Nella rassegna stampa di oggi:
1) Riflessione di Benedetto XVI su Pietro il Venerabile, Abate di Cluny - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) Il Pontefice incoraggia la Famiglia di Radio Maria - Nella sua opera a servizio della diffusione del Vangelo - di Antonio Gaspari
3) La Spagna cattolica ha un nuovo araldo: Juan Manuel de Prada - Da scrittore affermato a strenuo apologeta della Chiesa e del papa, anche su "L'Osservatore Romano". La sua è una delle tante storie di conversione dall'incredulità alla fede cristiana, in Europa. Contro la "tirannia" progressista - di Sandro Magister
4) La buona battaglia per la vita - Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’?... - di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
5) Edith Stein e la preghiera - La scala di Giacobbe - Una delle relatrici del secondo congresso internazionale "Mística y pensamiento contemporáneo", svoltosi ad Ávila e dedicato alla figura di Edith Stein - nel decennale della sua proclamazione a compatrona d'Europa - ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009
6) LA PROMOZIONE DEL BEL PAESE - MACCHÉ CASINÒ PUNTIAMO SUL BELLO NON SULL’AZZARDO - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 15 ottobre 2009
7) Scola agli immigrati: non solo diritti - DA V ENEZIA - FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 15 ottobre 2009
8) Dieci buone ragioni per dire «no» - punti fermi – di Lorenzo Fazzini –Avvenire, 15 ottobre 2009
Riflessione di Benedetto XVI su Pietro il Venerabile, Abate di Cluny - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 14 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Pietro il Venerabile (1094-1156).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
la figura di Pietro il Venerabile, che vorrei presentare nell’odierna catechesi, ci riconduce alla celebre abbazia di Cluny, al suo «decoro» (decor) e al suo «nitore» (nitor) – per usare termini ricorrenti nei testi cluniacensi – decoro e splendore, che si ammirano soprattutto nella bellezza della liturgia, via privilegiata per giungere a Dio. Più ancora che questi aspetti, però, la personalità di Pietro richiama la santità dei grandi abati cluniacensi: a Cluny "non ci fu un solo abate che non sia stato un santo", affermava nel 1080 il Papa Gregorio VII. Tra questi si colloca Pietro il Venerabile, il quale raccoglie in sé un po’ tutte le virtù dei suoi predecessori, sebbene già con lui Cluny, di fronte agli Ordini nuovi come quello di Cîteaux, inizi a risentire qualche sintomo di crisi. Pietro è un esempio mirabile di asceta rigoroso con se stesso e comprensivo con gli altri. Nato attorno al 1094 nella regione francese dell’Alvernia, entrò bambino nel monastero di Sauxillanges, ove divenne monaco professo e poi priore. Nel 1122 fu eletto Abate di Cluny, e in tale carica rimase fino alla morte, avvenuta nel giorno di Natale del 1156, come egli aveva desiderato. "Amante della pace – scrive il suo biografo Rodolfo – ottenne la pace nella gloria di Dio il giorno della pace" (Vita, I,17; PL 189,28).
Quanti lo conobbero ne esaltarono la signorile mitezza, il sereno equilibrio, il dominio di sé, la rettitudine, la lealtà, la lucidità e la speciale attitudine a mediare. "È nella mia stessa natura – scriveva - di essere alquanto portato all’indulgenza; a ciò mi incita la mia abitudine a perdonare. Sono assuefatto a sopportare e a perdonare" (Ep. 192, in: The Letters of Peter the Venerable, Harvard University Press, 1967, p. 446). Diceva ancora: "Con quelli che odiano la pace vorremmo, possibilmente, sempre essere pacifici" (Ep. 100, l.c., p. 261). E scriveva di sé: "Non sono di quelli che non sono contenti della loro sorte, … il cui spirito è sempre nell’ansia o nel dubbio, e che si lamentano perché tutti gli altri si riposano e loro sono i soli a lavorare" (Ep. 182, p. 425). Di indole sensibile e affettuosa, sapeva congiungere l’amore per il Signore con la tenerezza verso i familiari, particolarmente verso la madre, e verso gli amici. Fu un cultore dell’amicizia, in modo speciale nei confronti dei suoi monaci, che abitualmente si confidavano con lui, sicuri di essere accolti e compresi. Secondo la testimonianza del biografo, "non disprezzava e non respingeva nessuno" (Vita, I,3: PL 189,19); "appariva a tutti amabile; nella sua bontà innata era aperto a tutti" (ibid., I,1: PL, 189,17).
Potremmo dire che questo santo Abate costituisce un esempio anche per i monaci e i cristiani di questo nostro tempo, segnato da un ritmo di vita frenetico, dove non rari sono gli episodi di intolleranza e di incomunicabilità, le divisioni e i conflitti. La sua testimonianza ci invita a saper unire l’amore a Dio con l’amore al prossimo, e a non stancarci nel riannodare rapporti di fraternità e di riconciliazione. Così in effetti agiva Pietro il Venerabile, che si trovò a guidare il monastero di Cluny in anni non molto tranquilli per varie ragioni esterne e interne all’Abbazia, riuscendo ad essere al tempo stesso severo e dotato di profonda umanità. Soleva dire: "Da un uomo si potrà ottenere di più tollerandolo, che non irritandolo con le lamentele" (Ep. 172, l.c., p. 409). In ragione del suo ufficio dovette affrontare frequenti viaggi in Italia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’abbandono forzato della quiete contemplativa gli pesava. Confessava: "Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, trascinato qua e là; ho la mente rivolta ora agli affari miei ora a quelli degli altri, non senza grande agitazione del mio animo" (Ep. 91, l.c., p. 233). Pur dovendosi destreggiare tra poteri e signorie che circondavano Cluny, riuscì comunque, grazie al suo senso della misura, alla sua magnanimità e al suo realismo, a conservare un’abituale tranquillità. Tra le personalità con cui entrò in relazione ci fu Bernardo di Clairvaux con il quale intrattenne un rapporto di crescente amicizia, pur nella diversità del temperamento e delle prospettive. Bernardo lo definiva: "uomo importante, occupato in faccende importanti" e aveva grande stima di lui (Ep. 147, ed. Scriptorium Claravallense, Milano 1986, VI/1, pp. 658-660), mentre Pietro il Venerabile definiva Bernardo "lucerna della Chiesa" (Ep. 164, p. 396), "forte e splendida colonna dell’ordine monastico e di tutta la Chiesa" (Ep. 175, p. 418).
Con vivo senso ecclesiale, Pietro il Venerabile affermava che le vicende del popolo cristiano devono essere sentite nell’"intimo del cuore" da quanti si annoverano "tra i membri del corpo di Cristo" (Ep. 164, l.c., p. 397). E aggiungeva: "Non è alimentato dallo spirito di Cristo chi non sente le ferite del corpo di Cristo", ovunque esse si producano (ibid.). Mostrava inoltre cura e sollecitudine anche per chi era al di fuori della Chiesa, in particolare per gli ebrei e i musulmani: per favorire la conoscenza di questi ultimi provvide a far tradurre il Corano. Osserva al riguardo uno storico recente: "In mezzo all’intransigenza degli uomini del Medioevo – anche dei più grandi tra essi –, noi ammiriamo qui un esempio sublime della delicatezza a cui conduce la carità cristiana" (J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, 1991, p. 189). Altri aspetti della vita cristiana a lui cari erano l’amore per l’Eucaristia e la devozione verso la Vergine Maria. Sul Santissimo Sacramento ci ha lasciato pagine che costituiscono "uno dei capolavori della letteratura eucaristica di tutti i tempi" (ibid., p. 267), e sulla Madre di Dio ha scritto riflessioni illuminanti, contemplandola sempre in stretta relazione con Gesù Redentore e con la sua opera di salvezza. Basti riportare questa sua ispirata elevazione: "Salve, Vergine benedetta, che hai messo in fuga la maledizione. Salve, madre dell’Altissimo, sposa dell’Agnello mitissimo. Tu hai vinto il serpente, gli hai schiacciato il capo, quando il Dio da te generato lo ha annientato… Stella fulgente dell’oriente, che metti in fuga le ombre dell’occidente. Aurora che precede il sole, giorno che ignora la notte… Prega il Dio che da te è nato, perché sciolga il nostro peccato e, dopo il perdono, ci conceda la grazia e la gloria" (Carmina, PL 189, 1018-1019).
Pietro il Venerabile nutriva anche una predilezione per l’attività letteraria e ne possedeva il talento. Annotava le sue riflessioni, persuaso dell’importanza di usare la penna quasi come un aratro per "spargere nella carta il seme del Verbo" (Ep. 20, p. 38). Anche se non fu un teologo sistematico, fu un grande indagatore del mistero di Dio. La sua teologia affonda le radici nella preghiera, specie in quella liturgica e tra i misteri di Cristo, egli prediligeva quello della Trasfigurazione, nel quale già si prefigura la Risurrezione. Fu proprio lui ad introdurre a Cluny tale festa, componendone uno speciale ufficio, in cui si riflette la caratteristica pietà teologica di Pietro e dell’Ordine cluniacense, tesa tutta alla contemplazione del volto glorioso (gloriosa facies) di Cristo, trovandovi le ragioni di quell’ardente gioia che contrassegnava il suo spirito e si irradiava nella liturgia del monastero.
