Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa traccia un bilancio del viaggio nella Repubblica Ceca - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
2) Gli stati vegetativi? Il medico 4 volte su 10 si sbaglia - (21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
3) Come leggere la «Caritas in veritate» - Niente sentimentalismi nella dottrina sociale - Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano. - di Franco Giulio Brambilla - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
4) Il cristianesimo alla base dello Stato liberale - I diritti umani? Prima non c'erano - Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva del convegno "I quesiti del futuro: religione e cultura politica", organizzato dalla Fondazione Adenauer di Roma e dal Centro di Studi Europei di Bruxelles e tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana. - di Marcello Pera - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
5) C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” - Autore: Oliosi,Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 30 settembre 2009
6) RU486/ Roccella: fermeremo chi usurpa le prerogative del Parlamento - INT. Eugenia Roccella giovedì 1 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
7) LA LEGGE SULLA FINE DELLA VITA - CON IPPOCRATE E CON OGNI MALATO SENZA COSTRUIRE «ZONE GRIGIE» - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 1 ottobre 2009
8) È giunto il momento di rilanciare la proposta di riconoscere la capacità giuridica ad ogni essere umano sin dal concepimento - L’embrione, una persona - DI CARLO CASINI – Avvenire, 1 ottobre 2009
Il Papa traccia un bilancio del viaggio nella Repubblica Ceca - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 30 settembre 2009 (ZENIT.org).- L’Udienza generale di questa mattina si è svolta in piazza San Pietro dove il Santo Padre - proveniente in elicottero dalla residenza estiva di Castel Gandolfo - ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente viaggio apostolico nella Repubblica Ceca.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Come è consuetudine dopo i viaggi apostolici internazionali, profitto dell’odierna Udienza generale per parlare del pellegrinaggio che ho compiuto nei giorni scorsi nella Repubblica Ceca. Lo faccio anzitutto come atto di ringraziamento a Dio, che mi ha concesso di compiere questa visita e che l’ha largamente benedetta. È stato un vero pellegrinaggio e, al tempo stesso, una missione nel cuore dell’Europa: pellegrinaggio, perché la Boemia e la Moravia sono da oltre un millennio terra di fede e di santità; missione, perché l’Europa ha bisogno di ritrovare in Dio e nel suo amore il fondamento saldo della speranza. Non è un caso se i Santi evangelizzatori di quelle popolazioni, Cirillo e Metodio, sono patroni d’Europa insieme con san Benedetto. "L’amore di Cristo è la nostra forza": questo è stato il motto del viaggio, un’affermazione che riecheggia la fede di tanti eroici testimoni del passato remoto e recente, penso in particolare al secolo scorso, ma che soprattutto vuole interpretare la certezza dei cristiani di oggi. Sì, la nostra forza è l’amore di Cristo! Una forza che ispira e anima le vere rivoluzioni, pacifiche e liberatrici, e che ci sostiene nei momenti di crisi, permettendo di risollevarci quando la libertà, faticosamente recuperata, rischia di smarrire se stessa, la propria verità.
L’accoglienza che ho riscontrato è stata cordiale. Il Presidente della Repubblica, al quale rinnovo l’espressione della mia riconoscenza, ha voluto essere presente in diversi momenti e mi ha ricevuto insieme con i miei collaboratori nella sua residenza, lo storico Castello della Capitale, con grande cordialità. L’intera Conferenza Episcopale, in particolare il Cardinale Arcivescovo di Praga e il Vescovo di Brno, mi hanno fatto sentire, con grande calore, il profondo legame che unisce la Comunità cattolica ceca al Successore di san Pietro. Li ringrazio anche per aver preparato accuratamente le celebrazioni liturgiche. Sono grato pure a tutte le Autorità civili e militari e a quanti in diversi modi hanno cooperato alla buona riuscita della mia visita.
L’amore di Cristo ha iniziato a rivelarsi nel volto di un Bambino. Giunto a Praga, infatti, ho compiuto la prima tappa nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove si venera il Bambino Gesù, noto appunto come "Bambino di Praga". Quell’effige rimanda al mistero del Dio fatto Uomo, al "Dio vicino", fondamento della nostra speranza. Dinanzi al "Bambino di Praga" ho pregato per tutti i bambini, per i genitori, per il futuro della famiglia. La vera "vittoria", che oggi chiediamo a Maria, è la vittoria dell’amore e della vita nella famiglia e nella società!
Il Castello di Praga, straordinario sotto il profilo storico e architettonico, suggerisce un’ulteriore riflessione più generale: esso racchiude nel suo vastissimo spazio molteplici monumenti, ambienti e istituzioni, quasi a rappresentare una polis, in cui convivono in armonia la Cattedrale e il Palazzo, la piazza e il giardino. Così, in quel medesimo contesto, la mia visita ha potuto toccare l’ambito civile e quello religioso, non giustapposti, ma in armonica vicinanza nella distinzione. Rivolgendomi pertanto alle Autorità politiche e civili ed al Corpo diplomatico, ho voluto richiamare il legame indissolubile che sempre deve esistere tra libertà e verità. Non bisogna aver paura della verità, perché essa è amica dell’uomo e della sua libertà; anzi, solo nella sincera ricerca del vero, del bene e del bello si può realmente offrire un futuro ai giovani di oggi e alle generazioni che verranno. Del resto, che cosa attira tante persone a Praga se non la sua bellezza, una bellezza che non è soltanto estetica, ma storica, religiosa, in senso ampio umana? Chi esercita responsabilità nel campo politico ed educativo deve saper attingere dalla luce di quella verità che è il riflesso dell’eterna Sapienza del Creatore; ed è chiamato a darne testimonianza in prima persona con la propria vita. Solo un serio impegno di rettitudine intellettuale e morale è degno del sacrificio di quanti hanno pagato caro il prezzo della libertà!
Simbolo di questa sintesi tra verità e bellezza è la splendida Cattedrale di Praga, intitolata ai santi Vito, Venceslao e Adalberto, dove si è svolta la celebrazione dei Vespri con i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e una rappresentanza dei laici impegnati nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali. Per le Comunità dell’Europa centro-orientale questo è un momento difficile: alle conseguenze del lungo inverno del totalitarismo ateo, si stanno sommando gli effetti nocivi di un certo secolarismo e consumismo occidentale. Perciò ho incoraggiato tutti ad attingere energie sempre nuove dal Signore risorto, per poter essere lievito evangelico nella società e impegnarsi, come già avviene, in attività caritative, e ancor più in quelle educative e scolastiche.
Questo messaggio di speranza, fondato sulla fede in Cristo, l’ho esteso all’intero Popolo di Dio nelle due grandi Celebrazioni eucaristiche svoltesi rispettivamente a Brno, capoluogo della Moravia, e a Stará Boleslav, luogo del martirio di San Venceslao, Patrono principale della Nazione. La Moravia fa pensare immediatamente ai santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, e quindi alla forza inesauribile del Vangelo, che come un fiume di acque risanatrici attraversa la storia e i continenti, portando dovunque vita e salvezza. Sopra il portale della Cattedrale di Brno sono impresse le parole di Cristo: "Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro" (Mt 11,28). Queste stesse parole sono risuonate domenica scorsa nella liturgia, riecheggiando la voce perenne del Salvatore, speranza delle genti, ieri, oggi e sempre. Della signoria di Cristo, signoria di grazia e di misericordia, è segno eloquente l’esistenza dei santi Patroni delle diverse Nazioni cristiane, come appunto Venceslao, giovane re di Boemia nel secolo X, che si distinse per la sua esemplare testimonianza cristiana e fu ucciso dal fratello. Venceslao antepose il regno dei cieli al fascino del potere terreno ed è rimasto per sempre nel cuore del popolo ceco, come modello e protettore nelle alterne vicende della storia. Ai numerosi giovani presenti alla Messa di san Venceslao, provenienti pure dalle nazioni vicine, ho rivolto l’invito a riconoscere in Cristo l’amico più vero, che soddisfa le aspirazioni più profonde del cuore umano.
Debbo infine menzionare, tra gli altri, due incontri: quello ecumenico e quello con la comunità accademica. Il primo, tenutosi nell’Arcivescovado di Praga, ha visto riuniti i rappresentanti delle diverse Comunità cristiane della Repubblica Ceca e il responsabile della Comunità ebraica. Pensando alla storia di quel Paese, che purtroppo ha conosciuto aspri conflitti tra cristiani, è motivo di viva gratitudine a Dio l’esserci ritrovati insieme come discepoli dell’unico Signore, per condividere la gioia della fede e la responsabilità storica di fronte alle sfide attuali. Lo sforzo di progredire verso una unità sempre più piena e visibile tra noi, credenti in Cristo, rende più forte ed efficace il comune impegno per la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa. Quest’ultimo aspetto, che stava molto a cuore al mio amato predecessore Giovanni Paolo II, è emerso pure nell’incontro con i Rettori delle Università, i rappresentanti dei docenti e degli studenti ed altre personalità di rilievo in ambito culturale. In tale contesto ho voluto insistere sul ruolo dell’istituzione universitaria, una delle strutture portanti dell’Europa, che ha in Praga un Ateneo tra i più antichi e prestigiosi del continente, l’Università Carlo, dal nome dell’imperatore Carlo IV che la fondò, insieme con il Papa Clemente VI. L’università degli studi è ambiente vitale per la società, garanzia di libertà e di sviluppo, come dimostra il fatto che proprio dai circoli universitari prese le mosse a Praga la cosiddetta "Rivoluzione di velluto". A vent’anni da quello storico evento, ho riproposto l’idea della formazione umana integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità, per contrastare una nuova dittatura, quella del relativismo abbinato al dominio della tecnica. La cultura umanistica e quella scientifica non possono essere separate, anzi, sono le due facce di una stessa medaglia: ce lo ricorda ancora una volta la terra ceca, patria di grandi scrittori come Kafka, e dell’abate Mendel, pioniere della moderna genetica.
Cari amici, ringrazio il Signore perché, con questo viaggio, mi ha dato di incontrare un popolo e una Chiesa dalle profonde radici storiche e religiose, che commemora quest’anno diverse ricorrenze di alto valore spirituale e sociale. Ai fratelli e sorelle della Repubblica Ceca rinnovo un messaggio di speranza e un invito al coraggio del bene, per costruire il presente e il domani dell’Europa. Affido i frutti della mia visita pastorale all’intercessione di Maria Santissima e di tutti i Santi e le Sante di Boemia e Moravia. Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i formatori e gli studenti del Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae, esortandoli alla preghiera intensa e allo studio serio per approfondire la persona del Cristo. Sono lieto di accogliere i fedeli della diocesi di Sulmona-Valva, qui convenuti numerosi con il loro Vescovo, Mons. Angelo Spina, nel ricordo di San Pietro Celestino V. Mio fratello mi ha raccontato tante belle cose della sua visita a Sulmona. Saluto con piacere le delegazioni dei medici che stanno promuovendo vari progetti con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, uno dei quali in collaborazione anche con la Provincia di Roma. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, gli esponenti della Società cooperativa "Mirabilia Dei", il gruppo della Misericordia di Viareggio, come pure i fedeli della Contrada "Il Bruco", accompagnati dall’Arcivescovo di Siena Antonio Buoncristiani. Saluto i partecipanti al Convegno Internazionale Sturziano organizzato nel 50° della morte del Servo di Dio don Luigi Sturzo. L’esempio luminoso di questo presbitero e la sua testimonianza di amore, di libertà e di servizio al popolo sia stimolo e incoraggiamento per tutti i cristiani, e specialmente per quanti operano in campo sociale e politico perché diffondano, con la loro coerente testimonianza, il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa.
Rivolgo infine il mio saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Cari giovani, ascoltate Cristo, parola di verità, e accogliete con prontezza il suo disegno sulla vostra vita. Voi, cari ammalati, sentite Gesù accanto a voi e testimoniate con la vostra fiducia la forza vivificante della Croce. Voi, cari sposi novelli, con la grazia del Sacramento da poco ricevuto, irrobustite di giorno in giorno il vostro amore e camminate sulla via della santità.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Gli stati vegetativi? Il medico 4 volte su 10 si sbaglia - (21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
Si parla sempre (e spesso a sproposito) delle persone in stato vegetativo. Nei giornali e in televisione si scrivono e si sentono delle autentiche castronerie: stato vegetativo viene usato come sinonimo di coma, a stato vegetativo si accosta molto volentieri il termine 'permanente' che invece non può esistere per la scienza e non perchè lo dico io, ma perchè non lo sanno neppure i luminari. Poi la terza carica dello Stato (Gianfranco Fini, presidente della Camera) è arrivato a dire che una persona in stato vegetativo ha l'elettroencefalogramma piatto e allora verrebbe voglia di arrendersi.
In pochissimi hanno parlato di un fatto invece davvero eccezionale che andrebbe studiato con grande attenzione e dovrebbe farci muovere in maniera ancora più cauto quando trattiamo certi temi. Ecco il fatto: il 40% delle diagnosi, quando si parla appunto di stati vegetativi, è sbagliato.
Cioè: in 4 casi su dieci un medico ha detto che la persona x era in stato vegetativo, mentre invece quella persona capiva e sentiva, solo che non era in grado di esprimersi.
Lo studio, rivoluzionario, arriva dal Belgio ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neurology lo scorso luglio. Gli addetti ai lavori ne erano a conoscenza già da tempo. Spesso si confonde lo stato vegetativo on lo stato di minima coscienza. Lo studio ha mostrato che il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo erano in realtà in stato di minima coscienza e che il 10% dei pazienti ritenuti in stato di minima coscienza erano in realtà emersi da quella condizione ed erano ormai capaci di comunicare, anche se i loro medici non se n'erano accorti.
