venerdì 23 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Funerale di don Giorgio Pontiggia - Milano, parrocchia di S. Ignazio di Loyola, 21 Ottobre 2009 – Omelia Julián Carrón
2) Il Papa presenta la figura di san Bernardo di Chiaravalle - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
3) Dieci buone ragioni contrarie all’aborto chimico - Decalogo contro la pillola RU486
4) A casa non disturba nessuno: così fanno sparire l’aborto - Assuntina Morresi – Avvenire, 22 ottobre 2009
5) Sul dolore: desiderio o nulla? - Autore: Lusso, Matteo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 22 ottobre 2009
6) A proposito e a sproposito di islam - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 21 ottobre 2009 - In questi giorni è ripreso il dibattito sull'ora di religione e sulla possibilità che si dia anche in Italia la possibilità di un'ora di «religione islamica». Se ne è discusso in varie sedi, in vari siti, anche in televisione. Riporto qui un intervento a firma del Vescovo di San Marino - Montefeltro e mia in cui si cerca di evitare la confusione che alcuni interventi generano nel considerare la natura specifica dell'Insegnamento di Religione Cattolica nella scuola dello stato. Che si smetta di pensarla come catechismo, magari mascherato, o come privilegio.
7) GIORNALI/ Mauro: smascherato il disegno anti-Berlusconi - Mario Mauro venerdì 23 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
8) Il cristianesimo di Don Gnocchi - Renato Farina venerdì 23 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
9) "Obiezione di coscienza è diritto" - Aborto, Cei: per farmacisti cattolici – da http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo463857.shtml – 23 ottobre 2009


Funerale di don Giorgio Pontiggia - Milano, parrocchia di S. Ignazio di Loyola, 21 Ottobre 2009 – Omelia Julián Carrón
Chi sei Tu, Cristo, che puoi appassionare così la vita di un uomo?
Chi sei Tu, che puoi attrarre tutto l’io, tutta la persona con tutta la sua capacità, immaginazione, intensità, per metterla al Tuo servizio, per poter comunicare agli uomini - non con parole, ma con la vibrazione e con quella intensità che solo Tu puoi introdurre nella vita - la Tua stessa vita?
Chi sei Tu, Cristo?
Noi, tutti noi - e voi giovani in modo particolare l’avete visto - abbiamo potuto toccare con mano che razza di novità Cristo può introdurre nella vita di un uomo quando si lascia prendere tutto, tutto. E allora diventa tutto una passione; quello che abbiamo visto in don Giorgio è questa passione che Cristo è in grado di destare nella vita di un uomo: una passione per Lui, Cristo, e per tutti gli uomini.
Grazie a questa sua semplicità, al suo lasciarsi prendere da questa attrattiva, tanti di voi avete potuto conoscere chi è Cristo, non con parole, non con un discorso, non formalisticamente, ma attraverso quell’avvenimento che Cristo, presente ora, fa accadere in un uomo che si lascia afferrare così. Tutta la sua persona era stata esaltata da questo riconoscimento di Cristo, che gli era stato comunicato - come lui stesso ci ha detto tante volte - attraverso quella modalità, quella intensità di vita che aveva incontrato in don Giussani. Questo lasciarsi prendere secondo questa modalità, diventando figlio di don Giussani, ha consentito a tanti di voi di conoscere veramente chi è Cristo, e ha esaltato il suo io umano, la sua vocazione di prete, la sua capacità educativa. Tutto è stato esaltato in lui; veramente abbiamo avuto la percezione di questo centuplo che diventa la vita, di questo di più che diventa la vita quando noi Lo lasciamo penetrare tutto in noi. Per questo la sua vita è diventata educazione: lui ha educato con tutta la sua vita, comunicando quella esperienza che aveva afferrato lui, come ci ricorda il cardinale Angelo Scola nel messaggio inviato per l’occasione:
«Fin dai primi tempi del Seminario l’amicizia con lui è stata segnata dal suo appassionato desiderio di quella pienezza dell’umano che, per la grazia di Cristo Gesù, ci è donato», e per questo «don Giorgio possedeva la straordinaria capacità di destare in tutti, soprattutto nei giovani, questo ardente desiderio. Nello stesso tempo non desisteva dall’essere di continuo pungolo alla libertà perché si assumesse fino in fondo la responsabilità personale e comunitaria del dono della fede».
Don Giorgio ci ha testimoniato questo fino all’ultimo respiro della vita, fino alla morte, perché la sua morte è l’ultimo suo gesto di amicizia verso di noi. In mezzo alla confusione che tante volte ci domina, la morte mette in chiaro tutto. Non si tratta di un’opinione in più, ma di un fatto, senza “ma” e senza “però”, perché ci mette tutti davanti all’Eterno e ci pone una domanda, che possiamo evitare solo tradendo la natura del nostro cuore: che cosa oltrepassa la barriera della morte? Soltanto quello che è vero.
Perciò la morte è un giudizio su ciò che veramente vale e su ciò che è inutile, e questo è l’ultimo gesto di amicizia che don Giorgio compie verso ciascuno di noi. È come se dicesse a tutti: «Guardate che quello che non oltrepassa questa barriera non vale, non serve». Perciò la sua morte è l’invito più potente che ci lascia, insieme alla sua vita, a vivere di fronte all’Eterno.
Ma noi possiamo guardare perfino questa “sciagura” - abbiamo appena ascoltato nella liturgia - della morte proprio per quello che a tanti di voi, giovani, lui ha comunicato, cioè l’unica cosa che serve per vivere e per morire: Cristo, l’unico risolutore, l’unico che è in grado di accompagnarci nel vivere e di accompagnarci nel morire. Per questo noi siamo in debito con don Giorgio, perché ha testimoniato a tutti noi questa passione. Tutto il resto non ci fa vivere e neppure serve per morire.
Mi è venuta subito in mente, pensando a lui e a questo momento, quella frase di San Gregorio Nazianzeno che abbiamo ascoltato in altre occasioni: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».
Questa morte sia per ciascuno di noi una grande occasione di conversione a Lui, a Colui di cui tutto consiste, per essere anche noi figli, cioè testimoni di chi è Cristo per quelli che ci incontrano, perché quella bellezza che don Giorgio ci ha comunicato possa arrivare ad altri, a coloro che ci incontrano nella strada della vita.
Domandiamo alla Madonna di essere eredi di questo grande testimone di Cristo in mezzo agli uomini.