Cari fratelli e sorelle, questo santo monaco è certamente un grande esempio di santità monastica, alimentata alle sorgenti della tradizione benedettina. Per lui l’ideale del monaco consiste nell’"aderire tenacemente a Cristo" (Ep. 53, l.c., p. 161), in una vita claustrale contraddistinta dalla "umiltà monastica" (ibid.) e dalla laboriosità (Ep. 77, l.c., p. 211), come pure da un clima di silenziosa contemplazione e di costante lode a Dio. La prima e più importante occupazione del monaco, secondo Pietro di Cluny, è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – "opera celeste e di tutte la più utile" (Statuta, I, 1026) – da accompagnare con la lettura, la meditazione, l’orazione personale e la penitenza osservata con discrezione (cfr Ep. 20, l.c., p. 40). In questo modo tutta la vita risulta pervasa di amore profondo per Dio e di amore per gli altri, un amore che si esprime nella sincera apertura al prossimo, nel perdono e nella ricerca della pace. Potremmo dire, concludendo, che se questo stile di vita unito al lavoro quotidiano, costituisce, per san Benedetto, l’ideale del monaco, esso concerne anche tutti noi, può essere, in grande misura, lo stile di vita del cristiano che vuole diventare autentico discepolo di Cristo, caratterizzato proprio dall’adesione tenace a Lui, dall’umiltà, dalla laboriosità e dalla capacità di perdono e di pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo il mio cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i delegati della Famiglia di Radio Maria, provenienti dai vari Continenti e li incoraggio a proseguire la loro importante opera a servizio della diffusione del Vangelo. Saluto i rappresentanti del Villaggio don Bosco di Tivoli, accompagnati dal Vescovo Mons. Mauro Parmeggiani; cari amici, il centenario della nascita del vostro fondatore, il compianto don Nello Del Raso, sia occasione propizia per continuare fedelmente la sua intuizione educativa. Saluto il gruppo dei Consoli di Milano e della Lombardia e li incoraggio ad operare con rinnovato impegno in favore dell’uomo e della sua dignità.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Carissimi, celebreremo domani la festa di santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa. Questa grande Santa testimoni a voi, cari giovani, che l’amore autentico non può essere scisso dalla verità; aiuti a voi, cari malati, a comprendere che la croce di Cristo è mistero di amore che redime l’umana sofferenza. Per voi, cari sposi novelli, sia modello di fedeltà a Dio, che affida ad ognuno una speciale missione.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il Pontefice incoraggia la Famiglia di Radio Maria - Nella sua opera a servizio della diffusione del Vangelo - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 14 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Questo mercoledì, al termine dell'Udienza generale in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha rivolto un saluto particolare ai circa 200 tra presidenti e direttori della Famiglia di Radio Maria, provenienti dai vari continenti, incoraggiandoli “a proseguire la loro importante opera a servizio della diffusione del Vangelo”.
Radio Maria è presente nei cinque continenti con 58 differenti Radio, con un ascolto medio quotidiano di trenta milioni di persone.
Il tema dell’incontro mondiale che si sta svolgendo nel santuario di Collevalenza è “Con Maria servitori della Chiesa”.
Parlando con ZENIT, padre Francisco Palacios, responsabile della attività editoriali nella famiglia mondiale, ha spiegato che Radio Maria è “una sfida ai modelli di comunicazione dominanti perchè in un mondo che sembra sempre più secolarizzato e lontano da Dio, Radio Maria pratica e porta la preghiera ovunque”.
“Non si tratta di una azione unilaterale – ha spiegato padre Francisco – preghiamo e invitiamo gli ascoltatori a orare e meditare insieme a noi”.
Fedele al magistero della Chiesa, Radio Maria pratica un'attività pastorale di formazione integrale diffondendo il messaggio cristiano in tutte le sue forme, dalla teologia alla dottrina sociale, dalla liturgia all’apologetica.
Radio Maria, che in tutte le sue stazioni tramette per tutte le 24 ore, ha un palinsesto con 7 ore di preghiera, messa, adorazione eucaristica, rosario, 7 ore di formazione cristiana, 7 ore di formazione umana, e tre ore di informazione e musica.
Ogni Radio nazionale ha un sacerdote come direttore editoriale ed un presidente dell’associazione laico. Il sacerdote garantisce che il palinsesto si svolga secondo il rispetto del magistero della Chiesa, mentre il Presidente dell’associazione organizza, promuove e sviluppa la comunità sociale che mantiene le attività della Radio.
La comunicazione della parola di Dio e delle virtù che sono alla base dell’insegnamento cristiano, fa lievitare la qualità e il numero degli ascoltatori.
Ogni Radio Maria diventa così espressione di un gruppo sempre più vasto di persone, unite fraternamente in un progetto di miglioramento della vita di ognuno.
In merito alla forza della preghiera che ha operato questa espansione a livello mondiale, padre Livio Fanzaga, che di Radio Maria Italia è anima e conduttore, ha detto a ZENIT che il programma più seguito è la celebrazione eucaristica.
Radio Maria Italia si collega ogni giorno con almeno due parrocchie, con la prima trasmette le lodi e le preghiere del mattino, con la seconda l’adorazione eucaristica. A questo si aggiunge il rosario serale.
Padre Livio si è detto molto colpito dalla crescita di maturità e di fede dei direttori delle Radio Maria nel mondo, ed ha sottolineato che la forza e il carisma di questa opera sta tutto in Maria.
“Tanto più seguiremo la Vergine, tanto più porteremo il messaggio cristiano nel mondo”, ha affermato padre Livio.
La Spagna cattolica ha un nuovo araldo: Juan Manuel de Prada - Da scrittore affermato a strenuo apologeta della Chiesa e del papa, anche su "L'Osservatore Romano". La sua è una delle tante storie di conversione dall'incredulità alla fede cristiana, in Europa. Contro la "tirannia" progressista - di Sandro Magister
ROMA, 12 ottobre 2009 – È nelle librerie da alcuni giorni in Italia una raccolta di interviste con dei convertiti alla fede cattolica, alcuni di grande notorietà: dal francese Jean-Claude Guillebaud alla norvegese Janne Haaland Matlary, già viceministro degli esteri del suo paese ed autrice di libri tradotti in più lingue, uno dei quali con la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger.
La raccolta di interviste, edita da Lindau, ha per autore Lorenzo Fazzini e per titolo: "Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione".
Ma anche "L'Osservatore Romano", il giornale della Santa Sede, ha tra le sue firme di spicco un celebre convertito.
È lo scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, qui sopra fotografato con la copertina-manifesto del romanzo che nel 2003 ne consacrò definitivamente il successo: "La vida invisible".
De Prada, 39 anni, ha raccolto nel suo ultimo libro gli articoli "di battaglia" che egli ha scritto in difesa del cattolicesimo non solo sui giornali spagnoli "ABC" e "XL Semanal", ma anche su "L'Osservatore Romano", di cui è collaboratore dal 2007. In soli cinque mesi il libro è giunto in Spagna alla quinta edizione. Da un mese, de Prada è anche una delle voci principali di "Cope", la più importante radio cattolica spagnola.
Il 2 ottobre scorso "L'Osservatore Romano" ha tradotto e riprodotto la prefazione del libro. In essa, de Prada ricorda come e quando in lui "cambiò il corso della vita".
Era la primavera del 2005, erano i giorni della morte di Giovanni Paolo II. De Prada si trovava a Roma e "all'improvviso" volle aderire definitivamente a quella "vecchia libertà" che è il tesoro religioso e culturale della Chiesa cattolica: una libertà che è "l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo".
Il libro, infatti, si intitola proprio così: "La nueva tiranía. El sentido común frente al Mátrix progre".
La "Matrice progressista" è il nome che de Prada dà al grande inganno che egli vede in opera nella cultura dominante in Europa: "Le dittature del passato reprimevano le libertà personali. Quelle moderne inducono l'uomo ad adorare se stesso e a negare così la sua natura".
E ancora scrive:
"La battaglia che oggi s'ingaggia tende a restituire agli uomini la loro autentica natura. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo".
Ecco qui di seguito la traduzione integrale – a cura de "L'Osservatore Romano" – della prefazione a "La nueva tiranía". Il testo originale è nell'edizione spagnola di questa stessa pagina di www.chiesa.
De Prada ha dedicato questo suo libro all'amico Giovanni Maria Vian, direttore del "giornale del papa".
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La matrice progressista della nuova tirannia - di Juan Manuel de Prada
"Come si può parlare di 'nuova tirannia', quando mai prima d'ora gli uomini hanno goduto di tanta libertà e tanti diritti?", potrebbe chiedersi un lettore sprovveduto. Le tirannie classiche, in effetti, si caratterizzavano per il fatto di reprimere la libertà e negare i diritti. Gli uomini avevano coscienza di tale usurpazione perché, privati di qualcosa che apparteneva loro per natura, si sentivano sminuiti.
La nuova tirannia a cui ci riferiamo, invece, esalta l'uomo fino all'adorazione, dandogli l'opportunità di trasformare i propri interessi e i propri desideri in libertà e diritti, che però non sono più inerenti alla sua natura, ma diventano "gentili concessioni" di un potere che li consacra legalmente. E così, trasformato in un bambino che contempla i suoi capricci mentre vengono ingigantiti e soddisfatti, l'uomo del nostro tempo è più che mai ostaggio di istanze di potere che gli garantiscono il godimento di una libertà onnicomprensiva e diritti in continua espansione. Nelle tirannie classiche al suddito restava almeno la consolazione di sapersi oppresso da un potere che violentava la sua natura; chi è sottomesso a questa nuova tirannia non ha invece altra consolazione che la protezione dello stesso potere che lo ha innalzato sull'altare dell'adorazione. E così l'uomo è divenuto, senza neanche rendersene conto, uno strumento nelle mani di chi lo accudisce con minuziosa cura, come le formiche accudiscono i gorgoglioni prima di mungerli.