A tali dati allarmanti _ ha scritto il settimanale E vita _ ci permettiamo solo di aggiungere che probabilmente il tasso diagnostico di errore sarebbe stato assai più elevato se si fossero usate anche le indagini di risonanza magnetica funzionale, di PET e di neurofisiologia che hanno mostrato la possibilità di persistere una comunicazione residua anche in pazienti in cui essa non è clinicamente evidenziabile. Anzichè scegliere la scorciatoia dello 'staccare la spina' (altra parolaccia sballata in voga quando si trattano questi temi) ci rendiamo conto quanto ci sarebbe ancora da esplorare e da studiare? E non sulla pelle degli uomini, ma a favore degli uomini.
(Massimo Pandolfi)
(21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
Come leggere la «Caritas in veritate» - Niente sentimentalismi nella dottrina sociale - Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano. - di Franco Giulio Brambilla - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
Lungamente attesa, annunciata più volte come imminente, l'enciclica sociale di Benedetto XVI è giunta, tuttavia, come una sorpresa. Non solo per la sua felice pubblicazione in prossimità del vertice di risonanza internazionale dell'Aquila, che ha ritrovato il protagonismo dei Paesi emergenti, non ancora per la ripresa della Populorum progressio di Paolo vi, poco dopo il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione (1967), ma soprattutto per la riproposizione del tema dello sviluppo integrale dei popoli nel contesto globalizzato sullo scenario della terribile crisi internazionale del 2008-2009.
Vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie allo scoccare preciso dei duecento anni - nemesi storica! - della Rivoluzione francese (1989), è avvenuta l'implosione dell'economia occidentale globalizzata, che perde il contatto vivo con la radice sociale e umana. L'enciclica è un forte richiamo che rappresenta quasi un manifesto per il nuovo bisogno di "etica sociale" che tenti di regolare l'avidità e talvolta la truffaldina voracità della finanza internazionale, senza riferimento al legame sociale, al rischio dell'imprendere e alla fatica del lavoro umano. Sullo sfondo sta lo scenario della terribile disparità tra i popoli del globo.
Del manifesto, però, l'enciclica non ha il tono declamatorio, ma quello di un disteso e pacato disegno argomentato, di una riflessione tenace che tesse pazientemente la trama di un arazzo di dimensioni mondiali, attraversato da tutte le armoniche che devono risuonare nell'ora presente. Né altrimenti ci si poteva aspettare dal "Papa teologo", che ci ha abituati allo spessore e al sapore della parola che dischiude al vero e al bene.
La cosa più sorprendente, che appare a un incontro più avvicinato con la scrittura dell'enciclica, è l'esercizio di interpretazione della dottrina sociale della Chiesa che il Pontefice ci propone. Si tratta di un caso di interpretazione "magisteriale" del Magistero sociale che, dalla Rerum novarum fino ai nostri giorni, ha assunto il tratto di un vero e proprio corpus dottrinale. All'analisi dei teologi di morale socio-politica, questo corpus appare come una costellazione dottrinale che non ha, e non pretende di avere, la forma di una trattazione organica e completa, ma piuttosto intende offrire il discernimento delle istanze del tempo a cui i diversi interventi papali fanno riferimento. Tuttavia, proprio l'embricatura degli anniversari, che sovente motivano la "ripresa" della dottrina sociale, suggerisce l'idea di un discorso completo della visione della fede cristiana in re sociali. Fino a farne materia di una trattazione di "Dottrina sociale della Chiesa", la quale assumerebbe la consistenza teologica del trattato di morale sociale. Nello spazio accademico, molte volte avviene che questa regione della morale cristiana sia concepita e proposta come un "commentario" al Magistero sociale, al massimo collocato nello sviluppo storico degli oltre cent'anni dalla "prima" enciclica sociale di Leone xiii.
Ed è qui che cade il tratto sorprendente dell'intervento di Papa Benedetto: esso si presenta come un esercizio emblematico di quell'""ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa", che il Papa aveva proposto in forma inattesa e nella cornice inconsueta del Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, appena all'inizio del suo pontificato. Quell'intervento colpì molti perché, celebrando i quarant'anni della chiusura del concilio Vaticano ii, rivendicava la continuità nel rinnovamento della Chiesa prima e dopo il concilio, rispetto a una superficiale "ermeneutica della discontinutà e della rottura" che si fondava sulla separazione tra spirito del concilio e sua traduzione testuale, inevitabilmente contrassegnata dal compromesso tra le diverse anime dei Padri conciliari. Per di più propiziata - non è un caso che il riferimento principale dell'enciclica sia a Paolo vi - dalla volontà del Papa bresciano di raccogliere attorno ai pronunciamenti conciliari il massimo del consenso.
L'encilica fa un esplicito riferimento (al numero 12 e alla nota 19) a questo discorso di metodo: "Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo" E se è "giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale", d'altra parte "coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta" (Caritas in veritate, 12).
Nel Discorso del 2005 l'esemplificazione della "fedeltà dinamica" riguardava con grande piglio il punto più controverso della dottrina conciliare circa la libertà religiosa (si veda, in quell'intervento, la bella pagina con cui a partire dal caso Galileo si approda alla formulazione conciliare). Nell'enciclica l'esercizio dell'ermeneutica conciliare si distende pacatamente a rettificare la cesura tra prima e dopo il concilio per quanto concerne la dottrina sociale: "La Populorum progressio e il concilio Vaticano ii non rappresentano una cesura tra il magistero sociale di Paolo vi e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa" (n. 12).
L'idea di "fedeltà dinamica", di "rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa" riprende la nozione di Chiesa che è traditio tradens e che trova nel traditum un suo necessario, ma non esaustivo discernimento delle istanze della storia. Essa esige, dunque, un'ermeneutica che non accentui le rotture, ma ritrovi sempre la continuità creativa (di guardiniana memoria) della vita e nella vita della Chiesa per potersi "rinnovare alle origini". L'atto ermeneutico è anzitutto un atto pratico con cui la Chiesa non solo ripensa i suoi principi dottrinali connettendoli all'origine della Parola di Dio, ma insieme discerne il tempo attuale dentro l'alveo della tradizione vivente.
Nel contesto del Discorso programmatico, il Papa ribadiva che "è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma". Continuità a livello dei principi e delle decisioni strategiche, necessaria flessibilità a livello dei discernimenti pratici riferiti alle "decisioni (riguardanti) cose contingenti". Così il Papa suggeriva allora che "bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare" (ivi).
L'"ermeneutica della riforma" rimanda dunque a una "pratica del discernimento storico" (la vita della Chiesa nella sua creativa continuità), di cui la dottrina sociale della Chiesa rappresenta, per così dire, la condensazione della voce del magistero papale che rilegge e si riposiziona di fronte al mutamento sociale.
Prima di procedere a svolgere il tema dell'enciclica (lo sviluppo integrale dei popoli), il Papa sente il bisogno di collocarlo nel quadro del suo magistero complessivo, in particolare nel punto focale della sua prima enciclica programmatica Deus caritas est. L'audace introduzione riveste una duplice funzione: collegare la dottrina sociale con il centro del Mistero trinitario, mostrando come la caritas teologale si irradi in re sociali; fornire un'interpretazione forte della caritas come principio istitutivo della dottrina sociale, che la sottragga a una comprensione ridotta e irrilevante. Come se la carità fosse solo un correttivo accanto e parallelo al principio della giustizia, su cui soltanto si reggerebbero i rapporti sociali: "La carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8. 16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, "Dio è carità": dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Per evitare un'interpretazione "marginale" e "sentimentale" della carità rispetto ai rapporti sociali in ipotesi regolati dalla (sola) giustizia (e compresi alla luce della "sola" ragione, magari "laica"), Benedetto XVI sente il bisogno di potenziarne la nozione riferendola alla verità della visione dell'uomo, su cui non solo essa si deve misurare, ma che esprime esattamente la forma piena della vita umana, personale e sociale.
Di qui l'importanza strategica dell'introduzione all'enciclica, che forma, per così dire, il quadro di riferimento teorico della successiva ripresa della nozione di sviluppo integrale. Caritas in veritate indica l'asse con cui la carità è coestensiva a una comprensione solidale dei rapporti sociali: essi sono giusti non solo se danno a ciascuno il suo, ma se si radicano e, insieme, alimentano quei legami sociali e culturali con cui l'uomo perviene a se stesso (la coscienza di sé), decidendosi dinanzi al proprio destino (il compimento personale) all'interno dell'alleanza sociale (il bene comune).
Proprio questo ingresso, che a taluni potrà apparire persino ardito, come se ci si trovasse in una baita davanti alla parete altissima che svetta sulla cima maggiore, è l'antidoto a una comprensione terapeutica e medicinale della caritas. Esso, infatti, curerebbe i rapporti nella città dell'uomo e nel concerto delle nazioni, una volta che la giustizia avesse fallito il suo compito, compensando i rapporti "giusti", quando fossero feriti e lacerati, con i rapporti "buoni" che provengono dall'iniziativa libera dei soggetti privati e/o di gruppo. In tal modo la carità teologale (la comunione con Dio e la comunione fraterna) non avrebbe un risvolto pubblico: la "fraternità" che pure l'Illuminismo aveva emblematicamente indicato nella sua triade, nientemeno come erede della tradizione occidentale, non avrebbe alcun rilevo pubblico, se non perché raccoglie le vittime e cura i feriti lasciati sul campo nell'agone sociale.
Il valore "politico" della carità è risolto nella sua funzione terapeutica, ma non presiede e non alimenta il rapporto sociale. Per questo il Papa sente "il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della "veritas in caritate" (Efesini, 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale" (n. 2).
La caritas in veritate è, dunque, la sfida per sottrarre la dottrina sociale della Chiesa a una comprensione "sentimentale" dell'aspetto solidale che deve animare i rapporti tra gli uomini e tra i popoli. In un'espressione icastica, il Papa indica con chiarezza questa deriva: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali" (n. 4). "Marginali" rispetto alle regole del vivere civile, il quale non si lascerebbe in nessun modo dirigere dalle forme della relazione buona con l'altro, come se le forme buone della relazione libera fossero solo o terapeutiche o compensative dei modi vincolanti della relazione giusta, una volta fallita o ferita.
Occorre, dunque, arrivare a discutere lo schema che separa e accosta giustizia e carità. Afferma il Papa, infatti, che: "La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. E, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi" (n. 5). La verità è ciò che consente di tenere insieme l'eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia: la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall'eccedenza del dono e del perdono. Essa ha bisogno dell'alleanza tra gli umani che tende al "bene comune" (e non solo alla salvaguardia parcellizzata dei "beni comuni") come l'atmosfera che fa respirare i rapporti giusti, regolati dal diritto. Nei numeri 6 e 7, giustizia e bene comune sono indicati come le mediazioni operative della caritas in veritate. Essi non possono non riferirsi all'immagine dello sviluppo integrale dell'uomo. All'interno di tale quadro si dispiega il tema dell'enciclica.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
Il cristianesimo alla base dello Stato liberale - I diritti umani? Prima non c'erano - Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva del convegno "I quesiti del futuro: religione e cultura politica", organizzato dalla Fondazione Adenauer di Roma e dal Centro di Studi Europei di Bruxelles e tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana. - di Marcello Pera - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
I diritti umani sono (dovuti a, basati su) una scelta morale. Mai come in questo caso, è la morale che fonda il diritto. Se si scrive in una legge giuridica che gli uomini sono tutti uguali, è perché si crede che esista una legge morale che stabilisce che gli uomini devono essere tutti uguali. È la legge morale che dà forza ai nostri diritti fondamentali. È la legge morale che li rende intangibili. È la legge morale che li rende universali.
Quale legge morale? Questa è una domanda che la cultura politica europea oggi non si fa più, anche se la sollevò sessanta anni fa al momento dell'uscita dalla barbarie nazista e un po' la ripeté al crollo del comunismo. Se se la facesse, troverebbe proprio nella storia europea la risposta adatta. Perché, sì, noi siamo figli della cultura greca, ma non è nella Grecia che è nata l'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti, del cittadino della polis come del barbaro. Siamo eredi della tradizione romana, ma non è a Roma che si predicava che gli uomini sono tutti uguali, il civis romanus quanto lo schiavo o il liberto. Siamo, alcuni, anche un po' mescolati con la tradizione araba, ma non è nell'islam che il rispetto di tutti, credenti e infedeli, uomini e donne, è un principio religioso fondamentale. No. La legge morale da cui dipende la cultura dei diritti umani è la legge morale cristiana.
Perché lo è? Perché nel cristianesimo, e più in generale nella tradizione biblica, l'uomo è creato a immagine di Dio. E se l'uomo rispecchia Dio fino a essere fatto come lui, allora ogni uomo è una persona, è figlio di Dio, fratello di ogni altro uomo, membro della stessa famiglia. Questa filiazione - un'autentica genealogia concettuale - la spiegò bene, a quelli che già la sapevano e a quelli che non volevano saperla più, Giovanni Paolo ii in una sua Esortazione apostolica del 2003 non a caso intitolata all'Europa. Egli disse: "Dalla concezione biblica dell'uomo, l'Europa ha tratto il meglio della sua cultura umanistica, ha attinto ispirazione per le sue creazioni intellettuali e artistiche, ha elaborato norme di diritto e, non per ultimo, ha promosso la dignità della persona, fonte di diritti inalienabili" (Ecclesia in Europa, 25). E aggiunse: "Certamente non si può dubitare che la fede cristiana appartenga, in modo radicale e determinante, ai fondamenti della cultura europea. Il cristianesimo, infatti, ha dato forma all'Europa, imprimendovi alcuni valori fondamentali. La modernità europea stessa che ha dato al mondo l'ideale democratico e i diritti umani attinge i propri valori dalla sua eredità cristiana" (ibidem, 108).
