mercoledì 28 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Per Caterina noi come Bartimeo…. – di Antonio Socci - 27 ottobre 2009 , da http://www.antoniosocci.com/
2) Più di 200 milioni di cristiani subiscono discriminazioni - Denuncia del rappresentante vaticano all'ONU - di Roberta Sciamplicotti
3) Europa, gli anni di Erode - di Lorenzo Fazzini - Avvenire 23 ottobre 2009 - Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore…
4) Di fronte ai rischi della rivoluzione biotecnologica - Anche gli economisti hanno diritto all'obiezione di coscienza - di Ettore Gotti Tedeschi - L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009
5) I cattolici fanno bene agli Usa? - Lorenzo Albacete mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
6) IL CASO/ Fare figli e accudire anziani in Lombardia conviene - Luca Pesenti mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net


Per Caterina noi come Bartimeo…. – di Antonio Socci - 27 ottobre 2009 , da http://www.antoniosocci.com/
Domenica scorsa, con quattrocento giovani universitari di Firenze, gli amici di Caterina di Comunione e liberazione, abbiamo fatto un bellissimo pellegrinaggio a un Santuario mariano, per mendicare la guarigione di Caterina e la nostra conversione…

Infatti se Caterina è viva è letteralmente perché le vostre/nostre preghiere sono state ascoltate. E se guarirà – come guarirà! – è ancora una volta per questa incessante implorazione che sale al Cielo dal 12 settembre…

Torno a dire dunque del pellegrinaggio. Meraviglioso, sotto quel cielo azzurro, veder salire la preghiera corale e accorata di tanti ragazzi, commovente vedere lo spettacolo di quell’amicizia fraterna che ci rende un cuor solo e un’anima sola, struggente ascoltare i canti del coro che anche Caterina cantava fino al 12 settembre (e che canterà di nuovo, ne siamo certi!).

Arrivati a destinazione abbiamo sentito le parole del Vangelo di domenica 25 ottobre e la bellissima omelia di don Andrea. Quel Vangelo sembrava fatto apposta per noi: è tutto da rileggere.

Lì stanno tutte le risposte ai tanti che in queste settimane mi hanno chiesto il motivo del mio appello a pregare, a mendicare instancabilmente, a bussare a quella porta incessantemente…

E lì sta anche la risposta a coloro che – più o meno discretamente – mi hanno spiegato che non si deve “assillare” troppo il Signore, che potrebbe sembrare una pretesa eccetera…

Come dicevano a Bartimeo quelli che – in fondo – non sapevano quanto Gesù è buono e quelli che – in fin dei conti – pensavano di risparmiare a Gesù l’imbarazzo perché non credevano che Lui poteva (e può) tutto.

Noi non pretendiamo nulla perché siamo semplicemente dei poveri mendicanti, come Bartimeo siamo lungo la strada e come Bartimeo imploriamo il Re dei Cieli che è venuto per noi, è venuto a cercarci perché ci ama, e quando ci dicono di smetterla gridiamo ancora più forte «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ».

Da questa pagina del Vangelo si capisce bene com’è il Cuore di Gesù… Lui ascolta tutti come duemila anni fa ed ha compassione di tutti…



Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.

Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!».

E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.



La vicenda che stiamo vivendo con Caterina ci sta insegnando che noi siamo e dobbiamo essere come Bartimeo non solo oggi, nel dolore, nella prova, ma sempre, perché quello di cui abbiamo bisogno non è solo la guarigione fisica, ma Gesù.

E’ di Lui che abbiamo bisogno più dell’aria e più del pane. E’ Lui la luce e Lui è il medico e la medicina della nostra povera condizione umana… Mendicare Lui è la vita stessa!

Infatti è bellissima la frase finale di questo Vangelo: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”.

Come ci ha insegnato don Giussani: “Il protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”.