In cambio di queste "gentili concessioni", l'uomo accetta una visione egemonica del mondo che gli viene imposto e lo trasforma in oggetto d'ingegneria sociale. Chiameremo Matrice progressista questa visione egemonica: un miraggio, una grande illusione o trompe-l'oeil che viene accettata con spirito gregario. Chi osa mettere in dubbio il trompe-l'oeil è immediatamente raggiunto da anatemi, è considerato un reprobo o un blasfemo, un nemico dell'adorazione dell'uomo. La Matrice progressista, utilizzata dalla sinistra, è stata assimilata anche dalla destra, che ha rinunciato a dare battaglia laddove il confronto con l'avversario risulterebbe efficace e lusinghiero: nell'ambito dei principi. Nel suo claudicare, la destra si limita a introdurre varianti insignificanti nel funzionamento della grande macchina, ma non osa utilizzarne gli ingranaggi. Il che è come arare senza buoi.
La Matrice progressista è così diventata una specie di fede messianica; ha instaurato un nuovo ordine, ha imposto paradigmi culturali inattaccabili, ha stabilito una nuova antropologia che, promettendo all'uomo la liberazione finale, gli riserva solo il futuro suicidio. E contro questo nuovo ordine, si erge solo l'ordine religioso, che restituisce all'uomo la sua vera natura e gli propone una visione corretta del mondo che mina le fondamenta del trompe-l'oeil su cui poggia la nuova tirannia, dissolvendo le sue falsificazioni. Una visione che il potere combatte con grande sforzo, essendo l'ordine religioso l'unica fortezza che gli resta da espugnare prima che il suo trionfo sia completo.
Il laicismo rampante accusa la Chiesa di mischiarsi nella politica, adducendo a pretesto quella sentenza evangelica che sono soliti sbandierare quanti non leggono il Vangelo: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Ma, cos'è proprio di Cesare? Le cose temporali, le realtà terrene; ma non, naturalmente, i principi di ordine morale che nascono dalla stessa natura umana, non i fondamenti etici dell'ordine temporale. La nuova tirannia, tanto attenta a espandere le "libertà" dei suoi sudditi, nega alla Chiesa quella di giudicare la moralità delle azioni temporali, poiché sa che tale giudizio include un radicale sovvertimento del trompe-l'oeil su cui sui fonda la sua stessa esistenza. Il potere anela una Chiesa farisaica e corrotta che rinunci a restituire all'umanità la sua vera natura e accetti quel "mistero d'iniquità" che è l'adorazione dell'uomo; spera in una Chiesa posta in ginocchio dinanzi a Cesare, trasformata in quella "grande meretrice che fornica con i re della terra" di cui parla l'Apocalisse.
Oggi in Occidente si sta ingaggiando questo grande scontro, che la nuova tirannia maschera molto abilmente da "battaglia ideologica". Ma se questa fosse veramente una "battaglia ideologica", il potere non la considererebbe un sovvertimento; poiché l'ideologia è proprio il terreno fertile che favorisce il suo dominio, in quanto instaura una "demo-rissa", cioè una lotta "democratica" di tutti contro tutti, capace di trasformare gli uomini in bambini indispettiti che lottano per le loro "libertà" e i loro "diritti", così come i costruttori di Babele lottavano, in mezzo alla confusione, per erigere una torre che raggiungesse il cielo.
La battaglia che oggi s'ingaggia non è ideologica, ma antropologica, poiché tende a restituire agli uomini la loro autentica natura, permettendo loro di uscire dalla confusione babelica fomentata dall'ideologia, fino a raggiungere il cammino che conduce ai principi originali. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo.
Gli articoli raccolti in questo volume sono bollettini di questa battaglia, emessi dalle tribune che benevolmente il giornale "ABC" e la rivista "XL Semanal" mi concedono ormai da più di 13 anni, e che "L'Osservatore Romano", "Capital" e "Padres y Colegios" hanno inaugurato da poco. Il lettore curioso constaterà che in questi "bollettini di battaglia" convivono la diatriba e l'introspezione, l'invettiva e l'elegia, la riflessione di indole politica e la divagazione artistica; troverà persino una selezione di cronache scritte in una primavera romana che cambiò il corso della mia vita, poiché fu allora – nei giorni che seguirono la morte di Giovanni Paolo II – che aderii definitivamente alla "vecchia libertà", l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo. In un'epoca di incertezze che lasciano l'uomo smarrito in un oceano d'inquietudini, Roma si erse dinanzi a me, all'improvviso, come uno scoglio di salvezza: non mi riferisco solo alla salvezza religiosa, ma anche a quella culturale, poiché considero la fede di Roma una fortezza che chiarisce i termini della nostra genealogia spirituale e ci difende dalle intemperie nelle quali vorrebbe gettarci la nuova tirannia. Rinnegare questo illimitato possesso equivale a firmare un atto di morte sociale; assumerlo come proprio non costituisce un atto di sottomissione, ma di orgogliosa e gioiosa libertà.
La rivoluzione eterna del cristianesimo consiste nel rivelarci il significato della vita, restituendoci la nostra natura; da questa scoperta nasce una gioia senza data di scadenza. Quando a questa gioia si aggiunge una minima sensibilità artistica, la vita diviene una festa dell'intelligenza. Scriveva Chesterton che la gioia, che è la piccola pubblicità del pagano, diveniva il gigantesco segreto del cristiano. Io, che sono un cristiano un po' impudico, ho cercato di rendere pubblico in questi articoli, o almeno di far intravedere, questo segreto gigantesco che m'invade e mi trascende.
Madrid, marzo 2009.
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I libri:
Juan Manuel de Prada, "La nueva tiranía. El sentido común frente al Mátrix progre", Libros Libres, Madrid, 2009.
Lorenzo Fazzini, "Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione", Lindau, Torino, 2009.
La buona battaglia per la vita - Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’?... - di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’? C’è un impegno parlamentare chiaro. Nei prossimi giorni l’Assemblea Generale dell’Onu terrà un meeting di ‘Alto Livello’ per fare il punto a 15 anni dalla Conferenza del Cairo del ’94. Alcuni hanno usato l’anniversario per provare a realizzare ‘progressi’ nel Piano d’Azione. Il Fondo per la Popolazione e Sviluppo (Unfpa) dell’Onu e le organizzazioni non governative ‘pro aborto’ hanno cercato di usare la ‘revisione del processo per espandere e legittimare l’uso dell’aborto nella affermazione, presente nel Programma d’Azione, sulla salute riproduttiva. L’Unfpa ha avuto il ruolo di guida nell’organizzazione dell’incontro di questa settimana all’Onu. Nei mesi scorsi, la Commissione per la Popolazione e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, dopo negoziati difficili, si è convinta a lasciar fuori dai propri documenti il diritto all’aborto. Nel settembre passato, invece, i movimenti Pro-Life sono stati lasciati fuori dal Meeting di Berlino, dove invece i favorevoli all’aborto approvarono l’impegno di far ‘pressing e lobbing’ in qualunque Stato per l’introduzione del diritto all’aborto. Molti parlamentari di tutto il mondo hanno invece espresso numerose preoccupazioni verso il Meeting Celebrativo dei 15 anni del Cairo che avrà, come unico argomento, l’aborto. Non è la prima volta che accadono queste stravaganze pericolose all’Onu o alle sue Organizzazioni. Basterà ricordare l’incredibile tentativo negli anni recenti di introdurre il diritto all’aborto tra quelli ‘rivisti’ del Millennio o l’aborto sicuro e salutare per evitare la mortalità delle mamme (la cui riduzione dipende dalle cure di base e da buoni ospedali). Così ci troviamo dinanzi a una paradossale situazione: mentre l’Unfpa e le ong pro aborto ‘rivedono’ gli obiettivi di Conferenze e Piani d’Azione per trascinarne i contenuto verso una vera e propria eugenetica dei poveri, chiamato diritto all’aborto, molti Paesi membri dell’Onu (Malta in primis), stanno agendo per confermare che mai la ‘salute sessuale e riproduttiva’ può introdurre il ‘diritto all’aborto’. L’Italia agisca in questa direzione. Sono discussioni che dovremmo sentire vicine, a cui dovremmo partecipare attivamente. Dopotutto, il nostro Parlamento ha impegnato il Governo ad agire per l’eliminazione dell’aborto selettivo. L’incontro di questa settimana a New York è un’eccellente occasione per trovare alleati e iniziare a combattere la buona battaglia per la vita e lo sviluppo di tutti gli esseri umani e popoli. Ogni passo ci avvicina alla meta. Perché non si inizia a procedere contrastando con tutti i mezzi il malthusianesimo internazionale, la tirannia eugenetica di certe Organizzazioni dell’Onu?
di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
Edith Stein e la preghiera - La scala di Giacobbe - Una delle relatrici del secondo congresso internazionale "Mística y pensamiento contemporáneo", svoltosi ad Ávila e dedicato alla figura di Edith Stein - nel decennale della sua proclamazione a compatrona d'Europa - ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009
L'avventura esistenziale di Edith Stein mostra due volti: conoscitivo, con la sua proiezione sulla scena filosofica, e mistico, nello sviluppo della sua vita interiore; senza luogo di frattura, di dicotomia e neppure di soggezione dell'uno all'altro, evitando lo scoglio di pesanti ricadute dal sapore di rinuncia antropologica. Come vi riuscì? Con la scoperta dell'empatia, dell'Einfühlung. L'aspetto quanto mai intrigante è il reale nesso fra tutto il suo pensiero antropologico e la sua spiritualità carmelitana: abitavano in lei due fonti, la "fonte vitale", il soggetto e il corpo, intesi secondo la scuola di Husserl, e la "fonte nascosta", l'essere dell'anima che vennero ricomponendosi in una sintesi, in cui ciascun elemento acquisì la sua portata e la sua consistenza esatta, un continuum che non conosce frattura fra vita della mente e relazione con Dio, secondo la spiritualità del Carmelo.