Ecco allora una risposta alla nostra domanda. La scelta morale che sta alla base dei diritti umani è la scelta morale cristiana. E qui sarebbe inutile ripetere una risposta a chi non capisce o finge di non capire: non è un'obiezione che la Chiesa cattolica abbia impiegato quasi due millenni per proclamare formalmente i diritti umani, o che molti prelati di casa nostra pongano ancora mano all'aspersorio al solo sentir parlare di liberalismo (mentre si inginocchiano quando sentono dire di democrazia, socialismo, umanismo, e così via). Il punto è concettuale. Come siamo d'accordo che, se si toglie il cristianesimo, non si spiega l'Europa, allo stesso modo dovremmo essere d'accordo nel dire che, se si toglie la morale cristiana, si toglie anche il fondamento dei nostri Stati liberali.
È qui che il secolarismo odierno sbaglia. Nella sua versione corrente, esso intende negare il valore positivo della religione cristiana, oppure eliminarla dalla cultura politica, oppure attribuirle solo un valore consolatorio nel foro privato. Sembrano due omaggi ai princìpi della tolleranza e della cittadinanza, invece sono due errori.
Il primo errore riguarda le conseguenze di questo secolarismo. Se è vero che il fondamento del nostro Stato liberale è una scelta morale cristiana, e se è vero che lo Stato liberale è uno Stato secolare, allora, come ho già detto, senza quel fondamento, si mette a rischio lo stesso Stato liberale e secolare. Esso diventa una cittadella senza guarnigione: come si potrebbe sostenerlo e difenderlo?
Il secondo errore riguarda la mancanza di comprensione di sé da parte del secolarismo. Ho citato le due principali ragioni addotte a sua difesa. Limitiamoci alla tolleranza. Con quale argomento fu introdotta, ad esempio da John Locke, questa idea e con quale argomento la si difende pure oggi? Con l'argomento che il magistrato civile, l'autorità politica, non è competente sulle questioni di coscienza. Ma perché l'autorità politica dovrebbe disinteressarsi della religione dei suoi cittadini? Non ha forse interesse a tenerli uniti? Non ha forse l'obbligo di usare la forza contro chi volesse trasgredire le norme della convivenza adducendo convincimenti religiosi? Non è tenuta a giudicare quale religione di quale gruppo è meglio confacente all'ordine che essa deve tutelare?
No, non è pragmatico l'argomento a favore della tolleranza. L'argomento vero è che l'uomo è contemporaneamente due cose: è coscienza riflettente e animale razionale e sociale. Più precisamente, è anima e corpo. Come anima, l'uomo è in contatto con il suo Dio, a lui solo risponde e di fronte a lui soltanto si fa testimone della propria fede e responsabile dei propri atti. Come corpo, è un cittadino, è sottoposto all'autorità politica e a essa deve obbedienza. L'anima è di Dio, il cittadino è dello Stato. Questo, chiaramente, è un argomento religioso, più precisamente è la concezione religiosa cristiana del "dare a Dio e dare a Cesare", della separazione fra Stato e Chiesa. È da questa concezione che nasce la tolleranza: Cesare non può entrare nel rapporto che l'uomo ha con Dio e perciò Cesare deve rispettare, essere tollerante, con ogni cittadino. E così deve essere ogni uomo rispetto a ogni altro.
Per precisare e chiudere su questo punto. L'idea della tolleranza politica presuppone una teologia politica cristiana (esattamente come, per dirla in breve, l'idea della tolleranza scientifica, cioè l'idea che la sfera della scienza non interferisce con la sfera della fede, presuppone la metafisica cristiana di Galileo e altri, secondo cui Dio è autore e del libro della natura e del libro della Scrittura). Non a caso l'idea della tolleranza nasce in Europa da grandi pensatori cristiani - con la sola eccezione, ma complicata, di Spinoza - almeno a partire da Sebastian Castellio (De haereticis an sint persequendi, 1544) fino ai sommi Locke e Kant. Se il secolarismo oggi nega qualunque rapporto fra politica e religione, nega anche il fondamento di quella stessa tolleranza che vuole promuovere e finisce col distruggere se stesso. È esattamente la parabola dell'Illuminismo: nato come movimento di liberazione, si è liberato delle vecchie gerarchie sociali e intellettuali, comprese quella della Chiesa, poi si è liberato anche di Dio, e alla fine ha perduto se stesso.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” - Autore: Oliosi,Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 30 settembre 2009
«San Venceslao, emblema storico della nobile Nazione ceca, questo grande Santo, che voi amate chiamare “eterno” Principe dei Cechi, ci invita a seguire sempre e fedelmente Cristo, ci invita ad essere santi. Egli stesso è modello di santità per tutti, specialmente per quanti guidano le sorti delle comunità e dei popoli. Ma ci chiediamo: ai nostri giorni la santità è ancora attuale? O non è piuttosto un tema poco attraente ed importante? Non si cercano oggi più il successo e la gloria degli uomini? Quanto dura, però, e quanto vale il successo terreno?
Il secolo passato – e questa vostra Terra ne è stata testimone – ha visto cadere non pochi potenti, che parevano giunti ad altezze quasi irraggiungibili. All’improvviso si sono ritrovati privi del loro potere. Chi ha negato e continua a negare Dio (cioè la ricerca del vero e del bene) e, di conseguenza, non rispetta l’uomo, sembra avere via facile e conseguire un successo materiale. Ma basta scrostare la superficie per costatare che, in queste persone, c’è tristezza e insoddisfazione. Solo chi conserva nel cuore il santo “timore di Dio” ha fiducia nell’uomo e spende la sua esistenza per costruire un mondo più giusto e fraterno. C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili”, pronte a diffondere in ogni ambito della società quei principi e ideali cristiani ai quali si ispira la loro azione. Questa è la santità, vocazione universale di tutti i battezzati, che spinge a compiere il proprio dovere con fedeltà e coraggio, guardando non al proprio interesse egoistico, bensì al bene comune, e cercando in ogni momento la volontà divina. (…)Il loro esempio incoraggia chi si dice cristiano ad essere credibile, cioè coerente con in principi e la fede che professa. Non basta infatti apparire buoni e onesti; occorre esserlo realmente. E buono e onesto è colui che non copre con il suo io la luce di Dio, non mette davanti se stesso, ma lascia trasparire Dio (attraverso il desiderio del vero e la disponibilità al bene).
Questa è la lezione di vita di san Venceslao, che ebbe il coraggio di anteporre il regno dei cieli al fascino del potere terreno. Il suo sguardo non si staccò mai da Gesù Cristo, il quale patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Quale docile discepolo del Signore, il giovane sovrano Venceslao si mantenne fedele agli insegnamenti evangelici che gli aveva impartito la santa nonna, la martire Ludmilla. Seguendoli, ancor prima di impegnarsi nel costruire una convivenza pacifica all’interno della Patria e con i Paesi confinanti, si adoperò per propagare la fede cristiana, chiamando sacerdoti e costruendo chiese. Nella prima “narrazione” paleoslava si legge che “soccorreva i ministri di Dio e abbellì anche molte chiese” e che “beneficava i poveri, vestiva gli ignudi, dava da mangiare agli affamati, accoglieva i pellegrini, proprio come vuole il Vangelo. Non tollerava che si facesse ingiustizia alle vedove, amava gli uomini, poveri o ricchi che fossero”. Imparò dal Signore ad essere “misericordioso e pietoso” ed animato da spirito evangelico giunse persino a perdonare il fratello, che aveva attentato alla sua vita. Giustamente, pertanto lo invocate come “Erede” della vostra Nazione, e, in un canto a voi ben noto, gli domandate di non permettere che essa perisca» [Benedetto XVI, Omelia, 28 settembre 2009].
Per la convinzione della Chiesa Cattolica di tutti i tempi la politica appartiene alla sfera della ragione comune a tutti, la ragione naturale restaurata dalla fede. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali della prudenza, della temperanza, della giustizia, della fortezza animate dalla ricerca del vero cioè di Dio e dall’amore verso ogni uomo. Il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione. La politica non si desume solo dalla fede, ma dal rendere ragione della fede, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”. In questo senso lo Stato è uno Stato laico, nel senso positivo.
Ma quando la ragione non ricerca più la verità e si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo senza possibilità di un’etica la fede può illuminare la ragione, può sanare una ragione ammalata, una coscienza comune oscurata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisca il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla. Ecco perché anche oggi c’è bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” rendendo ragione come san Venceslao, santi pronti a compiere il proprio dovere con fedeltà, guardando non al proprio interesse egoistico, bensì al bene comune a cominciare dai poveri, e ricercando in ogni momento la volontà divina cioè il vero e il bene.
RU486/ Roccella: fermeremo chi usurpa le prerogative del Parlamento - INT. Eugenia Roccella giovedì 1 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
«Non confondiamo un passaggio procedurale con la commercializzazione del farmaco». Arriva in serata la dichiarazione del sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, dopo che il Cda dell’Aifa ha approvato il verbale relativo alla seduta di fine luglio in cui l’Agenzia italiana del farmaco ha approvato in linea di principio la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Per la “determina”, infatti, cioè l’atto che contiene le indicazioni tecniche sull’uso della pillola, occorrerà attendere il 19 ottobre, quando sarà concluso il lavoro della commissione d’indagine parlamentare. «Non c’è nessuna vittoria e nessuna sconfitta: quello di stasera - ha detto in una nota il sottosegretario Roccella - è solo uno dei tanti passaggi procedurali in cui si articola la procedura d’immissione in commercio del farmaco».
I temi “eticamente sensibili” continuano a dividere gli schieramenti. Dopo il botta e risposta Fini-Gasparri, è stata la volta di Dorina Bianchi, costretta di fatto a dimettersi dall’incarico di relatore della commissione d’indagine sulla Ru486 dopo il fuoco di fila del suo stesso partito. «Se il Pd dice che non bisogna conoscere, mi adeguo, ma non è il Pd che mi immaginavo» ha dichiarato Bianchi nei giorni scorsi. Nel frattempo il dibattito sul testamento biologico resta nel vivo. I “finiani” hanno scritto al Foglio invitando a riconoscere i «limiti del legislatore» e a rispettare «i contenuti “interni” che sono interamente affidati alle relazioni morali e professionali che legano il malato al suo medico e ai suoi congiunti». Ha ripreso i loro argomenti Angelo Panebianco, nell’editoriale del Corriere di ieri, esortando a fare una legge, se necessaria, il più possibile “liberale”. Ilsussidiario.net ne ha parlato col sottosegretario Roccella.
Panebianco sostiene che l’iper-regolamentazione giuridica va evitata e un modo per farlo sarebbe quello di salvaguardare la “zona grigia” che sussiste tra il medico, il solo che può prendere decisioni pertinenti, e il paziente, sottraendo allo stato la sfera di una decisione così delicata e personale. Che ne pensa?
Non mi piace parlare di “zona grigia”, perché allude ad un’indifferenza etica. Casomai il problema sarebbe stato salvaguardare una “zona d’ombra”, privata, di non interferenza. Dico sarebbe stato, perché invece lo stato l’ha invasa eccome, con le sentenze della magistratura. Ma ora tutti i discorsi sulla non interferenza sono superati dagli eventi: il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti e il caso Englaro in Italia. Punto. Non possiamo far finta che quest’invasione non sia avvenuta.
Permettiamo dunque ad altre leggi di regolamentare il rapporto esclusivo non solo del paziente con il medico, ma della persona con la propria morte?
I poliziotti negli Usa hanno tenuto i genitori lontani dalla figlia che stava morendo di disidratazione e denutrizione, impedendo loro perfino di toccarla. Eluana è stata sottratta alle persone che l’hanno tenuta in cura per anni ed è morta sola, in base alla ricostruzione delle sue volontà presunte. Qui lo spazio del privato, della non interferenza è già stato violato dalle sentenze. Ecco perché non si può tornare indietro se non attraverso una normativa chiara, che impedisca altre interferenze.
Il testamento biologico sta facendo discutere. Non rischiamo di lasciare i malati in balia dello scontro ideologico tra fazioni contrapposte?
Il vero rischio, se non si fa una legge, è di continuare a dibattere su posizioni teoriche, come se nulla fosse accaduto, come se un caso Englaro non ci fosse mai stato. A questo punto delle cose non possiamo più scegliere tra l’interferenza e la non interferenza, ma occorre sapere quale interferenza vogliamo: se quella democratica del voto parlamentare, che dovrebbe rispecchiare la volontà popolare e se non la rispecchia ammette dei correttivi, come le elezioni o un referendum, oppure quella di una magistratura che usurpa le prerogative del Parlamento.
Il ddl in esame dunque non intacca il principio della reciproca responsabilità medico paziente?
Al contrario, la libertà del medico e quindi la libertà nel rapporto medico paziente è garantita proprio da questa legge, che garantendo la non vincolatività delle Dat è una legge “morbida” ed è agli antipodi di una visione del medico come esecutore burocratico, che sopprime ogni forma di relazione.
Il governo, per usare le parole di Sartori nel suo editoriale sul Corriere, sta pensando ad un testamento biologico “alla vaticana”: in modo poco laico si è fatto dettare legge dai vescovi. È d’accordo?