Il Papa presenta la figura di san Bernardo di Chiaravalle - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).

* * *

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato "l’ultimo dei Padri" della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.

In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: "Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato", scrive il santo Abate "ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca" (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.

Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è "miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)". Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, "scorre come il miele". Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca - l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. "Arido è ogni cibo dell’anima", confessa, "se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù". E conclude: "Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù" (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!

In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. "O santa Madre, - egli esclama - veramente una spada ha trapassato la tua anima!... A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio" (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: "per Mariam ad Iesum", attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del "Dottore mellifluo" la sublime preghiera a Maria: "Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …" (Paradiso 33, vv. 1ss.).

Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla "scienza dei santi", alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio "con la preghiera che con la discussione". Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.

Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. "Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, - egli dice - pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l'aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l'esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta..." (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).





[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai partecipanti al Capitolo Generale dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù e, mentre ringrazio questa Famiglia religiosa per il lavoro missionario che svolge soprattutto in Africa, auspico che essa continui con rinnovato slancio apostolico, a rendere sempre più attuale nel mondo il carisma di San Daniele Comboni. Saluto i Religiosi Servi della Carità – Opera Don Guanella e, nell’imminenza della festa del loro Fondatore, li incoraggio a lavorare nella Chiesa con generosa dedizione. Saluto i cresimati della diocesi di Faenza-Modigliana, con il loro Pastore Mons. Claudio Stagni, i soci del Credito Cooperativo Cassa Rurale ed Artigiana, di Pagliano, qui convenuti con il Vescovo di Palestrina Mons. Domenico Sigalini, come pure i rappresentanti di Rondine-Cittadella della Pace, accompagnati dal nuovo Vescovo di Arezzo Mons. Riccardo Fontana. A tutti auguro di crescere sempre nell’amore di Cristo per testimoniarlo in ogni ambito della società.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari amici, il mese di ottobre ci invita a rinnovare la nostra attiva cooperazione alla missione della Chiesa. Con le fresche energie della giovinezza, con la forza della preghiera e del sacrificio e con le potenzialità della vita coniugale, sappiate essere missionari del Vangelo, offrendo il vostro concreto sostegno a quanti faticano dedicando la loro intera esistenza alla evangelizzazione dei popoli.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Dieci buone ragioni contrarie all’aborto chimico - Decalogo contro la pillola RU486
ROMA, giovedì, 22 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La questione della vita è al centro della Dottrina sociale della Chiesa, come ha chiaramente indicato Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate.

E’ al centro perché riguarda in modo radicale la dignità della persona e perché da come si affronta il tema del rispetto della vita umana dipendono tutte le altre questioni sociali. Su cosa si costruirà la vita comunitaria se la nostra coscienza è «ormai incapace di conoscere l’umano?» (Caritas in veritate n. 75) e se cediamo all’«assolutismo della tecnica».

L’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa propone un Decalogo contro la pillola RU486, che considera espressione di una cultura disgregativa, che distrugge la passione per la vita e colpisce fin nelle origini il significato dello stare insieme.

di Monsignor Giampaolo Crepaldi

Presidente dell’Osservatorio
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1. Un aborto è sempre un aborto. La modalità – chimica o chirurgica – con cui si realizza non cambia la sua natura di “delitto abominevole”, poiché non varia la volontarietà di provocare la eliminazione di un essere umano innocente.

2. L’ aborto chimico non è meno pericoloso per la salute della donna. Le notizie accertate di 29 morti riferibili direttamente all’uso dell’Ru 486 sono un dato che mostra come questa metodica sia dieci volte più pericolosa di quella chirurgica per la salute della donna. Ovviamente, entrambe sono ugualmente letali per la vita del concepito.

