martedì 6 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa ai Padri sinodali: guardate il mondo nella luce di Dio - Riflessione nella prima Congregazione generale del Sinodo
2) Coscienza e dignità della persona alla luce delle Neuroscienze - Al centro di un seminario tenutosi presso l’Ateneo Pontificio Regina “Apostolorum” - di Mirko Testa
3) Le conseguenze del cosiddetto “reato di omofobia” - Martedì 6 ottobre inizierà in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati la discussione sul testo base della legge che vuole stabilire il reato di omofobia. La proposta, presentata dal Partito Democratico, a prima firma Paola Concia, prevede l’inserimento nel Codice Penale di «reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». La discussione alla Camera è prevista per il prossimo 12 ottobre. Se il reato contro l’omofobia, che l’allora premier D’Alema tentò invano di imporre nel novembre 1999, fosse varato dal governo di centro-destra, sarebbe uno scandalo e un’occasione di profonda riflessione per l’elettorato cattolico, continuamente tradito dai propri rappresentanti in nome dell’aberrante principio del “politicamente corretto”. - di Roberto de Mattei
4) Recuperare il valore delle proprie risorse - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 6 ottobre 2009
5) Uno Scudo per le famiglie - Luca Pesenti martedì 6 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
6) SCUOLA/ Gli alunni pagati per andare a lezione, l’ultimo prodotto di un’educazione nichilista - Giovanni Cominelli martedì 6 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
7) L O SPORT , LA POLITICA , LA SOCIETÀ - Vince la «squadra Italia» Il volley faccia da battistrada - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 6 ottobre 2009
8) In Sud Sudan «crocifissi» sette cristiani - Ennesimo raid oltre la frontiera dei ribelli ugandesi dell’Lra: «I giovani sono stati legati prima dell’orribile esecuzione» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 6 ottobre 2009
9) Testamento biologico lo «strappo di Firenze» - La diocesi. «Atto ideologico. Fa solo confusione» - Via libera dal Consiglio comunale al «Registro dei testamenti biologici» Il provvedimento è passato con 26 favorevoli e 18 contrari, tra cui tre esponenti Pd - DA FIRENZE ANDREA FAGIOLI – Avvenire, 6 ottobre 2009

Il Papa ai Padri sinodali: guardate il mondo nella luce di Dio - Riflessione nella prima Congregazione generale del Sinodo
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 5 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Con un invito a guardare alle cose del mondo nella luce di Dio e a riscoprire la carità gratuita divina per abbattere le barriere che dividono l'Africa, Benedetto XVI ha aperto questo lunedì mattina in Vaticano la prima Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi per l'Africa.

Nel suo saluto al Papa e ai presenti all'inizio della prima Congregazione generale, il Cardinale Francis Arinze, presidente delegato di turno, ha ricordato che il continente africano "ha conosciuto sofferenze evitabili, ingiustizia, oppressione, repressione, sfruttamento, tensione e la guerra, che allontana le persone dalle proprie case e produce fame e malattia".

"Ma l'Africa ha conosciuto anche l'amore fraterno, la solidarietà con i sofferenti, i comitati per la verità e la riconciliazione, gli aiuti regionali tra Paesi e qualche progresso verso lo sviluppo integrale, come lei, Santità, ha spiegato nella Caritas in Veritate", ha aggiunto.

Il porporato ha quindi auspicato che "sotto la guida dello Spirito Santo, possa il lavoro di questo Sinodo aiutare a progredire verso la promozione della riconciliazione, della giustizia e della pace in Africa e in Madagascar e anche chiarire meglio e intensificare il ruolo della Chiesa".

Nella sua meditazione nell'Aula del Sinodo, nel corso della prima Congregazione generale, alla presenza di 226 Padri sinodali, Benedetto XVI ha riflettuto sull'inno d'invocazione dello Spirito Santo Nunc sancte nobis Spiritus, che la tradizione attribuisce a Sant'Ambrogio.

"Abbiamo incominciato il nostro Sinodo adesso, invocando lo Spirito Santo, sapendo bene che noi non possiamo fare quanto occorre fare per la Chiesa, per il mondo, in questo momento - ha affermato -. Solo nella forza dello Spirito Santo possiamo trovare quanto è retto, e seguirlo".

"Tutte le nostre analisi del mondo sono insufficienti se non consideriamo il mondo alla luce di Dio, se non scopriamo che alla base delle ingiustizie, della corruzione c'è un cuore non retto, c'è una chiusura verso Dio, e quindi una falsificazione della relazione fondamentale sulla quale sono basate tutte le altre".

Nella sua lunga meditazione spontanea, il Papa si è lasciato ispirare dall'Inno dell'Ora Terza, la preghiera che introduce la seduta sinodale mattutina.

L'Inno, ha constatato, "implora tre doni essenziali dello Spirito Santo". Il primo è la "confessione", che va intesa sia come riconoscimento della piccolezza umana davanti a Dio - da cui derivano, insiste il Papa, "tutti i vizi che distruggono la rete sociale e la pace nel mondo" -, sia come ringraziamento a Dio per i suoi doni e come impegno di testimonianza.

Benedetto XVI ha quindi trovato parola di grande densità spirituale per rimarcare la semplice grandezza di Dio rispetto alla grandezza delle cose umane.

"Le cose della scienza, della tecnica costano grandi investimenti, avventure spirituali e materiali, sono costose e difficili - ha rilevato -. Ma Dio si dà ‘gratis'. Le più grandi cose della vita - Dio, l'amore, la verità - sono gratuite e direi che su questo dovremmo spesso meditare: su questa gratuità di Dio; sul fatto che non c'è bisogno di grandi doni materiali o anche intellettuali per essere vicini a Dio: Dio è in me, nel mio cuore e sulle mie labbra".

Il secondo dono dello Spirito, ha proseguito, discende dal primo: l'uomo che scopre l'intimità con il divino deve poi testimoniarlo con tutto se stesso. Deve testimoniare la verità della carità di Dio perché questa e non altro è l'essenza della religione cristiana:

"Importante è che il cristianesimo non è una somma di idee, una filosofia, una teoria, ma è un modo di vivere, è carità, è amore. Solo così diventiamo cristiani: se la fede si trasforma in carità, se è carità. Il nostro Dio è da una parte 'Logos', Ragione eterna, ma questa Ragione è anche Amore. Non è fredda matematica che costruisce l'universo: questa Ragione eterna è fuoco, è carità. Già in noi stessi dovrebbe realizzarsi questa unità di ragione e carità, di fede e carità".