Sono tre legislature che il Parlamento cerca di fare una legge e per vari motivi finora non c’è riuscito. Dopo l’intervento della magistratura nel caso Englaro proprio il Parlamento ha avuto uno scatto d’orgoglio e ha deciso di affrontare la questione per risolverla. Il percorso di questa legge dimostra piuttosto che è strumentale quello che dice Sartori. La Chiesa esprime la sua posizione, come ha sempre fatto.
La posizione di Fini ormai è nota. Cosa pensa della lettera dei “finiani” in cui chiedono il rispetto della sfera personale e di quella laica della politica? Fini con la sua battaglia sulla laicità ha dettato il passo?
No, mi limito a constatare che anche Fini difende la sua opinione, in un dibattito e in un partito che ha sempre lasciato e lascia ampia libertà di coscienza. Quella stessa libertà di coscienza garantirà che il voto segreto sarà trasparente come il voto palese. In Senato i voti contrari sono sempre rimasti gli stessi, sia a voto segreto che palese. Se le persone che hanno firmato quella lettera riterranno di votare contro un eventuale ddl, sarà l’espressione di un partito composito. Non come il Pd, dove la libertà di coscienza è in discussione.
Franceschini ha detto che nel Pd sulle questioni etiche si decide a maggioranza e Dorina Bianchi si è dimessa dalla commissione di indagine sulla Ru486. «Non è il Pd che mi immaginavo», ha detto la senatrice.
È la dimostrazione di quello che sto dicendo. Ma segnali gravi erano già emersi perché è stato Bersani a dire che nel Pd non ci poteva essere libertà di coscienza ma una posizione di partito. Mi sembra che tutti i candidati alla segreteria siano d’accordo e questo e davvero preoccupante, a maggior ragione in un grande partito. Non è possibile una convivenza se non a partire dal riconoscimento della libertà di coscienza. Trovo paradossale che chi combatte per il diritto a morire come un gesto di libertà personale, poi neghi la libertà di coscienza sul voto parlamentare: quella non è più espressione di libertà personale?
Tornando alla Ru 486, come commenta le polemiche sulla istituzione della commissione? Anche in questo caso Fini era stato esplicito: il Parlamento non è competente.
E giustamente Gasparri gli ha risposto che la Ru486 non è un farmaco e noi non siamo dei farmacisti. La questione tecnica, cioè la modalità dell’aborto farmacologico, non può non essere politica. L’aborto in Italia deve avvenire nelle strutture pubbliche, come vuole la legge 194. E la Ru486 è compatibile con quanto prescritto dalla 194? Il fatto che l’aborto nel nostro paese avvenga nelle strutture pubbliche è una garanzia di sicurezza per la salute delle donne, ma anche una garanzia per le politiche di prevenzione e di riduzione, tant’è vero che l’Italia è l’unico paese in Europa in cui l’aborto è costantemente diminuito. Per discutere di questo non c’è luogo più pertinente del Parlamento. Non nascondiamoci quindi, per favore, dietro il paravento tecnico. La commissione è pienamente giustificata.
LA LEGGE SULLA FINE DELLA VITA - CON IPPOCRATE E CON OGNI MALATO SENZA COSTRUIRE «ZONE GRIGIE» - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 1 ottobre 2009
I l rinvio a dicembre della discussione alla Camera della legge sul 'fine vita' può avere diverse motivazioni 'politiche', tutte allarmanti (ed alcune anche subdole), ma ha una sola possibile spiegazione 'bioetica': a molti, a troppi (sia parlamentari che influenti opinionisti) la sostanza specifica della questione evidentemente non è chiara. È solo così che si possono capire gli appelli contro l’iper-regolamentazione giuridica della fine vita e le martellanti esortazioni contro ogni intrusione dello Stato in quella delicatissima 'zona grigia', all’interno della quale sarebbero legittimati a muoversi, con la massima discrezionalità, solo medici e familiari. Ciò che, in buona sostanza, si chiede ormai da tante parti è che la legge sul fine vita, se proprio la si vuole fare, sia il più possibile 'liberale'… Da tempo sostengo, ampiamente inascoltato, che il liberalismo è un prezioso principio politico- culturale (e probabilmente anche economico- sociale), che è però illusorio sperare di poter applicare ai problemi bioetici che, nella maggior parte dei casi, vanno affrontati e risolti in altro modo, applicando il principio ippocratico della difesa della vita e non facendo appello alla 'libertà' o all’ 'autodeterminazione' del malato (soggetto debole, influenzabile, il più delle volte scarsamente informato e che, soprattutto nelle situazioni di fine vita, ha una sola esigenza prioritaria, quella di non essere abbandonato).
È giusto approvare una legge che imponga al medico il dovere di tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, sottoscritte in data certa da soggetti competenti e informati e purché esplicitamente prive di indicazioni eutanasiche? È più che giusto, anzi è doveroso ed urgente, almeno per escludere che possano essere emanate dalla magistratura altre sentenze, che, come quelle relative al caso Englaro, hanno riconosciuto valide generiche dichiarazioni orali, di data incerta, formulate da persone certamente poco informate e dal contenuto almeno potenzialmente eutanasico. È altresì essenziale che questa legge non lasci dubbi sulla non vincolatività di queste dichiarazioni per il medico, lasciandogli la libertà di seguirle o di non seguirle, non però in base al suo arbitrio o alle indicazioni che possono arrivargli dai familiari o dai fiduciari del paziente (indicazioni che potrebbero avere motivazioni anche molto ambigue), ma a seguito di una rigorosa valutazione, caso per caso, della fondatezza di quelle dichiarazioni, in ordine alla loro completezza e coerenza, alle possibilità terapeutiche reali che sono a disposizione in ciascun singolo caso e al dovere di evitare ogni forma di accanimento. In altri termini, quello che la legge può, e nella situazione attuale, deve fare è ribadire due principi ippocratici fondamentali: 1) la vita non è disponibile da parte di nessuno, nemmeno da parte del paziente (altrimenti dovremmo legittimare l’aiuto al suicidio, anche a carico di soggetti 'sani'!) e 2) il medico ha un solo, esclusivo dovere, quello di agire come terapeuta a favore della vita (e l’accanimento non ha nulla a che vedere con una terapia!), con l’unico limite di dover rispettare l’eventuale decisione del paziente di sottrarsi alle cure. Alimentazione e idratazione non sono cure: lo dimostra il fatto che se si cessa di alimentare il malato, questi non muore per il progredire della sua patologia, ma perché gli viene sottratto un sostegno vitale fondamentale (è ciò che comunemente si intende dire, in modo scientificamente impreciso, ma simbolicamente perfetto, quando si afferma che Eluana Englaro è morta 'di fame e di sete').
Ecco perché non si può, sinceramente, parlare di iper-regolamentazione giuridica a carico di una legge, come quella approvata al Senato, che, pur con tutte le sue imperfezioni, garantisce comunque questi due principi, in sé e per sé irrinunciabili, contro ogni tentativo di manipolazione (proveniente da qualunque parte: dai medici, dai familiari, dai magistrati). Chi continua a preoccuparsi di un’ipertrofia legislativa in bioetica e a insistere sulla richiesta di una legislazione 'liberale', rispettosa di tutte le 'zone grigie' possibili e immaginabili, non si rende evidentemente conto che non è questa la vera posta in gioco, ma l’abbandono del modello ippocratico della medicina, il modello nel quale la difesa della vita e il rispetto del malato sono indissolubilmente congiunti. Se questa fosse l’autentica, subdola ragione che motiva l’operato di quanti puntano a rinviare (o, addirittura, ad affossare) la discussione della legge sul fine vita alla Camera, dovremmo preoccuparcene tutti e moltissimo.
È giunto il momento di rilanciare la proposta di riconoscere la capacità giuridica ad ogni essere umano sin dal concepimento - L’embrione, una persona - DI CARLO CASINI – Avvenire, 1 ottobre 2009
«Come un individuo umano non sarebbe una persona umana?» Basterebbe questa domanda posta da Giovanni Paolo II al n. 60 dell’Evangelium
vitae a contrastare la tesi di Ivan Illich, secondo il quale «Le chiese, utilizzando il loro potere di creare miti consacrano una nozione astratta di vita umana», che porterebbe alla corruzione della fede cristiana. La tesi di Illich è già stata criticata da Lucietta Scaraffia su l’Osservatore Romano del 9 settembre scorso, ma credo opportuno mettere a fuoco la questione con la lente di innumerevoli dibattiti sul tema della vita umana. L’accusa rivolta alle chiese deve essere rovesciata proprio verso la «cultura abortista» nella quale sono impronunciabili parole come «diritto alla vita fin dal concepimento » o definizioni dell’embrione come «individuo», «soggetto», «persona ». In non pochi filoni di questa cultura è presente, invece, «una nozione astratta di vita umana» mitizzata con l’affermazione di una continuità della sua evoluzione millenaria per la quale, come non vi sarebbe soluzione di continuità tra vita vege- tale, animale ed umana, così non vi sarebbe distinzione tra uno spermatozoo e un embrione. In questa visione si possono anche accettare, sebbene a malincuore, espressioni come «rispetto della vita» o «tutela della vita», supponendo, però, che la vita embrionale è qualcosa di indefinibilmente generico e non quella di «un individuo vivente appartenente alla specie umana», cioè,– più semplicemente – di un uomo. Quando poi le argomentazioni di ragione e di scienza rendono incontestabile la tesi della individualità umana del concepito, allora la replica dell’abortismo è: «essere umano - – dobbiamo concedere – ma non persona».
Dunque sul concetto di «persona» si accentra la radice di ogni discussione. Ma registro non poca timidezza, anche da parte di chi fa riferimento all’antropologia cristiana, nell’usare il termine «persona». So bene che l’attribuzione di un significato convenzionale alla parola – distinguendo cioè l’uomo adulto e cosciente (ipoteticamente «persona») dall’uomo in quanto tale – non toglie teoricamente forza al diritto alla vita che appartiene all’essere umano senza ulteriori specificazioni, vecchio o giovane che sia, nato o non nato, qualificabile o no come «persona». Tuttavia la distinzione tra uomo e persona è estremamente pericolosa. In primo luogo perché accetta il linguaggio e l’inganno degli avversari. In secondo luogo perché introduce una inaccettabile discriminazione sull’uomo violando il principio di eguaglianza. Solo affermando che «persona» è l’altro nome dell’uomo, mai attribuibile agli animali, indicatore di un valore che è intrinseco all’esistere umano, a prescindere da qualsiasi ulteriore qualità, è portata alle ultime conseguenze quella idea moderna e laica di «eguale dignità», che ha sconfitto la schiavitù, la discriminazione dei neri, la sudditanza delle donne. A ben guardare l’accusa di confessionalismo sempre rivolta ai cattolici è respinta al mittente, solo se abbiamo il coraggio di chiamare «persona» l’embrione umano. È la pretesa di difendere una vita generica che ha il sapore del mito, ad offendere la laicità, non certo la laicissima proclamazione del principio di non discriminazione.
Si aggiunga che l’affermazione del concepito come individuo umano e quindi soggetto e persona non è un inutile accademico esercizio verbale. Anche nell’angoscia e nella solitudine il coraggio materno può vincere. Ma il coraggio ha bisogno di una motivazione ragionevole: il figlio è figlio, un bambino, una persona. Questa consapevolezza è assolutamente indispensabile nel momento in cui pillole di vario genere banalizzano e privatizzano l’aborto. Battersi perché la Ru486 non sia usata in Italia e per garantire l’obiezione di coscienza di medici e paramedici riguardo alla prescrizione e somministrazione della pillola del giorno dopo è cosa buona e doverosa, ma non riusciremo ad impedire, in Italia e all’estero l’uccisione chimica di una grande quantità di bambini non ancora nati. Basterà l’educazione? L’educazione è fatta anche dall’aria che si respira, dalle parole che si sentono, soprattutto da quella espressione di razionalità collettiva che è la legge. La legge non è soltanto comando. È, prima ancora, guida all’azione, bussola orientatrice, indicazione di valori. Se non ci fosse stata una lunga lotta per proclamare l’uguaglianza tra bianchi e neri ci sarebbe ancora l’apartheid.
Sono convinto che una strategia di alto profilo per difendere la vita deve affrontare il cuore di tutte le questioni. E deve investire anche il livello politico-legislativo. L’ordinamento giuridico deve introdurre l’embrione umano nell’ambito del diritto come un «uguale» cioè come un soggetto, una persona. Non è una richiesta infondata. Essa è già stata accolta nella Convenzione americana dei Diritti umani del 1969 e in qualche Costituzione latino-americana. In Italia a cominciare dal 1996 il Comitato Nazionale di Bioetica ci ha annunciato più volte: «Vi è il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone». Non ho citato le ancora più forti parole della Dignitas personae di Benedetto XVI. Ho riportato un testo di un organismo scientifico laico dello Stato italiano. Giuliano Ferrara ha lanciato l’idea di chiedere all’Onu una «moratoria sull’aborto », intesa come integrazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo affinché vi si indichi che il diritto alla vita appartiene anche al concepito. La Camera dei Deputati ha recentemente votato una mozione per chiedere all’Onu che l’aborto non sia considerato mezzo di controllo delle nascite.
Prima di chiedere agli altri, cominciamo ad agire in casa nostra. Fin dal 1995 il Movimento per la vita ha presentato una proposta di legge popolare per includere tra le persone – tali considerate dal diritto – anche i concepiti.
È giunto il momento di rilanciarla. Quali Parlamentari e quali partiti vogliono rispondere a questo appello?
