domenica 4 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il ritorno di Gilbert Keith Chesterton - Ma chi è davvero Innocenzo Smith? - di Paolo Pegoraro - L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009
2) Come il gran vento arrivò a casa Beacon - Pubblichiamo l'inizio di Manalive nella storica traduzione di Emilio Cecchi. - L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009
3) Il Papa: la difesa della dignità umana richiede il sostegno alla famiglia - Nel suo discorso al nuovo Ambasciatore dei Paesi Bassi
4) Stratford Caldecott, Il fuoco segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien, Edizioni Lindau, Torino 2009, pag. 200, euro 19, ISBN 9788871807850
5) Mons. Dac Trong, la lotta della Chiesa vietnamita sotto il comunismo - La diocesi di Hanoi pubblica le memorie del vescovo ausiliare scomparso il 7 settembre scorso. “Storia di un era” narra, in forma di diario, la vita della Chiesa nel Paese dall’avvento del comunismo sino ai giorni nostri. Dalle vicende degli anni ’50 ad oggi racconta le sofferenze di vescovi, sacerdoti e laici ed offre elementi utili per capire i l’ attualità del cristianesimo in Vietnam...
6) Libertà di stampa: ma fateci il piacere...! - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 2 ottobre 2009
7) SPESSO DISTORTE LE PAROLE DEL PAPA - Se i media scoprissero il «sì» della Chiesa - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 4 ottobre 2009
8) DONNA INGLESE SUICIDA COL CONSENSO DEI MEDICI - Morte a comando Purché sia salva la forma - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 3 ottobre 2009


Il ritorno di Gilbert Keith Chesterton - Ma chi è davvero Innocenzo Smith? - di Paolo Pegoraro - L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009
Continua la primavera italiana di Gilbert Keith Chesterton. Dopo la riedizione di L'uomo eterno (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008) - era stata fuori commercio per oltre settant'anni - le doppie nuove traduzioni del San Francesco d'Assisi (Mursia e Lindau) e del San Tommaso d'Aquino (Fede&Cultura e Lindau), è tornato anche il suo capolavoro: Uomovivo (Sona, Morganti, 2009, pagine 256, euro 15). Era riapparso nel 1997 per Piemme nella memorabile traduzione (1933) di Emilio Cecchi.
In questa nuova versione di Paolo Morganti viene ripristinato il titolo originale Manalive, splendidamente tradotto con Le avventure di un uomo vivo. E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza al soprannome del suo protagonista, tanto da precisare: "Dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero".
Ma chi è, dunque, questo "uomovivo"? È Innocenzo Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d'improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell'indecisione. Smith è bufera umana. Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili: improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.
L'onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocenzo Smith. Un rivoluzionario, uno "che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti", come vuole la difesa? Oppure - come sostiene l'accusa - uno che "ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime", un "grande diavolo fantastico" da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute. Da teodicea.
E in effetti viene da chiedersi se Innocenzo Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l'innocente che non apre bocca mentre lo processano. D'altra parte la metafora del processo metafisico - tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel - torna spesso nella narrativa di Chesterton (L'uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie, e così via).
Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa. Allegre assoluzioni. Chi è, allora, Innocenzo Smith? Certamente non la versione maschile di Mary Poppins in salsa dolciastra. Perché Smith è innocente, ma non ingenuo. Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo. Cani e bimbi - invocati dal suo avvocato nel finale - sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, però ha optato coraggiosamente per un'altra strada.
Nelle pagine che raccontano la disputa dell'ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un'impellenza straordinaria, palesemente autobiografica. Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore: o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia. Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocenzo si dedicherà con zelo alla seconda alternativa. Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie: "Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire". L'innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo. Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l'ha attraversata a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata.
"Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra - scriverà Chesterton in Eretici - non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata". Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l'esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi. Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò "superficialmente d'infinite cose"; perfino di spiritismo. Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un'equidistanza intellettualista. L'iconografia classica del melanconico.
Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca "malattia dell'infinito" nel momento stesso in cui incontrò il volto dell'Infinito. E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l'amabile gente comune, creata a Sua immagine. Chesterton riconobbe l'Innocente negli occhi dell'uomo comune e volle essere il suo difensore.



(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009)
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Come il gran vento arrivò a casa Beacon - Pubblichiamo l'inizio di Manalive nella storica traduzione di Emilio Cecchi. - L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009
Il vento si levò alto ad occidente come un'onda d'irragionevole felicità, e si slanciò verso oriente sull'Inghilterra, portando seco il nevoso aroma delle foreste e la gelida ubbriachezza del mare. In mille buchi e cantucci ristorò la gente come un boccale di vin fresco e la sorprese come una percossa. Nelle stanze più riposte di case labirintiche e recondite, suscitò come un'esplosione domestica; seminò l'impiantito di fogli professorali, tanto più preziosi quanto più fuggitivi; e spense la candela al lume della quale un ragazzo leggeva l'Isola del Tesoro, avvolgendolo in un'oscurità piena di rombo. E dappertutto suscitò drammi in esistenze senza dramma, e suonò le trombe della crisi sul mondo. Più d'una madre meschina, in qualche povero cortile, aveva guardato cinque camicine tese ad asciugare come si guarderebbe una tragedia miseranda; quasi ella avesse impiccato i suoi piccini. Arrivò il vento: le camicine si gonfiarono e balzarono, come se vi fossero saltati dentro cinque grassi folletti; e nella stanca subcoscienza ella ricordò confusamente le rozze commedie de' padri, a' tempi che gli elfi abitavano ancora le case degli uomini. Più d'una fanciulla derelitta, in un giardino murato e umidiccio, s'era buttata sull'amaca con lo stesso gesto di non poterne più col quale avrebbe potuto buttarsi nel Tamigi; e il vento le squarciò intorno l'ondeggiante muraglia di fogliame, e sollevò l'amaca a guisa di pallone, rivelando strane forme di nuvole in alto, e lontane visioni di villaggi splendenti, quasi che ora ella viaggiasse pel cielo in una magica barca. Più d'un impiegato o d'un curato scarpinava tutto polveroso per una strada telescopica fiancheggiata di pioppi, rassomigliandoli per la centesima volta a pennacchi d'un carro funebre: quando cotesta forza invisibile li curvò a diadema intorno alla sua testa, e li fece rombare come un saluto d'ali angeliche. E v'era in tutto ciò qualcosa d'ancor più ispirato e imperativo che non nel vecchio vento del proverbio; perché questo era il buon vento che non fa male a nessuno.
La folata s'abbatté nel punto ove Londra si inerpica sulle alture settentrionali, di terrazza in terrazza, scoscesa come Edimburgo. Fu press'a poco in cotesto punto che qualche poeta, probabilmente ubriaco, guardò stupefatto tutte quelle strade che salivano verso il cielo, e (pensando vagamente a' ghiacciai e agli alpinisti legati alle corde) dette alla località quel nome di Villaggio Svizzero che non le è più riuscito di levarsi d'addosso. A una certa altezza, una fila di case alte e grige, vuote la maggior parte e desolate come i Grampiani, piegava ad arco verso occidente; e l'ultimo edificio, una pensione chiamata "Casa Beacon", presentava al tramonto uno spigolo tagliente e torreggiante, come la prua d'una nave abbandonata.
Ma la nave non era abbandonata del tutto. La proprietaria della pensione, certa signora Duke, era di quelle creature imbelli contro le quali il destino s'accanisce invano; ella sorrideva vagamente, avanti e dopo le sue sciagure, troppo molle per restarne colpita. Con l'aiuto (o piuttosto sotto gli ordini) d'una nergica nipote, tratteneva i resti d'una clientela per la maggior parte giovane e bighellona. Appunto cinque ospiti stavano ad annoiarsi in giardino, quando la raffica venne a rompere alla base del bastione retrostante, come il mare contro una scogliera.
Tutto il giorno quella collina di case sopra Londra era rimasta sigillata dentro una cupola di fredde nubi. Malgrado ciò, tre uomini e due ragazze avevano finito per trovar preferibile il giardino, grigio e freddo, alle stanze nere e piene di malinconia. Il vento giunse, spaccò il cielo, scaricò a destra e a sinistra la nuvolaglia, e spalancò le grandi fornaci radiose dell'oro serotino. E l'irrompere della luce liberata e l'irrompere del vento, parvero avvenire quasi allo stesso istante; e il vento travolse ogni cosa in una violenza convulsiva. L'erba corta e lucente si piegò tutta per un verso, come i capelli sotto la spazzola.
(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009)