Anche il terzo dono è strettamente connesso agli altri. La carità di Dio va annunciata all'umanità, a ogni uomo, che per un cristiano è un prossimo e un fratello. Prendendo spunto dalla figura del Buon Samaritano della liturgia odierna, Benedetto XVI ha concluso mettendo in grande risalto gli insegnamenti che arrivano fino a noi da quella antica parabola e che ben si adattano, in questo caso, anche alla realtà africana.

"La carità non è una cosa individuale, ma universale. Universale e concreta. Occorre aprire realmente i confini tra tribù, etnie, religioni all'universalità dell'amore di Dio nei nostri luoghi di vita, con tutta la concretezza necessaria. Preghiamo il Signore che ci doni lo Spirito Santo, che ci doni una nuova Pentecoste, che ci aiuti ad essere i suoi servitori in questa ora del mondo".


Coscienza e dignità della persona alla luce delle Neuroscienze - Al centro di un seminario tenutosi presso l’Ateneo Pontificio Regina “Apostolorum” - di Mirko Testa
ROMA, lunedì, 5 ottobre 2009 (ZENIT.org).- L’applicazione all’uomo delle recenti scoperte nell'ambito delle Neuroscienze e delle ricerche che si propongono di svelare i segreti del cervello e della mente suscita valutazioni contrastanti.

Infatti, se da un lato questi studi aprono molteplici possibilità per le terapie mediche e per il miglioramento della qualità della vita, dall’altro non mancano timori per gli eventuali rischi per la salute, e anche interrogativi etici di complessa soluzione.

Per fare luce su tali questioni, il 18 settembre, presso l’Ateneo Pontificio Regina “Apostolorum”, si è tenuto il seminario “Studi sulla coscienza e dignità della persona”, organizzato dal Master in Scienza e Fede e dalle Facoltà di Filosofia e Bioetica dello stesso ateneo, in collaborazione con STOQ e The John Templeton Foundation.

Si è trattato del primo seminario del Gruppo di studio e di ricerca sulla Neurobioetica che dal marzo scorso fa parte delle attività del Master in Scienza e Fede della Regina “Apostolorum” e si propone di creare un forum di professionisti e studiosi provenienti dai vari ambiti, per adottare un approccio veramente interdisciplinare sulle questioni etiche delle Neuroscienze e sulle Neuroscienze dell'etica.

Ad aprire i lavori ci ha pensato Adriana Gini, dirigente medico neuroradiologo dell'Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, la quale ha spiegato da subito che il termine Neurobioetica è la traduzione italiana della parola inglese “Neurobioethics”, un neologismo introdotto nel 2005 da James Giordano, neuroscienziato e neuroeticista statunitense, per indicare l’importanza delle scienze umane e sociali nella valutazione delle questioni di natura etica suscitate dalle recenti scoperte delle Neuroscienze.

Sebbene derivi dalla Bioetica la metodologia multidisciplinare, l’attenzione ai dati scientifici e riconosca alla Persona una sua multi-dimensionalità ontologica e un’organicità teleologica, la Neurobioetica si distingue per una riflessione critica più specifica e particolareggiata, sulla Natura (“self”) della Persona, nel suo dinamismo e capacità di relazionarsi e sul significato che rivestono, alla luce delle recenti scoperte delle Neuroscienze, uno sviluppo umano integrale e i modi per realizzarlo (“human flourishing”).

Nel suo intervento, Paola Ciadamidaro, dirigente medico anestesista-rianimatore dell'unità di terapia sub-intensiva presso l'Ospedale Cristo Re di Roma ha spiegato che “dalla creazione ai giorni nostri, l’uomo ha sempre cercato di esplorare la coscienza e soprattutto di ricercarne le caratteristiche e l’organo corporeo che la contiene”, tanto che “già Ippocrate, nel 400 d.C. ne individuava la sede nel cervello”.

Successivamente – ha spiegato – la coscienza è stata divisa nelle sue due componenti, la “vigilanza (wakefulness)”, cioè lo stare svegli e vigili, e il ”contenuto (awareness)”, cioè tutto il bagaglio cognitivo, psichico, emozionale ed esperienziale precipuo di ognuno di noi.

“Quando, per traumi cranici o malattie acquisite, si ha la perdita di tutt’e due queste componenti, si parla di coma, situazione clinica grave, per la quale il paziente perde il contatto con l’ambiente e con se stesso”, ha aggiunto.

“Da questa condizione si può 'uscire', ma, viceversa, si può passare, proprio per il perdurare del 'sonno', alle gravi sindrome neurologiche, altamente invalidanti, che questo gruppo di Neurobioetica preferisce definire come post-coma, cioè lo stato vegetativo, la sindrome di minima coscienza e la sindrome di locked-in, in italiano 'del chiavistello o del chiuso dentro'”.

A questo proposito, ha proseguito, “in modo particolare negli ultimi anni dello scorso secolo, a tutt’oggi, molta confusione di natura strumentale è stata costruita intorno a questi termini, ma esiste la certezza che tali sindromi non configurano la morte cerebrale e quindi, meno che mai, la morte dell’individuo”.

Tuttavia, ha precisato, “esistono ancora gravi incertezze su queste sindromi, in quanto mancano dati scientifici inoppugnabili. Mentre per i dati esistenti non c’è univocità di interpretazione e, soprattutto, non esiste un malato che presenta lo stesso decorso di un altro”

“E' dunque indispensabile approcciarsi a queste persone con la giusta mentalità, cioè quella olistica-riabilitativa, che si basa sul doppio rifiuto, sia dell’accanimento terapeutico sia dell’abbandono delle cure”, ha affermato.

“Queste – ha sottolineato Paola Ciadamidaro – devono essere sempre proseguite, calibrando le procedure sulle effettive e indispensabili necessità del paziente, come l'alimentazione e l’idratazione e giungere così alla difesa della vita, che è e rimane un bene indisponibile”.