E’ Lui stesso che si è fatto uomo ed è venuto tra noi per mendicare il nostro cuore, il nostro amore…


Più di 200 milioni di cristiani subiscono discriminazioni - Denuncia del rappresentante vaticano all'ONU - di Roberta Sciamplicotti
ROMA, martedì, 27 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Anche se "non c'è alcuna religione al mondo che sia esente da discriminazione", quella cristiana è la più perseguitata, ha denunciato il 21 ottobre a New York l'Arcivescovo Celestino Migliore, Nunzio Apostolico e Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

"E' ben documentato che i cristiani sono il gruppo religioso più discriminato", visto che "più di 200 milioni di loro, di varie confessioni, sono in situazioni di difficoltà per strutture legali e culturali che portano alla loro discriminazione", ha ricordato il presule intervenendo alla 64ª sessione dell'Assemblea Generale dell'organismo sull'item 69 (b), "Promozione e difesa dei diritti umani".

"Pur essendo ripetutamente proclamato dalla comunità internazionale e specificato negli strumenti internazionali, così come nella Costituzione della maggior parte degli Stati", il diritto alla libertà religiosa "continua ad essere oggi ampiamente violato", ha ammesso.

"Atti di intolleranza e violazioni della libertà religiosa continuano ad essere perpetrati in molte forme", al punto che "sempre più casi vengono portati all'attenzione dei tribunali o dei corpi internazionali per i diritti umani".

La minaccia delle leggi sulla blasfemia

Nei mesi scorsi, ha ricordato l'Osservatore Permanente, alcuni Paesi dell'Asia e del Medio Oriente hanno visto le comunità cristiane "attaccate, con molti feriti e morti" e "chiese e case date alle fiamme".

Queste azioni, ha segnalato, "sono state commesse da estremisti in risposta alle accuse mosse contro alcuni individui in base alle leggi antiblasfemia".

In questo contesto, monsignor Migliore ha osservato che la sua delegazione "loda e sostiene" la promessa del Governo del Pakistan di "rivedere ed emendare quelle leggi".

Le disposizioni legislative sulla blasfemia, ha proseguito, "sono diventate troppo facilmente un'opportunità per gli estremisti di perseguitare quanti scelgono liberamente di seguire una tradizione di fede diversa" e sono state usate per "fomentare l'ingiustizia, la violenza settaria e la violenza tra religioni".

Di fronte a questa situazione, i Governi devono "affrontare le cause di base dell'intolleranza religiosa e abrogare queste leggi che servono come strumenti di abuso".

Volontà di cambiare

Se la legislazione che restringe la libertà d'espressione "non può cambiare atteggiamento", ha dichiarato l'Arcivescovo Migliore, "ciò che invece è necessario è la volontà di cambiare".

Questa, ha osservato, può essere raggiunta "aumentando la consapevolezza degli individui, portandoli a una maggiore comprensione della necessità di rispettare tutte le persone, indipendentemente dalla loro fede o dal background culturale".

Gli Stati, dal canto loro, "dovrebbero evitare di adottare restrizioni alla libertà d'espressione, che spesso hanno portato ad abusi da parte delle autorità e al mettere a tacere le voci dissenzienti, soprattutto quelle degli individui che appartenevano a minoranze etniche e religiose".

"L'autentica libertà d'espressione può contribuire a un maggior rispetto per tutti e fornire l'opportunità di parlare contro violazioni come l'intolleranza religiosa e il razzismo e di promuovere l'uguale dignità di tutti", ha indicato.

Visto che l'odio e la violenza verso religioni specifiche che persistono in vari luoghi suggeriscono una situazione caratterizzata dall'intolleranza, "è imperativo che i popoli delle varie tradizioni di fede collaborino per crescere nella comprensione reciproca. C'è bisogno di un autentico cambiamento di mente e cuore".

Questo obiettivo, ha aggiunto, si raggiunge soprattutto attraverso "l'educazione all'importanza della tolleranza e del rispetto per la diversità culturale e religiosa".

"La cooperazione tra le religioni - ha concluso l'Arcivescovo - è un prerequisito per la trasformazione della società", perché "si possa davvero costruire una cultura della tolleranza e della coesistenza pacifica tra i popoli".