Il Papa: la difesa della dignità umana richiede il sostegno alla famiglia - Nel suo discorso al nuovo Ambasciatore dei Paesi Bassi
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 2 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La difesa della dignità umana da parte dei governi implica il sostegno alla famiglia. E' quanto ha detto questo venerdì Benedetto XVI nel ricevere in udienza, a Castel Gandolfo, la baronessa Henriette Johanna Cornelia Maria van Lynden-Leijten.

Nata nel 1950, madre di tre figlie e impegnata nella diplomazia del suo Paese in Europa e Medio Oriente da quasi trent’anni, la baronessa Henriette Van Lynden Lejten ha presentato quest'oggi le Lettere con le quali viene accreditata nell'ufficio di nuovo Ambasciatore dei Paesi Bassi presso la Santa Sede.

Secondo quanto affermato dal Santo Padre in questi momenti è decisivo sostenere “le famiglie costruite sul fondamento di un matrimonio stabile e fecondo tra un uomo e una donna”, poiché “nulla può uguagliare o sostituire il valore formativo del crescere in un ambiente familiare sicuro”.

Nella famiglia, ha spiegato, si impara “a rispettare e a promuovere la dignità personale degli altri, diventando capaci di accoglienza cordiale, incontro e dialogo, disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda”.

In breve, ha insistito nel suo discorso in inglese, nella famiglia si impara ad amare.

“D'altro canto – ha denunciato –, è probabile che una società che incoraggia modelli alternativi di vita domestica per amore di una presunta diversità accumuli conseguenze sociali che non conducono allo sviluppo integrale dell'uomo”.

I Paesi Bassi sono stati una delle prime nazioni a riconoscere il cosiddetto “matrimonio” omosessuale e a concedere alle coppie dello stesso sesso la possibilità di adottare dei bambini.

Alla luce di ciò, il Vescovo di Roma ha assicurato che la Chiesa cattolica in questo Paese “desidera fare la sua parte nel sostenere e promuovere una vita familiare stabile, come ha affermato la Conferenza episcopale olandese nel suo recente documento sulla cura pastorale dei giovani e della famiglia”.

Per questa ragione, ha quindi auspicato vivamente “che il contributo cattolico al dibattito etico venga sentito e ascoltato da tutti i settori della società olandese, affinché la nobile cultura che da secoli contraddistingue il suo Paese possa continuare a essere nota per la sua solidarietà con le persone povere e vulnerabili, per la sua promozione della libertà autentica e per il rispetto della dignità e del valore inestimabile di ogni vita umana”.

Nel suo discorso, la baronessa Henriette Van Lynden Lejten aveva sottolineato che “il Governo olandese attribuisce grande importanza ai diritti umani” e “concorda sostanzialmente con la tradizione cattolica romana in cui la dignità umana occupa un posto centrale”.

“Una società aperta – aveva sottolineato – è caratterizzata da libertà per tutti, inclusa la libertà di espressione, di religione e di credo, senza pregiudizio per la libertà degli altri e con rispetto per le loro convinzioni”.

Dal canto suo il Pontefice ha affermato che la Santa Sede è impegnata in una difesa appassionata della libertà, di una libertà però che “deve essere ancorata alla verità - la verità della natura della persona umana - e deve essere orientata al bene degli individui e della società”.

Dei 16 milioni e 700 mila abitanti dei Paesi Bassi, il 30% è di religione cattolica, l'11% appartiene alla Chiesa nazionale Riformata, il 6% è calvinista, il 3% appartiene ad altre denominazione sorte in seno alla Riforma protestante.

Nel suo discorso, il Papa ha fatto riferimento all'elevato numero di persone agnostiche o atee (il 42% secondo alcune fonti ufficilali), così come al grande numero di credenti di altre religioni giunti in questo Paese in cerca di un futuro migliore.

Oggi il 5,8% degli abitanti dei Paesi Bassi è formato da musulmani, mentre il 2,2% segue altre tradizioni religiose.