3. Sembra una medicina, ma è solo un veleno. Il mifepristone, chiamato Ru486 dall’industria farmaceutica Roussel-Uclaf che la studiò e la produce, compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico che va a sostituirsi al progesterone, l’ormone che sostiene la gravidanza, rendendolo inefficace: di conseguenza l’embrione muore o, se sopravvive, il più delle volte ha gravi danni nello sviluppo e gravi handicap: questo è il motivo per cui, in Francia, le donne firmano un modulo che le impegna a ricorrere all’aborto chirurgico se la “pillola” non dovesse fare effetto completamente. L’associazione di mifepristone e prostaglandine non ha alcuna azione terapeutica, non cura nessuna malattia, non svolge alcuna azione benefica; ha un solo scopo: eliminare tramite la sua morte un embrione umano.

4. La “pillola” per abortire banalizza l’aborto. Utilizzare un prodotto chimico, per giunta catalogato come farmaco, induce due drammatici errori: ritenere che l’aborto sia un cosa facile e che rientri nell’ambito delle terapie mediche. Che non sia facile lo dimostrano le esperienze raccontate dalle donne, le tante sofferenze che restano sconosciute e possono manifestarsi anche dopo molti anni. Ed è una grave menzogna indurre a pensare che la gravidanza sia una “malattia” da potersi “curare”, ovvero da eliminare, attraverso una opzione medica. Una gravidanza è la presenza di un nuovo essere umano, non è un mal di testa o un raffreddore: non si trattano allo stesso modo!

5. L’ RU486 costringe la donna alla solitudine. Il mifepristone viene consegnato alla donna che lo assume personalmente; dopo qualche ora insorgono dolori ed emorragia che devono essere gestiti e monitorati personalmente, da riferirsi ad una successiva visita, durante la quale viene prescritta una seconda “pillola” che aiuta la definitiva espulsione dell’embrione. Il periodo di tempo in cui avviene il tutto può andare da tre a quindici giorni, con grande variabilità individuale dei sintomi dolorosi, per i quali comunque possono essere prescritti farmaci antidolorifici, sempre da autosomministrarsi. Impensabile che tutto il percorso sia realizzabile in ospedale, visti quali sarebbero i costi altissimi di un ricovero così prolungato: e questo pone la donna totalmente sola nella gestione dell’aborto, come avveniva e ancora avviene nell’aborto “clandestino”.

6. C’è poco tempo per una adeguata riflessione. Le pillole vengono consegnate alle donne in tempi necessariamente brevi, dovendosi assumere entro i primi 49 giorni della gravidanza per essere efficaci, non consentendo una articolata riflessione sulla decisione definitiva. La legge 194/78, che in Italia regolamenta l’aborto volontario, prevede che sia lasciato un tempo adeguato alla valutazione delle situazioni, delle possibili alternative e aiuti che la donna con gravidanza difficile può ricevere. L’RU 486 mette fretta, accorcia i tempi, appare anche nella sua tempistica come una “soluzione” rapida, quasi un automatismo: sono incinta – non lo voglio – prendo la pillola.

7. Svolge un’azione diseducativa. Quale può essere l’esito educativo di una mentalità di banalizzazione delle azioni, se non la deresponsabilizzazione? Se è possibile tecnicamente, non censurabile eticamente, accettato con disinvoltura e addirittura chiamato “progresso” e “conquista di civiltà” il fatto che, di fronte ad una difficoltà nella gravidanza, il modo più semplice per risolvere i problemi sia quello di “prendere una pastiglia”, come è possibile educare alla responsabilità?

8. Rappresenta una ideologia. L’auspicio, neppure troppo nascosto, è che questa modalità chimica diventi la normale via per abortire e che addirittura possa sostituirsi alla contraccezione, così da potersi ricorrere ad essa abitualmente. La mentalità di ricorso all’aborto tutte le volte in cui la contraccezione fallisce è uno degli effetti collaterali più pericolosi del cosiddetto “controllo delle nascite”. In un prossimo futuro, se davvero fosse utilizzata l’RU486 al primo insorgere delle gravidanze, l’aborto diventerebbe, ancor più di oggi, il mezzo di pianificazione familiare consueto, con una gravissima perdita di percezione della dignità della vita umana.

9. Non essendo un farmaco, non si può imporre ai medici di prescriverla.Spesso si associa il diritto all’obiezione di coscienza del medico e dell’operatore sanitario esclusivamente ad un intervento diretto. La somministrazione di farmaci è tendenzialmente vista come indifferente nella valutazione etica, poiché ciascuno sceglie e agisce in prima persona nell’assunzione di una medicina; questa “pillola” non è un farmaco e tantomeno un “salvavita”, anzi: perciò è il suo effetto (l’aborto diretto e volontario) che cade pienamente sotto la valutazione della coscienza di ciascuno. In particolare, ogni medico deve essere libero di dissociarsi e di rifiutarne la prescrizione, la quale sarebbe una attiva e consapevole cooperazione ad un atto reputato ingiusto e illecito.