1) Il Papa traccia un bilancio del viaggio nella Repubblica Ceca - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
2) Gli stati vegetativi? Il medico 4 volte su 10 si sbaglia - (21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
3) Come leggere la «Caritas in veritate» - Niente sentimentalismi nella dottrina sociale - Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano. - di Franco Giulio Brambilla - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
4) Il cristianesimo alla base dello Stato liberale - I diritti umani? Prima non c'erano - Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva del convegno "I quesiti del futuro: religione e cultura politica", organizzato dalla Fondazione Adenauer di Roma e dal Centro di Studi Europei di Bruxelles e tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana. - di Marcello Pera - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
5) C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” - Autore: Oliosi,Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 30 settembre 2009
6) RU486/ Roccella: fermeremo chi usurpa le prerogative del Parlamento - INT. Eugenia Roccella giovedì 1 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
7) LA LEGGE SULLA FINE DELLA VITA - CON IPPOCRATE E CON OGNI MALATO SENZA COSTRUIRE «ZONE GRIGIE» - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 1 ottobre 2009
8) È giunto il momento di rilanciare la proposta di riconoscere la capacità giuridica ad ogni essere umano sin dal concepimento - L’embrione, una persona - DI CARLO CASINI – Avvenire, 1 ottobre 2009
Il Papa traccia un bilancio del viaggio nella Repubblica Ceca - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 30 settembre 2009 (ZENIT.org).- L’Udienza generale di questa mattina si è svolta in piazza San Pietro dove il Santo Padre - proveniente in elicottero dalla residenza estiva di Castel Gandolfo - ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente viaggio apostolico nella Repubblica Ceca.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Come è consuetudine dopo i viaggi apostolici internazionali, profitto dell’odierna Udienza generale per parlare del pellegrinaggio che ho compiuto nei giorni scorsi nella Repubblica Ceca. Lo faccio anzitutto come atto di ringraziamento a Dio, che mi ha concesso di compiere questa visita e che l’ha largamente benedetta. È stato un vero pellegrinaggio e, al tempo stesso, una missione nel cuore dell’Europa: pellegrinaggio, perché la Boemia e la Moravia sono da oltre un millennio terra di fede e di santità; missione, perché l’Europa ha bisogno di ritrovare in Dio e nel suo amore il fondamento saldo della speranza. Non è un caso se i Santi evangelizzatori di quelle popolazioni, Cirillo e Metodio, sono patroni d’Europa insieme con san Benedetto. "L’amore di Cristo è la nostra forza": questo è stato il motto del viaggio, un’affermazione che riecheggia la fede di tanti eroici testimoni del passato remoto e recente, penso in particolare al secolo scorso, ma che soprattutto vuole interpretare la certezza dei cristiani di oggi. Sì, la nostra forza è l’amore di Cristo! Una forza che ispira e anima le vere rivoluzioni, pacifiche e liberatrici, e che ci sostiene nei momenti di crisi, permettendo di risollevarci quando la libertà, faticosamente recuperata, rischia di smarrire se stessa, la propria verità.
L’accoglienza che ho riscontrato è stata cordiale. Il Presidente della Repubblica, al quale rinnovo l’espressione della mia riconoscenza, ha voluto essere presente in diversi momenti e mi ha ricevuto insieme con i miei collaboratori nella sua residenza, lo storico Castello della Capitale, con grande cordialità. L’intera Conferenza Episcopale, in particolare il Cardinale Arcivescovo di Praga e il Vescovo di Brno, mi hanno fatto sentire, con grande calore, il profondo legame che unisce la Comunità cattolica ceca al Successore di san Pietro. Li ringrazio anche per aver preparato accuratamente le celebrazioni liturgiche. Sono grato pure a tutte le Autorità civili e militari e a quanti in diversi modi hanno cooperato alla buona riuscita della mia visita.
L’amore di Cristo ha iniziato a rivelarsi nel volto di un Bambino. Giunto a Praga, infatti, ho compiuto la prima tappa nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove si venera il Bambino Gesù, noto appunto come "Bambino di Praga". Quell’effige rimanda al mistero del Dio fatto Uomo, al "Dio vicino", fondamento della nostra speranza. Dinanzi al "Bambino di Praga" ho pregato per tutti i bambini, per i genitori, per il futuro della famiglia. La vera "vittoria", che oggi chiediamo a Maria, è la vittoria dell’amore e della vita nella famiglia e nella società!
Il Castello di Praga, straordinario sotto il profilo storico e architettonico, suggerisce un’ulteriore riflessione più generale: esso racchiude nel suo vastissimo spazio molteplici monumenti, ambienti e istituzioni, quasi a rappresentare una polis, in cui convivono in armonia la Cattedrale e il Palazzo, la piazza e il giardino. Così, in quel medesimo contesto, la mia visita ha potuto toccare l’ambito civile e quello religioso, non giustapposti, ma in armonica vicinanza nella distinzione. Rivolgendomi pertanto alle Autorità politiche e civili ed al Corpo diplomatico, ho voluto richiamare il legame indissolubile che sempre deve esistere tra libertà e verità. Non bisogna aver paura della verità, perché essa è amica dell’uomo e della sua libertà; anzi, solo nella sincera ricerca del vero, del bene e del bello si può realmente offrire un futuro ai giovani di oggi e alle generazioni che verranno. Del resto, che cosa attira tante persone a Praga se non la sua bellezza, una bellezza che non è soltanto estetica, ma storica, religiosa, in senso ampio umana? Chi esercita responsabilità nel campo politico ed educativo deve saper attingere dalla luce di quella verità che è il riflesso dell’eterna Sapienza del Creatore; ed è chiamato a darne testimonianza in prima persona con la propria vita. Solo un serio impegno di rettitudine intellettuale e morale è degno del sacrificio di quanti hanno pagato caro il prezzo della libertà!
Simbolo di questa sintesi tra verità e bellezza è la splendida Cattedrale di Praga, intitolata ai santi Vito, Venceslao e Adalberto, dove si è svolta la celebrazione dei Vespri con i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e una rappresentanza dei laici impegnati nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali. Per le Comunità dell’Europa centro-orientale questo è un momento difficile: alle conseguenze del lungo inverno del totalitarismo ateo, si stanno sommando gli effetti nocivi di un certo secolarismo e consumismo occidentale. Perciò ho incoraggiato tutti ad attingere energie sempre nuove dal Signore risorto, per poter essere lievito evangelico nella società e impegnarsi, come già avviene, in attività caritative, e ancor più in quelle educative e scolastiche.
Questo messaggio di speranza, fondato sulla fede in Cristo, l’ho esteso all’intero Popolo di Dio nelle due grandi Celebrazioni eucaristiche svoltesi rispettivamente a Brno, capoluogo della Moravia, e a Stará Boleslav, luogo del martirio di San Venceslao, Patrono principale della Nazione. La Moravia fa pensare immediatamente ai santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, e quindi alla forza inesauribile del Vangelo, che come un fiume di acque risanatrici attraversa la storia e i continenti, portando dovunque vita e salvezza. Sopra il portale della Cattedrale di Brno sono impresse le parole di Cristo: "Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro" (Mt 11,28). Queste stesse parole sono risuonate domenica scorsa nella liturgia, riecheggiando la voce perenne del Salvatore, speranza delle genti, ieri, oggi e sempre. Della signoria di Cristo, signoria di grazia e di misericordia, è segno eloquente l’esistenza dei santi Patroni delle diverse Nazioni cristiane, come appunto Venceslao, giovane re di Boemia nel secolo X, che si distinse per la sua esemplare testimonianza cristiana e fu ucciso dal fratello. Venceslao antepose il regno dei cieli al fascino del potere terreno ed è rimasto per sempre nel cuore del popolo ceco, come modello e protettore nelle alterne vicende della storia. Ai numerosi giovani presenti alla Messa di san Venceslao, provenienti pure dalle nazioni vicine, ho rivolto l’invito a riconoscere in Cristo l’amico più vero, che soddisfa le aspirazioni più profonde del cuore umano.
Debbo infine menzionare, tra gli altri, due incontri: quello ecumenico e quello con la comunità accademica. Il primo, tenutosi nell’Arcivescovado di Praga, ha visto riuniti i rappresentanti delle diverse Comunità cristiane della Repubblica Ceca e il responsabile della Comunità ebraica. Pensando alla storia di quel Paese, che purtroppo ha conosciuto aspri conflitti tra cristiani, è motivo di viva gratitudine a Dio l’esserci ritrovati insieme come discepoli dell’unico Signore, per condividere la gioia della fede e la responsabilità storica di fronte alle sfide attuali. Lo sforzo di progredire verso una unità sempre più piena e visibile tra noi, credenti in Cristo, rende più forte ed efficace il comune impegno per la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa. Quest’ultimo aspetto, che stava molto a cuore al mio amato predecessore Giovanni Paolo II, è emerso pure nell’incontro con i Rettori delle Università, i rappresentanti dei docenti e degli studenti ed altre personalità di rilievo in ambito culturale. In tale contesto ho voluto insistere sul ruolo dell’istituzione universitaria, una delle strutture portanti dell’Europa, che ha in Praga un Ateneo tra i più antichi e prestigiosi del continente, l’Università Carlo, dal nome dell’imperatore Carlo IV che la fondò, insieme con il Papa Clemente VI. L’università degli studi è ambiente vitale per la società, garanzia di libertà e di sviluppo, come dimostra il fatto che proprio dai circoli universitari prese le mosse a Praga la cosiddetta "Rivoluzione di velluto". A vent’anni da quello storico evento, ho riproposto l’idea della formazione umana integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità, per contrastare una nuova dittatura, quella del relativismo abbinato al dominio della tecnica. La cultura umanistica e quella scientifica non possono essere separate, anzi, sono le due facce di una stessa medaglia: ce lo ricorda ancora una volta la terra ceca, patria di grandi scrittori come Kafka, e dell’abate Mendel, pioniere della moderna genetica.
Cari amici, ringrazio il Signore perché, con questo viaggio, mi ha dato di incontrare un popolo e una Chiesa dalle profonde radici storiche e religiose, che commemora quest’anno diverse ricorrenze di alto valore spirituale e sociale. Ai fratelli e sorelle della Repubblica Ceca rinnovo un messaggio di speranza e un invito al coraggio del bene, per costruire il presente e il domani dell’Europa. Affido i frutti della mia visita pastorale all’intercessione di Maria Santissima e di tutti i Santi e le Sante di Boemia e Moravia. Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i formatori e gli studenti del Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae, esortandoli alla preghiera intensa e allo studio serio per approfondire la persona del Cristo. Sono lieto di accogliere i fedeli della diocesi di Sulmona-Valva, qui convenuti numerosi con il loro Vescovo, Mons. Angelo Spina, nel ricordo di San Pietro Celestino V. Mio fratello mi ha raccontato tante belle cose della sua visita a Sulmona. Saluto con piacere le delegazioni dei medici che stanno promuovendo vari progetti con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, uno dei quali in collaborazione anche con la Provincia di Roma. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, gli esponenti della Società cooperativa "Mirabilia Dei", il gruppo della Misericordia di Viareggio, come pure i fedeli della Contrada "Il Bruco", accompagnati dall’Arcivescovo di Siena Antonio Buoncristiani. Saluto i partecipanti al Convegno Internazionale Sturziano organizzato nel 50° della morte del Servo di Dio don Luigi Sturzo. L’esempio luminoso di questo presbitero e la sua testimonianza di amore, di libertà e di servizio al popolo sia stimolo e incoraggiamento per tutti i cristiani, e specialmente per quanti operano in campo sociale e politico perché diffondano, con la loro coerente testimonianza, il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa.
Rivolgo infine il mio saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Cari giovani, ascoltate Cristo, parola di verità, e accogliete con prontezza il suo disegno sulla vostra vita. Voi, cari ammalati, sentite Gesù accanto a voi e testimoniate con la vostra fiducia la forza vivificante della Croce. Voi, cari sposi novelli, con la grazia del Sacramento da poco ricevuto, irrobustite di giorno in giorno il vostro amore e camminate sulla via della santità.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Gli stati vegetativi? Il medico 4 volte su 10 si sbaglia - (21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
Si parla sempre (e spesso a sproposito) delle persone in stato vegetativo. Nei giornali e in televisione si scrivono e si sentono delle autentiche castronerie: stato vegetativo viene usato come sinonimo di coma, a stato vegetativo si accosta molto volentieri il termine 'permanente' che invece non può esistere per la scienza e non perchè lo dico io, ma perchè non lo sanno neppure i luminari. Poi la terza carica dello Stato (Gianfranco Fini, presidente della Camera) è arrivato a dire che una persona in stato vegetativo ha l'elettroencefalogramma piatto e allora verrebbe voglia di arrendersi.
In pochissimi hanno parlato di un fatto invece davvero eccezionale che andrebbe studiato con grande attenzione e dovrebbe farci muovere in maniera ancora più cauto quando trattiamo certi temi. Ecco il fatto: il 40% delle diagnosi, quando si parla appunto di stati vegetativi, è sbagliato.
Cioè: in 4 casi su dieci un medico ha detto che la persona x era in stato vegetativo, mentre invece quella persona capiva e sentiva, solo che non era in grado di esprimersi.
Lo studio, rivoluzionario, arriva dal Belgio ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neurology lo scorso luglio. Gli addetti ai lavori ne erano a conoscenza già da tempo. Spesso si confonde lo stato vegetativo on lo stato di minima coscienza. Lo studio ha mostrato che il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo erano in realtà in stato di minima coscienza e che il 10% dei pazienti ritenuti in stato di minima coscienza erano in realtà emersi da quella condizione ed erano ormai capaci di comunicare, anche se i loro medici non se n'erano accorti.
