amore è una grande famiglia in cui le giornate sono scandite dalla vita comune e da attività quotidiane di ogni tipo.
Racconta suor Auxilia: “Il loro entusiasmo per le opere teatrali e gli spettacoli che organizziamo è incredibile. Anche se per alcuni la mobilità è una problema serio, questo non diminuisce il loro interesse a partecipare in modo attivo alle rappresentazioni teatrali o gli altri spettacoli”.
Il momento della morte a Premnagar è speciale e commovente. A rotazione le Piccole sorelle sono accanto al letto del morente, non lo lasciano mai solo per accompagnarlo a morire circondato dall’amore. Suor Virginia, la madre superiora, racconta: “È un momento segnato dalla grazia, i nostri poveri anziani muoiono con dignità e amore, soprattutto pieni di gratitudine”.
Suor Virginia spiega che “il carisma delle Piccole sorelle è prendersi cura dei poveri. Chiediamo elemosina nelle strade, nei mercati, facciamo il giro della città, bussando alla porte per chiedere cibo, vestiti, qualunque cosa ci possa essere donata. Delle volte veniamo derise, altre volte insultate, ma rispondiamo al disprezzo con una benedizione”.
La madre superiora racconta: “Non ci manca nulla, ogni giorno dipendiamo dalla provvidenza e ci sono anche molte persone che sono davvero generose con noi. Oggi il mondo sta elemosinando l’amore e questo è ciò per cui pregano i nostri anziani poveri: che il mondo possa essere riempito di amore, l’amore vicendevole delle persone”.
(Nirmala Carvalho)
(12/10/09 - (C) AsiaNews.it)
La natura pubblica della fede - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 13 ottobre 2009
Erba, 11 ottobre 2009. Un teatro gremitissimo: 5000 persone attratte dalla Presenza e dallo sguardo di Maria.
Arriviamo con Magdi Cristiano Allam senza sapere bene dove andare e cosa dover dire. L’impressione iniziale, infatti, è quella di una organizzazione latente.
Scortati dagli uomini di Magdi raggiungiamo il palco dove la veggente di Medjugorie Marija Pavlovic sta già parlando.
L’arrivo di Magdi sul palco scatena uno scroscio di applausi, un gesto poi ripetuto sottolineando i passi più significativi della sua esperienza.
Magdi parla con decisione e fermezza del suo passato islamico, della sua educazione cristiana in un Egitto liberale, della sua appassionata ricerca di Dio cui papa Benedetto XVI ha risposto pienamente.
Poi è la volta di sr Maria Gloria alla quale Magdi Cristiano passa il testimone.
Con lei l’attenzione della folla diventa più evidente.
Ogni passaggio è puntualmente sottolineato da un battito di mani: non è lo scroscio di applausi dettato dall’enfasi per la presenza del personaggio famoso, ma è davvero l’attenzione alle opere della fede che ancora si compiono fra gli uomini.
Il momento più applaudito, quello più toccante fra i tanti è quando, ricordando il deposito di fede nascosto nelle opere d’arte, sr Maria Gloria ricorda la natura pubblica della fede.
L’arte che ci circonda parla di Cristo, non solo nelle Chiese, ma nelle piazze, negli edifici pubblici e negli angoli più laici della città. La fede privata non esiste, la fede cattolica o è pubblica o non è fede.
Nel discorso si è citato poi il giudizio sostenuto da Magdi e da noi di CulturaCattolica.it su Eluana, la denuncia che ci è piovuta addosso per amore alla vita e alla verità. Anche qui la risposta del popolo è stata immediata. Forse soltanto 630, come ci è stato ricordato citando le pagine viste sulla Englaro, possono essere interessati al nostro sito, ma le sue idee sono condivise da un popolo di cui i 5000 di ieri non erano che la piccola rappresentanza.
Tutto si è concluso con un secondo intervento di Magdi, in cui egli, citando papa Benedetto, ha chiamato ciascuno ad adoperarsi per la difesa chiara e quotidiana dell’identità cristiana, attraverso la testimonianza personale riguardo ai valori non negoziabili dell’esistenza.
Abbiamo lasciato il Teatro congressi mentre si preparava la Messa. Lo abbiamo lasciato con la soddisfazione di aver vissuto un gesto pubblico significativo, uno di quelli che ci ha riportati agli inizi del Movimento di don Giussani: aprire lo sguardo a quanti, desiderosi di verità ma ostacolati da un modus vivendi mondano, cercano le chiavi interpretative per un giudizio netto e liberante sulla storia.