Europa, gli anni di Erode - di Lorenzo Fazzini - Avvenire 23 ottobre 2009 - Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore…
Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore. Ogni secondo, negli Stati facenti parte l’Ue, si verificano 25 interruzioni di gravidanza, un trend che fa assommare all’enorme cifra di 1.237.731 gli aborti praticati in un anno (dati del 2007). Sono questi alcuni dei (terribili) numeri del rapporto «L’aborto in Europa» reso noto dall’Istituto europeo di politica familiare (Ipf), con sede a Madrid, e che diffonde i suoi studi in varie lingue. Proprio il Paese iberico è balzato di recente agli onori della cronaca per l’enorme marcia pro-vida tenutasi a Madrid contro la legge del governo Zapatero che apre la strada all’aborto libero per le minorenni.
«Le cifre parlano di migliaia di tragedie personali, famigliari e sociali davanti alle quali la società non può più continuare a restare indifferente – annota l’Ipf nell’introduzione al rapporto –. Tutto questo rappresenta una sfida prioritaria per la società e per le amministrazioni pubbliche, perché ogni madre che ricorre all’aborto costituisce una sconfitta per la società».
I numeri, dunque. Quelli del documento sono sconvolgenti: un milione e 200mila bambini non nati in un anno rappresenta l’intera popolazione una grande città del Continente. Nel decennio preso in considerazione l’Unione europea ha «perso» 13 milioni di bambini perché abortiti: come se scomparissero, assommate, l’intera popolazione della Svezia attuale e quella dell’Irlanda. Ciò significa che una gravidanza su 5 (il 19,1% per la precisione) nel Vecchio continente termina con un aborto. Tale fatto contribuisce all’«inverno demografico» che attanaglia l’Europa: nel 2008 le nascite sono diminuite di 774mila unità rispetto al 1982, con un saldo negativo del 12,5%.
Il rapporto di Ipf – che si basa su dati Eurostat e quelli forniti dai diversi Paesi – smonta alcuni cliché delle organizzazioni pro-aborto, ad esempio quello che recita «più contraccettivi = meno aborti». Orbene, se negli ultimi anni gli strumenti anticoncezionali hanno ormai dilagato – un esempio, la diffusione istituzionalizzata di preservativi nelle scuole superiori di diversi Paesi –, non per questo si assiste a un calo delle interruzioni di gravidanza. Anzi: se nel 1997 nei 15 Paesi allora facenti parti dell’Unione europea si registravano 837.409 aborti, dieci anni dopo questi sono saliti del 12,6%, arrivando a quota 931.396. Spagna e Gran Bretagna sono i Paesi con il maggior trend di crescita: Madrid ha avuto nel giro di 10 anni 62.500 aborti in più, il Regno Unito ha assistito ad un +27.500. Vi è un dato poi ulteriormente preoccupante, soprattutto sul versante educativo: un aborto ogni 7 viene richiesto da una donna con meno di 20 anni. Qui il primato spetta alla Gran Bretagna (48150), dove il problema delle adolescenti incinte rappresenta ormai un allarmante problema sociale, seguita da Francia (31779) e Romania (17272).
Ma quali sono i Paesi europei che nell’ultimo decennio hanno registrato il maggior numero di aborti? Il triste primato spetta alla Romania, con 2.114.639 aborti; segue la Francia (2.079.387), la Gran Bretagna (2.037.657), l’Italia (1.321.756), la Germania e la Spagna.
Una buona notizia arriva invece se si prendono in considerazione il numero di gravidanze soppresse nei dodici Paesi entrati a far parte della Ue negli ultimi anni, perlopiù nazioni dell’Est europeo: nel 1997 vi si praticavano 650.869 aborti, nel 2007 si è scesi a 306.335, con una diminuzione del 52,9%. Anche guardando alla situazione del nostro Paese, il rapporto di Ipf offre un lumicino di speranza: siamo uno dei Paesi in cui nell’ultimo decennio l’aborto è in calo. Nel 2007 da noi si sono avute 126.562 interruzioni di gravidanza, ovvero 13.604 in meno rispetto a 10 anni prima.
La Spagna rappresenta il «buco nero» dell’indagine di Ipf: se, come detto, essa è il Paese dei Ventisette dove l’interruzione di gravidanza si è più diffusa negli ultimi 10 anni, nel 2008 (secondo le stime di Ipf) avrebbe raggiunto quota 120mila aborti, diventando il 4° Paese Ue per vite nascenti soppresse.
Da questa amara constatazione l’Istituto di politica famigliare lancia un appello al mondo della politica: «È necessario e urgente che le amministrazioni pubbliche realizzino una vera politica di prevenzione (dell’aborto, ndr) basata sull’aumento dell’aiuto sociale ed economico in favore delle donne incinte» tralasciando di «perseguire politiche di contraccezione superate» che «non sono la soluzione più adeguata per la società. È necessario cogliere la sfida – chiosa il documento – e realizzare una vera politica di formazione – e non solo di informazione – in favore della vita aiutando le donne incinte».