Per la fenomenologa la riflessione filosofica è "un abbozzo del senso del suo vivere", mentre la relazione personale fra la persona e Dio, cioè la mistica, si trova al vertice di somiglianza e differenza. Stein ha letto, con metodo fenomenologico, Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, il loro esperire la relazione con Dio, e vi ha portato chiarezza di pensiero, in sintesi di ragione filosofica, riflettendo sulla figura umana, delineata non come oggetto di leggi deterministiche ma quale fulcro di intersoggettività con se stessa, gli altri e Dio, in un tempo storico e culturale in cui tale ottica si stagliava fra il disorientamento e i frammenti abbandonati che non riuscivano a ricomporsi in un'unità. Chiaramente consapevole della possibile confusione che si potrebbe creare fra ambiti creduti affini; per questa ragione ne definisce i campi.
Stein delinea la genesi della sua ricerca sull'empatia e la colloca in un seminario di Husserl sulla natura e lo spirito, in cui il maestro parlava di un'esperienza che definiva Einfühlung, "ma non spiegava in che cosa consistesse". L'empatia però conobbe in lei uno sviluppo ulteriore. Nel corso della fatidica notte di Bad Bergzabern, la filosofa sperimentò Dio come fonte di senso, salvezza nel dolore, nell'angoscia e nell'assurdo, e Gesù Cristo come "la "via" al di fuori della quale nessuno arriva al Padre". Cercava non essendo ancora credente, ma "accolse" il dono di grazia.
Da questo momento in poi, Edith Stein esprime due sfaccettature di sé: la vita dello spirito e la vita nel mondo, con la certezza della "strada del cielo". L'esperire l'iniziativa di un Altro è simultanea per lei alla sua percezione di vita carmelitana e quindi della "salita" al senso dell'essere, cioè il cammino dei mistici che intraprese sui due fronti: intellettuale ed esperienziale. È possibile quindi un'affermazione, per certi aspetti audace: "Stein luogo di riflessione filosofica e di esperire mistico", che vuole dedicarsi a una filosofia costruita in modo particolare, una "filosofia della vita". Apre infatti sentieri e riflessioni proprie, illuminando le modalità dell'alterità, quando questa si presenti alla coscienza conoscente, proprio con l'atto empatico, cioè con il "rendersi conto", tuttavia si schiude pure a una conoscenza mistica perché l'incontro postula due persone che si riconoscono. In questa intuizione, Edith Stein traduceva il suo profondo ascolto della vita femminile.
Negli scritti posteriori alla conversione di Stein però non troviamo una ricerca specifica di approfondimento sull'empatia; non solo, il termine spesso neppure ricorre. Tuttavia rimane l'impianto preciso dell'empatia che dimostrerà un volto di pienezza diverso, ormai teologico e diventerà l'"atto della relazione personale-esistenziale Io-Tu" e investirà tutta la sfera dell'esperienza religiosa esprimendosi come agape, come dono.
Stein vive l'adesione e l'accoglienza interiore, che diventano esperire vitale e oggettivo, e si palesano nella preghiera contemplante, nell'ascoltare e nel gustare, in quella che Giovanni della Croce chiama "avvertenza amorosa"; ormai coglie per via empatica il Signore Presente, non cerca giudizi, ma esperisce immediatamente. Giovane studentessa aveva definita l'empatia lo strumento per la conoscenza di sé nel rapporto con gli altri, ormai carmelitana e studiosa matura, ne Il castello dell'anima, aveva indicato la stessa postura come "la porta del rapporto con gli uomini", senza peraltro servirsi del termine empatia, perché ormai la sua indagine si muoveva in campo prettamente spirituale.
Su questa postura si apre, quasi a fioritura, la via della conoscenza di sé attraverso l'unione con Dio. La relazione fra la persona e Dio non è forse un atto personale ed esistenziale di relazione, non è atto empatico? Edith Stein non aveva definito l'empatia "atto fondamentale degli atti", "atto dell'amore", apertura amorosa in cui trovano senso tutti gli atti di un essere umano. La relazione con Dio non si dimostra quindi l'atto fondamentale, l'atto di amore per eccellenza? Se l'empatia è rivolta e sperimentata con tutte le altre persone, perché non si può sperimentare anche con l'Uomo-Dio, con Gesù?
Perché Edith Stein, in questo contesto e in tutto il laborioso travaglio della ricerca non si è mai servita del termine empatia, mentre il procedimento si lascia scorgere ed è usato? Perché è la fede ormai a determinare questa scelta optata deliberatamente. La visione del mondo e della persona instauratasi è prettamente teologica e mistica, in questo rapporto l'Io di Dio non è soggetto o oggetto di empatia ma di accoglimento nella fede; nella relazione invece fra Dio e la persona l'empatia è atto fondante e mostra il suo volto di orazione. In questo senso scrive: "La preghiera è la più grande opera di cui lo spirito dell'uomo sia capace. Ma non è solo opera umana. La preghiera è una scala di Giacobbe, su di cui lo spirito dell'uomo sale a Dio e la grazia di Dio scende all'uomo".
In Edith Stein, giovane fenomenologa, mancava l'interesse metafisico con il suo fondale che, invece, emergerà quando conoscerà Teresa di Gesù e Il castello interiore, mentre Giovanni della Croce le donerà il centro interiore che lei saprà assumere e declinare fenomenologicamente, diventando così canto di unità dell'intera esperienza vissuta della fenomenologa e dell'esperire della mistica.
(©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009)
LA PROMOZIONE DEL BEL PAESE - MACCHÉ CASINÒ PUNTIAMO SUL BELLO NON SULL’AZZARDO - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 15 ottobre 2009
Li chiameremo a maneggiare fiches,
piuttosto che a vedere capolavori. Li inviteremo a sedersi al tavolo verde piuttosto che a restare a bocca aperta davanti a Raffaello, a Giotto, a Michelangelo. Surrettiziamente, quatto quatto, un decreto legge in avanzatissimo stato di elaborazione rischia di scatenare una proliferazione di Casinò nel nostro Paese. In nome del turismo. Mettendo davanti al fatto compiuto un Parlamento che (almeno finora) ha sempre avuto idee e preoccupazioni esattamente contrarie in proposito. Fatto sta che presto, forse già oggi, il Consiglio dei ministri comincerà a discutere della possibilità di aprire Casinò in ogni hotel di lusso che lo ritenga. Giochi d’azzardo per i soli clienti, si fa sapere. Ma come ha appreso chiunque sia stato una sola volta a Las Vegas, è facile che la camera venga offerta gratis a chi si siede al tavolo da gioco. Dunque, il turismo italiano punta sui casinò. Sull’azzardo come fattore di richiamo. E speriamo che qualche ministro – a cominciare da quello proponente – ci pensi e ci ripensi e si faccia toccare dal dubbio che il messaggio lanciato da una scelta del genere è che l’azzardo è un bene, una propensione da maneggiare senza cautela alcuna, offerta a tutti e incentivata dallo Stato. Anche se il giro di denaro che circonda le case da gioco non è sempre il più pulito e trasparente, anche se quel tipo di vincite non risulta che venga sistematicamente investito per visitar musei e riscoprir tesori della cultura e dell’arte.
Noi non crediamo che funzioni il pacchetto 'Roulette+Tiziano tutto compreso'. Non crediamo neppure che una simile scelta sia tra quelle che dovrebbero qualificare un provvedimento che punta a ridare slancio al turismo nel Bel Paese. E non riusciamo davvero a credere che una 'puntata' del genere sia portata sul tavolo del governo in un provvedimento d’urgenza, come se il fomentar azzardo in Italia fosse una questione di straordinaria necessità e urgenza. Ogni città e tantissimi paesi italiani hanno hotel di lusso, nati per servire un fenomenale dispiegamento di bellezze culturali e paesaggistiche. Aprire casinò in questi alberghi significherebbe disseminarne in ogni angolo d’Italia. È questa l’immagine turistica che vogliamo? Ed è questo il genere di turismo che vogliamo corteggiare? Nell’Est d’Europa l’hanno fatto, e offrirsi ai cercatori di brividi e di fortune non ha portato una grande fortuna. Qualcuno ci sta persino ripensando. Che facciamo: ci candidiamo a succursale di lusso?
In questi casi il pensiero corre alle lobby. Che certo ci sono, e spingono. E poi viene in mente il fisco che, si sa, dalla mole crescente di giochi più o meno d’azzardo lucra parecchio. Ma non sono motivi sufficienti. Sentiamo che c’è di più. Anzi di meno. C’è una debolezza culturale nell’immaginare l’Italia se progettiamo di vendere all’estero e a noi stessi l’Italia dei Casinò invece che l’Italia dei capolavori. Sentiamo che si punta di più sul verde del tavolo da gioco che sulle sfumature dei panorami di Piero della Francesca. E allora, forse, sarebbe meglio dirlo. Non si finga e lo si dichiari: non ci crediamo alla bellezza dell’Italia. Crediamo di più ai grandi lampadari, al luccicare dei tavoli e dei banconi dei bar. Crediamo di più alle nottate intontite ai tavoli da gioco che alla sospensione stupita di fronte a un capolavoro.