A tali dati allarmanti _ ha scritto il settimanale E vita _ ci permettiamo solo di aggiungere che probabilmente il tasso diagnostico di errore sarebbe stato assai più elevato se si fossero usate anche le indagini di risonanza magnetica funzionale, di PET e di neurofisiologia che hanno mostrato la possibilità di persistere una comunicazione residua anche in pazienti in cui essa non è clinicamente evidenziabile. Anzichè scegliere la scorciatoia dello 'staccare la spina' (altra parolaccia sballata in voga quando si trattano questi temi) ci rendiamo conto quanto ci sarebbe ancora da esplorare e da studiare? E non sulla pelle degli uomini, ma a favore degli uomini.
(Massimo Pandolfi)
(21/09/09 - (C) Massimo Pandolfi's blog)
Come leggere la «Caritas in veritate» - Niente sentimentalismi nella dottrina sociale - Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano. - di Franco Giulio Brambilla - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
Lungamente attesa, annunciata più volte come imminente, l'enciclica sociale di Benedetto XVI è giunta, tuttavia, come una sorpresa. Non solo per la sua felice pubblicazione in prossimità del vertice di risonanza internazionale dell'Aquila, che ha ritrovato il protagonismo dei Paesi emergenti, non ancora per la ripresa della Populorum progressio di Paolo vi, poco dopo il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione (1967), ma soprattutto per la riproposizione del tema dello sviluppo integrale dei popoli nel contesto globalizzato sullo scenario della terribile crisi internazionale del 2008-2009.
Vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie allo scoccare preciso dei duecento anni - nemesi storica! - della Rivoluzione francese (1989), è avvenuta l'implosione dell'economia occidentale globalizzata, che perde il contatto vivo con la radice sociale e umana. L'enciclica è un forte richiamo che rappresenta quasi un manifesto per il nuovo bisogno di "etica sociale" che tenti di regolare l'avidità e talvolta la truffaldina voracità della finanza internazionale, senza riferimento al legame sociale, al rischio dell'imprendere e alla fatica del lavoro umano. Sullo sfondo sta lo scenario della terribile disparità tra i popoli del globo.
Del manifesto, però, l'enciclica non ha il tono declamatorio, ma quello di un disteso e pacato disegno argomentato, di una riflessione tenace che tesse pazientemente la trama di un arazzo di dimensioni mondiali, attraversato da tutte le armoniche che devono risuonare nell'ora presente. Né altrimenti ci si poteva aspettare dal "Papa teologo", che ci ha abituati allo spessore e al sapore della parola che dischiude al vero e al bene.
La cosa più sorprendente, che appare a un incontro più avvicinato con la scrittura dell'enciclica, è l'esercizio di interpretazione della dottrina sociale della Chiesa che il Pontefice ci propone. Si tratta di un caso di interpretazione "magisteriale" del Magistero sociale che, dalla Rerum novarum fino ai nostri giorni, ha assunto il tratto di un vero e proprio corpus dottrinale. All'analisi dei teologi di morale socio-politica, questo corpus appare come una costellazione dottrinale che non ha, e non pretende di avere, la forma di una trattazione organica e completa, ma piuttosto intende offrire il discernimento delle istanze del tempo a cui i diversi interventi papali fanno riferimento. Tuttavia, proprio l'embricatura degli anniversari, che sovente motivano la "ripresa" della dottrina sociale, suggerisce l'idea di un discorso completo della visione della fede cristiana in re sociali. Fino a farne materia di una trattazione di "Dottrina sociale della Chiesa", la quale assumerebbe la consistenza teologica del trattato di morale sociale. Nello spazio accademico, molte volte avviene che questa regione della morale cristiana sia concepita e proposta come un "commentario" al Magistero sociale, al massimo collocato nello sviluppo storico degli oltre cent'anni dalla "prima" enciclica sociale di Leone xiii.
Ed è qui che cade il tratto sorprendente dell'intervento di Papa Benedetto: esso si presenta come un esercizio emblematico di quell'""ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa", che il Papa aveva proposto in forma inattesa e nella cornice inconsueta del Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, appena all'inizio del suo pontificato. Quell'intervento colpì molti perché, celebrando i quarant'anni della chiusura del concilio Vaticano ii, rivendicava la continuità nel rinnovamento della Chiesa prima e dopo il concilio, rispetto a una superficiale "ermeneutica della discontinutà e della rottura" che si fondava sulla separazione tra spirito del concilio e sua traduzione testuale, inevitabilmente contrassegnata dal compromesso tra le diverse anime dei Padri conciliari. Per di più propiziata - non è un caso che il riferimento principale dell'enciclica sia a Paolo vi - dalla volontà del Papa bresciano di raccogliere attorno ai pronunciamenti conciliari il massimo del consenso.
L'encilica fa un esplicito riferimento (al numero 12 e alla nota 19) a questo discorso di metodo: "Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo" E se è "giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale", d'altra parte "coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta" (Caritas in veritate, 12).
Nel Discorso del 2005 l'esemplificazione della "fedeltà dinamica" riguardava con grande piglio il punto più controverso della dottrina conciliare circa la libertà religiosa (si veda, in quell'intervento, la bella pagina con cui a partire dal caso Galileo si approda alla formulazione conciliare). Nell'enciclica l'esercizio dell'ermeneutica conciliare si distende pacatamente a rettificare la cesura tra prima e dopo il concilio per quanto concerne la dottrina sociale: "La Populorum progressio e il concilio Vaticano ii non rappresentano una cesura tra il magistero sociale di Paolo vi e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa" (n. 12).
L'idea di "fedeltà dinamica", di "rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa" riprende la nozione di Chiesa che è traditio tradens e che trova nel traditum un suo necessario, ma non esaustivo discernimento delle istanze della storia. Essa esige, dunque, un'ermeneutica che non accentui le rotture, ma ritrovi sempre la continuità creativa (di guardiniana memoria) della vita e nella vita della Chiesa per potersi "rinnovare alle origini". L'atto ermeneutico è anzitutto un atto pratico con cui la Chiesa non solo ripensa i suoi principi dottrinali connettendoli all'origine della Parola di Dio, ma insieme discerne il tempo attuale dentro l'alveo della tradizione vivente.
Nel contesto del Discorso programmatico, il Papa ribadiva che "è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma". Continuità a livello dei principi e delle decisioni strategiche, necessaria flessibilità a livello dei discernimenti pratici riferiti alle "decisioni (riguardanti) cose contingenti". Così il Papa suggeriva allora che "bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare" (ivi).
L'"ermeneutica della riforma" rimanda dunque a una "pratica del discernimento storico" (la vita della Chiesa nella sua creativa continuità), di cui la dottrina sociale della Chiesa rappresenta, per così dire, la condensazione della voce del magistero papale che rilegge e si riposiziona di fronte al mutamento sociale.
Prima di procedere a svolgere il tema dell'enciclica (lo sviluppo integrale dei popoli), il Papa sente il bisogno di collocarlo nel quadro del suo magistero complessivo, in particolare nel punto focale della sua prima enciclica programmatica Deus caritas est. L'audace introduzione riveste una duplice funzione: collegare la dottrina sociale con il centro del Mistero trinitario, mostrando come la caritas teologale si irradi in re sociali; fornire un'interpretazione forte della caritas come principio istitutivo della dottrina sociale, che la sottragga a una comprensione ridotta e irrilevante. Come se la carità fosse solo un correttivo accanto e parallelo al principio della giustizia, su cui soltanto si reggerebbero i rapporti sociali: "La carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8. 16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, "Dio è carità": dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Per evitare un'interpretazione "marginale" e "sentimentale" della carità rispetto ai rapporti sociali in ipotesi regolati dalla (sola) giustizia (e compresi alla luce della "sola" ragione, magari "laica"), Benedetto XVI sente il bisogno di potenziarne la nozione riferendola alla verità della visione dell'uomo, su cui non solo essa si deve misurare, ma che esprime esattamente la forma piena della vita umana, personale e sociale.
Di qui l'importanza strategica dell'introduzione all'enciclica, che forma, per così dire, il quadro di riferimento teorico della successiva ripresa della nozione di sviluppo integrale. Caritas in veritate indica l'asse con cui la carità è coestensiva a una comprensione solidale dei rapporti sociali: essi sono giusti non solo se danno a ciascuno il suo, ma se si radicano e, insieme, alimentano quei legami sociali e culturali con cui l'uomo perviene a se stesso (la coscienza di sé), decidendosi dinanzi al proprio destino (il compimento personale) all'interno dell'alleanza sociale (il bene comune).
Proprio questo ingresso, che a taluni potrà apparire persino ardito, come se ci si trovasse in una baita davanti alla parete altissima che svetta sulla cima maggiore, è l'antidoto a una comprensione terapeutica e medicinale della caritas. Esso, infatti, curerebbe i rapporti nella città dell'uomo e nel concerto delle nazioni, una volta che la giustizia avesse fallito il suo compito, compensando i rapporti "giusti", quando fossero feriti e lacerati, con i rapporti "buoni" che provengono dall'iniziativa libera dei soggetti privati e/o di gruppo. In tal modo la carità teologale (la comunione con Dio e la comunione fraterna) non avrebbe un risvolto pubblico: la "fraternità" che pure l'Illuminismo aveva emblematicamente indicato nella sua triade, nientemeno come erede della tradizione occidentale, non avrebbe alcun rilevo pubblico, se non perché raccoglie le vittime e cura i feriti lasciati sul campo nell'agone sociale.
Il valore "politico" della carità è risolto nella sua funzione terapeutica, ma non presiede e non alimenta il rapporto sociale. Per questo il Papa sente "il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della "veritas in caritate" (Efesini, 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale" (n. 2).
La caritas in veritate è, dunque, la sfida per sottrarre la dottrina sociale della Chiesa a una comprensione "sentimentale" dell'aspetto solidale che deve animare i rapporti tra gli uomini e tra i popoli. In un'espressione icastica, il Papa indica con chiarezza questa deriva: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali" (n. 4). "Marginali" rispetto alle regole del vivere civile, il quale non si lascerebbe in nessun modo dirigere dalle forme della relazione buona con l'altro, come se le forme buone della relazione libera fossero solo o terapeutiche o compensative dei modi vincolanti della relazione giusta, una volta fallita o ferita.
Occorre, dunque, arrivare a discutere lo schema che separa e accosta giustizia e carità. Afferma il Papa, infatti, che: "La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. E, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi" (n. 5). La verità è ciò che consente di tenere insieme l'eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia: la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall'eccedenza del dono e del perdono. Essa ha bisogno dell'alleanza tra gli umani che tende al "bene comune" (e non solo alla salvaguardia parcellizzata dei "beni comuni") come l'atmosfera che fa respirare i rapporti giusti, regolati dal diritto. Nei numeri 6 e 7, giustizia e bene comune sono indicati come le mediazioni operative della caritas in veritate. Essi non possono non riferirsi all'immagine dello sviluppo integrale dell'uomo. All'interno di tale quadro si dispiega il tema dell'enciclica.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
Il cristianesimo alla base dello Stato liberale - I diritti umani? Prima non c'erano - Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva del convegno "I quesiti del futuro: religione e cultura politica", organizzato dalla Fondazione Adenauer di Roma e dal Centro di Studi Europei di Bruxelles e tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana. - di Marcello Pera - L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009
I diritti umani sono (dovuti a, basati su) una scelta morale. Mai come in questo caso, è la morale che fonda il diritto. Se si scrive in una legge giuridica che gli uomini sono tutti uguali, è perché si crede che esista una legge morale che stabilisce che gli uomini devono essere tutti uguali. È la legge morale che dà forza ai nostri diritti fondamentali. È la legge morale che li rende intangibili. È la legge morale che li rende universali.
Quale legge morale? Questa è una domanda che la cultura politica europea oggi non si fa più, anche se la sollevò sessanta anni fa al momento dell'uscita dalla barbarie nazista e un po' la ripeté al crollo del comunismo. Se se la facesse, troverebbe proprio nella storia europea la risposta adatta. Perché, sì, noi siamo figli della cultura greca, ma non è nella Grecia che è nata l'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti, del cittadino della polis come del barbaro. Siamo eredi della tradizione romana, ma non è a Roma che si predicava che gli uomini sono tutti uguali, il civis romanus quanto lo schiavo o il liberto. Siamo, alcuni, anche un po' mescolati con la tradizione araba, ma non è nell'islam che il rispetto di tutti, credenti e infedeli, uomini e donne, è un principio religioso fondamentale. No. La legge morale da cui dipende la cultura dei diritti umani è la legge morale cristiana.
Perché lo è? Perché nel cristianesimo, e più in generale nella tradizione biblica, l'uomo è creato a immagine di Dio. E se l'uomo rispecchia Dio fino a essere fatto come lui, allora ogni uomo è una persona, è figlio di Dio, fratello di ogni altro uomo, membro della stessa famiglia. Questa filiazione - un'autentica genealogia concettuale - la spiegò bene, a quelli che già la sapevano e a quelli che non volevano saperla più, Giovanni Paolo ii in una sua Esortazione apostolica del 2003 non a caso intitolata all'Europa. Egli disse: "Dalla concezione biblica dell'uomo, l'Europa ha tratto il meglio della sua cultura umanistica, ha attinto ispirazione per le sue creazioni intellettuali e artistiche, ha elaborato norme di diritto e, non per ultimo, ha promosso la dignità della persona, fonte di diritti inalienabili" (Ecclesia in Europa, 25). E aggiunse: "Certamente non si può dubitare che la fede cristiana appartenga, in modo radicale e determinante, ai fondamenti della cultura europea. Il cristianesimo, infatti, ha dato forma all'Europa, imprimendovi alcuni valori fondamentali. La modernità europea stessa che ha dato al mondo l'ideale democratico e i diritti umani attinge i propri valori dalla sua eredità cristiana" (ibidem, 108).