Nel prendere la parola Andrea Soddu, ricercatore del Coma Science Group dell'Università di Liegi, in Belgio, ha spiegato che “l’approccio clinico a pazienti con disordini di coscienza è molto impegnativo, ma che nuovi sviluppi nelle tecniche di immagine in Neuroscienza e i nuovi approcci di interfacciamento cervello-computer con l’elettroencelografia offrono nuove metodologie con valore diagnostico, prognostico e terapeutico”.

“Un trattamento appropriato incomincia con il fare una buona diagnosi – ha avvertito – . E i pazienti in stato vegetativo possono muoversi vistosamente. Studi clinici a livello del letto del paziente hanno mostrato quanto sia difficile distinguere un movimento riflesso o 'automatico' da un movimento volontario o 'voluto'”.

“Questo comporta una sottostima dei segni comportamentali dello stato di coscienza e porta ad una diagnosi inappropriata o erronea in un terzo, da quanto stimato, dei pazienti in stato vegetativo cronico”, ha detto Andrea Soddu.

Per il ricercatore, “studi con la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno permesso di confutare l’opinione comune riguardo lo stato vegetativo come cerebralmente morto o 'apallico'”.

“Esperimenti con stimolazioni diverse – ha continuato –, dall’uditiva alla visuale o stimoli dolorifici hanno mostrato la presenza di attività cerebrale residua nelle cortecce primarie di pazienti in stato vegetativo”, confermando “una maggiore integrazione della attività corticale rispetto ai pazienti in stato vegetativo”.

“Comunque – ha osservato –, in assenza di un indice dell’attività neuronale che correli completamente con il livello di coscienza, anche una quasi normale attività cerebrale in risposta ad una stimolazione passiva non può essere interpretata come evidenza della presenza di coscienza”.

“Al contrario – ha continuato Soddu – cambiamenti nell’attività cerebrale rilevati nel paziente di seguito alla richiesta di esecuzione di un qualsiasi esercizio mentale possono essere interpretati come segni positivi della presenza di coscienza”.

“Diventa allora fondamentale offrire ai pazienti la possibilità di comunicare usando un interfacciamento cervello-computer che non richiede alcun atto motorio” e che attualmente consente a pazienti con sindrome di locked-in di “interagire con il loro ambiente esterno migliorando di gran lunga il loro livello di integrazione”.

E' poi stata la volta di padre Jesús Villagrasa, L.C., docente ordinario di Metafisica all’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” e membro del gruppo di Neurobioetica, il quale ha spiegato che “la persona è un soggetto ontologico (un individuo sussistente) di natura razionale, e per questa sua natura spirituale, gode di una dignità e di un’autonomia che si manifesta nella coscienza di sé”.

Alla luce di ciò, risulta quindi immediatamente comprensibile che “la persona che perde la coscienza, anche in modo presumibilmente definitivo, non perde la propria dignità intrinseca, né i diritti umani che naturalmente le appartengono”.

Nel suo intervento, Padre Villagrasa ha illustrato i tre principali significati di persona in Bioetica: soggettivista di origine razionalista, funzionalista-utilitarista di origine sensista e ontologico.

A questo proposito, il docente di Metafisica ha criticato la tesi riduzionista “che riconduce interamente la coscienza ai fenomeni fisici del cervello”.

“Infatti, come conciliare la soggettività delle nostre esperienze coscienti con l'oggettività prescritta dal metodo d'indagine scientifica? Come conciliare l'autonomia della volontà e il determinismo delle leggi fisiche?”, si è chiesto.

“Altro problema è quello dell’accertabilità in alcuni casi della presenza di tale consapevolezza in un soggetto – ha osservatore il sacerdote –; vale a dire, se di fatto e di diritto sia possibile stabilire una rapporto causale tra l’esperienza interna e spirituale e il rilevamento empirico di attività neuronale”.

Nella tesi separazionista, invece, “l’uomo è una cosa, e la persona è un'altra. E quindi: non ogni individuo umano è una persona; certi animali e anche oggetti non-umani potrebbero essere persone; ed esiste una gradazione nell'essere (più o meno) persona”.

“La radice filosofica della tesi separazionista è il funzionalismo, che definisce la persona per una funzione e non per la sua natura – ha spiegato –. Si stipula per convenzione (perché non si fa riferimento alla sua natura) che un ente è persona se si rivela esternamente il possesso o la capacità di possesso di certe funzioni considerate rilevanti, quali la sensitività, la consapevolezza, la volontà”.

Per questo, ha continuato, “la tesi funzionalista va criticata perché la presenza di una funzione presuppone l’esistenza di un soggetto che possiede una natura specifica”. Ma “le funzioni non sono ‘il’ soggetto, semmai sono ‘del’ soggetto”.

Ci sono poi le filosofie di ispirazione specificamente moderna, cioè humiana e kantiana, che “tendono rispettivamente a 'sottodeterminare' il concetto di persona, riducendola semplicemente ad una successione di stati di coscienza, oppure a 'sovradeterminarlo', caricandolo di profondi significati morali”.

A questi filoni di pensiero, padre Jesús Villagrasa contrappone il personalismo ontologicamente fondato, che esprime il concetto di ‘persona’ nella classica definizione di Boezio – sostanza individuale di natura razionale –.

Infatti, ha concluso, “tutti gli esseri umani sono persone” e “la natura ha il primato sulla funzione, perché la natura ontologica è la causa delle diverse capacità e funzioni della persona, benché non si riduca ad esse, né alla presenza delle condizioni per la loro manifestazione (p. es. la corteccia cerebrale)”.


Le conseguenze del cosiddetto “reato di omofobia” - Martedì 6 ottobre inizierà in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati la discussione sul testo base della legge che vuole stabilire il reato di omofobia. La proposta, presentata dal Partito Democratico, a prima firma Paola Concia, prevede l’inserimento nel Codice Penale di «reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». La discussione alla Camera è prevista per il prossimo 12 ottobre. Se il reato contro l’omofobia, che l’allora premier D’Alema tentò invano di imporre nel novembre 1999, fosse varato dal governo di centro-destra, sarebbe uno scandalo e un’occasione di profonda riflessione per l’elettorato cattolico, continuamente tradito dai propri rappresentanti in nome dell’aberrante principio del “politicamente corretto”. - di Roberto de Mattei
È in discussione alla Camera la proposta di legge n. C-1658 contro l’omofobia, presentata dal Partito Democratico, a prima firma Paola Concia. La proposta prevede l’inserimento nel Codice Penale di «reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». Con l’appoggio del PDL, o di settori trasversali di esso, il progetto, giacente in commissione Giustizia alla Camera dal gennaio scorso, potrebbe avere un’accelerazione e passare rapidamente all’altro ramo del Parlamento per essere trasformato in legge.
Il testo ha già avuto l’appoggio del Presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongiorno (PDL), che, contro la consuetudine, ne ha affidato l’incarico di relatore alla stessa Concia, e quello del ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, secondo cui la linea del governo e del suo Ministero è quella di prevedere aggravanti per i reati con finalità di discriminazione sessuale.