10. Un aborto è sempre e solo un aborto. Nonostante la diffusione, nonostante i numeri tanto imponenti da oscurarne la percezione reale, nonostante l’inganno semantico di cambiarne il nome (interruzione volontaria della gravidanza), nonostante gli sforzi per renderlo inavvertito, banale, routinario, l’aborto resta un atto gravemente ingiusto, un lutto da elaborare, una ferita da guarire. Perderne consapevolezza non cambia la realtà dei fatti: un fatto è un fatto. In barba a tutte le ideologie.


A casa non disturba nessuno: così fanno sparire l’aborto - Assuntina Morresi – Avvenire, 22 ottobre 2009
Con la diffusione della Ru486 l’aborto è destinato a scomparire. Solo dalla scena pubblica, però: le donne continueranno ad abortire, ma lo sapremo solamente dai dati di vendita delle pillole, e dal numero dei certificati rilasciati. Il fine dell’aborto farmacologico è sempre stato lo stesso, prima ancora della Ru486: anche nelle sperimentazioni iniziali fatte solo con le prostaglandine (quelle che adesso sono il secondo farmaco per l’aborto chimico) si cercava di far abortire le donne a casa, per liberare finalmente medici e ospedali e lasciare che le donne se la sbrigassero da sole. Prima della legalizzazione c’erano 'mammane' e medici compiacenti, un ambulatorio clandestino o un tavolaccio. Con la pillola invece si può fare tutto da soli.

La decisione di usare la Ru486 va presa velocemente, perché la pillola si può usare solo nelle prime sette settimane di gravidanza e non c’è tempo per fermarsi a pensare, o per incontrare qualcuno che possa aiutare a non abortire. Ma soprattutto non c’è bisogno dell’ospedale per ingerire una pillola. In Francia la Ru486 si ingoia davanti al medico convenzionato, che poi consegna il secondo farmaco – quello che si prende due giorni più tardi per far venire le contrazioni – e gli antidolorifici, il foglietto con le istruzioni e il numero di telefono dell’ospedale più vicino a casa, casomai ce ne fosse bisogno. Un 'aborto medicalmente assistito a distanza': questa dovrebbe essere l’espressione corretta. Ricevuto tutto la donna andrà a casa, e se tutto 'va bene' dell’aborto lo sapranno solo lei e il suo medico. Scatole vuote e foglietti si buttano, e anche il 'prodotto del concepimento' sparisce, nello sciacquone del bagno: con la Ru486 l’aborto diventa quasi invisibile e non lascia traccia, tranne che nella vita della donna.
Se qualcosa va storto e si deve correre in ospedale, il problema dell’obiezione di coscienza non si pone più, perché tutti i medici hanno, ovviamente, il dovere di soccorrere una donna con un’emorragia in corso. È un aborto facile solo per chi non lo fa, insomma, per chi 'grazie' alla Ru486, non se ne dovrà occupare più. Un fatto privato come un qualsiasi atto medico, che non deve riguardare nessuno, condotto in totale solitudine, che adesso però si preferisce chiamare 'privacy'. È questo il vero motivo per cui c’è molto interesse a sostenere l’aborto farmacologico. E se la procedura è più lunga, dolorosa e incerta, peggiore in tutto rispetto al metodo chirurgico, non importa: stavolta le conoscenze mediche non pesano. I 'benefici' della società tutta, che dell’aborto privatissimo e a domicilio non si dovrà occupare più, saranno sempre maggiori dei rischi, che rimarranno a carico di ogni donna che sceglierà di abortire a casa sua, senza arrecare disturbo in corsia e facendo risparmiare sulla spesa sanitaria. E se l’aborto è solo un atto medico, e la Ru486 un farmaco fra tanti, soggetto alle stesse regole di una pomata antireumatica, allora anche le morti sono poco importanti. Perché ogni farmaco è pericoloso, si sa, e chissà quante ne dovremo ancora contare, di donne morte dopo aver preso la Ru486, prima che qualcuno se ne preoccupi.
Assuntina Morresi