Ma forse è tutto uno sbaglio. Un fraintendimento. O uno sbilenco eccesso di zelo. E si sta già pensando a puntare in altre direzioni. Servendo la bellezza dell’Italia, e chiamando il mondo ad amarla. Sì, ne siamo certi, è possibile avere ancora questa dignità. Covare questa fantasia. Meditare questo sano e calcolatissimo azzardo: puntiamo sul bello, invece che sul vizio.
Scola agli immigrati: non solo diritti - DA V ENEZIA - FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 15 ottobre 2009
La moschea? Sì, in linea di principio, ma non può essere calata dall’alto, va concessa in base alla consistenza della comunità che la domanda. Il razzismo? Va denunciato, ma non generalizziamo. L’impresa non paga il salario ai dipendenti? È un’ingiustizia. Il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, su iniziativa del Lions di Mestre, incontra un gruppo di giovani immigrati di seconda generazione, quasi tutti musulmani, e non si sottrae a nessuna domanda, neppure le più intriganti. Corina, romena, poco più che ventenne, conosce 5 lingue, l’italiano grazie ad un’insegnante che gliel’ha fatto imparare dopo le lezioni a scuola. «Era volontaria in parrocchia. Perché nelle vostre comunità non si fa altrettanto? ». «Questo è un compito della scuola, ma sarei contento se le parrocchie si aprissero di più a voi giovani, ci sarebbe anche più vita - risponde il patriarca . Voi, però, non dovete pensare che tutto vi sia dovuto. Ad ogni diritto corrisponde un dovere. Ci si può aiutare anche fra amici». «Noi figli di immigrati a scuola siamo isolati», protesta cortesemente Alexandro, 19 anni, pure lui romeno; «I nostri compagni non accettano i cambiamenti». «Capisco risponde il patriarca - . D’altra parte sta avvenendo nel mondo un rimescolamento di popoli e di civiltà. È inevitabile che questo processo di meticciato comporti tempi lunghi. Tocca a voi aiutare i vostri amici ad inserirsi. Senza avere paura delle difficoltà. La nostra è una terra ricca di storia; ha difficoltà a capire i cambiamenti così radicali». Alexandro insiste, il cardinale lo consiglia: «Prova a capire la paura dell’altro e far sì che l’altro si dia delle ragioni per superare questa paura». Christian è nato in Svizzera, ma la famiglia è del Ruanda. Ha 18 anni, studia a Mestre e sottopone al patriarca il problema del razzismo. «Non mi pare che sia un fenomeno maggioritario », obietta Scola. Christian cita episodi di scuola. «Ti capisco, perché li hai vissuti sulla pelle tua o degli amici. Ma credimi, non è la maggioranza a comportarsi così. E non trasformare la tua analisi in un’ideologia o nella lente con cui guardi tutti i rapporti». Christian ascolta attento, replica con qualche altra esperienza. «È difficile nella nostra vita accettare la diversità», ammette il patriarca. «Quando è necessario, passa alla denuncia, ma non rinunciare a dare il tuo contributo in positivo». Kanije, 24 anni, macedone, ha già una laurea, ne vuol fare un’altra in medicina. Porta il velo. «Lo sa che mi sento osservata e giudicata come una bomba che cammina? Perché anche tanti cristiani si permettono di generalizzare sul comportamento di qualche musulmano che si comporta male? ». «Conoscersi è la condizione per rispettarsi e amarsi », suggerisce il patriarca, ovviamente contrario alle generalizzazioni. È sempre Kanije a sollevare un altro problema delicato, quello della moschea. «Sul piano del diritto, nessuna difficoltà. Su quello dell’attuazione, bisogna verificare di volta in volta la situazione ». No, ad esempio, ad una moschea calata dall’alto, magari con i fondi dell’Arabia Saudita. Sì se lo chiede una comunità consistente di musulmani? «A Venezia, in centro storico, sarebbe del tutto sproporzionata, in terraferma ci può stare». Melon, del Bangladesh, lavora in un’impresa di appalti alla Fincanieri. «Da giugno non vengo pagato ed ho un ragazzo in affido», denuncia. «Sei vittima di un’ingiustizia. Mi auguro che queste cose non si ripetano: né per gli immigrati né per i nostri operai. Che tu reclami il tuo diritto e che ti venga incon- tro la solidarietà».
Botta e risposta tra il patriarca di Venezia e un gruppo di giovani stranieri.Tra i temi affrontati le moschee, il razzismo e la paura del diverso. «Aiutateci a conoscervi»
Ru486 - Dieci buone ragioni per dire «no» - punti fermi – di Lorenzo Fazzini –Avvenire, 15 ottobre 2009
Dieci motivi per spiegare il 'no' convinto alla pillola Ru486; li ha redatti l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa. Diffondendoli ieri tramite il sito www.vanthuanobservatory.org, l’Osservatorio informa sulle «dieci buone ragioni contrarie all’aborto chimico», come spiega nel testo il presidente, monsignor Crepaldi, neo-arcivescovo di Trieste. Eccone una sintesi.
1Sempre aborto è. Il documento ricorda che «la modalità – chimica o chirurgica – con cui si realizza non cambia» la qualifica dell’aborto che resta «delitto abominevole» poiché provoca «l’eliminazione di un essere umano innocente».
2Più pericoloso. Il decalogo anti-Ru486 rilancia la notizia delle 29 donne morte dopo l’assunzione della kill-pill e sottolinea che «questa metodica è dieci volte più pericolosa di quella chirurgica ». Un dato incontrovertibile e che i sostenitori della Ru486 omettono sempre di citare.
3È un veleno. Altro che medicina: «Il mifepristone
Dall’Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa un testo firmato da monsignor Crepaldi per sintetizzare i nodi decisivi
», ovvero la Ru486, «compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico ». La sua azione «non cura nessuna malattia, ha un solo scopo: eliminare un embrione umano».
4Banalizzazione. Due gli effetti «culturali» della Ru486: «Ritenere che l’aborto sia una cosa facile» e che «rientri nell’ambito delle terapie mediche ». La gravidanza sarebbe una «'malattia' da potersi 'curare', ovvero eliminare, attraverso un’opzione medica». Ma «una gravidanza è la presenza di un nuovo essere umano, non è un mal di testa o un raffreddore».
5Solitudine. Considerati i tempi in cui la Ru486 produce i suoi effetti «è impensabile che tutto il percorso sia realizzabile in ospedale», visti i costi altissimi di un lungo ricovero. Risultato: si torna alla «donna sola nella gestione dell’aborto ».
6Tempi stretti. Si azzera ogni riflessione: andando presa entro le prime 7 settimane, la Ru486 appare «una 'soluzione' rapida, un automatismo: sono incinta-non lo voglio-prendo la pillola».
7Diseducazione. La banalizzazione dell’aborto chimico porta a deresponsabilizzare: «Il modo più semplice per risolvere i problemi» si risolve in
8Ideologia. C’è poi un dato ideologico palese: si vuole infatti «che questa modalità chimica diventi la normale via per abortire e che addirittura
9No alle imposizioni. Visto che non è un farmaco, la Ru486 non può essere imposta ai medici né ai farmacisti. «Ogni medico deve essere libero di dissociarsi e di rifiutarne la prescrizione».
10 Un’ingiustizia. Chiosa finale dell’Osservatorio: nonostante gli sforzi per renderlo banale, un banale «prendere una pastiglia».
possa sostituirsi alla contraccezione».
routinario, l’aborto resta un atto ingiusto.
1) Riflessione di Benedetto XVI su Pietro il Venerabile, Abate di Cluny - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) Il Pontefice incoraggia la Famiglia di Radio Maria - Nella sua opera a servizio della diffusione del Vangelo - di Antonio Gaspari
3) La Spagna cattolica ha un nuovo araldo: Juan Manuel de Prada - Da scrittore affermato a strenuo apologeta della Chiesa e del papa, anche su "L'Osservatore Romano". La sua è una delle tante storie di conversione dall'incredulità alla fede cristiana, in Europa. Contro la "tirannia" progressista - di Sandro Magister
4) La buona battaglia per la vita - Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’?... - di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
5) Edith Stein e la preghiera - La scala di Giacobbe - Una delle relatrici del secondo congresso internazionale "Mística y pensamiento contemporáneo", svoltosi ad Ávila e dedicato alla figura di Edith Stein - nel decennale della sua proclamazione a compatrona d'Europa - ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009
6) LA PROMOZIONE DEL BEL PAESE - MACCHÉ CASINÒ PUNTIAMO SUL BELLO NON SULL’AZZARDO - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 15 ottobre 2009
7) Scola agli immigrati: non solo diritti - DA V ENEZIA - FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 15 ottobre 2009
8) Dieci buone ragioni per dire «no» - punti fermi – di Lorenzo Fazzini –Avvenire, 15 ottobre 2009
Riflessione di Benedetto XVI su Pietro il Venerabile, Abate di Cluny - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 14 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Pietro il Venerabile (1094-1156).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
la figura di Pietro il Venerabile, che vorrei presentare nell’odierna catechesi, ci riconduce alla celebre abbazia di Cluny, al suo «decoro» (decor) e al suo «nitore» (nitor) – per usare termini ricorrenti nei testi cluniacensi – decoro e splendore, che si ammirano soprattutto nella bellezza della liturgia, via privilegiata per giungere a Dio. Più ancora che questi aspetti, però, la personalità di Pietro richiama la santità dei grandi abati cluniacensi: a Cluny "non ci fu un solo abate che non sia stato un santo", affermava nel 1080 il Papa Gregorio VII. Tra questi si colloca Pietro il Venerabile, il quale raccoglie in sé un po’ tutte le virtù dei suoi predecessori, sebbene già con lui Cluny, di fronte agli Ordini nuovi come quello di Cîteaux, inizi a risentire qualche sintomo di crisi. Pietro è un esempio mirabile di asceta rigoroso con se stesso e comprensivo con gli altri. Nato attorno al 1094 nella regione francese dell’Alvernia, entrò bambino nel monastero di Sauxillanges, ove divenne monaco professo e poi priore. Nel 1122 fu eletto Abate di Cluny, e in tale carica rimase fino alla morte, avvenuta nel giorno di Natale del 1156, come egli aveva desiderato. "Amante della pace – scrive il suo biografo Rodolfo – ottenne la pace nella gloria di Dio il giorno della pace" (Vita, I,17; PL 189,28).