L’iniziativa recepisce una risoluzione del Parlamento Europeo del 18 gennaio 2006 in cui l’omofobia è definita «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio». Come “pregiudizio” si intende ogni giudizio morale contrario all’omosessualità e alle deviazioni in campo sessuale. Quando esso si esprime in scritti o discorsi pubblici che non pongano su un piano di assoluta eguaglianza ogni tendenza e orientamento sessuale, può essere considerato come contrario al rispetto dei diritti dell’uomo ed essere oggetto di sanzioni penali. Lo stesso principio è enunciato dall’art. 21 della Carta fondamentale dei Diritti del cittadino di Nizza, resa giuridicamente vincolante dal Trattato europeo di Lisbona.

Se questa legge passasse e fosse applicata in modo coerente, sarebbe impossibile, o quanto meno rischioso, criticare l’omosessualità e presentare la famiglia naturale come “superiore” alle unioni omosessuali. Un’istituzione ecclesiastica non potrebbe rifiutarsi di designare come suo rappresentante una persona che non faccia mistero delle sue tendenze omosessuali. Nessuno Stato, ma anche nessuna Chiesa, potrebbe rifiutare di celebrare un matrimonio di coppie dello stesso sesso. Catechismi e libri sacri che condannano l’omosessualità come peccato “contro-natura” potrebbero essere ritirati dal commercio.

Se non si conoscono ancora i futuri orientamenti del nuovo Parlamento Europeo, negli Stati Uniti, il 29 giugno 2009 il Presidente Obama ha ricevuto alla Casa Bianca circa 250 leader e attivisti delle principali organizzazioni gay, lesbiche e transgender, in occasione dei 40 anni della nascita del movimento per la difesa dei diritti omosessuali. Lo stesso Obama, in un’intervista pubblicata il 3 luglio da Avvenire, ha affermato che la comunità gay-lesbica degli Stati Uniti viene «ferita da alcuni insegnamenti della Chiesa cattolica e della dottrina cristiana in generale». La posizione di Obama sui temi cruciali di natura morale è notoriamente antitetica a quella della Chiesa e delle altre confessioni cristiane americane e il presidente americano si sforza di propagandare, anche all’estero, il suo “messianismo” sincretista. Essa è destinata ad avere ricadute anche in Italia e in Europa influenzando le decisioni dei nostri uomini politici.

Nel nostro Paese ancora non esiste il reato di “omofobia”, ma la censura sociale applicata contro chiunque manifesti il suo rifiuto per il vizio contro-natura, è violenta e immediata. L’atteggiamento di tutti coloro che professano la legge naturale, cattolici o non, è sempre più cauto e misurato nelle espressioni. Quanti sono i vescovi, o i parroci che, esercitando il loro ministero pastorale, sono disposti a ricordare che l’omosessualità è un peccato che, nelle parole del Catechismo di San Pio X, «grida vendetta al cospetto di Dio»? Quanti, tra i fautori della riscoperta dei testi scritturistici e patristici, farebbero proprie le parole di fuoco con cui la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa bollavano l’omosessualità come un’“abominio” (Levitico, 20,13)?

Il timore è quello di cadere sotto la ghigliottina del “politicamente corretto”, come accadde a Rocco Buttiglione, mancato Commissario europeo nel 2004, proprio a causa delle sue convinzioni morali in materia. Nel recente “caso Boffo”, né la stampa cattolica né quella laica o laicista, ha voluto andare a fondo sulla presunta omosessualità del direttore di Avvenire, per accusarlo o scagionarlo, perché ciò avrebbe significato ammissione del fatto che l’omosessualità è comunque una “colpa”. L’“autocensura” è palpabile, perché esiste una “lobby” omosessualista annidata ovunque e pronta, ovunque, a scatenare il linciaggio mediatico. Su Il Giornale del 3 settembre, Luigi Mascheroni ha messo in rilievo il potere di GLBT, l’acronimo utilizzato per riferirsi a gay, lesbiche, bisessuali e transessuali: «Una lobby potente e ricca. Anzi, secondo un dossier del 2006 della rivista Tempi, ricchissima: la lobby omosessuale internazionale, che ha le sue roccaforti a New York, Washington, San Francisco e Bruxelles, è sempre più influente. Riceve finanziamenti sia dalle grandi corporation americane, sia dai governi e dalle istituzioni internazionali, spesso sotto forma di donazioni a Ong o fondi per la lotta all’Aids». La potenza politico-economica dei gruppi omosessualisti, secondo Mascheroni, è tale da influenzare le istituzioni e il costume, come in Italia si tenta, non solo attraverso il ruolo di associazioni come Arcigay e Arcilesbiche, ma soprattutto grazie all’influenza esercitata da persone di orientamento omosessuale in settori chiave della società, quali le arti, la politica, lo spettacolo.

La moda, la televisione e il cinema sono gli ambiti sociali privilegiati della lobby omosessuale. All’ultimo festival di Venezia, conclusosi lo scorso 12 settembre, il tema ricorrente dei film in rassegna è stato l’omosessualità. Prima della proiezione del film, A single man di Tom Ford, che si è aggiudicato il Queer Lion attribuito dalla comunità Gay alla migliore opera omo, lesbica o trans, il presidente onorario dell’arcigay Franco Grillini e alcuni esponenti politici di sinistra hanno tenuto un sit-in contro l’omofobia. Chi volesse liquidare queste manifestazioni come episodi folkloristici, dimenticherebbe che la Rivoluzione contro la morale cristiana, negli ultimi quarant’anni, è avanzata proprio attraverso la dialettica, tra gesti simbolici e provocatori e iniziative parlamentari tese ad allargare il consenso ai tiepidi e “moderati”.