Stratford Caldecott, Il fuoco segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien, Edizioni Lindau, Torino 2009, pag. 200, euro 19, ISBN 9788871807850

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Si dice che, dopo la Bibbia, l’opera la saga del Signore degli Anelli sia il libro più letto del XX secolo, un’opera che ha attratto persone di tutte le età e di tutte le fedi, in un ampio spettro che va dagli hippies ai tradizionalisti, dai cristiani ai neopagani… Eppure, anche se ancora molti dei lettori non è consapevole di questo aspetto, il suo autore, J.R.R. Tolkien, era un devoto cattolico romano.

Nato nel 1892 in Sud Africa, dove visse fino all’età di tre anni; quindi la madre Mabel portò lui e il fratello nella campagna inglese per motivi di salute. Il padre morì prima della riunione familiare e la madre si convertì al cattolicesimo nel 1900, venendo isolata dal resto della famiglia, costituita da anglicani, battisti e unitariani, e ridotta in povertà. Fu costretta a trasferirsi dalla campagna alla città, dove fu accolta sotto l’ala protettrice di padre Francis Morgan, della Confederazione dell’Oratorio di san Filippo Neri a Birmingham (una comunità religiosa il cui ramo inglese era stato fondato da John Henry Newman cinquant’anni prima). Fu padre Morgan che l’aiutò a prendersi cura della famiglia e le fece da guida spirituale, divenendo tutore del ragazzo alla morte di Mabel per diabete, consumata dalla povertà in cui la famiglia l’aveva lasciata dopo la sua conversione al cattolicesimo



Fu dunque così che Tolkien crebbe sotto la protezione e la guida di un sacerdote cattolico esemplare. Per tutta la vita cercò di frequentare quotidianamente la messa, trovandola una fonte costante di forza e grazia. A 21 anni sposò Edith Bratt non prima che avesse acconsentito a entrare nella Chiesa Cattolica e quindi partì per la Prima Guerra Mondiale. Sopravvisse grazie alla “fortuna” di essere rimpatriato a causa della febbre di trincea. Laureatosi ad Oxford, dove nel 1925 divenne professore di filologia anglosassone e formò il gruppo di lettura dei Kolbitár (Coalbiter, «Mangiacarbone») che si dedicava alle saghe islandesi e che negli anni ‘30 si fuse con gli Inklings (particolarmente importante fu l’amicizia con C.S. Lewis, che si convertì al cristianesimo proprio grazie a Tolkien).
Nel suo approfondito studio, Stratford Caldecott da un lato ripercorre le vicende umane di Tolkien, dall’altro analizza i suoi scritti (privati e pubblici, lettere, saggi e romanzi) dimostrando come la fede fosse fondamentale tanto per la vita quotidiana dello scrittore sudafricano quanto per la comprensione del suo capolavoro letterario: la sua non era una spiritualità pretenziosa, ma piuttosto “quotidiana”, come la spiritualità che troviamo in molti degli autori cattolici più popolari, come Jean-Pierre de Caussade. Gli Hobbit esemplificano questa umiltà e quotidianità che sta al cuore dei suoi scritti.

(Radici Cristiane n. 47 - Ago/Set 2009)


Indice
5 Ringraziamenti
7 Introduzione

IL FUOCO SEGRETO
17 1. L'albero delle storie
45 2. Una storia grandiosa
73 3. Una presenza nascosta: il cattolicesimo di Tolkien
101 4. Che le cose accadano
131 5. Al di là delle stelle
153 Conclusione. L’impresa di Tolkien
-Appendici
163 Un viaggio archetipo: Tolkien e Jung
171 La filosofia sociale di Tolkien
175 L’ombra di re Artù
181 Miti trasformati
185 Bibliografia
189 Indice dei nomi

Dal libro - Capitolo 1 - L’albero delle storie
Tolkien era un esploratore. Le storie a cui dedicò così tanto tempo ed energia sono appunti delle sue spedizioni alla ricerca di un mondo più antico o «interiore». Nel corso degli anni egli aggiunse revisione su revisione, strato su strato, lavorando fino a tarda notte, riempiendo una vastissima tela storica, intrecciando e tessendo tema su tema, finché l’intera raccolta delle sue opere assomigliò a un gigantesco «albero delle storie», simile alle nodose querce che egli amava.
Ora che abbiamo accesso al vasto corpus di racconti incompiuti e rielaborati e di materiale di sfondo, grazie alle fatiche profuse da suo figlio Christopher nei dodici volumi della History of Middle-Earth, possiamo capire appieno quanto tempo ed energia Tolkien dedicò alla scrittura. Se i suoi contemporanei e i suoi colleghi avessero conosciuto le reale portata della sua impresa, ne sarebbero stati scioccati. Ciò che spinse Tolkien a dedicarsi così strenuamente alla sua opera non fu semplicemente l’ossessione di raccontare una storia, ma la credenza che «leggende e miti siano in gran parte fatti di “verità”, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere recepiti solamente sotto questa forma» (L 131). Sapeva di scrivere finzioni, ma allo stesso tempo sentiva che stava raccontando la verità sul mondo per come a lui si rivelava. E questa verità la scopriva scrivendo, attraverso il processo stesso della scrittura. Sostenne sempre di aver avuto la sensazione di registrare ciò che era già «lì», piuttosto che di inventare materiale proprio (L 131); una sensazione che giaceva dietro l’artificio immaginario del «Libro Rosso dei Confini Occidentali» sul quale Il Signore degli Anelli stesso finge di essere basato. In una lettera a Christopher ammise che il racconto sembrava quasi scriversi da solo e a volte prendeva una direzione molto diversa dall’abbozzo preliminare, come se la verità stesse cercando di emergere attraverso di lui (L 91). In un certo senso, dunque, egli credeva realmente a ciò che stava scrivendo. («Esistono dei piani o dei gradi secondari», scrisse in Notion Club Papers.)
Le sue storie non sono ambientate in una galassia lontana o in un altro mondo, ma in questo mondo molto tempo fa. Nella prima stesura di una lettera a un’ammiratrice datata 1971 (L 328), Tolkien racconta di scrivere con grande attenzione per i dettagli, così da creare un «quadro» che sembri contrapposto a uno sfondo illimitato, con infinite estensioni attraverso il tempo e lo spazio. Ogni elemento particolare della storia doveva sembrare appartenere a un corpus letterario molto più vasto e antico, per evocare risonanze simboliche senza le quali non sarebbe riuscito a lanciare il suo incantesimo. Doveva evocare visioni e scorci grandiosi intorno e dietro ogni storia, così come avviene nelle leggende dei popoli nordici e dei celti, ognuna delle quali è giunta fino a noi partendo dal suo straordinario «spazio mitico».
Anche il seguito della stessa lettera è particolarmente interessante, poiché sembra suggerire che, nonostante Tolkien fosse in grado di analizzare in certa misura ciò che stava facendo, il motivo per cui lo faceva e il modo in cui otteneva gli effetti letterari desiderati, allo stesso tempo era estremamente sconcertato da ciò che gli era stato dato – cioè percepiva il fatto che un mistero fosse all’opera. Infatti continua:

Riconsiderando le cose totalmente inattese che hanno fatto seguito alla pubblicazione […] mi sembra che il cielo sempre più oscuro che copriva il nostro mondo si sia improvvisamente squarciato, le nuvole si siano diradate e un sole quasi dimenticato abbia ricominciato a splendere. Come se i Corni della Speranza si siano fatti di nuovo sentire, come all’improvviso li sentì Pipino nel nadir delle fortune dell’occidente. Ma come? E perché?