Quanti lo conobbero ne esaltarono la signorile mitezza, il sereno equilibrio, il dominio di sé, la rettitudine, la lealtà, la lucidità e la speciale attitudine a mediare. "È nella mia stessa natura – scriveva - di essere alquanto portato all’indulgenza; a ciò mi incita la mia abitudine a perdonare. Sono assuefatto a sopportare e a perdonare" (Ep. 192, in: The Letters of Peter the Venerable, Harvard University Press, 1967, p. 446). Diceva ancora: "Con quelli che odiano la pace vorremmo, possibilmente, sempre essere pacifici" (Ep. 100, l.c., p. 261). E scriveva di sé: "Non sono di quelli che non sono contenti della loro sorte, … il cui spirito è sempre nell’ansia o nel dubbio, e che si lamentano perché tutti gli altri si riposano e loro sono i soli a lavorare" (Ep. 182, p. 425). Di indole sensibile e affettuosa, sapeva congiungere l’amore per il Signore con la tenerezza verso i familiari, particolarmente verso la madre, e verso gli amici. Fu un cultore dell’amicizia, in modo speciale nei confronti dei suoi monaci, che abitualmente si confidavano con lui, sicuri di essere accolti e compresi. Secondo la testimonianza del biografo, "non disprezzava e non respingeva nessuno" (Vita, I,3: PL 189,19); "appariva a tutti amabile; nella sua bontà innata era aperto a tutti" (ibid., I,1: PL, 189,17).
Potremmo dire che questo santo Abate costituisce un esempio anche per i monaci e i cristiani di questo nostro tempo, segnato da un ritmo di vita frenetico, dove non rari sono gli episodi di intolleranza e di incomunicabilità, le divisioni e i conflitti. La sua testimonianza ci invita a saper unire l’amore a Dio con l’amore al prossimo, e a non stancarci nel riannodare rapporti di fraternità e di riconciliazione. Così in effetti agiva Pietro il Venerabile, che si trovò a guidare il monastero di Cluny in anni non molto tranquilli per varie ragioni esterne e interne all’Abbazia, riuscendo ad essere al tempo stesso severo e dotato di profonda umanità. Soleva dire: "Da un uomo si potrà ottenere di più tollerandolo, che non irritandolo con le lamentele" (Ep. 172, l.c., p. 409). In ragione del suo ufficio dovette affrontare frequenti viaggi in Italia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’abbandono forzato della quiete contemplativa gli pesava. Confessava: "Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, trascinato qua e là; ho la mente rivolta ora agli affari miei ora a quelli degli altri, non senza grande agitazione del mio animo" (Ep. 91, l.c., p. 233). Pur dovendosi destreggiare tra poteri e signorie che circondavano Cluny, riuscì comunque, grazie al suo senso della misura, alla sua magnanimità e al suo realismo, a conservare un’abituale tranquillità. Tra le personalità con cui entrò in relazione ci fu Bernardo di Clairvaux con il quale intrattenne un rapporto di crescente amicizia, pur nella diversità del temperamento e delle prospettive. Bernardo lo definiva: "uomo importante, occupato in faccende importanti" e aveva grande stima di lui (Ep. 147, ed. Scriptorium Claravallense, Milano 1986, VI/1, pp. 658-660), mentre Pietro il Venerabile definiva Bernardo "lucerna della Chiesa" (Ep. 164, p. 396), "forte e splendida colonna dell’ordine monastico e di tutta la Chiesa" (Ep. 175, p. 418).
Con vivo senso ecclesiale, Pietro il Venerabile affermava che le vicende del popolo cristiano devono essere sentite nell’"intimo del cuore" da quanti si annoverano "tra i membri del corpo di Cristo" (Ep. 164, l.c., p. 397). E aggiungeva: "Non è alimentato dallo spirito di Cristo chi non sente le ferite del corpo di Cristo", ovunque esse si producano (ibid.). Mostrava inoltre cura e sollecitudine anche per chi era al di fuori della Chiesa, in particolare per gli ebrei e i musulmani: per favorire la conoscenza di questi ultimi provvide a far tradurre il Corano. Osserva al riguardo uno storico recente: "In mezzo all’intransigenza degli uomini del Medioevo – anche dei più grandi tra essi –, noi ammiriamo qui un esempio sublime della delicatezza a cui conduce la carità cristiana" (J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, 1991, p. 189). Altri aspetti della vita cristiana a lui cari erano l’amore per l’Eucaristia e la devozione verso la Vergine Maria. Sul Santissimo Sacramento ci ha lasciato pagine che costituiscono "uno dei capolavori della letteratura eucaristica di tutti i tempi" (ibid., p. 267), e sulla Madre di Dio ha scritto riflessioni illuminanti, contemplandola sempre in stretta relazione con Gesù Redentore e con la sua opera di salvezza. Basti riportare questa sua ispirata elevazione: "Salve, Vergine benedetta, che hai messo in fuga la maledizione. Salve, madre dell’Altissimo, sposa dell’Agnello mitissimo. Tu hai vinto il serpente, gli hai schiacciato il capo, quando il Dio da te generato lo ha annientato… Stella fulgente dell’oriente, che metti in fuga le ombre dell’occidente. Aurora che precede il sole, giorno che ignora la notte… Prega il Dio che da te è nato, perché sciolga il nostro peccato e, dopo il perdono, ci conceda la grazia e la gloria" (Carmina, PL 189, 1018-1019).
Pietro il Venerabile nutriva anche una predilezione per l’attività letteraria e ne possedeva il talento. Annotava le sue riflessioni, persuaso dell’importanza di usare la penna quasi come un aratro per "spargere nella carta il seme del Verbo" (Ep. 20, p. 38). Anche se non fu un teologo sistematico, fu un grande indagatore del mistero di Dio. La sua teologia affonda le radici nella preghiera, specie in quella liturgica e tra i misteri di Cristo, egli prediligeva quello della Trasfigurazione, nel quale già si prefigura la Risurrezione. Fu proprio lui ad introdurre a Cluny tale festa, componendone uno speciale ufficio, in cui si riflette la caratteristica pietà teologica di Pietro e dell’Ordine cluniacense, tesa tutta alla contemplazione del volto glorioso (gloriosa facies) di Cristo, trovandovi le ragioni di quell’ardente gioia che contrassegnava il suo spirito e si irradiava nella liturgia del monastero.
Cari fratelli e sorelle, questo santo monaco è certamente un grande esempio di santità monastica, alimentata alle sorgenti della tradizione benedettina. Per lui l’ideale del monaco consiste nell’"aderire tenacemente a Cristo" (Ep. 53, l.c., p. 161), in una vita claustrale contraddistinta dalla "umiltà monastica" (ibid.) e dalla laboriosità (Ep. 77, l.c., p. 211), come pure da un clima di silenziosa contemplazione e di costante lode a Dio. La prima e più importante occupazione del monaco, secondo Pietro di Cluny, è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – "opera celeste e di tutte la più utile" (Statuta, I, 1026) – da accompagnare con la lettura, la meditazione, l’orazione personale e la penitenza osservata con discrezione (cfr Ep. 20, l.c., p. 40). In questo modo tutta la vita risulta pervasa di amore profondo per Dio e di amore per gli altri, un amore che si esprime nella sincera apertura al prossimo, nel perdono e nella ricerca della pace. Potremmo dire, concludendo, che se questo stile di vita unito al lavoro quotidiano, costituisce, per san Benedetto, l’ideale del monaco, esso concerne anche tutti noi, può essere, in grande misura, lo stile di vita del cristiano che vuole diventare autentico discepolo di Cristo, caratterizzato proprio dall’adesione tenace a Lui, dall’umiltà, dalla laboriosità e dalla capacità di perdono e di pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo il mio cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i delegati della Famiglia di Radio Maria, provenienti dai vari Continenti e li incoraggio a proseguire la loro importante opera a servizio della diffusione del Vangelo. Saluto i rappresentanti del Villaggio don Bosco di Tivoli, accompagnati dal Vescovo Mons. Mauro Parmeggiani; cari amici, il centenario della nascita del vostro fondatore, il compianto don Nello Del Raso, sia occasione propizia per continuare fedelmente la sua intuizione educativa. Saluto il gruppo dei Consoli di Milano e della Lombardia e li incoraggio ad operare con rinnovato impegno in favore dell’uomo e della sua dignità.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Carissimi, celebreremo domani la festa di santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa. Questa grande Santa testimoni a voi, cari giovani, che l’amore autentico non può essere scisso dalla verità; aiuti a voi, cari malati, a comprendere che la croce di Cristo è mistero di amore che redime l’umana sofferenza. Per voi, cari sposi novelli, sia modello di fedeltà a Dio, che affida ad ognuno una speciale missione.