Se il reato contro l’omofobia, che l’allora premier D’Alema tentò invano di imporre nel novembre 1999, fosse varato dal governo di centro-destra, sarebbe uno scandalo e un’occasione di profonda riflessione per l’elettorato cattolico, continuamente tradito dai propri rappresentanti in nome dell’aberrante principio del “politicamente corretto”.
Radici Cristiane n. 48 - Ottobre 2009


Recuperare il valore delle proprie risorse - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 6 ottobre 2009
Il carcere può dire qualcosa di importante, può riappropriarsi della sua funzione di salvaguardia della collettività: “dal carcere ci si può licenziare con merito, oppure rimanere detenuti per ripetizione, ma non si può ripetere la stessa classe quando si è stati promossi a essere se stessi a pieni voti”.
In queste poche righe sono condensate tutte le contraddizioni su cui poggia l’intera organizzazione penitenziaria, e non solo, queste parole mostrano il volto dell’indifferenza, un plotone di esecuzione nei riguardi di una umanità che è impossibile cancellare.
Chi commette una ingiustizia ha bisogno di essere riammesso nel consorzio civile attraverso l’unica via possibile, la consapevolezza della riparazione, ma perché questo possa diventare pane quotidiano per ogni detenuto, in quanto persona, occorre riconsegnare normalità al metodo umano della rivisitazione del proprio vissuto, la violenza non viene mai dal di dentro, ma dal di fuori di noi stessi.
Nei riguardi del carcere bisognerà parlare anche in termini umani, di speranza possibile, non solamente con la voce delle emergenze e delle indicibilità moltiplicate all’infinito, riducendo le misure risocializzanti a meccanismi da operetta, farneticando sull’istituto di riordino come dell’indulto. Per la prima volta nella sua storia, l’indulto non ha prodotto o innalzato la recidiva, quanti ne hanno usufruito non sono tornati a delinquere, non sono rientrati in massa in carcere, ma anzi molti dei beneficiari hanno optato per una scelta di vita consona alle leggi del vivere civile.
Sul carcere si continuano a perpetrare inesattezze evidenti, che fanno sembrare i detenuti-numeri che non potranno mai imparare a combattere l’abitudine del male, eppure il carcere è una parte di società che ha bisogno di avere strumenti di educazione, di quella pedagogia che disegna momenti in cui è possibile raccontare di sé, e nel farlo crea occasioni di ripensamento, una ripartenza della propria dignità personale.
C’è chi è così perduto nel “mondo dell’illiceità”, da risultare primo tra gli ultimi, in un futuro così insopportabile da compiere il passo più terribile del suicidio.
Un carcere malato, insostenibile, è un carcere delle ideologie, dei mercanti di esistenze, popolato di persone non più normali, eppure “dal carcere si può essere licenziati con merito o essere detenuti ripetenti”, così dovrebbe essere, così potrebbe essere, così al momento non è.
La pena e il carcere stanno a giustizia, a umanità, anche quella ristretta, rinchiusa, dimenticata, pena e carcere per chi ha contravvenuto, per recuperare alla stessa umanità e allo stesso consorzio civile.
Una realtà che dovrebbe indurre a chiederci se è giusto e onesto, guardare sempre e solamente al male che circonda il pianeta sconosciuto, se magari non sia possibile muoversi con una ritrovata dignità, proprio tra i guasti e le smemoratezze che costituiscono il lazzaretto disidratato, non solo per renderlo più vivibile e onorevole, ma soprattutto per mettere alla prova i luoghi comuni, per dimostrare che le persone possono diventare migliori, recuperando il valore delle proprie risorse: il tempo recluso può formare al rispetto delle Istituzioni, e queste al rispetto della dignità umana.


Uno Scudo per le famiglie - Luca Pesenti martedì 6 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Anno dopo anno, legislatura dopo legislatura, la famiglia aleggia sulle politiche pubbliche del nostro Paese. Come il convitato di pietra del “Don Giovanni”, la sua assenza incombe minacciosa. Tutti ne parlano, ma quanto a risultati mala tempora currunt.

Guardando dal basso verso l’alto, il panorama è desolante. Nei Comuni si interviene solo e sempre sulle famiglie border line: povere, escluse, a rischio, deboli. Solo rarissimi casi isolati (Lecco o, più recentemente, Parma) provano a far virare il sistema di politiche sociali per renderlo “a misura di famiglia” (di tutte le famiglie, senza aggettivi).

Risalendo la china delle istituzioni, quasi tutte le Regioni si appuntano sul petto la coccarda di una legge, leggina o provvedimento pro family. Ma, fatta salva l’esperienza avanguardista della Lombardia, il resto assomiglia più a un lifting che ad una vera e propria cura per far guarire il pubblico dal virus anti famigliare.

Ma quando si arriva al vertice della piramide lo spettacolo diventa desolante. La scena è quella di sempre: il moloch previdenziale che si mangia gran parte della torta, il sistema sanitario a prendersi il resto. Poi, le briciole. E le più piccole, quasi invisibili ad occhi distratti, sono proprio quelle per le politiche famigliari.

Da cinquanta e più anni la storia si ripete. Passano i governi, le maggioranze bianche, rosa, verdi e azzurre, i Libri verdi e quelli bianchi, ma il fatto che la famiglia generi “un valore sociale aggiunto”, per effetto “dell’assunzione di responsabilità pubblica che consegue al matrimonio e della stabilità degli affetti” (come recita il Libro bianco voluto dal ministro Sacconi) non riesce mai ad avere rilevanti conseguenze in termini di politiche pubbliche. Si arriva a sostenere anche che “nel riconoscere e promuovere la famiglia la società gioca la sua stessa sopravvivenza”, o che la famiglia è “il nucleo primario di qualunque welfare” (ancora dal Libro bianco licenziato nel maggio scorso), ma finita l’esercitazione retorica tutto finisce nel dimenticatoio. C’è sempre un’emergenza più rilevante, una crisi più drammatica, un tema più scottante. E nessuna maggioranza, mono o bipartisan, che si prenda la briga di metter mano una volta per tutte al nostro welfare, provando a scegliere una linea di investimento sociale invece di bordeggiare lungo le coste eterne e rassicuranti della protezione sociale.
Nel documentato articolo di Marco Tedesco c’è una cifra che svetta tra le altre: quella degli euro che ci mancano per avere una politica amica delle famiglie in linea con quel che accade nei Paesi più avanzati europei. Servono 15 miliardi di euro, necessari per aumentare di un punto la percentuale di Pil dedicata a questo tipo di intervento.