Questo senso di mistero è approfondito dall’incontro nella vita reale con una figura che Tolkien identifica con Gandalf, un uomo che gli fece visita per discutere di alcuni vecchi quadri che sembravano quasi pensati per illustrare Il Signore degli Anelli, ma che Tolkien non aveva mai visto prima. Dopo una pausa, l’uomo aveva osservato: «Naturalmente Lei non crederà di aver scritto il libro tutto da solo?». Continua Tolkien:

Tale e quale Gandalf! Io ero troppo abituato ai modi di Gandalf per reagire bruscamente o per chiedergli che cosa volesse dire. Penso di aver detto: «No, credo di no». Da allora non sono più stato capace di crederlo. Una conclusione allarmante per un vecchio filologo nei confronti di una cosa che aveva scritto per il proprio godimento. Ma anche una conclusione tale da non inorgoglire chiunque si renda conto dell’imperfezione degli «strumenti prescelti» e di quella che a volte sembra una deprecabile inidoneità per gli scopi prefissati.

Uno «strumento prescelto»? Non voglio rischiare di darle troppa importanza, ma la lettera è illuminante. Pare che Tolkien sentisse come suo dovere suonare il corno della speranza in un mondo che andava oscurandosi, e quelle migliaia di lettori che fanno continuo ritorno al libro e al film per rinfrancarsi un po’ l’anima forse concordano con lui. Si tratta di una storia che ci dice cose che abbiamo bisogno di sapere. Non può essere capita tutta subito. È una di quelle storie nelle quali bisogna crescervi dentro, storie che hanno a che fare con il modo in cui è fatto il mondo, e con il modo in cui è fatto il proprio sé. Queste storie sono come i sogni, ma sogni che possono essere condivisi da un’intera cultura; sogni universali che restaurano l’equilibrio della psiche volgendo le nostre energie e i nostri pensieri verso la verità; sogni che somigliano a un’oasi nel deserto. Leggerli può costituire una meditazione. Ma perché è così? È questa la domanda alla quale voglio rispondere.