Sul dolore: desiderio o nulla? - Autore: Lusso, Matteo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 22 ottobre 2009
Ci sono ferite che non guariscono e che nessun uomo può curare, perché il dolore appartiene a Dio, è una cosa tra noi e Lui. Chi non conosce il film “Marcellino pane e vino”? La ferita di Marcellino è la nostalgia della mamma. Quando il Signore gli chiederà che cosa desiderà di più, lui risponderà che vuole vedere sua mamma. E Gesù lo accontenta: la morte è così solo un’apparente ingiustizia, perché in realtà è la condizione normale perché si realizzi il suo desiderio.
Questo film va alla radice di tutto, alla radice della tenerezza del vivere, là dove è la sorgente di ogni forma di pietà e di amore che possiamo avere verso gli altri e noi stessi: che me ne faccio di un mondo migliore se esso si realizza in un futuro indeterminato? Chi salva i bambini che oggi sono morti di fame in varie parti del mondo? Chi dà oggi un senso alla loro vita? Chi fa giustizia oggi delle loro pene? Le statistiche demografiche dicono che nel nostro tempo, per la prima volta nella storia, il numero delle persone che soffre la fame ha superato il miliardo. Vivere per cambiare il mondo non basta: l’uomo che soffre è quello di adesso, quello che ho davanti e non posso aspettare che il mondo sia diverso per dirgli che la sua esistenza ha una dignità… Anche se bisogna cercare di cambiarlo questo mondo!!
La mia ferita, il mio dolore è che alla vostra età mi sentivo disperato, perché a queste domande non c’era risposta: non ci dormivo la notte. Per rispondere a queste domande c’è bisogno di Dio. Lui ha costruito la strada verso di noi, rivelandosi come amore: anche il dolore e la morte sono vinti dalla Sua passione per noi.
Marcellino ci fa vedere la vita e la morte in una prospettiva completamente nuova: vivere è essere Suoi amici, accettare la Sua amicizia, addormentarsi nelle Sue braccia, dove si compiono tutti i nostri desideri. Questa è la pace.
Il senso del dolore: questo manca nel giudizio di tanti ragazzi con cui parlo. A loro dico, citando M.C. Bateson: “Siamo tutti impegnati in un atto creativo che è la composizione delle nostre vite. Essa avviene usando materiali a volte conosciuti a volte sconosciuti o inattesi”. Chi vive con la curiosità di osservare in sé la costruzione di questa composizione? Chi vive attento a se stesso, impegnato con sé, amando sé? La perdita del desiderio fa scivolare il giovane nell’affermazione del nulla e nell’impoverimento dell’esperienza che ne consegue. Non il dolore, che rende più veri, meno aridi.
“Chiunque abbia una qualche esperienza del peccato, non ignora che la lussuria minaccia incessantemente di soffocare… tanto la virilità che l’intelligenza... La purezza non ci è prescritta come un castigo, è invece una delle condizioni misteriose ma evidenti - l’esperienza lo attesta - di quella conoscenza soprannaturale di se stessi, di se stessi in Dio, che si chiama la fede. L’impurità non distrugge questa conoscenza ma ne annulla il bisogno. Non si crede più perché non si desidera più credere. Non desiderate più conoscervi. Questa verità profonda, la vostra, non vi interessa più… Non si possiede veramente che ciò che si desidera; giacché per l’uomo non c’è possesso reale, assoluto. Non vi desiderate più. Non desiderate più la vostra gioia. Non potevate amarvi che in Dio, non vi amerete più... Non ero mai stato giovane, perché non avevo osato… Non sono mai stato giovane perché nessuno ha voluto esserlo con me… Ho compreso che la giovinezza è benedetta - che è un rischio da correre - ma che quel rischio è benedetto anch’esso.”
(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna).
Il dolore, anche quello lancinante, tocca presto o tardi ogni uomo. Voi mi chiedete: perché? Cosa vuole Dio attraverso il dolore? Che cosa significa per Lui? quello che noi non capiamo ha senso ai Suoi occhi.
Io penso che il dolore serva a purificare il nostro essere, a farlo riprendere nella sua purità: ecco il dolore ci rende più puri, più umili, più poveri, più veri anche nei sentimenti, ci rende più dignitosi anche agli occhi di noi stessi. Almeno siamo capaci di soffrire, c’è in noi qualcosa di buono, di autentico. Quello che noi non capiamo ha senso ai Suoi occhi.
Irene è morta: in un modo per me misterioso ha concluso la parabola della sua vita, in un tempo più breve rispetto alla norma, è arrivata alla meta in fretta, ha compiuto il suo destino: ora vede il Padre e tutte le cose nella loro verità e nella loro perfezione.
Noi, nel dolore e nella sofferenza per la sua scomparsa e per la sua mancanza, diventiamo un po’ più veri, più seri, meno distratti di fronte al dramma della vita, che non possediamo e che non ci è data per sbaglio o per caso. Così il dolore ci rinnova nella nostra creaturalità, ci purifica rendendoci un po’ più innocenti, un po’ meno presuntuosi, un po’ più disponibili a Dio.
D’altra parte ditemi l’alternativa: dove pensate di trovare risposta e pace alle domande e alla sete della vostra umanità? Lentamente ci si inquadra, ci si annulla nelle cose da fare, si dimentica la propria giovinezza e anzi la si rinnega. Allora quello che vi dico vuol semplicemente dire: “Ama chi dice all’amico: tu non puoi morire”. E’ un grido il mio: o diventiamo fratelli o saremo sempre estranei.


A proposito e a sproposito di islam - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 21 ottobre 2009 - In questi giorni è ripreso il dibattito sull'ora di religione e sulla possibilità che si dia anche in Italia la possibilità di un'ora di «religione islamica». Se ne è discusso in varie sedi, in vari siti, anche in televisione. Riporto qui un intervento a firma del Vescovo di San Marino - Montefeltro e mia in cui si cerca di evitare la confusione che alcuni interventi generano nel considerare la natura specifica dell'Insegnamento di Religione Cattolica nella scuola dello stato. Che si smetta di pensarla come catechismo, magari mascherato, o come privilegio.