Facciamo una proposta, per provare a mettere la prima pietra di questo tesoretto decisivo per rilanciare il nostro stanco, vecchio welfare: utilizziamo i soldi che arriveranno dal tanto vituperato scudo fiscale per finanziare l’introduzione del quoziente famigliare nel nostro sistema fiscale. Le stime dell’Eurispes indicano in circa 3 miliardi di euro i mancati introiti da parte dello Stato, nel caso di introduzione di un sistema identico a quello utilizzato in Francia. Mentre lo scudo fiscale dovrebbe fruttare alle casse dello Stato dai 3 ai 5 miliardi di euro.

Sarebbe un segnale potente, una rivoluzione culturale, al tempo stesso etica (perché giusta ed equa) ed estetica (perché bella e affascinante). È una modesta proposta, che avanziamo innanzitutto al ministro Tremonti ma che potrebbe esser fatta propria dai tanti parlamentari di buona volontà che lavorano con passione nell’Intergruppo per la Sussidiarietà. Serve un atto di coraggio: l’occasione sembra essere quella giusta per entrare in una nuova era.


SCUOLA/ Gli alunni pagati per andare a lezione, l’ultimo prodotto di un’educazione nichilista - Giovanni Cominelli martedì 6 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Il “non-senso” dello stare a scuola non riguarda solo i ragazzi italiani, è un fenomeno registrato dall’OCSE-PISA dal 2001 in tutti i Paesi oggetto dell’indagine triennale. In Italia la percentuale è molto alta: 38%; la media OCSE-PISA è del 22%. Sono le percentuali dei ragazzi che, a domanda, rispondono: «La scuola è l’ultimo posto dove vorrei stare». Da quando quella ricerca fu resa pubblica, sono incominciate le discussioni pubbliche sulle diagnosi e sulle terapie. A queste ultime appartengono le sperimentazioni inglesi e francesi. Se la motivazione è scarsa, perché non provare con gli incentivi? Così in tre istituti professionali di Créteil, alla periferia di Parigi «se il numero di assenze e la condotta saranno mantenuti entro parametri accettabili, la classe conquisterà un “bonus” tra i 2.000 e i 10.000 euro», che poi saranno investiti in progetti collettivi. Così in Inghilterra, nel 2008, 200mila studenti, provenienti da famiglie disagiate, hanno iniziato a ricevere da 11 a 33 euro alla settimana in cambio della frequenza in classe. La strada degli incentivi materiali appare la più semplice ed efficace. Del resto è ormai massicciamente percorsa anche da molte famiglie italiane: “paghette”, premi di fine quadrimestre o di fine anno, motorini, cellulari ecc...
Ma non porterà lontano. Il fatto è che le diagnosi sono inadeguate. Esse tradiscono la cattiva coscienza delle generazioni adulte e delle istituzioni educative. Perché i ragazzi, man mano salgono lungo la scala dell’età, si disamorano della scuola? Sono emerse due classi di risposta. Una attribuisce il “mal di scuola” all’obsolescenza dei sistemi educativi, che hanno una comune radice nel modello napoleonico, fondato sulla centralità della cittadinanza statuale, e pertanto sul ruolo dello Stato centrale. Si tratta di uno schema pedagogico-didattico uguale per tutti, che muove dall’alto verso il basso di ciascuna persona: formare “cittadini di Stato” per servire i destini della nazione, sulla base di programmi di studio sempre più enciclopedici. Combinato con l’Welfare universalista della seconda metà del ’900, questo schema ha prodotto dei grandi apparati ideologici di Stato – per usare l’espressione del filosofo francese Louis Althusser – contro cui si è ribellato confusamente a suo tempo il movimento del ’68.
Non sono stati abbattuti, ma fortemente delegittimati, questo sì. In questa classe di risposte, la contraddizione principale che viene tematizzata è quella tra la logica egualitaristica dei grandi apparati e le istanze di personalizzazione dei singoli. Ciò che funziona per formare “cittadini seriali di stato” non funziona per rispondere alle domande della “persona”. Questa diagnosi non è del tutto applicabile al modello anglosassone. Che però soffre lo stesso del “mal di scuola”. Un’altra classe di risposte è quella che attribuisce il “non-senso” al “mal du siècle” che affligge la modernità: il nichilismo. “L’ospite inquietante” – l’espressione è di Nietzsche – frequenterebbe ormai stabilmente le nostre famiglie, le nostre scuole, i mass-media, la cultura diffusa. Donde non solo “mal di scuola”, ma anche “mal di famiglia”, “mal di insegnare” ecc... . Naturalmente si tratta di una versione meno drammatica del nichilismo nietzscheano. Essa consiste non tanto nell’affermazione che la Realtà fuori di noi non esiste – il nichilismo ontologico – quanto nell’idea che essa non è conoscibile e non merita di essere conosciuta. Il rapporto di conoscenza con il mondo è racchiuso nel cerchio soggettivo delle nostre proiezioni interpretative sul mondo. La conoscenza si perde nel “circolo ermeneutico”, nel labirinto di sensazioni, emozioni, stimoli. È il nichilismo gnoseologico. Come a dire che occuparsi del mondo, della storia, di ciò che è accaduto e di ciò che accade non vale la pena; l’intelletto e la volontà non riconoscono confini oggettivi e vincoli con cui misurarsi. Il mondo non è una sfida, ma una libera costruzione arbitraria, una sorta di Lego. Il presente è già abbastanza pieno di voci e rumori per riempire l’orizzonte emozionale e conoscitivo. E su questo presente appaiono chinati i nostri giovani in una sorta di consumo bulimico. No, nessuna disperazione. Allan Bloom lo ha definito nel suo Closing of the American Mind “un nichilismo senza abisso”. Di qui il mutarsi della “scientia” in “tristitia”, di qui la passione verso il mondo trasformarsi nella spinoziana “passione triste”. O “passione inutile”, scriveva Sartre.
Probabilmente ambedue le classi di risposte colgono una parte della verità della condizione presente. O forse – ma è solo la mia personale opinione - obsolescenza dei sistemi educativi e vulgata nichilista si incrociano al punto di intersezione, nel quale si trova ciascuno dei nostri ragazzi. In ogni caso gli incentivi pecuniari o di altro tipo non basteranno a riportare all’amore della conoscenza del mondo e perciò a far amare i banchi di scuola.