di Lorenzo Fazzini
Avvenire 23 ottobre 2009


Di fronte ai rischi della rivoluzione biotecnologica - Anche gli economisti hanno diritto all'obiezione di coscienza - di Ettore Gotti Tedeschi - L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009
Tre fattori interdipendenti suscitano attualmente preoccupazione per il futuro stesso della nostra civiltà. Il primo è l'esigenza di risolvere al più presto la crisi economica; il secondo è l'opportunità, ma anche il rischio, offerti dalla rivoluzione biotecnologica come strumento di soluzione della crisi; il terzo risiede nella competizione tra Nazioni per conquistare la leadership nel nuovo settore trainante delle biotecnologie.
Riguardo al primo punto appare evidente che, dopo avere ignorato le vere origini della crisi economica - cioè il crollo della natalità e lo sviluppo insostenibile - perché considerate di ordine morale e quindi non condivise, si sta cercando di produrre soluzioni creative per riavviare il ciclo economico ed evitare che in tempi brevi si possano produrre nuovi squilibri di potere, come quello che si sta generando tra Asia e America.
Il secondo problema - relativo alla biotecnologia - rappresenta un elemento realmente rivoluzionario nelle relazioni economiche e morali. La biotecnologia può essere il motore per uscire dalla crisi economica, ma con il rischio di relativizzarne la dimensione etica. La gestione disinvolta e affrettata delle promesse di benessere e salute, che la cosiddetta scienza per la vita sta facendo balenare, potrà diventare presto una componente di piani economici di risanamento e sviluppo.
È infatti ormai evidente l'opportunità di sviluppare attività produttive, basate sulla biotecnologia, con prospettive di crescita enormi in vari settori economici legati alla soddisfazione di bisogni di base: cibo, energia, salute. Così la rivoluzione biotecnologica può sviluppare una Silicon Valley fatta di centri tecnologici di scienza per la vita - utili all'uomo, all'ambiente e di conseguenza anche al prodotto interno lordo - accelerando pertanto la soluzione della crisi economica. E ciò potrebbe anche essere un bene.
Ma la rivoluzione biotecnologica, oltre a produrre elementi e risorse altrimenti scarsi in natura - si pensi al petrolio - ha dimostrato di essere in grado di modificare la materia e la struttura genetica e di potere produrre sinteticamente organismi biologici. Con l'illusione di comprendere il segreto della vita, di poterla programmare e persino costruire.
Se ciò avvenisse si andrebbe oltre la fase di selezione e modifica di organismi viventi per uso umano. La capacità di trasferire geni da un organismo all'altro e di produrre ogni cosa per sintesi potrebbe infine annullare la percezione della differenza tra l'intervento a favore della salute dell'uomo e quello volto alla creazione di vita artificiale. E questo sicuramente non sarebbe un bene.
La terza questione spiega proprio perché questa pericolosa tentazione può diventare molto forte. In questa fase si sta infatti avviando la competizione per la leadership mondiale nel nuovo assetto geopolitico generato dalla crisi. È una competizione che probabilmente si svilupperà proprio nella ricerca di affermazione nel settore biotecnologico.
Verrebbero così relativizzati ancora di più i criteri morali di valutazione su cosa sia utile e giusto per l'uomo e, in alcune Nazioni, potrebbe perfino nascere la tentazione di correggere la Bibbia per dare giustificazione a queste scelte. È ormai chiaro che da questa crisi si uscirà anche attraverso la rivoluzione biotecnologica. Il pericolo è però che non ci si limiti alla prudente soddisfazione delle esigenze dell'uomo, ma che, per sete di potere, ci si spinga sino a confondere le verità sulla vita umana stessa. E di fronte a questo rischio anche l'economista ha diritto all'obiezione di coscienza.
(©L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009)


I cattolici fanno bene agli Usa? - Lorenzo Albacete mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Come “Latino-americano cattolico” (qualunque ne sia il significato, questa è la categoria socio-religiosa cui appartengo nella odierna società americana), ho seguito in questi giorni un programma della CNN, molto pubblicizzato, che si chiama “Latino in America”, una indagine su cosa vuol dire essere un Latino oggi negli Stati Uniti.