Una utile riflessione di una donna musulmana
La questione dell’ora di religione nella scuola dello Stato sta diventando argomento di interesse e a volte alcuni interventi generano un po’ di confusione.
Innanzitutto chiariamo la ragione per cui si insegna religione cattolica nella scuola dello stato in Italia. Si legge nel Concordato così: «La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.
Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento.
All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione» [Legge n. 121 del 25 marzo 1985, Art. 9.2].
In questo modo si riconosce la valenza culturale dell’insegnamento, e si esclude che possa considerarsi una forma di catechismo, oppure di un privilegio concesso alla Chiesa Cattolica e negato ad altre fedi. Lo Stato prevede che, nel caso non ci si voglia, per qualsiasi ragione, avvalere di tale insegnamento, si possa chiedere che ci sia una attività alternativa, da svolgersi in concomitanza a tale insegnamento, e predisposta dal Collegio Docenti, su richiesta dei genitori degli alunni (o degli alunni stessi, ove maggiorenni). La presenza di tale attività alternativa fa sì che l’IRC mantenga la sua caratteristica di insegnamento da svolgersi «nel quadro delle finalità della scuola», mentre sollecita una responsabilità reale delle famiglie nei confronti della scuola stessa. Siamo certamente preoccupati nei confronti della cosiddetta «ora del nulla», che si realizza quando la scuola non fornisce affatto possibilità reali di studio serio e motivato, ma non riteniamo che la legge attuale preveda – almeno stando a quanto si legge nelle norme – una qualsiasi forma di «ora» alternativa, cioè di materia curricolare di altra religione.
Certamente sarebbe buona cosa che chi vuole usare del tempo scolastico per approfondire in particolare i contenuti della religione islamica, non nella forma di una supplenza a un insegnamento religioso in forma di catechesi, ma di consapevolezza dei contenuti culturali di tale religione lo possa fare, rendendo la scuola più flessibile ai bisogni degli alunni e delle famiglie.
Una scuola che si fa padrona degli alunni e si fa educatrice dei contenuti religiosi propri ci sembra più un retaggio dell’Ottocento che una scuola moderna e aperta ai valori della civiltà di oggi e democratica in senso sostanziale.
La polemica estiva sui crediti scolastici, ecc… ha creato una mentalità che relega l’IRC ad essere un privilegio concesso alla Chiesa Cattolica, con l’aggravante che questo non è concesso ad altri soggetti e ad altre religioni. Ma tale discussione non ha certo giovato alla scuola nel suo insieme, perché ha contribuito a mantenere nella mentalità comune l’impressione che la religione sia un fatto sostanzialmente non rilevante per la cultura.
Vogliamo allora fare nostra l’indicazione di Benedetto XVI agli Insegnanti di Religione il 25 aprile 2009: «Il vostro servizio, cari amici, si colloca proprio in questo fondamentale crocevia, nel quale – senza improprie invasioni o confusione di ruoli – si incontrano l’universale tensione verso la verità e la bimillenaria testimonianza offerta dai credenti nella luce della fede, le straordinarie vette di conoscenza e di arte guadagnate dallo spirito umano e la fecondità del messaggio cristiano che così profondamente innerva la cultura e la vita del popolo italiano. Con la piena e riconosciuta dignità scolastica del vostro insegnamento, voi contribuite, da una parte, a dare un’anima alla scuola e, dall’altra, ad assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell’educazione e della cultura in generale. Grazie all’insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto ed a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro».

+ Luigi Negri, Vescovo di San Marino – Montefeltro
Don Gabriele Mangiarotti, Responsabile di CulturaCattolica.it, Direttore Ufficio Scuola Diocesi San Marino - Montefeltro


GIORNALI/ Mauro: smascherato il disegno anti-Berlusconi - Mario Mauro venerdì 23 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
E’ finita col botto la seconda ed ultima puntata dello scontro sulla libertà d’informazione in Italia innescato dall’Italia dei Valori e iniziato lo scorso 8 ottobre con un dibattito-farsa durante la seduta plenaria di Bruxelles. Un dibattito svoltosi in un’aula semideserta, impietosa dimostrazione che di fronte ad una discussione nata da palesi premesse di finzione, il 90% degli eurodeputati stranieri hanno preferito occupare in altro modo quella parte della loro mattinata. Finito il dibattito, l’aula di Bruxelles ha ricominciato la sua vera attività e come per incanto, i banchi registravano il tutto esaurito.


Mercoledì scorso il Parlamento europeo ha ribadito il concetto: bocciata con 338 voti contrari (335 favorevoli) la proposta di Risoluzione che ha ancora come promotori i dipietristi. Con quel documento avrebbero voluto sollecitare ulteriormente la Commissione europea a prendere decisioni punitive nei confronti del nostro paese appellandosi in maniera delirante agli articoli 10 della Convenzione europea sui diritti umani e all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, articoli concernenti appunto libertà di espressione e pluralismo dei Media.


Insieme agli alleati del PD sono tornati a premere sul tasto del conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, utilizzando questo argomento come scusa per chiedere alla Commissione europea che imbavagli una volta per tutte il Governo italiano in carica. Quasi una richiesta di legittimare a livello europeo la battaglia di diffamazione in corso entro i nostri confini.