Ecco allora una risposta alla nostra domanda. La scelta morale che sta alla base dei diritti umani è la scelta morale cristiana. E qui sarebbe inutile ripetere una risposta a chi non capisce o finge di non capire: non è un'obiezione che la Chiesa cattolica abbia impiegato quasi due millenni per proclamare formalmente i diritti umani, o che molti prelati di casa nostra pongano ancora mano all'aspersorio al solo sentir parlare di liberalismo (mentre si inginocchiano quando sentono dire di democrazia, socialismo, umanismo, e così via). Il punto è concettuale. Come siamo d'accordo che, se si toglie il cristianesimo, non si spiega l'Europa, allo stesso modo dovremmo essere d'accordo nel dire che, se si toglie la morale cristiana, si toglie anche il fondamento dei nostri Stati liberali.
È qui che il secolarismo odierno sbaglia. Nella sua versione corrente, esso intende negare il valore positivo della religione cristiana, oppure eliminarla dalla cultura politica, oppure attribuirle solo un valore consolatorio nel foro privato. Sembrano due omaggi ai princìpi della tolleranza e della cittadinanza, invece sono due errori.
Il primo errore riguarda le conseguenze di questo secolarismo. Se è vero che il fondamento del nostro Stato liberale è una scelta morale cristiana, e se è vero che lo Stato liberale è uno Stato secolare, allora, come ho già detto, senza quel fondamento, si mette a rischio lo stesso Stato liberale e secolare. Esso diventa una cittadella senza guarnigione: come si potrebbe sostenerlo e difenderlo?
Il secondo errore riguarda la mancanza di comprensione di sé da parte del secolarismo. Ho citato le due principali ragioni addotte a sua difesa. Limitiamoci alla tolleranza. Con quale argomento fu introdotta, ad esempio da John Locke, questa idea e con quale argomento la si difende pure oggi? Con l'argomento che il magistrato civile, l'autorità politica, non è competente sulle questioni di coscienza. Ma perché l'autorità politica dovrebbe disinteressarsi della religione dei suoi cittadini? Non ha forse interesse a tenerli uniti? Non ha forse l'obbligo di usare la forza contro chi volesse trasgredire le norme della convivenza adducendo convincimenti religiosi? Non è tenuta a giudicare quale religione di quale gruppo è meglio confacente all'ordine che essa deve tutelare?
No, non è pragmatico l'argomento a favore della tolleranza. L'argomento vero è che l'uomo è contemporaneamente due cose: è coscienza riflettente e animale razionale e sociale. Più precisamente, è anima e corpo. Come anima, l'uomo è in contatto con il suo Dio, a lui solo risponde e di fronte a lui soltanto si fa testimone della propria fede e responsabile dei propri atti. Come corpo, è un cittadino, è sottoposto all'autorità politica e a essa deve obbedienza. L'anima è di Dio, il cittadino è dello Stato. Questo, chiaramente, è un argomento religioso, più precisamente è la concezione religiosa cristiana del "dare a Dio e dare a Cesare", della separazione fra Stato e Chiesa. È da questa concezione che nasce la tolleranza: Cesare non può entrare nel rapporto che l'uomo ha con Dio e perciò Cesare deve rispettare, essere tollerante, con ogni cittadino. E così deve essere ogni uomo rispetto a ogni altro.
Per precisare e chiudere su questo punto. L'idea della tolleranza politica presuppone una teologia politica cristiana (esattamente come, per dirla in breve, l'idea della tolleranza scientifica, cioè l'idea che la sfera della scienza non interferisce con la sfera della fede, presuppone la metafisica cristiana di Galileo e altri, secondo cui Dio è autore e del libro della natura e del libro della Scrittura). Non a caso l'idea della tolleranza nasce in Europa da grandi pensatori cristiani - con la sola eccezione, ma complicata, di Spinoza - almeno a partire da Sebastian Castellio (De haereticis an sint persequendi, 1544) fino ai sommi Locke e Kant. Se il secolarismo oggi nega qualunque rapporto fra politica e religione, nega anche il fondamento di quella stessa tolleranza che vuole promuovere e finisce col distruggere se stesso. È esattamente la parabola dell'Illuminismo: nato come movimento di liberazione, si è liberato delle vecchie gerarchie sociali e intellettuali, comprese quella della Chiesa, poi si è liberato anche di Dio, e alla fine ha perduto se stesso.
(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” - Autore: Oliosi,Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 30 settembre 2009
«San Venceslao, emblema storico della nobile Nazione ceca, questo grande Santo, che voi amate chiamare “eterno” Principe dei Cechi, ci invita a seguire sempre e fedelmente Cristo, ci invita ad essere santi. Egli stesso è modello di santità per tutti, specialmente per quanti guidano le sorti delle comunità e dei popoli. Ma ci chiediamo: ai nostri giorni la santità è ancora attuale? O non è piuttosto un tema poco attraente ed importante? Non si cercano oggi più il successo e la gloria degli uomini? Quanto dura, però, e quanto vale il successo terreno?
Il secolo passato – e questa vostra Terra ne è stata testimone – ha visto cadere non pochi potenti, che parevano giunti ad altezze quasi irraggiungibili. All’improvviso si sono ritrovati privi del loro potere. Chi ha negato e continua a negare Dio (cioè la ricerca del vero e del bene) e, di conseguenza, non rispetta l’uomo, sembra avere via facile e conseguire un successo materiale. Ma basta scrostare la superficie per costatare che, in queste persone, c’è tristezza e insoddisfazione. Solo chi conserva nel cuore il santo “timore di Dio” ha fiducia nell’uomo e spende la sua esistenza per costruire un mondo più giusto e fraterno. C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili”, pronte a diffondere in ogni ambito della società quei principi e ideali cristiani ai quali si ispira la loro azione. Questa è la santità, vocazione universale di tutti i battezzati, che spinge a compiere il proprio dovere con fedeltà e coraggio, guardando non al proprio interesse egoistico, bensì al bene comune, e cercando in ogni momento la volontà divina. (…)Il loro esempio incoraggia chi si dice cristiano ad essere credibile, cioè coerente con in principi e la fede che professa. Non basta infatti apparire buoni e onesti; occorre esserlo realmente. E buono e onesto è colui che non copre con il suo io la luce di Dio, non mette davanti se stesso, ma lascia trasparire Dio (attraverso il desiderio del vero e la disponibilità al bene).
Questa è la lezione di vita di san Venceslao, che ebbe il coraggio di anteporre il regno dei cieli al fascino del potere terreno. Il suo sguardo non si staccò mai da Gesù Cristo, il quale patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Quale docile discepolo del Signore, il giovane sovrano Venceslao si mantenne fedele agli insegnamenti evangelici che gli aveva impartito la santa nonna, la martire Ludmilla. Seguendoli, ancor prima di impegnarsi nel costruire una convivenza pacifica all’interno della Patria e con i Paesi confinanti, si adoperò per propagare la fede cristiana, chiamando sacerdoti e costruendo chiese. Nella prima “narrazione” paleoslava si legge che “soccorreva i ministri di Dio e abbellì anche molte chiese” e che “beneficava i poveri, vestiva gli ignudi, dava da mangiare agli affamati, accoglieva i pellegrini, proprio come vuole il Vangelo. Non tollerava che si facesse ingiustizia alle vedove, amava gli uomini, poveri o ricchi che fossero”. Imparò dal Signore ad essere “misericordioso e pietoso” ed animato da spirito evangelico giunse persino a perdonare il fratello, che aveva attentato alla sua vita. Giustamente, pertanto lo invocate come “Erede” della vostra Nazione, e, in un canto a voi ben noto, gli domandate di non permettere che essa perisca» [Benedetto XVI, Omelia, 28 settembre 2009].
Per la convinzione della Chiesa Cattolica di tutti i tempi la politica appartiene alla sfera della ragione comune a tutti, la ragione naturale restaurata dalla fede. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali della prudenza, della temperanza, della giustizia, della fortezza animate dalla ricerca del vero cioè di Dio e dall’amore verso ogni uomo. Il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione. La politica non si desume solo dalla fede, ma dal rendere ragione della fede, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”. In questo senso lo Stato è uno Stato laico, nel senso positivo.
Ma quando la ragione non ricerca più la verità e si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo senza possibilità di un’etica la fede può illuminare la ragione, può sanare una ragione ammalata, una coscienza comune oscurata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisca il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla. Ecco perché anche oggi c’è bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili” rendendo ragione come san Venceslao, santi pronti a compiere il proprio dovere con fedeltà, guardando non al proprio interesse egoistico, bensì al bene comune a cominciare dai poveri, e ricercando in ogni momento la volontà divina cioè il vero e il bene.
RU486/ Roccella: fermeremo chi usurpa le prerogative del Parlamento - INT. Eugenia Roccella giovedì 1 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
«Non confondiamo un passaggio procedurale con la commercializzazione del farmaco». Arriva in serata la dichiarazione del sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, dopo che il Cda dell’Aifa ha approvato il verbale relativo alla seduta di fine luglio in cui l’Agenzia italiana del farmaco ha approvato in linea di principio la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Per la “determina”, infatti, cioè l’atto che contiene le indicazioni tecniche sull’uso della pillola, occorrerà attendere il 19 ottobre, quando sarà concluso il lavoro della commissione d’indagine parlamentare. «Non c’è nessuna vittoria e nessuna sconfitta: quello di stasera - ha detto in una nota il sottosegretario Roccella - è solo uno dei tanti passaggi procedurali in cui si articola la procedura d’immissione in commercio del farmaco».
I temi “eticamente sensibili” continuano a dividere gli schieramenti. Dopo il botta e risposta Fini-Gasparri, è stata la volta di Dorina Bianchi, costretta di fatto a dimettersi dall’incarico di relatore della commissione d’indagine sulla Ru486 dopo il fuoco di fila del suo stesso partito. «Se il Pd dice che non bisogna conoscere, mi adeguo, ma non è il Pd che mi immaginavo» ha dichiarato Bianchi nei giorni scorsi. Nel frattempo il dibattito sul testamento biologico resta nel vivo. I “finiani” hanno scritto al Foglio invitando a riconoscere i «limiti del legislatore» e a rispettare «i contenuti “interni” che sono interamente affidati alle relazioni morali e professionali che legano il malato al suo medico e ai suoi congiunti». Ha ripreso i loro argomenti Angelo Panebianco, nell’editoriale del Corriere di ieri, esortando a fare una legge, se necessaria, il più possibile “liberale”. Ilsussidiario.net ne ha parlato col sottosegretario Roccella.
Panebianco sostiene che l’iper-regolamentazione giuridica va evitata e un modo per farlo sarebbe quello di salvaguardare la “zona grigia” che sussiste tra il medico, il solo che può prendere decisioni pertinenti, e il paziente, sottraendo allo stato la sfera di una decisione così delicata e personale. Che ne pensa?
Non mi piace parlare di “zona grigia”, perché allude ad un’indifferenza etica. Casomai il problema sarebbe stato salvaguardare una “zona d’ombra”, privata, di non interferenza. Dico sarebbe stato, perché invece lo stato l’ha invasa eccome, con le sentenze della magistratura. Ma ora tutti i discorsi sulla non interferenza sono superati dagli eventi: il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti e il caso Englaro in Italia. Punto. Non possiamo far finta che quest’invasione non sia avvenuta.
Permettiamo dunque ad altre leggi di regolamentare il rapporto esclusivo non solo del paziente con il medico, ma della persona con la propria morte?
I poliziotti negli Usa hanno tenuto i genitori lontani dalla figlia che stava morendo di disidratazione e denutrizione, impedendo loro perfino di toccarla. Eluana è stata sottratta alle persone che l’hanno tenuta in cura per anni ed è morta sola, in base alla ricostruzione delle sue volontà presunte. Qui lo spazio del privato, della non interferenza è già stato violato dalle sentenze. Ecco perché non si può tornare indietro se non attraverso una normativa chiara, che impedisca altre interferenze.
Il testamento biologico sta facendo discutere. Non rischiamo di lasciare i malati in balia dello scontro ideologico tra fazioni contrapposte?
Il vero rischio, se non si fa una legge, è di continuare a dibattere su posizioni teoriche, come se nulla fosse accaduto, come se un caso Englaro non ci fosse mai stato. A questo punto delle cose non possiamo più scegliere tra l’interferenza e la non interferenza, ma occorre sapere quale interferenza vogliamo: se quella democratica del voto parlamentare, che dovrebbe rispecchiare la volontà popolare e se non la rispecchia ammette dei correttivi, come le elezioni o un referendum, oppure quella di una magistratura che usurpa le prerogative del Parlamento.
Il ddl in esame dunque non intacca il principio della reciproca responsabilità medico paziente?
Al contrario, la libertà del medico e quindi la libertà nel rapporto medico paziente è garantita proprio da questa legge, che garantendo la non vincolatività delle Dat è una legge “morbida” ed è agli antipodi di una visione del medico come esecutore burocratico, che sopprime ogni forma di relazione.
Il governo, per usare le parole di Sartori nel suo editoriale sul Corriere, sta pensando ad un testamento biologico “alla vaticana”: in modo poco laico si è fatto dettare legge dai vescovi. È d’accordo?