La ragione dell’interesse dalla CNN per questo tema è evidente: i Latino sono ora la minoranza più consistente negli Stati Uniti e si stima che il loro numero si triplicherà per il 2050. Secondo la CNN, il programma dà uno sguardo “nelle case e nei cuori di un gruppo destinato a cambiare gli USA”.



Dato che la maggior parte dei Latino si dichiara cattolica, ho prestato una attenzione particolare alla sezione intitolata: “I Latino possono essere il ‘futuro’ della Chiesa cattolica negli Stati Uniti”. Come esempio, il programma descriveva la situazione di una parrocchia di St. Louis, nel Missouri, che stava per essere chiusa dalla diocesi per motivi finanziari, poiché il numero dei parrocchiani di lingua inglese era sceso in modo drammatico.



Tuttavia, dopo essere diventata parrocchia per i Latino, la partecipazione è quadruplicata e la parrocchia, fondata un secolo fa da immigrati tedeschi, è ora frequentata per l’85% da ispanici. Il funzionario già responsabile per la diocesi della pastorale per gli ispanici vede in questo una prova di “imbrunimento della Chiesa cattolica negli Stati Uniti”. Gli ispanici, dice, sono “il presente… e il futuro della Chiesa cattolica negli USA”. Un terzo di tutti i cattolici e il 15% dei preti ordinati nel Paese sono Latino.



Prima però di poter dire che la presenza Latina cambierà il modo in cui la Chiesa cattolica degli Stati Uniti vive, celebra e proclama la fede cattolica, vi sono alcune osservazioni da fare. Prima di tutto, nessuno sa esattamente chi è un Latino (termine prevalente nell’Ovest e nel Sudovest) o un Ispanico (come si preferisce dire sulla costa orientale).



C’è una grandissima differenza tra un conservatore cubano (americano di Miami) e un leader sindacale progressista messicano (americano della California). Il principale fattore unificante è il linguaggio comune di origine? E i brasiliani che parlano portoghese? Gli americani con ascendenze spagnole sono Latino o Ispanici? E gli americani con origini catalane o basche?



In realtà, l’unico elemento che unifica tutti i Latino sembrerebbe essere le espressioni culturali comuni della fede Cattolica, ma le espressioni culturali della fede non sono la fede stessa, una fede che possa sopravvivere alle profonde trasformazioni culturali alle quali sono sottoposti i Latino negli Stati Uniti.

O, ancora meno, costituiscono una fede in grado di generare una nuova cultura che incorpori ciò che può essere incorporato della esperienza americana (un nuovo, splendido libro del Cardinale Francis George, Arcivescovo di Chicago, The Difference that God Makes, contiene una bella analisi di ciò che tutto questo comporta).



Vi sono parrocchie in cui non c’è alcuna esperienza di unità tra cattolici Latino e di lingua inglese, con il risultato di due comunità parallele che utilizzano le stesse strutture parrocchiali senza alcun contatto tra loro. Nella mia esperienza personale, la parrocchia in cui presto servizio sacerdotale la domenica è a stragrande maggioranza ispanica, ma molti frequentano la Messa in inglese e molti di lingua inglese partecipano alla Messa in spagnolo senza apparenti problemi o tensioni.



L’esperienza di unità prevale (personificata e sostenuta dall’opera di un parroco stimato e benvoluto), permettendo alla parrocchia di essere una presenza significativa nella zona, anche al di fuori dei suoi confini canonici, che ha portato alla chiusura di comunità evangeliche spagnole (una minaccia crescente alla presunta “identità cattolica” dei Latino).



La chiave per il futuro sta nella educazione dei sempre più numerosi giovani latino-americani. Gli verrà insegnato che la fede cattolica corrisponde e adempie completamente alla loro identità come esseri umani? Solo cominciando da questo il cattolicesimo americano sarà capace di dare un contributo reale alla storia dell’esperienza americana.


IL CASO/ Fare figli e accudire anziani in Lombardia conviene - Luca Pesenti mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Il nuovo “Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia”, presentato alla fine della scorsa settimana a Roma, ha confermato un dato ricorrente nelle indagini sul tema: quello della perdurante e crescente fatica delle famiglie con figli.