Ma la questione bizzarra è che nella loro Risoluzione hanno ricordato a tutti l’identico tentativo già andato a vuoto nel 2004, quando ebbe luogo un’altra discussione sulla libertà d'informazione in Italia, mentre al Governo c’era casualmente Silvio Berlusconi. Anche in quell’occasione votammo una risoluzione analoga.


Dopo la vittoria della sinistra nel 2006, come per miracolo il problema è scomparso. L’Italia sotto la guida di Romano Prodi era tornata ad essere un esempio di democrazia e di pluralismo. Così come successe allora la Commissaria Viviane Reding ha già messo in chiaro che non c’è alcun motivo per accogliere richieste il cui fondamento nella realtà è inesistente. Per tutte queste ragioni abbiamo assistito ad una sconfitta tremenda e senza appello per la sinistra italiana.
La delegazione italiana del Popolo della Libertà è stata capace di spiegare al Parlamento Europeo che non c’era un contenuto vero dietro la risoluzione sulla libertà di stampa facendo capire anche alla sinistra europea che seguendo ciecamente le proposte della sinistra italiana sarebbe andata incontro ad un vero e proprio suicidio politico. Il Partito popolare europeo dal canto suo ha vinto dimostrando una compattezza senza precedenti in difesa del Presidente Berlusconi, grazie anche agli interventi di alcuni autorevoli colleghi straneri, come l’ungherese Szajer che ha spiazzato tutti quando ha rivelato come un ministro (del governo di centrosinistra) del proprio Paese aveva mandato in galera un giornalista.



E’ stata una colossale presa in giro perchè il casus belli di questa battaglia politica, è stata proprio la causa per diffamazione intentata da Berlusconi contro i giornali che lo diffamano da quando è sceso in politica. Non c’è stato neanche bisogno di ricordare ai paladini della libertà d’informazione in Europa delle cause contro i giornali di Lamberto Dini, Massimo D’Alema e Romano Prodi.


Sono convinto che il voto di mercoledì ci permetterà di aprire un dibattito serio sulla concentrazione dei media in Europa.


E’ nell’interesse di tutti un impegno sul fronte di un dibattito di questo tipo, anche per verificare la posizione dominante di alcuni giganti dell’informazione come il gruppo Murdoch, che vale 32 miliardi di dollari, o il gruppo Bertelsmann da 17 miliardi. Questi sono enormemente più influenti del gruppo Mediaset che vale 5 miliardi, ma che fino a qualche giorno fa sembrava essere l'unica minaccia per la libertà di informazione. Smascherato il disegno anti-Berlusconi.


Il cristianesimo di Don Gnocchi - Renato Farina venerdì 23 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Sarà bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo. Consola sapere che la Chiesa, esperta in umanità, ha visto e approva, dopo che Dio concedendo il miracolo ha detto di sì. Interessante anche il tipo di miracolo. Un elettricista brianzolo che lavorava da volontario a un centro per disabili a Inverigo ed è rimasto folgorato, impossibile sopravvivere. Ma la folgore non lo ha ucciso avendo egli invocato istantaneamente don Gnocchi.


Prima dell’incarnazione di Dio in Gesù non si poteva vedere Dio senza morire, ora invece lo si può guardare, contemplare nel volto dei santi. Il cristianesimo di don Gnocchi è questo: una folgore che invece di uccidere dona la vita, dentro la vita, dentro il dolore, il marcio della condizione umana, dentro le cose normali. La folgore di una umanità diversa.


Per chi non abbia tempo di leggere le biografie a lui dedicate, ecco un riassunto. Carlo nasce nel 1902 a San Colombano al Lambro, nella Bassa. Il padre muore quando ha cinque anni di silicosi, era operaio marmista. La mamma si trasferisce a Milano, i suoi fratelli sono uccisi dalla tbc. A questo punto Carlo si fa brianzolo, a Montesiro incontra un sacerdote che lo affascina, va in seminario, è prete a 23 anni. Quindi l’oratorio, l’educazione dei ragazzi. Infine è alpino.


Se i suoi studenti, amici e fratelli vanno in guerra lui è lì con loro, non obietta, parte, odiando la guerra, ma lì. Va nei Balcani, poi in Russia. Tra i soldati, uno di loro, però testimone di una Presenza straordinaria. La purezza della castità, contento di essere prete, senza astrarsi, senza fuggire dalla sporcizia e dal sangue. Anche in battaglia. La famosa battaglia di Nikolaevka.


Nel suo libro “Cristo con gli alpini” scrisse: «In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari emersi dalle profondità dell'essere». Amare questi uomini come Cristo, amico senza giudicarli, senza escluderli perché preda degli “istinti più elementari”, nessuno scandalo, perché l’uomo nel dolore e nella malattia è salvato.


Ritorna. Ha ricevuto le confidenze dei morti, le lettere. Gira per l’Italia a portare alle famiglie notizie tragiche di persone che ha visto morire. Si prende cura degli orfani. Poi si dà da fare per i bambini mutilati dalla guerra e ancora falcidiati dalle bombe abbandonate. Mette su istituti (la “Pro Juventute”), si fa tutto a tutti, specie con i bambini perché consegnino le loro sofferenze a Gesù.