L O SPORT , LA POLITICA , LA SOCIETÀ - Vince la «squadra Italia» Il volley faccia da battistrada - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 6 ottobre 2009
G iù il cap­pello davanti alle ragazze vincenti.
Vincenti due volte di seguito. Giù il cappello e poche chiacchiere. Omaggio assoluto si deve, corale, orgoglioso alle nostre donne vincenti. Alla loro squadra vincente. Uno spettacolo bello. Le nostre pallavoliste ci hanno regalato una gioia.
Semplice. Che fa sorridere.
Come di rado capita in questo periodo sociale di canea, di smembramenti, di morsi. E di squadre che non funzionano granché. Anche in campo sportivo, quella del volley rosa è l’unica vittoria di squadra del 2009.
Ci aspettiamo ora molto da Lippi e dai suoi.
La vittoria in Polonia sulle temibili Olandesi volanti e battenti e schiaccianti si deve a un buon lavoro in Federazione. E a un buon lavoro sul campo. Si deve a ragazze ed ex- ragazze dure e tenaci. Una squadra meticcia. Come lo è l’Italia.
Una squadra bella, come lo è, come lo può essere l’Italia. Le frustate della Piccinini, le battute di Tai Aguero, i muri della Gioli sono le immagini di una squadra che non molla e cerca unitissima la vittoria.
E la trova. Vedendo il loro girotondo come sembra lontana l’Italia dei fumi e dei pasticci politici. Dei veleni sociali. Degli schiamazzi inutili. Che nitore di forza, di determinazione nel fare i conti con un ostacolo vero e pericoloso come le avversarie olandesi. Dispiace, ma è evidente la distanza tra un mondo come quello sportivo rappresentato da queste ragazze d’oro, volenterose e abili, e quello politico- culturale italiano, dove si deve registrare la prevalenza dell’ipocrisia, della furbizia, della mancanza di credibilità. Dispiace, ma è evidente la distanza tra la forza che si esprime in questa squadra che vince, che gioca bene, che punta a un risultato tuttaltro che facile, e le squadre politiche, sociali, culturali nostrane impegnate nella strana cupidigia di sbranarsi, di svilirsi.
La bellezza di queste ragazze ­su cui pure troppo si insiste, come se di belle donne se ne vedesse solo in televisione, mentre per fortuna non è così ­è esaltata dall’aver compiuto l’impresa di squadra. E qui sta, se la si vuole vedere, l’indicazione che dallo sport ancora una volta ci arriva. La vittoria di squadra rende più belli tutti. Per quanto è bella la vittoria del singolo, dell’eroe, del campione, tanto è più esaltante e trascinante la vittoria di una squadra. E l’Italia ha bisogno oggi come mai di squadre che vincano.
Misurandosi con problemi reali, non con i problemi spesso agitati ma non sostanziali. Squadre che vincano le sfide del Sud, ad esempio, così clamorosamente riscoperte in questi giorni. Squadre che affrontino le sfide dell’integrazione reale. Che sappiano andare unite contro i forti disagi di una gioventù che non è tesa al meglio, ma a campicchiare.
Squadre che sfidino con animo vincente le grandi sfide dei proemi educativi.
Le pallavoliste stanno facendo e bene il loro mestiere. Altre squadre invece ci pare stiano giocando male. E ognuno di noi può accorgersi meglio e con più senso di responsabilità di far parte di una squadra che ha di fronte a sé uno o più avversari da affrontare. Occorre che lo spirito gentile del volley, questa energia positiva che abbiamo visto perfezionare i colpi e le difese delle donne azzurre, sia tradotto e imitato. Come un vero e proprio patrimonio nazionale. O, se volete, come un estremo vaccino.


In Sud Sudan «crocifissi» sette cristiani - Ennesimo raid oltre la frontiera dei ribelli ugandesi dell’Lra: «I giovani sono stati legati prima dell’orribile esecuzione» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 6 ottobre 2009
P rima li hanno rapiti mentre pre­gavano in chiesa, strappandoli al­le loro famiglie: tutti ragazzini sui 15-20 anni. Poi, li hanno uccisi, a picco­li gruppi. Dapprima è toccato ad un ra­gazzo, trovato attaccato ad un albero: il suo corpo senza vita era orrendamente mutilato. Quindi è stata la volta di altri sei sequestrati: chi ne ha scoperto i cadave­ri ha descritto la scena come la «parodia di una crocifissione», con le vittime legate su assi di legno inchiodati a terra. A com­piere la sanguinosa strage sono stati ele­menti del Lord’s Resistance Army (Lra), un gruppo armato nato nella Uganda del Nord, responsabile di attacchi contro ci­vili nella zona che lambisce Sudan, Re­pubblica democratica del Congo e la stessa Uganda.
È stata questa la drammatica fine di set­te cattolici della diocesi di Tombura­Yambio, nel Sudan meridionale. La de­nuncia arriva dal vescovo locale, monsi­gnor Eduardo Hiibiro Kussala, che ha raccontato il tragico episodio di violen­za che segnala, una volta di più, la dram­matica situazione del Sud Sudan alle pre­se con la recrudescenza di violenza e in­stabilità sociale sulla quale si innestano i raid dei ribelli ugandesi.
A denunciare l’attacco è stato monsignor Kussala: il presule ha raccontato all’isti­tuzione Aiuto alla Chiesa che Soffre che nelle scorse settimane – il rapimento è avvenuto a metà agosto, ma le difficoltà di comunicazioni hanno permesso solo adesso di far conoscere fuori dal Sudan i macabri particolari del blitz che era pas­sato sotto silenzio – un folto gruppo di miliziani dell’Lra ha fatto irruzione nel­la chiesa di Nostra Signora della Pace nel­la città di Ezo, sul confine tra Sudan, Re­pubblica Centrafricana e Congo. A po­chi giorni dopo risale il ritrovamento del­la prima vittima, mentre una settimana dopo è avvenuto il ritrovamento delle al­tre sei vittime nei pressi della città di N­zara. Alla violenza è riuscito a sfuggire invece un sacerdote, il parroco di Ezo, padre Justin, che ha trovato rifugio in u­na foresta vicino alla città. Di fronte a questi fatti il vescovo di Tom­bura- Yambio ha lanciato un appello al­la comunità internazionale: «Senza un intervento esterno non sarà possibile fer­mare le violenze e garantire la sicurezza di donne, bambini e civili innocenti, di­venuti il bersaglio di attacchi quasi quo­tidiani », sottolinea il presule in un’inter­vista al Sudan Tribune r ilanciata da Mi­sna .
«Il governo non può non agire e affron­tare il problema dell’Lra. Ci aveva pro­messo di tenere la situazione sotto con­trollo, ma vediamo invece qual è la realtà. Chiediamo alla comunità internaziona­le di fare qualcosa». E parlando con Aiu­to alla Chiesa che Soffre il vescovo ha rac­contato le tristi condizioni dei suoi fede­li: «La gente viene da me con la soffe­renza negli occhi, chiedendomi di fare qualcosa e di riportare a casa i loro figli e nipoti rapiti». Per­ché nella mani dei miliziani ugandesi restano ancora dieci ragazzini.
In risposta al nuovo atto di violenza che ha preso di mira la comunità cattolica, monsignor Kussala ha indetto tre giorni di preghiera e peni­tenza: all’evento hanno preso parte oltre 20mila fedeli. «Pensavo che potes­se venire molta gente, ma sono arrivate il doppio delle persone previste. È stato un incontro impressionante», ha com­mentato Kussala. La situazione nel Sud Sudan sta pro­gressivamente peggiorando. Secondo al­cuni dati dell’Onu, gli attacchi dei ribel­li ugandesi nel Sudan meridionale, in particolare negli stati dell’Equatoria oc­cidentale (la regione dove ha sede la dio­cesi di Tombura-Yambio) e centrale, so­no in aumento: tra agosto e settembre sono state 11 le incursioni.