L’IMPICCAGIONE- VENDETTA DI UN RAGAZZO DI 17 ANNI A TEHERAN - Solo la morte vince se si toglie fiato alla speranza - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 ottobre 2009
B ehnoud Shojai aveva 17 anni il giorno in cui l’hanno arrestato per l’omicidio di un coetaneo, in un parco di Teheran. Si è sempre detto innocente. L’altra notte, la sentenza è stata eseguita. A tirare il cappio della impiccagione sono stati i genitori del ragazzo ucciso, secondo una atroce declinazione della sharia praticata dal totalitarismo iraniano. Ad aspettare quel padre e quella madre, c’erano duecento persone davanti ai cancelli del carcere di Evin. Gridavano: «Perdonatelo». Ma i due non hanno ascoltato. Forse, presi dentro la macchina mostruosa della giustizia dimostrativa del regime, non avrebbero nemmeno più potuto.
Sono entrati dunque. Il condannato aspettava. C’è, in questa livida alba a Teheran, più della violazione di ogni diritto umano. Non è la prima esecuzione di un ragazzo, in un Paese che esegue quasi quotidianamente impiccagioni per 'educare' il popolo e gli oppositori politici. Nel tendersi di questa ultima corda, la 232esima dall’inizio dell’anno, c’è però un oltre di bestialità. Il padre e la madre di un diciassettenne portati a farsi boia del suo presunto assassino. Già orfani del figlio, accompagnati, sospinti sul patibolo: giustizieri di uno che del figlio perduto aveva la sua stessa età.
Innocente, colpevole? Se anche Behnoud davvero fosse stato l’assassino, non cambierebbe molto, in quell’alba di Teheran, dove si è portato alla luce il peggio degli uomini. Di tutti gli uomini, non solo dei seguaci della più integralista sharia. Perché anche fra noi in quanti, di fronte all’assassinio di un bambino o di un ragazzo, non abbiamo detto o pensato almeno una volta: fosse mio figlio, quello là lo ucciderei con le mie mani? Le più tenere madri, al pensiero che qualcuno tocchi il loro bambino, sono capaci di dire: ucciderei. È un istinto profondo, ferino, che emerge solo all’idea di una minaccia al figlio. Poi, di fatto, nessuno o quasi di tanti genitori orbati arriva mai a realizzare questo rigurgito viscerale dell’anima. Soffrono atrocemente, sopravvivono, invecchiano; qualcuno riesce, per una grazia, a perdonare. Ma, mai accade da noi che ti sia data questa possibilità: ecco il patibolo, ecco la corda, vieni. Mai quella radice ferina che pure abbiamo nascosta dentro viene ammessa alla realtà e riconosciuta legittima, e benedetta dalla legge.
Presentata come giustizia, anzi: Giustizia, da torvi giudici intenti ad ammaestrare un popolo nel terrore. E quasi non sappiamo, in quell’alba fra le mura di un carcere, se la pietà più grande spetti a un ragazzo tremante, inchiodato al suo primo e neanche provato errore come a una croce; o invece a quei due, con la corda in mano. Già con la morte addosso, già segnati dalle unghie della morte nel lutto del figlio; e ora corteggiati e quasi costretti, dentro a un congegno inarrestabile, a farsi boia di uno che aveva, di quel figlio, gli stessi anni. Come sobillati da demoni incitanti alla vendetta, come affannosamente convinti che in quella vendetta ci sarà la pace. La corda tesa, un grido. E la coscienza immediata che non c’è, in quella morte, alcuna consolazione. Nello sbalordimento, la intuizione dell’inganno orrendo. Morto, adesso, oltre al figlio anche il presunto casuale compagno di una rissa; quello sconosciuto ragazzo, che del figlio avrebbe potuto essere amico. Forse, nella lucidità ubriaca di un istante, la dolorosa idea che ora i figli perduti sono due. E la scoperta che la vendetta stringe altri cappi: ossessivi, tenaci. (Nei pensieri, il sobillatore ora tace, esaudito e soddisfatto). Ma quanto soli quei due appena oltre la soglia del carcere, mentre i manifestanti arrotolano i loro inutili striscioni e vanno. Morti, quei due, due volte. Inceneriti da una giustizia che trasforma l’istinto atavico della vendetta in legge. Non un sogno: un incubo. Solo la morte vince, se si toglie ogni fiato alla speranza e al perdono.