Sono queste le “famiglie in salita”, come recita il titolo come sempre evocativo del Rapporto. Non a caso le coppie con tre o più figli sono anche quelle maggiormente rappresentate nella ricerca su “La povertà alimentare in Italia”, pubblicata da Fondazione per la Sussidiarietà e Fondazione Banco Alimentare.



Fare figli in Italia non conviene, dunque. Così come è sconveniente accudire tra le mura domestiche le persone disabili o gli anziani non autosufficienti. Un risultato raggiunto anche grazie a un sistema di welfare sviluppatosi come se la famiglia non ci fosse. Negando di fatto ai molti che non se lo possono permettere una autentica possibilità di scelta tra cura domestica e ricorso a servizi esterni.



È allora necessario invertire i termini, scommettendo al tempo stesso sulla capacità di scelta delle famiglie tra una pluralità di erogatori di servizi (come è accaduto in modo innovativo in alcune Regioni, prima tra tutte l’apripista Lombardia) e sulla disponibilità all’assunzione di una responsabilità di cura che per la sua valenza pubblica può e deve essere sostenuta.



Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità: quella della famiglia come “unità di offerta”. La famiglia offre al proprio interno servizi di cura, per i propri membri (i figli e gli anziani, per l’appunto) e spesso anche per altri, come accade nel caso dell’affido e dell’adozione.



L’idea prefigurata dalla legge lombarda sembra fatta apposta per cogliere proprio questa potenzialità, rivoluzionando il sistema di welfare italiano in senso radicalmente sussidiario. Pensare alla famiglia come a una “unità di offerta” potrebbe infatti significare mettere sullo stesso piano i servizi offerti da soggetti privati (profit e nonprofit) con quelli offerti dalle famiglie. E soprattutto permettere alle famiglie che lo desiderano di scegliere realmente tra l’una e l’altra opzione.



Invece di finanziarie, direttamente o indirettamente, solamente i servizi cui solitamente le famiglie si rivolgono per avere aiuto (dovendo per altro sempre sobbarcarsi una parte consistente della retta complessiva), sarebbe possibile sperimentare forme di finanziamento diretto alle famiglie, sotto forma di buoni o di voucher. Lasciando a loro uno spazio di responsabilità (e dunque di scelta) ancora più ampia.

Se così fosse potremmo scoprire ad esempio che in molti casi la scelta di mettere un anziano in una RSA (le vecchie case di riposo) è un ripiego dettato da esigenze economiche, perché tenere l’anziano in casa, con una o più badanti a disposizione oltre alle spese di vitto e alloggio, costerebbe molto di più. E che basterebbe un sostegno economico, anche più contenuto di quel che mediamente una Regione spende per cofinanziare un posto letto, per lasciare l’anziano in casa sua fin quando possibile.



E ancora. Perché finanziare soltanto i servizi per le madri lavoratrici e non ipotizzare forme innovative di sostegno alla genitorialità che ribaltino la corrente logica della conciliazione rendendola funzionale non solo alle necessità del mercato del lavoro ma anche a quelle delle famiglie? Oggi ad esempio per molte famiglie a basso reddito l’astensione facoltativa dal lavoro a seguito di una maternità nel periodo compreso tra i 4 e i 12 mesi di vita del bambino è del tutto illusorio, stante la significativa decurtazione di stipendio che ne risulta (70% in meno).



A queste famiglie è dunque sostanzialmente negata una possibilità di scelta tra due diritti concomitanti: quello al lavoro e quello all’accudimento del proprio figlio. Se queste famiglie fossero trattate come “unità di offerta”, in molti casi si potrebbero sperimentare forme di sostegno almeno parziale al reddito, affermando il principio della scelta come strumento per affermare la centralità della famiglia.



Sono solo alcuni esempi, sufficienti per prefigurare un nuovo paradigma per le politiche famigliari. Mostrano infatti uno spazio di sussidiarietà tutto da esplorare, che scommette tutto su una famiglia capace non solo di scegliere a chi affidare i bambini e gli anziani, ma anche di continuare ad essere “fornitrice” in proprio di servizi di pubblica utilità anche là dove la situazione reddituale non lo permetterebbe.