Testamento biologico lo «strappo di Firenze» - La diocesi. «Atto ideologico. Fa solo confusione» - Via libera dal Consiglio comunale al «Registro dei testamenti biologici» Il provvedimento è passato con 26 favorevoli e 18 contrari, tra cui tre esponenti Pd - DA FIRENZE ANDREA FAGIOLI – Avvenire, 6 ottobre 2009
I l Comune di Firenze istituirà un registro dei testamenti biologici: lo prevede una delibera approvata ieri con 26 voti favorevoli e 18 con­trari. Hanno votato sì i consiglieri della maggio­ranza (Pd), con l’eccezione del vicepresidente dell’assemblea Salvatore Scino, Massimo Fratini e Antonio De Crescenzo. Favorevoli anche i con­siglieri dei gruppi 'Spini per Firenze' e 'Peru­naltracittà'. Contraria invece l’opposizione con i consiglieri del Pdl e del gruppo 'Firenze c’è'. Il sindaco Matteo Renzi non ha partecipato ai la­vori dell’assemblea. Il registro (la delibera era sta­ta proposta dalla consigliera del Pd Claudia Livi) sarà riservato ai cittadini residenti a Firenze e l’i­scrizione avverrà tramite autodichiarazione, con indicazione del notaio, del fiduciario o del de­positario del biotestamento. I consiglieri del Pdl, prima del dibattito, avevano chiesto di rinviare il voto di ieri, con una proposta sospensiva, visto che «la legge sul testamento biologico sarà di­scussa in Parlamento ad inizio novembre». Ma la richiesta, messa ai voti, è stata respinta.
Rammarico e preoccupazione per la decisione assunta dal Consiglio comunale è stata espressa dalla diocesi fiorentina, che in una nota diffusa subito dopo l’approvazione della delibera che i­stituisce il registro dei testamenti biolgici sostie­ne che si è «voluto così proseguire con pervica- cia su una strada a riguardo della quale si ebbe già modo di manifestare profondo dissenso e di evidenziare l’improprietà della decisione in oc­casione della mozione approvata nell’ultima se­duta del precedente Consiglio comunale. Si trat­ta infatti, con evidenza, di atto ideologico, ille­gittimo e privo di efficacia giuridica, essendo la materia nell’esclusiva competenza del legislato­re nazionale. Si deplora peraltro l’indebita e ten­denziosa confusione terminologica tra dichiara­zioni anticipate di trattamento e testamento bio­logico, l’infondatezza di ritenere alimentazione ed idratazione artificiali atti di natura terapeuti­ca, l’evidente cancellazione di fatto del ruolo del medico che emerge dalla delibera. E a ciò si ag­giungano - si legge ancora nelle nota - la possi­bile violazione della normativa in tema di pri­vacy e un uso strumentale di citazioni disartico­late di documenti che in alcun modo attribui­scono rilievo giuridico alle dichiarazioni antici­pate ».
La diocesi di Firenze si dice dispiaciuta anche nel «constatare che alcuni politici che si definisco­no cattolici - va riconosciuto non tutti e di ciò c’è da rallegrarsi - non abbiamo percepito come in un caso come questo ricorressero quelle condi­zioni di coerenza con i valori fondamentali del­la visione antropologica illuminata dal Vangelo che richiedono ossequio all’insegnamento del Magistero. Ancora un volta la città di Firenze si trova ad essere ridotta a strumento di fughe i­deologiche tese a condizionare il legislatore na­zionale, senza alcun reale vantaggio per la città, offrendo nuovi pretesti di divisione, non rispet­tando la sensibilità di non pochi dei suoi cittadi­ni ». Dai banchi dell’opposizione di centro destra, che ha votato contro la delibera, è stata contestata l’assenza del sindaco, mentre Fratini, dai banchi della maggioranza, in dissenso con il suo grup­po, ha parlato di «atto amministrativo inutile e strumentale». «Non sfugge a nessuno - ha ag­giunto il consiglire Pd - che questa è la città che, in maniera controversa, ha dato la cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro. Non sfugge a nes­suno che in toscana solo Pisa e Calenzano han­no istituito tale registro. Tutti gli altri comuni non ne hanno sentito il bisogno».