Il Salone del Fuoco

J.R.R. Tolkien nacque a Bloemfontein, in Sud Africa, nel 1892, dove visse fino all’età di tre anni. Poi, per motivi di salute, la madre Mabel riportò lui e il fratello in Inghilterra, stabilendosi in un bell’angolo dello Warwickshire rurale. Suo padre, Arthur Tolkien, avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, ma morì prima che la famiglia potesse riunirsi.
Quando Mabel divenne cattolica romana, nel 1900, fu isolata dalla sua famiglia, costituita da anglicani, battisti e unitariani, e ridotta in povertà. Fu costretta a trasferirsi dalla campagna alla città, dove fu accolta sotto l’ala protettrice di padre Francis Morgan, della Confederazione dell’Oratorio di san Filippo Neri a Birmingham (una comunità religiosa il cui ramo inglese era stato fondato da John Henry Newman cinquant’anni prima). Fu padre Morgan che l’aiutò a prendersi cura della famiglia e le fece da guida spirituale.
Tolkien aveva solo dodici anni quando la madre morì di diabete, consumata (scrisse egli stesso in seguito) dalla povertà che era conseguenza diretta della sua conversione al cattolicesimo, e padre Morgan divenne tutore del ragazzo. Fu dunque così che Tolkien crebbe sotto la protezione e la guida di un sacerdote cattolico esemplare. Per tutta la vita cercò di frequentare quotidianamente la messa, trovandola una fonte costante di forza e grazia.
Dunque, la storia della vita di Tolkien potrebbe essere presentata sotto tre titoli principali. Il primo potrebbe essere Romanzo d’amore. Egli si innamorò all’età di 16 anni della diciannovenne Edith Bratt, ma il suo tutore-sacerdote non gli consentì di chiedere la mano della ragazza che cinque anni dopo. A quel tempo Edith aveva acconsentito a entrare nella Chiesa cattolica, e i due si sposarono a Warwick appena prima che Tolkien partisse con i Lancashire Fusiliers per combattere contro i tedeschi nella prima guerra mondiale. Solo quando tornò poterono vivere felicemente come marito e moglie. L’immagine che egli aveva di lei fu sempre quella della bella giovane che danza fra gli abeti nella radura di una foresta vicino a Roos, nello Yorkshire, nei pressi del campo militare in cui era stanziato nel 1917. Questa immagine è anche uno dei semi della sua opera, perché divenne l’incontro fra il suo eroe Beren e la principessa degli Elfi, Lúthien – riecheggiato anche nella storia di Aragorn e Arwen, che Tolkien considerava un elemento vitale del racconto, anche se la espose soprattutto nelle appendici a Il Signore degli Anelli.
Il secondo titolo, quindi, potrebbe essere Guerra. I primissimi esordi scritti della mitologia sono datati intorno al 1914, anno in cui la Gran Bretagna entrò nella prima guerra mondiale (anche se Tolkien poté finire i suoi studi a Oxford nel 1915, prima di dedicarsi all’addestramento militare). Egli sopravvisse alla guerra grazie alla «fortuna» di essere stato mandato indietro dalla Somme a causa della febbre di trincea. Quando si riprese scrisse il primo intenso frammento del Silmarillion, La caduta di Gondolin. La maggior parte dei suoi amici restarono uccisi nel giro di pochi anni, ed egli si scoprì pieno di rispetto e soggezione per l’eroismo del soldato semplice inglese. Quell’eroismo troverà la sua strada nel Signore degli Anelli attraverso i personaggi degli Hobbit, e soprattutto nella figura di Sam Gamgee. Pubblicata nel 1954-1955, l’intera opera è un tributo allo spirito degli uomini comuni e modesti che morirono per il loro paese nella Grande Guerra, e fu in gran parte composta durante la seconda guerra mondiale, davanti al male quasi demoniaco scatenato sul mondo da Adolf Hitler.
Il terzo titolo è Oxford, dove nel 1925 Tolkien divenne professore di filologia anglosassone e formò il gruppo di lettura dei Kolbitár (Coalbiter, «Mangiacarbone») che si dedicava alle saghe islandesi e che in seguito, negli anni ’30, si fuse – o incorporò – gli Inklings. Non c’è rischio di sovrastimare l’influenza di questa compagnia letteraria nella sua vita reale; è più che evidente, infatti, che senza di essa gli sarebbero mancati anche l’incoraggiamento e la fiducia per continuare. Soprattutto l’amicizia di Clive Staple Lewis, che si convertì al cristianesimo con il contributo di Tolkien, svolse un ruolo cruciale, come quella di George Sayer, che, in un certo momento, ravvivò la sua determinazione a cercare un editore.
Via via che la fama di Lewis e di Tolkien si diffondeva nel mondo, vennero scritte tante cose sugli Inklings, non da ultimo un importante studio a opera di Humphrey Carpenter, biografo di Tolkien. Non cercherò nemmeno di riassumerlo qui: come per quanto riguarda i dettagli sulla vita di Tolkien, i dati e i fatti sono a disposizione di chiunque sia interessato. Tolkien ebbe una certa influenza sulla conversione di Lewis al cristianesimo, anche se forse quest’ultimo non superò mai in modo adeguato i suoi pregiudizi di nativo dell’Ulster per diventare un cattolico. Gli altri appartenenti al gruppo erano un insieme di persone ancora più variegate, da Charles Williams, anglicano conservatore con idee mistiche e in un certo senso non ortodosse sull’amore e sulla magia, a Owen Barfield, l’antroposofista che s’interessava di linguaggio ed evoluzione della coscienza. Chiunque vivesse a Oxford e frequentasse i pub dove si riunivano, avrebbe potuto assistere a questa scena: pinte di birra avvolte nel fumo, conversazioni ad alta voce (soprattutto di Lewis), antichi linguaggi, recitazione di frammenti di storie e nuove poesie, interruzioni frequenti, commenti critici, e risate.
A volte penso agli Inklings quando leggo la descrizione del «Salone del Fuoco» di Elrond, a Gran Burrone, perché è lì che si sarebbero trovati maggiormente a casa. Il salone fu un elemento costante nella scrittura di Tolkien, e fece la sua prima apparizione come «Stanza del Fuoco di Ceppo» in una storia scritta nel 1916-1917 intitolata La casetta del gioco perduto, dove «le antiche storie, le vecchie canzoni e la musica elfica sono gelosamente custodite e ripetute».
È facile idealizzare gli Inklings, ma la realtà spesso era piuttosto noiosa, con la sua bella dose di frustrazione e debolezza umana. I membri andavano e venivano, e alla fine anche Tolkien e Lewis in un certo senso litigarono, in parte a causa del matrimonio di Lewis con una divorziata, sul quale Tolkien, devoto cattolico, aveva da ridire. Forse, come sostiene qualcuno, potrebbe esserci stata della gelosia da parte di Tolkien per il successo apparentemente facile di Lewis con le storie di Narnia, che riteneva troppo rozze e allegoriche (L 265), e per l’amicizia di Lewis con Charles Williams (e questo per sua stessa ammissione, L 252, 257, 259).
Ciò nonostante, l’amicizia all’interno della «fratellanza» era vera e profonda, e furono molti i momenti di intensa comunione, che di certo superarono le tensioni occasionali. Lewis non smise mai di lodare l’opera di Tolkien, anche durante i periodi di allontanamento fra i due, e da parte sua Tolkien rimase profondamente scosso dalla morte dell’amico nel 1963: «Questo colpo è come un’accetta che mi abbia colpito vicino alle radici. È molto triste che negli ultimi anni ci siamo allontanati tanto; ma i tempi in cui eravamo più vicini restano nel ricordo di entrambi» (L 251). Per molti anni, Lewis era stato l’unico pubblico di Tolkien per quello che avrebbe potuto rimanere solo un passatempo privato (L 276).
Tuttavia, anche se Il Signore degli Anelli può essere dipeso dall’incoraggiamento di Lewis (oltre che dal successo della storia per bambini Lo Hobbit), la vita segreta che l’avrebbe alimentato aveva già avuto il suo inizio prima che gli Inklings iniziassero a leggere l’uno all’altro i propri scritti al Bird and Baby, e molto prima che Tolkien scrivesse i famosi saggi accademici che costituiscono la sintesi della sua concezione della letteratura, Beowulf: i mostri e i critici (1936) e Sulle fiabe (1939). Ed era all’opera anche prima della guerra, che lo segnò in modo permanente con l’esperienza diretta del male e della sofferenza supremi. I semi di questa vita segreta risalgono alla sua infanzia, soprattutto ai felici giorni passati a giocare con il fratello Hilary nella campagna intorno a Sarehole (che ispirò la Contea degli Hobbit), e ai suggerimenti di «bellezza e maestà» ricevuti dalla Messa cattolica.