Prende sul serio i bambini, non li considera bambole di pezza parlanti. Sa che anch’essi cercano il senso della vita, e persino il loro dolore assurdo trova senso sul costato del Crocifisso (e Risorto). Le opere si moltiplicano. Il riconoscimento dei politici non manca; ancor oggi Giulio Andreotti, che ebbe da De Gasperi l’incarico di sostenerlo nelle varie iniziative, dice di lui: «Non gli si dirà mai grazie abbastanza». Don Carlo si consuma. Ha il volto bianco come la neve.

A proposito di neve. A me resta impressa questa frase: «Com'è bello giocare con la neve quando è pulita e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando sono bianche e pulite; ma se diventano sporche a Gesù non piacciono più…». Cosa colpisce? Egli sa che esiste la libertà, gli uomini possono dire sì o no, anche quando sono bambini. La drammaticità dell’esistenza umana inizia presto. E per questo c’è bisogno di adulti che rischino tutto per i loro ragazzi, i quali si affidino a loro volta al maestro, dentro un’affezione che corrisponde al bisogno del cuore.


Egli, magro, consumato, felice, morì a 54 anni dicendo: «Grazie di tutto». Lo diceva a Dio, lo diceva agli amici, ai bambini, agli alpini, a noi. Nelle varie polemiche che si sono susseguite in questi anni (ma durano da secoli) a proposito della risposta cristiana al mistero del dolore innocente, la risposta di don Gnocchi all’enigma è bianca come la neve e rossa come il sangue di Cristo. E si scusi l’immagine un po’ ardita, ma in fondo Gnocchi era ardito e ardente. Egli sapeva che quel dolore dei bambini, perché non fosse buttato via, andava versato nella mano del Signore, ma nel far questo ha fatto di tutto per lenirlo, per combatterlo. Se uno vuol bene dice: “donna non piangere!”, come Gesù alla vedova di Naim.


Negli ospedali di don Gnocchi, nelle sue case, non si lesinavano denari per acquistare le migliori tecnologie per estirpare il dolore, per consentire di camminare meglio ai mutilati. È stato il primo a donare le sue cornee per consentire a due ciechi di vedere, anticipando la legge con il suo gesto profetico. Altro che oscurantismo cattolico o dolorismo sadico. Tutto per Cristo e per gli uomini. Perché i bambini si immedesimino in Lui, e anche gli adulti siano pienamente uomini come Lui. Disse: «Cristo vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente umana».


Aveva visto l’orrore in guerra, l’istinto belluino, quello di vivere anteposto a tutto, nel gelo russo. Eppure don Carlo anche lì riuscì a essere - e la sua testimonianza vale tuttora - “seminatore di speranza”, secondo la definizione per lui coniata da Giovanni Paolo II. Il destino è buono. L’uomo è capace di male, ma è più forte la grazia.


Diceva: «L’ultima parola spetta sempre al bene». E si rivolgeva sempre, nel buio e nella melma, alla «Madre tenerissima, mediatrice di Grazia». Per questo è bello che sia stato fatto Beato, e la sua faccia lunga e lieta appaia sul grande stendardo domenica in Piazza Duomo a Milano, sotto la Madonnina d’oro.


"Obiezione di coscienza è diritto" - Aborto, Cei: per farmacisti cattolici – da http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo463857.shtml – 23 ottobre 2009
"L'obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali come l'aborto e l'eutanasia". Lo ha detto il segretario generale della Cei, Mons. Mariano Crociata, intervenendo a Roma al convegno dei farmacisti cattolici.


Ragionamento complesso quello di monsignor Crociata che ha insistito sul concetto di obiezione di scoscienza. "Riconoscere tale diritto ai farmacisti - dice Crociata significa per il presule permettere loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali, come per esempio l'aborto e l'eutanasia, e di superare le difficoltà di un contesto culturale che tende, talvolta, come ha detto il Papa nel suodiscorso del 2007 alla Pontificia Accademia della Vita, a non favorire l'accettazione dell'esercizio di questo diritto, in quanto elemento destabilizzante del quietismo delle coscienze".

Per Crociata, "il diritto-dovere all'obiezione di coscienza non riguarda solo i farmacisti cattolici ma tutti i farmacisti, perché la questione della vita e della sua difesae promozione non è una prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità".

"Desidero quindi esortare voi tutti - sono ancora le parole del segretario Cei ai farmacisti cattolici - ad essere testimoni coraggiosi nell'esercizio della professione del valore inalienabile della vita umana, soprattutto quando è più debole e indifesa. Seguire la propria coscienza - sottolinea il vescovo - non è sempre una via facile e può comportare sacrifici ed aggravi. Tuttavia, rimane necessario proclamare chiaramente che la via dell'autentica espansione della persona umana passa per questa costante fedeltà alla coscienza mantenuta nella rettitudine e nella verità".