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Il Pontefice incoraggia la Famiglia di Radio Maria - Nella sua opera a servizio della diffusione del Vangelo - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 14 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Questo mercoledì, al termine dell'Udienza generale in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha rivolto un saluto particolare ai circa 200 tra presidenti e direttori della Famiglia di Radio Maria, provenienti dai vari continenti, incoraggiandoli “a proseguire la loro importante opera a servizio della diffusione del Vangelo”.
Radio Maria è presente nei cinque continenti con 58 differenti Radio, con un ascolto medio quotidiano di trenta milioni di persone.
Il tema dell’incontro mondiale che si sta svolgendo nel santuario di Collevalenza è “Con Maria servitori della Chiesa”.
Parlando con ZENIT, padre Francisco Palacios, responsabile della attività editoriali nella famiglia mondiale, ha spiegato che Radio Maria è “una sfida ai modelli di comunicazione dominanti perchè in un mondo che sembra sempre più secolarizzato e lontano da Dio, Radio Maria pratica e porta la preghiera ovunque”.
“Non si tratta di una azione unilaterale – ha spiegato padre Francisco – preghiamo e invitiamo gli ascoltatori a orare e meditare insieme a noi”.
Fedele al magistero della Chiesa, Radio Maria pratica un'attività pastorale di formazione integrale diffondendo il messaggio cristiano in tutte le sue forme, dalla teologia alla dottrina sociale, dalla liturgia all’apologetica.
Radio Maria, che in tutte le sue stazioni tramette per tutte le 24 ore, ha un palinsesto con 7 ore di preghiera, messa, adorazione eucaristica, rosario, 7 ore di formazione cristiana, 7 ore di formazione umana, e tre ore di informazione e musica.
Ogni Radio nazionale ha un sacerdote come direttore editoriale ed un presidente dell’associazione laico. Il sacerdote garantisce che il palinsesto si svolga secondo il rispetto del magistero della Chiesa, mentre il Presidente dell’associazione organizza, promuove e sviluppa la comunità sociale che mantiene le attività della Radio.
La comunicazione della parola di Dio e delle virtù che sono alla base dell’insegnamento cristiano, fa lievitare la qualità e il numero degli ascoltatori.
Ogni Radio Maria diventa così espressione di un gruppo sempre più vasto di persone, unite fraternamente in un progetto di miglioramento della vita di ognuno.
In merito alla forza della preghiera che ha operato questa espansione a livello mondiale, padre Livio Fanzaga, che di Radio Maria Italia è anima e conduttore, ha detto a ZENIT che il programma più seguito è la celebrazione eucaristica.
Radio Maria Italia si collega ogni giorno con almeno due parrocchie, con la prima trasmette le lodi e le preghiere del mattino, con la seconda l’adorazione eucaristica. A questo si aggiunge il rosario serale.
Padre Livio si è detto molto colpito dalla crescita di maturità e di fede dei direttori delle Radio Maria nel mondo, ed ha sottolineato che la forza e il carisma di questa opera sta tutto in Maria.
“Tanto più seguiremo la Vergine, tanto più porteremo il messaggio cristiano nel mondo”, ha affermato padre Livio.
La Spagna cattolica ha un nuovo araldo: Juan Manuel de Prada - Da scrittore affermato a strenuo apologeta della Chiesa e del papa, anche su "L'Osservatore Romano". La sua è una delle tante storie di conversione dall'incredulità alla fede cristiana, in Europa. Contro la "tirannia" progressista - di Sandro Magister
ROMA, 12 ottobre 2009 – È nelle librerie da alcuni giorni in Italia una raccolta di interviste con dei convertiti alla fede cattolica, alcuni di grande notorietà: dal francese Jean-Claude Guillebaud alla norvegese Janne Haaland Matlary, già viceministro degli esteri del suo paese ed autrice di libri tradotti in più lingue, uno dei quali con la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger.
La raccolta di interviste, edita da Lindau, ha per autore Lorenzo Fazzini e per titolo: "Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione".
Ma anche "L'Osservatore Romano", il giornale della Santa Sede, ha tra le sue firme di spicco un celebre convertito.
È lo scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, qui sopra fotografato con la copertina-manifesto del romanzo che nel 2003 ne consacrò definitivamente il successo: "La vida invisible".
De Prada, 39 anni, ha raccolto nel suo ultimo libro gli articoli "di battaglia" che egli ha scritto in difesa del cattolicesimo non solo sui giornali spagnoli "ABC" e "XL Semanal", ma anche su "L'Osservatore Romano", di cui è collaboratore dal 2007. In soli cinque mesi il libro è giunto in Spagna alla quinta edizione. Da un mese, de Prada è anche una delle voci principali di "Cope", la più importante radio cattolica spagnola.
Il 2 ottobre scorso "L'Osservatore Romano" ha tradotto e riprodotto la prefazione del libro. In essa, de Prada ricorda come e quando in lui "cambiò il corso della vita".
Era la primavera del 2005, erano i giorni della morte di Giovanni Paolo II. De Prada si trovava a Roma e "all'improvviso" volle aderire definitivamente a quella "vecchia libertà" che è il tesoro religioso e culturale della Chiesa cattolica: una libertà che è "l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo".
Il libro, infatti, si intitola proprio così: "La nueva tiranía. El sentido común frente al Mátrix progre".
La "Matrice progressista" è il nome che de Prada dà al grande inganno che egli vede in opera nella cultura dominante in Europa: "Le dittature del passato reprimevano le libertà personali. Quelle moderne inducono l'uomo ad adorare se stesso e a negare così la sua natura".
E ancora scrive:
"La battaglia che oggi s'ingaggia tende a restituire agli uomini la loro autentica natura. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo".
Ecco qui di seguito la traduzione integrale – a cura de "L'Osservatore Romano" – della prefazione a "La nueva tiranía". Il testo originale è nell'edizione spagnola di questa stessa pagina di www.chiesa.
De Prada ha dedicato questo suo libro all'amico Giovanni Maria Vian, direttore del "giornale del papa".
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La matrice progressista della nuova tirannia - di Juan Manuel de Prada
"Come si può parlare di 'nuova tirannia', quando mai prima d'ora gli uomini hanno goduto di tanta libertà e tanti diritti?", potrebbe chiedersi un lettore sprovveduto. Le tirannie classiche, in effetti, si caratterizzavano per il fatto di reprimere la libertà e negare i diritti. Gli uomini avevano coscienza di tale usurpazione perché, privati di qualcosa che apparteneva loro per natura, si sentivano sminuiti.
La nuova tirannia a cui ci riferiamo, invece, esalta l'uomo fino all'adorazione, dandogli l'opportunità di trasformare i propri interessi e i propri desideri in libertà e diritti, che però non sono più inerenti alla sua natura, ma diventano "gentili concessioni" di un potere che li consacra legalmente. E così, trasformato in un bambino che contempla i suoi capricci mentre vengono ingigantiti e soddisfatti, l'uomo del nostro tempo è più che mai ostaggio di istanze di potere che gli garantiscono il godimento di una libertà onnicomprensiva e diritti in continua espansione. Nelle tirannie classiche al suddito restava almeno la consolazione di sapersi oppresso da un potere che violentava la sua natura; chi è sottomesso a questa nuova tirannia non ha invece altra consolazione che la protezione dello stesso potere che lo ha innalzato sull'altare dell'adorazione. E così l'uomo è divenuto, senza neanche rendersene conto, uno strumento nelle mani di chi lo accudisce con minuziosa cura, come le formiche accudiscono i gorgoglioni prima di mungerli.
In cambio di queste "gentili concessioni", l'uomo accetta una visione egemonica del mondo che gli viene imposto e lo trasforma in oggetto d'ingegneria sociale. Chiameremo Matrice progressista questa visione egemonica: un miraggio, una grande illusione o trompe-l'oeil che viene accettata con spirito gregario. Chi osa mettere in dubbio il trompe-l'oeil è immediatamente raggiunto da anatemi, è considerato un reprobo o un blasfemo, un nemico dell'adorazione dell'uomo. La Matrice progressista, utilizzata dalla sinistra, è stata assimilata anche dalla destra, che ha rinunciato a dare battaglia laddove il confronto con l'avversario risulterebbe efficace e lusinghiero: nell'ambito dei principi. Nel suo claudicare, la destra si limita a introdurre varianti insignificanti nel funzionamento della grande macchina, ma non osa utilizzarne gli ingranaggi. Il che è come arare senza buoi.
La Matrice progressista è così diventata una specie di fede messianica; ha instaurato un nuovo ordine, ha imposto paradigmi culturali inattaccabili, ha stabilito una nuova antropologia che, promettendo all'uomo la liberazione finale, gli riserva solo il futuro suicidio. E contro questo nuovo ordine, si erge solo l'ordine religioso, che restituisce all'uomo la sua vera natura e gli propone una visione corretta del mondo che mina le fondamenta del trompe-l'oeil su cui poggia la nuova tirannia, dissolvendo le sue falsificazioni. Una visione che il potere combatte con grande sforzo, essendo l'ordine religioso l'unica fortezza che gli resta da espugnare prima che il suo trionfo sia completo.
Il laicismo rampante accusa la Chiesa di mischiarsi nella politica, adducendo a pretesto quella sentenza evangelica che sono soliti sbandierare quanti non leggono il Vangelo: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Ma, cos'è proprio di Cesare? Le cose temporali, le realtà terrene; ma non, naturalmente, i principi di ordine morale che nascono dalla stessa natura umana, non i fondamenti etici dell'ordine temporale. La nuova tirannia, tanto attenta a espandere le "libertà" dei suoi sudditi, nega alla Chiesa quella di giudicare la moralità delle azioni temporali, poiché sa che tale giudizio include un radicale sovvertimento del trompe-l'oeil su cui sui fonda la sua stessa esistenza. Il potere anela una Chiesa farisaica e corrotta che rinunci a restituire all'umanità la sua vera natura e accetti quel "mistero d'iniquità" che è l'adorazione dell'uomo; spera in una Chiesa posta in ginocchio dinanzi a Cesare, trasformata in quella "grande meretrice che fornica con i re della terra" di cui parla l'Apocalisse.