Mons. Dac Trong, la lotta della Chiesa vietnamita sotto il comunismo - La diocesi di Hanoi pubblica le memorie del vescovo ausiliare scomparso il 7 settembre scorso. “Storia di un era” narra, in forma di diario, la vita della Chiesa nel Paese dall’avvento del comunismo sino ai giorni nostri. Dalle vicende degli anni ’50 ad oggi racconta le sofferenze di vescovi, sacerdoti e laici ed offre elementi utili per capire i l’ attualità del cristianesimo in Vietnam...
Hanoi (AsiaNews) - La diocesi di Hanoi ha pubblicato alcune delle memorie di mons. Paul Le Dac Trong, già vescovo ausiliare della capitale, scomparso il 7 settembre scorso all’età di 91 anni. Testimone della vita della Chiesa in Vietnam nel secolo scorso, mons. Trong era nato a Kim Lam nel 1918. Ordinato sacerdote il 1 aprile 1948, dal 23 marzo del 1994 era divenuto ausiliare di Hanoi.
Il volume è intitolato “Storia di un era” e riporta l’introduzione di mons. Joseph Ngo Quang Kiet, attuale arcivescovo di Hanoi. Scritto in forma di diario, esso riporta gli eventi di cui il vescovo è stato osservatore diretto.
Nella prima parte del libro, mons. Dac Trong riassume la situazione della Chiesa nel nord del Vietnam prima e all'avvento del comunismo nel 1954. Quando le truppe comuniste prendono Hanoi, egli scrive: “Davanti alla possibilità di essere perseguitati i cattolici fuggirono al sud in massa. I sacerdoti, soprattutto quelli che sapevano cosa accadeva in Russia, Spagna e Cina dove un grande numero di cattolici erano stati uccisi dai comunisti, scappano con i loro fedeli lasciando deserte le diocesi del nord”. I vescovi avevano chiesto ai sacerdoti di restare arrivando in alcuni casi anche alle minacce di punizioni per chi andava al sud.
La migrazione di un largo numero di sacerdoti al sud causò molte difficoltà alle diocesi del nord. Dopo aver descritto in ogni dettaglio la situazione di ogni diocesi del nord negli anni ’50, mons. Paul Le afferma: “E' stato un disastro. In brevissimo arco i tempo il cattolicesimo è stato completamente spazzato via dal nord”.
Il compianto vescovo spiega però che la “fuga” di un così largo numero di sacerdoti non ha avuto solo risvolti negativi. Egli afferma che essa“ha contribuito alla rapida fioritura delle diocesi del sud” e che “quei sacerdoti rimasti [nel nord] hanno dovuto essere saldi per non portare danni alla Chiesa”. Un largo numero di sacerdoti infatti viene imprigionato e messo sotto pressione. Alcuni di essi finiscono nel "Fronte unito dei cattolici patriottici amanti della pace", nato nel marzo del 1955 con l’intento di istituire una Chiesa cattolica controllata dallo Stato, fedele al partito e non al Papa.
Il Fronte unito ha reso “la vita dei vescovi molto più dura e complicata”. Persistendo nell’unione con Roma e con il successore di Pietro, i presuli hanno visto nel comitato un grande e imminente pericolo per la Chiesa. Mentre alla Chiesa non è permesso avere mezzi di comunicazione, il Fronte dà vita ad un paio di settimanali in cui “le notizie positive sella Chiesa non trovava mai spazio, mentre viene riportato qualsiasi scandalo della Chiesa che accade in giro per il mondo e sono frequenti gli attacchi al Papa e al Vaticano. La cosa peggiore - lamento il vescovo - è che essi fanno tutto ciò in nome dell’autorità ufficiale della Chiesa”
Nel 1975, poco dopo la presa totale del Paese da parte dei comunisti, nasce nel sud un Comitato di solidarietà dei cattolici vietnamiti ed il 10 luglio 1975 viene pubblicato il primo numero della sua rivista Catholics and People. Il vescovo spende una parte significativa del suo libro per criticare i feroci e frequenti attacchi del gornale contro Giovanni Paolo II ed il Vaticano.
I vescovi che cercano di vietare ai loro sacerdoti di aderire a questi comitati mettono a rischio la loro incolumità ed espongono l’amministrazione diocesana a enormi difficoltà con dure restrizioni nella selezione dei seminaristi, le ordinazioni, nelle nomine e spostamenti dei sacerdoti. Il normale svolgimento delle attività della Chiesa come viaggi, incontri e iniziative pastorali deve essere soggetto all’approvazione dell’autorità civile. Cosa ancor più grave, i fedeli delle aree rurali sono costretti a cessare le attività religiose.
Il governo comunista, che controlla le attività religiose, continua a dire che il Fronte unito ed il Comitato di solidarietà servono a facilitare il dialogo tra Stato e Chiesa. Il defunto vescovo rigetta in modo chiaro questa versione spiegando che i comitati hanno danneggiato sia lo Stato che la Chiesa. “Essi generano solo una profonda sfiducia inculcando nei leader della Chiesa e del governo la preoccupazione per un rischio irreale che li spinge ad affannarsi per vedere riconosciuto il loro ruolo di intermediari. La nascita di questi tipi di comitati è stato un grande errore dei comunisti – afferma mons. Dac Trong – ed è giunto il momento di smantellarli”.
Vivendo in questo tipo di società ostile alla fede, i vescovi del Vietnam tendono ad essere estremamente prudenti e discreti per evitare che le loro prese di posizione possano portare gravi conseguenze a loro e ai fedeli. Il 20 settembre 2008, nell’incontro con il Comitato del popolo di Hanoi, l’attuale arcivescovo Joseph Ngo Quang Kiet ha affermato: “La libertà religiosa è un diritto umano naturale per chiunque, non un favore concesso da chi detiene il potere. Un governo ‘per il popolo’ ha la responsabilità di creare le condizioni perché ognuno ne possa godere, non una grazia riversata dall'alto su di noi, a vostro piacimento. Lo ripeto ancora: la libertà religiosa è un diritto umano, non una grazia concessa solo se richiesta”.
Per queste sue affermazioni mons. Quang Kiet ha subito una campagna denigratoria dei media durata per mesi. Di recente, l’arcivescovo di Hue, Stephen Nguyen Nhu The, il suo ausiliare, mons. Francis Xavier Le Van Hong, e l’arcivescovo Joseph Ngo hanno subito lo stessa trattamento di mons. Quang Kiet solo per aver chiesto un dialogo pacifico tra Stato e Chiesa.
Molti cattolici in Vietnam non conoscono nei dettagli le sofferenze e le difficoltà sofferte dai loro pastori. In molti hanno espresso il desiderio che il libro del vescovo da poco scomparso possa trovare ampia diffusione nel Paese, ma è difficile che questo possa avvenire. Tuttavia, grazie a internet, la versione digitale del volume è disponibile in rete ed il lavoro per la traduzione in altre lingue è già in corso.