Sono tre legislature che il Parlamento cerca di fare una legge e per vari motivi finora non c’è riuscito. Dopo l’intervento della magistratura nel caso Englaro proprio il Parlamento ha avuto uno scatto d’orgoglio e ha deciso di affrontare la questione per risolverla. Il percorso di questa legge dimostra piuttosto che è strumentale quello che dice Sartori. La Chiesa esprime la sua posizione, come ha sempre fatto.
La posizione di Fini ormai è nota. Cosa pensa della lettera dei “finiani” in cui chiedono il rispetto della sfera personale e di quella laica della politica? Fini con la sua battaglia sulla laicità ha dettato il passo?
No, mi limito a constatare che anche Fini difende la sua opinione, in un dibattito e in un partito che ha sempre lasciato e lascia ampia libertà di coscienza. Quella stessa libertà di coscienza garantirà che il voto segreto sarà trasparente come il voto palese. In Senato i voti contrari sono sempre rimasti gli stessi, sia a voto segreto che palese. Se le persone che hanno firmato quella lettera riterranno di votare contro un eventuale ddl, sarà l’espressione di un partito composito. Non come il Pd, dove la libertà di coscienza è in discussione.
Franceschini ha detto che nel Pd sulle questioni etiche si decide a maggioranza e Dorina Bianchi si è dimessa dalla commissione di indagine sulla Ru486. «Non è il Pd che mi immaginavo», ha detto la senatrice.
È la dimostrazione di quello che sto dicendo. Ma segnali gravi erano già emersi perché è stato Bersani a dire che nel Pd non ci poteva essere libertà di coscienza ma una posizione di partito. Mi sembra che tutti i candidati alla segreteria siano d’accordo e questo e davvero preoccupante, a maggior ragione in un grande partito. Non è possibile una convivenza se non a partire dal riconoscimento della libertà di coscienza. Trovo paradossale che chi combatte per il diritto a morire come un gesto di libertà personale, poi neghi la libertà di coscienza sul voto parlamentare: quella non è più espressione di libertà personale?
Tornando alla Ru 486, come commenta le polemiche sulla istituzione della commissione? Anche in questo caso Fini era stato esplicito: il Parlamento non è competente.
E giustamente Gasparri gli ha risposto che la Ru486 non è un farmaco e noi non siamo dei farmacisti. La questione tecnica, cioè la modalità dell’aborto farmacologico, non può non essere politica. L’aborto in Italia deve avvenire nelle strutture pubbliche, come vuole la legge 194. E la Ru486 è compatibile con quanto prescritto dalla 194? Il fatto che l’aborto nel nostro paese avvenga nelle strutture pubbliche è una garanzia di sicurezza per la salute delle donne, ma anche una garanzia per le politiche di prevenzione e di riduzione, tant’è vero che l’Italia è l’unico paese in Europa in cui l’aborto è costantemente diminuito. Per discutere di questo non c’è luogo più pertinente del Parlamento. Non nascondiamoci quindi, per favore, dietro il paravento tecnico. La commissione è pienamente giustificata.
LA LEGGE SULLA FINE DELLA VITA - CON IPPOCRATE E CON OGNI MALATO SENZA COSTRUIRE «ZONE GRIGIE» - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 1 ottobre 2009
I l rinvio a dicembre della discussione alla Camera della legge sul 'fine vita' può avere diverse motivazioni 'politiche', tutte allarmanti (ed alcune anche subdole), ma ha una sola possibile spiegazione 'bioetica': a molti, a troppi (sia parlamentari che influenti opinionisti) la sostanza specifica della questione evidentemente non è chiara. È solo così che si possono capire gli appelli contro l’iper-regolamentazione giuridica della fine vita e le martellanti esortazioni contro ogni intrusione dello Stato in quella delicatissima 'zona grigia', all’interno della quale sarebbero legittimati a muoversi, con la massima discrezionalità, solo medici e familiari. Ciò che, in buona sostanza, si chiede ormai da tante parti è che la legge sul fine vita, se proprio la si vuole fare, sia il più possibile 'liberale'… Da tempo sostengo, ampiamente inascoltato, che il liberalismo è un prezioso principio politico- culturale (e probabilmente anche economico- sociale), che è però illusorio sperare di poter applicare ai problemi bioetici che, nella maggior parte dei casi, vanno affrontati e risolti in altro modo, applicando il principio ippocratico della difesa della vita e non facendo appello alla 'libertà' o all’ 'autodeterminazione' del malato (soggetto debole, influenzabile, il più delle volte scarsamente informato e che, soprattutto nelle situazioni di fine vita, ha una sola esigenza prioritaria, quella di non essere abbandonato).
È giusto approvare una legge che imponga al medico il dovere di tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, sottoscritte in data certa da soggetti competenti e informati e purché esplicitamente prive di indicazioni eutanasiche? È più che giusto, anzi è doveroso ed urgente, almeno per escludere che possano essere emanate dalla magistratura altre sentenze, che, come quelle relative al caso Englaro, hanno riconosciuto valide generiche dichiarazioni orali, di data incerta, formulate da persone certamente poco informate e dal contenuto almeno potenzialmente eutanasico. È altresì essenziale che questa legge non lasci dubbi sulla non vincolatività di queste dichiarazioni per il medico, lasciandogli la libertà di seguirle o di non seguirle, non però in base al suo arbitrio o alle indicazioni che possono arrivargli dai familiari o dai fiduciari del paziente (indicazioni che potrebbero avere motivazioni anche molto ambigue), ma a seguito di una rigorosa valutazione, caso per caso, della fondatezza di quelle dichiarazioni, in ordine alla loro completezza e coerenza, alle possibilità terapeutiche reali che sono a disposizione in ciascun singolo caso e al dovere di evitare ogni forma di accanimento. In altri termini, quello che la legge può, e nella situazione attuale, deve fare è ribadire due principi ippocratici fondamentali: 1) la vita non è disponibile da parte di nessuno, nemmeno da parte del paziente (altrimenti dovremmo legittimare l’aiuto al suicidio, anche a carico di soggetti 'sani'!) e 2) il medico ha un solo, esclusivo dovere, quello di agire come terapeuta a favore della vita (e l’accanimento non ha nulla a che vedere con una terapia!), con l’unico limite di dover rispettare l’eventuale decisione del paziente di sottrarsi alle cure. Alimentazione e idratazione non sono cure: lo dimostra il fatto che se si cessa di alimentare il malato, questi non muore per il progredire della sua patologia, ma perché gli viene sottratto un sostegno vitale fondamentale (è ciò che comunemente si intende dire, in modo scientificamente impreciso, ma simbolicamente perfetto, quando si afferma che Eluana Englaro è morta 'di fame e di sete').
Ecco perché non si può, sinceramente, parlare di iper-regolamentazione giuridica a carico di una legge, come quella approvata al Senato, che, pur con tutte le sue imperfezioni, garantisce comunque questi due principi, in sé e per sé irrinunciabili, contro ogni tentativo di manipolazione (proveniente da qualunque parte: dai medici, dai familiari, dai magistrati). Chi continua a preoccuparsi di un’ipertrofia legislativa in bioetica e a insistere sulla richiesta di una legislazione 'liberale', rispettosa di tutte le 'zone grigie' possibili e immaginabili, non si rende evidentemente conto che non è questa la vera posta in gioco, ma l’abbandono del modello ippocratico della medicina, il modello nel quale la difesa della vita e il rispetto del malato sono indissolubilmente congiunti. Se questa fosse l’autentica, subdola ragione che motiva l’operato di quanti puntano a rinviare (o, addirittura, ad affossare) la discussione della legge sul fine vita alla Camera, dovremmo preoccuparcene tutti e moltissimo.
È giunto il momento di rilanciare la proposta di riconoscere la capacità giuridica ad ogni essere umano sin dal concepimento - L’embrione, una persona - DI CARLO CASINI – Avvenire, 1 ottobre 2009
«Come un individuo umano non sarebbe una persona umana?» Basterebbe questa domanda posta da Giovanni Paolo II al n. 60 dell’Evangelium
vitae a contrastare la tesi di Ivan Illich, secondo il quale «Le chiese, utilizzando il loro potere di creare miti consacrano una nozione astratta di vita umana», che porterebbe alla corruzione della fede cristiana. La tesi di Illich è già stata criticata da Lucietta Scaraffia su l’Osservatore Romano del 9 settembre scorso, ma credo opportuno mettere a fuoco la questione con la lente di innumerevoli dibattiti sul tema della vita umana. L’accusa rivolta alle chiese deve essere rovesciata proprio verso la «cultura abortista» nella quale sono impronunciabili parole come «diritto alla vita fin dal concepimento » o definizioni dell’embrione come «individuo», «soggetto», «persona ». In non pochi filoni di questa cultura è presente, invece, «una nozione astratta di vita umana» mitizzata con l’affermazione di una continuità della sua evoluzione millenaria per la quale, come non vi sarebbe soluzione di continuità tra vita vege- tale, animale ed umana, così non vi sarebbe distinzione tra uno spermatozoo e un embrione. In questa visione si possono anche accettare, sebbene a malincuore, espressioni come «rispetto della vita» o «tutela della vita», supponendo, però, che la vita embrionale è qualcosa di indefinibilmente generico e non quella di «un individuo vivente appartenente alla specie umana», cioè,– più semplicemente – di un uomo. Quando poi le argomentazioni di ragione e di scienza rendono incontestabile la tesi della individualità umana del concepito, allora la replica dell’abortismo è: «essere umano - – dobbiamo concedere – ma non persona».
Dunque sul concetto di «persona» si accentra la radice di ogni discussione. Ma registro non poca timidezza, anche da parte di chi fa riferimento all’antropologia cristiana, nell’usare il termine «persona». So bene che l’attribuzione di un significato convenzionale alla parola – distinguendo cioè l’uomo adulto e cosciente (ipoteticamente «persona») dall’uomo in quanto tale – non toglie teoricamente forza al diritto alla vita che appartiene all’essere umano senza ulteriori specificazioni, vecchio o giovane che sia, nato o non nato, qualificabile o no come «persona». Tuttavia la distinzione tra uomo e persona è estremamente pericolosa. In primo luogo perché accetta il linguaggio e l’inganno degli avversari. In secondo luogo perché introduce una inaccettabile discriminazione sull’uomo violando il principio di eguaglianza. Solo affermando che «persona» è l’altro nome dell’uomo, mai attribuibile agli animali, indicatore di un valore che è intrinseco all’esistere umano, a prescindere da qualsiasi ulteriore qualità, è portata alle ultime conseguenze quella idea moderna e laica di «eguale dignità», che ha sconfitto la schiavitù, la discriminazione dei neri, la sudditanza delle donne. A ben guardare l’accusa di confessionalismo sempre rivolta ai cattolici è respinta al mittente, solo se abbiamo il coraggio di chiamare «persona» l’embrione umano. È la pretesa di difendere una vita generica che ha il sapore del mito, ad offendere la laicità, non certo la laicissima proclamazione del principio di non discriminazione.
Si aggiunga che l’affermazione del concepito come individuo umano e quindi soggetto e persona non è un inutile accademico esercizio verbale. Anche nell’angoscia e nella solitudine il coraggio materno può vincere. Ma il coraggio ha bisogno di una motivazione ragionevole: il figlio è figlio, un bambino, una persona. Questa consapevolezza è assolutamente indispensabile nel momento in cui pillole di vario genere banalizzano e privatizzano l’aborto. Battersi perché la Ru486 non sia usata in Italia e per garantire l’obiezione di coscienza di medici e paramedici riguardo alla prescrizione e somministrazione della pillola del giorno dopo è cosa buona e doverosa, ma non riusciremo ad impedire, in Italia e all’estero l’uccisione chimica di una grande quantità di bambini non ancora nati. Basterà l’educazione? L’educazione è fatta anche dall’aria che si respira, dalle parole che si sentono, soprattutto da quella espressione di razionalità collettiva che è la legge. La legge non è soltanto comando. È, prima ancora, guida all’azione, bussola orientatrice, indicazione di valori. Se non ci fosse stata una lunga lotta per proclamare l’uguaglianza tra bianchi e neri ci sarebbe ancora l’apartheid.
Sono convinto che una strategia di alto profilo per difendere la vita deve affrontare il cuore di tutte le questioni. E deve investire anche il livello politico-legislativo. L’ordinamento giuridico deve introdurre l’embrione umano nell’ambito del diritto come un «uguale» cioè come un soggetto, una persona. Non è una richiesta infondata. Essa è già stata accolta nella Convenzione americana dei Diritti umani del 1969 e in qualche Costituzione latino-americana. In Italia a cominciare dal 1996 il Comitato Nazionale di Bioetica ci ha annunciato più volte: «Vi è il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone». Non ho citato le ancora più forti parole della Dignitas personae di Benedetto XVI. Ho riportato un testo di un organismo scientifico laico dello Stato italiano. Giuliano Ferrara ha lanciato l’idea di chiedere all’Onu una «moratoria sull’aborto », intesa come integrazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo affinché vi si indichi che il diritto alla vita appartiene anche al concepito. La Camera dei Deputati ha recentemente votato una mozione per chiedere all’Onu che l’aborto non sia considerato mezzo di controllo delle nascite.
Prima di chiedere agli altri, cominciamo ad agire in casa nostra. Fin dal 1995 il Movimento per la vita ha presentato una proposta di legge popolare per includere tra le persone – tali considerate dal diritto – anche i concepiti.
È giunto il momento di rilanciarla. Quali Parlamentari e quali partiti vogliono rispondere a questo appello?