di J.B. An Dang
AsiaNews 02/10/2009


Libertà di stampa: ma fateci il piacere...! - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 2 ottobre 2009
Domani, sabato 3 ottobre 2009, si terrà a Roma la grande manifestazione nazionale per la libertà di stampa. Si sono sprecate migliaia di parole per giustificare o demotivare l’iniziativa. Onore al merito a Piero Sansonetti che in poche battute ha ristabilito la verità. Gli hanno chiesto se avrebbe partecipato e Sansonetti, già Direttore di Liberazione organo di Rifondazione comunista, ha risposto: «Certamente sì, parteciperò! Perché è una manifestazione politica anti Berlusconi, e poiché io sono contro Berlusconi parteciperò: la libertà di stampa non centra nulla.»
Poco piacevole entrare nel merito delle aspre polemiche, condotte con stile da bar, che da qualche mese caratterizzano la politica italiana: “anno zero”, “Ballarò”, e così via; Massimo Donati, Capo gruppo di IdV alla Camera, Franco Siddi, Segretario generale della Fnsi, il Sindacato dei giornalisti italiani, che ieri hanno imperversato sulle reti TV. Tuttavia, come dicono a Roma: «quando ce vo’ ce vo’»
Fa davvero sorridere sentire Donati, Siddi ed altri, sostenere la manifestazione nazionale dopo serate come quella di ieri in cui su molte reti anche loro hanno concorso a dire peste e corna del Governo e di Berlusconi. Onorevole Donati, dott. Siddi si rischia di cadere nel ridicolo perdendo un sano senso dell’umorismo!
Ma a costringermi ad affrontare il tema è stata una frase che ho colto: “dispiace vedere come questo Governo ha ridotto il prestigio dell’Italia all’estero e presso la stampa estera! I giornalisti accreditati a Bruxelles, ad esempio, erano imbarazzati per la piazzata del nostro Presidente del Consiglio contro i Portavoce della Commissione europea.”
Eliminiamo la seconda questione: confesso che a volte penso che il nostro Presidente del Consiglio farebbe bene a tacere, ma aveva sacrosantamente ragione di prendere posizione contro i Portavoce, paradigma dell’arroganza ed ingerenza della burocrazia europea; un conto sono i Commissari o il Presidente della commissione, un conto sono dei giovanotti che si arrogano prerogative che non hanno. Questa volta chi avrebbe fatto meglio a tacere è Barroso, e lo sa. Non si può stigmatizzare i Burocrati e poi stracciarsi le vesti quando qualcuno lo dice loro in faccia.
Ma la cosa veramente grave è un’altra: da anni la sinistra italiana conduce una campagna denigratoria e diffamatoria nei confronti del nostro Paese, soprattutto, ma non solo, quando governano le destre. Ricordo benissimo i viaggi a Bruxelles di Esponenti della Sinistra con l’obiettivo di denigrare e diffamare il nostro Paese vittima dello strapotere mediatico del Cav. Berlusconi, e del Suo conflitto d’interessi senza paragoni nel mondo, che la Sinistra al Governo non ha neppure cercato di affrontare.
Tra i tanti voglio citare due episodi nei quali Esponenti di spicco della Sinistra, o dell’Ulivo, come si chiamava allora, sono venuti al Parlamento europeo per chiedere di mettere in stato d’accusa l’Italia per il mancato rispetto dei diritti umani.
Il primo: il dott. Paolo Serventi Longhi, allora Segretario generale della FNSI, (Federazione Nazionale della Stampa), ha portato una voluminosa documentazione di queste violazioni al diritto all’informazione.

Il secondo: il Senatore professor Andrea Manzella; mi ricordo che mi meravigliò e mi deluse molto, Lui non portò documentazione, ma impegnò il proprio prestigio personale di ex Deputato europeo e di studioso. Il tutto sostenuto dall’Onorevole Michele Santoro, allora Eurodeputato, con la collaborazione di Lilly Gruber, anch’essa Eurodeputata. Nessun Organo del Parlamento decise mai di mettere in stato d’accusa l’Italia.
Da queste pagine non si dovrebbe entrare nel merito del confronto politico, ma il troppo è troppo. La sinistra italiana ha esportato in Europa l’opposizione interna condotta con ogni mezzo, stile Antonio Di Pietro, così come hanno trasportato in Europa la lotta sorda alla Chiesa e al Papa.
Uno dei pochissimi che negli anni di lavoro al Parlamento europeo, alla Presidenza della Commissione Affari Costituzionali in un periodo certo non facile per questi temi in Europa, ho sempre visto attenersi ad una linea di serietà e rigore, è l’attuale Capo dello Stato, il Presidente Giorgio Napolitano; veramente uno dei pochissimi.
Dopo quanto descritto, che, confermo, si è protratto per anni sino ai nostri giorni, con espressione compunta, dichiarano di essere preoccupati per la perdita di prestigio internazionale del nostro Paese, a causa di questo Governo.

Ma fateci il piacere! Risparmiateci almeno l’ipocrisia!

Da parte di nessuna delle Opposizioni degli altri 26 Paesi membri ho visto nulla di simile. Questa è esattamente la scelta che racconta la Bibbia nel Libro dei Giudici: «Muoia Sansone con tutti i Filistei!» Pur di sopprimere l’odiato nemico, roviniamoci tutti. Altro che senso dello Stato e delle Istituzioni!


SPESSO DISTORTE LE PAROLE DEL PAPA - Se i media scoprissero il «sì» della Chiesa - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 4 ottobre 2009
N elle stesse ore in cui in Italia si celebrava– tra immancabili polemiche e strumentalizzazioni – una manifestazione per la libertà di stampa, in un autorevole consesso europeo il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha affrontato il tema del rapporto tra i media e la Chiesa, specie per quel che riguarda la figura del Pontefice. Quella che può sembrare una vicenda molto, quasi troppo italiana, per le sue esasperazioni ideologiche e per le possibili forzature da ogni parte, diventa invece una questione di ampio respiro se riferita a un contesto più vasto e a riguardo di una presenza universale come quella della Chiesa e del Papa. Il quale, da un lato ha superato la diffidenza di molti media, colpiti dalla forza umile della sua proposta di una fede fondata sulla gioia, e però dall’altro, com’è noto, si è trovato al centro di campagne di stampa distorte e faziose. Un tema così delicato è stato affrontato nel consesso dei rappresentanti degli episcopati europei dal cardinale Bagnasco. In estrema sintesi, il presidente dei vescovi italiani ha ricordato che la Chiesa non tace, non può tacere innanzitutto il suo grande «sì» a Dio e all’uomo in mezzo alle tante vicende del mondo.
«Il più della Chiesa – ha sottolineato il cardinale – è in questo 'sì' con cui risponde all’amore di Cristo, indicando Lui a tutti». Lo scopo della Chiesa, dunque, non è quello di inseguire le opinioni dominanti, o di costruirsi un’immagine.
Il suo scopo è pastorale. Tale libertà di espressione – ben lontano da essere quella caricatura di imposizione che certuni vogliono far credere – porta a volte a dire dei no, o a lanciare degli allarmi quando si vede in pericolo il rispetto incondizionato all’essere umano. Sono dei 'no' che nascono da quel 'sì'. Ai media la Chiesa chiede un comportamento franco nelle critiche ma costruttivo, e di non venir meno al principio di puntare a creare coscienze informate attente al bene comune. E chiede di mostrare innanzitutto il 'sì' che è la Chiesa, invece di ridurre tutto a presunti tentativi di 'scavare fossati 'e 'alzare muri'. Questa volontà di fraintendimento ha fatto comprendere tardi la reale portata di taluni interventi papali. La Chiesa chiedendo per sé libertà dimostra di esser la migliore alleata della libertà. Che è bene altissimo, messo a rischio proprio quando lo si intende come un arbitrio irresponsabile e vanesio, fondato sulla smania di contrapposizione e di successo. Colpisce che in certi Paesi non occidentali, dove pure la repressione politica è forte, la correttezza dei media è la loro maggior fonte di autorevolezza quando si trovano poi a denunciare soprusi e inganni. In Occidente, la perdita di credibilità dei media è causa, insieme al concentrarsi di poteri economici e politici, della perdita di libertà. I cattolici da un lato guardano con preoccupazione tutto questo. Dall’altro, non caricano i media di una responsabilità che essi non devono avere: spesso la realtà della vita della gente, infatti, è ben lungi dalle baruffe in scena su tv e giornali. Alla Chiesa invece interessa la vita reale. Del resto, sappiamo bene che anche Gesù e i suoi discepoli, da quanto emerge nei racconti evangelici, non godevano di rapporti idilliaci con 'la stampa' di allora, con gli scribi e gli opinion leader, impegnati spesso a spargere calunnie sul loro conto. Ma la Chiesa – che prosegue quel Corpo nella storia – non chiede per sé atteggiamenti privilegiati da parte della stampa. Chiede rispetto per tutti. E non ricorre a un uso spregiudicato e fazioso dei media, così come chiede che facciano tutti – per amore vero della libertà.
Chiedendo per sé libertà dimostra di esser la migliore alleata della libertà Che è un bene sempre altissimo


DONNA INGLESE SUICIDA COL CONSENSO DEI MEDICI - Morte a comando Purché sia salva la forma - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 3 ottobre 2009
Kerrie aveva 26 anni, viveva a Norwich, in Gran Bretagna, e due anni fa si è suicidata, perché una malformazione le impediva di avere figli. Ci aveva già provato nove volte, e al decimo tentativo ci è riuscita. La sua triste storia sta diventando un caso nazionale perché la sua famiglia ha trascinato in tribunale i medici che non l’hanno curata: per essere sicura di non essere salvata per l’ennesima volta, Kerrie aveva scritto il proprio testamento biologico, dichiarando la propria volontà di uccidersi, e chiedendo di essere lasciata morire.
Dopo aver ingerito un anticongelante, ha chiamato l’ambulanza e ai medici in ospedale ha esibito il documento scritto, confermando a voce la propria volontà di morire. I medici hanno eseguito le sue volontà, e il responsabile dell’equipe ha spiegato di averlo fatto non per timore di una eventuale denuncia – in Gran Bretagna i medici che non rispettano i 'testamenti biologici' rischiano la radiazione dall’albo – ma perché «la volontà della donna era chiarissima».
Le amiche confermano. Ma un suicida che vuole veramente morire non chiama l’ambulanza, suggerirebbe il buon senso. Anche su questo ha risposto Kerrie stessa: all’arrivo in ospedale ha spiegato ai medici di aver chiesto il loro intervento perché non voleva morire sola e in preda ad atroci dolori, e ha chiesto gli analgesici, autorizzandoli a intervenire solo per la sedazione.
Insomma: l’eutanasia, intesa come la buona morte data ai malati terminali per risparmiare sofferenze inevitabili, l’eccezione per rari casi gravissimi, è roba vecchia, superata, vinta. La disperante fine di Kerrie indica la nuova opzione a disposizione: una morte medicalmente assistita, fornita su richiesta, legittimata da un consenso informato perfettamente legale, una morte neppure data in un luogo separato – a casa propria o in una di quelle cliniche cosiddette 'specializzate' – ma in un ospedale come tanti, nato per curare le persone. La libertà di suicidarsi è quindi diventata un diritto esigibile dal servizio pubblico sanitario, allo stesso modo del diritto a essere curati e salvati: quel che conta è che sia chiesto a chiare lettere, nella formulazione burocratica corretta, conformemente alla normativa vigente. Il medico è semplicemente un erogatore di servizi (compreso quello a morire), un 'rispettoso' esecutore di volontà altrui. E cosa importa della persona di Kerrie, della sua depressione, delle altre sue volontà, quelle pure espresse con chiarezza: qualcuno, per esempio, si è chiesto come si conciliava il suo desiderio di avere bambini – il desiderio più vitale che una donna possa avere – con la voglia di morire?
Oppure quanto e come la sua frustrazione si sarebbe potuta alleviare? Medici, politici e opinione pubblica, la sedicente 'società civile': avrebbero tutti dovuto avere almeno un sussulto di fronte alla morte di Kerrie, fornita dal servizio pubblico, tutelata dalle leggi in vigore, legittimata dal pensiero comune. Che ne facciamo del progresso scientifico, della professione medica, di quei diritti umani rivendicati a ogni piè sospinto, se oggi a chi si vuole gettare dal ponte siamo solo in grado di dare la spinta più efficace e indolore? Le coscienze sembrano ormai addomesticate dal verbo dell’autodeterminazione, ridotto ad un individualismo esasperato, in una società da cui si esigono 'servizi' e 'nuovi diritti', ma nella quale le relazioni umane hanno sempre meno importanza. Di sussulti, insomma, non ne vediamo abbastanza.
Registriamo piuttosto segnali inquietanti: il testo di legge sul fine vita approvato al Senato, nato proprio per escludere dal nostro ordinamento il 'diritto a morire', è fermo da diversi mesi alla Camera, e la sua discussione in Aula è stata ulteriormente rimandata. Una 'melina' che non lascia tranquilli.