Oggi in Occidente si sta ingaggiando questo grande scontro, che la nuova tirannia maschera molto abilmente da "battaglia ideologica". Ma se questa fosse veramente una "battaglia ideologica", il potere non la considererebbe un sovvertimento; poiché l'ideologia è proprio il terreno fertile che favorisce il suo dominio, in quanto instaura una "demo-rissa", cioè una lotta "democratica" di tutti contro tutti, capace di trasformare gli uomini in bambini indispettiti che lottano per le loro "libertà" e i loro "diritti", così come i costruttori di Babele lottavano, in mezzo alla confusione, per erigere una torre che raggiungesse il cielo.
La battaglia che oggi s'ingaggia non è ideologica, ma antropologica, poiché tende a restituire agli uomini la loro autentica natura, permettendo loro di uscire dalla confusione babelica fomentata dall'ideologia, fino a raggiungere il cammino che conduce ai principi originali. Se si vincesse – se la Matrice fosse disattivata – gli uomini scoprirebbero che non hanno bisogno di costruire torri per raggiungere il cielo, per il semplice motivo che il cielo è già dentro di loro, anche se la nuova tirannia cerca di strapparglielo.
Gli articoli raccolti in questo volume sono bollettini di questa battaglia, emessi dalle tribune che benevolmente il giornale "ABC" e la rivista "XL Semanal" mi concedono ormai da più di 13 anni, e che "L'Osservatore Romano", "Capital" e "Padres y Colegios" hanno inaugurato da poco. Il lettore curioso constaterà che in questi "bollettini di battaglia" convivono la diatriba e l'introspezione, l'invettiva e l'elegia, la riflessione di indole politica e la divagazione artistica; troverà persino una selezione di cronache scritte in una primavera romana che cambiò il corso della mia vita, poiché fu allora – nei giorni che seguirono la morte di Giovanni Paolo II – che aderii definitivamente alla "vecchia libertà", l'antidoto contro tutte le tirannie del mondo. In un'epoca di incertezze che lasciano l'uomo smarrito in un oceano d'inquietudini, Roma si erse dinanzi a me, all'improvviso, come uno scoglio di salvezza: non mi riferisco solo alla salvezza religiosa, ma anche a quella culturale, poiché considero la fede di Roma una fortezza che chiarisce i termini della nostra genealogia spirituale e ci difende dalle intemperie nelle quali vorrebbe gettarci la nuova tirannia. Rinnegare questo illimitato possesso equivale a firmare un atto di morte sociale; assumerlo come proprio non costituisce un atto di sottomissione, ma di orgogliosa e gioiosa libertà.
La rivoluzione eterna del cristianesimo consiste nel rivelarci il significato della vita, restituendoci la nostra natura; da questa scoperta nasce una gioia senza data di scadenza. Quando a questa gioia si aggiunge una minima sensibilità artistica, la vita diviene una festa dell'intelligenza. Scriveva Chesterton che la gioia, che è la piccola pubblicità del pagano, diveniva il gigantesco segreto del cristiano. Io, che sono un cristiano un po' impudico, ho cercato di rendere pubblico in questi articoli, o almeno di far intravedere, questo segreto gigantesco che m'invade e mi trascende.
Madrid, marzo 2009.
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I libri:
Juan Manuel de Prada, "La nueva tiranía. El sentido común frente al Mátrix progre", Libros Libres, Madrid, 2009.
Lorenzo Fazzini, "Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione", Lindau, Torino, 2009.
La buona battaglia per la vita - Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’?... - di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
Quando iniziamo a togliere i fondi all’Unfpa? Quando Frattini chiamerà l’Ambasciatore italiano per dare mandati precisi sul contrasto ai tentativi di molti responsabili dell’Onu di introdurre ‘il diritto all’aborto’? C’è un impegno parlamentare chiaro. Nei prossimi giorni l’Assemblea Generale dell’Onu terrà un meeting di ‘Alto Livello’ per fare il punto a 15 anni dalla Conferenza del Cairo del ’94. Alcuni hanno usato l’anniversario per provare a realizzare ‘progressi’ nel Piano d’Azione. Il Fondo per la Popolazione e Sviluppo (Unfpa) dell’Onu e le organizzazioni non governative ‘pro aborto’ hanno cercato di usare la ‘revisione del processo per espandere e legittimare l’uso dell’aborto nella affermazione, presente nel Programma d’Azione, sulla salute riproduttiva. L’Unfpa ha avuto il ruolo di guida nell’organizzazione dell’incontro di questa settimana all’Onu. Nei mesi scorsi, la Commissione per la Popolazione e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, dopo negoziati difficili, si è convinta a lasciar fuori dai propri documenti il diritto all’aborto. Nel settembre passato, invece, i movimenti Pro-Life sono stati lasciati fuori dal Meeting di Berlino, dove invece i favorevoli all’aborto approvarono l’impegno di far ‘pressing e lobbing’ in qualunque Stato per l’introduzione del diritto all’aborto. Molti parlamentari di tutto il mondo hanno invece espresso numerose preoccupazioni verso il Meeting Celebrativo dei 15 anni del Cairo che avrà, come unico argomento, l’aborto. Non è la prima volta che accadono queste stravaganze pericolose all’Onu o alle sue Organizzazioni. Basterà ricordare l’incredibile tentativo negli anni recenti di introdurre il diritto all’aborto tra quelli ‘rivisti’ del Millennio o l’aborto sicuro e salutare per evitare la mortalità delle mamme (la cui riduzione dipende dalle cure di base e da buoni ospedali). Così ci troviamo dinanzi a una paradossale situazione: mentre l’Unfpa e le ong pro aborto ‘rivedono’ gli obiettivi di Conferenze e Piani d’Azione per trascinarne i contenuto verso una vera e propria eugenetica dei poveri, chiamato diritto all’aborto, molti Paesi membri dell’Onu (Malta in primis), stanno agendo per confermare che mai la ‘salute sessuale e riproduttiva’ può introdurre il ‘diritto all’aborto’. L’Italia agisca in questa direzione. Sono discussioni che dovremmo sentire vicine, a cui dovremmo partecipare attivamente. Dopotutto, il nostro Parlamento ha impegnato il Governo ad agire per l’eliminazione dell’aborto selettivo. L’incontro di questa settimana a New York è un’eccellente occasione per trovare alleati e iniziare a combattere la buona battaglia per la vita e lo sviluppo di tutti gli esseri umani e popoli. Ogni passo ci avvicina alla meta. Perché non si inizia a procedere contrastando con tutti i mezzi il malthusianesimo internazionale, la tirannia eugenetica di certe Organizzazioni dell’Onu?
di Luca Volontè - Il Tempo - 13/10/2009
Edith Stein e la preghiera - La scala di Giacobbe - Una delle relatrici del secondo congresso internazionale "Mística y pensamiento contemporáneo", svoltosi ad Ávila e dedicato alla figura di Edith Stein - nel decennale della sua proclamazione a compatrona d'Europa - ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009
L'avventura esistenziale di Edith Stein mostra due volti: conoscitivo, con la sua proiezione sulla scena filosofica, e mistico, nello sviluppo della sua vita interiore; senza luogo di frattura, di dicotomia e neppure di soggezione dell'uno all'altro, evitando lo scoglio di pesanti ricadute dal sapore di rinuncia antropologica. Come vi riuscì? Con la scoperta dell'empatia, dell'Einfühlung. L'aspetto quanto mai intrigante è il reale nesso fra tutto il suo pensiero antropologico e la sua spiritualità carmelitana: abitavano in lei due fonti, la "fonte vitale", il soggetto e il corpo, intesi secondo la scuola di Husserl, e la "fonte nascosta", l'essere dell'anima che vennero ricomponendosi in una sintesi, in cui ciascun elemento acquisì la sua portata e la sua consistenza esatta, un continuum che non conosce frattura fra vita della mente e relazione con Dio, secondo la spiritualità del Carmelo.
Per la fenomenologa la riflessione filosofica è "un abbozzo del senso del suo vivere", mentre la relazione personale fra la persona e Dio, cioè la mistica, si trova al vertice di somiglianza e differenza. Stein ha letto, con metodo fenomenologico, Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, il loro esperire la relazione con Dio, e vi ha portato chiarezza di pensiero, in sintesi di ragione filosofica, riflettendo sulla figura umana, delineata non come oggetto di leggi deterministiche ma quale fulcro di intersoggettività con se stessa, gli altri e Dio, in un tempo storico e culturale in cui tale ottica si stagliava fra il disorientamento e i frammenti abbandonati che non riuscivano a ricomporsi in un'unità. Chiaramente consapevole della possibile confusione che si potrebbe creare fra ambiti creduti affini; per questa ragione ne definisce i campi.
Stein delinea la genesi della sua ricerca sull'empatia e la colloca in un seminario di Husserl sulla natura e lo spirito, in cui il maestro parlava di un'esperienza che definiva Einfühlung, "ma non spiegava in che cosa consistesse". L'empatia però conobbe in lei uno sviluppo ulteriore. Nel corso della fatidica notte di Bad Bergzabern, la filosofa sperimentò Dio come fonte di senso, salvezza nel dolore, nell'angoscia e nell'assurdo, e Gesù Cristo come "la "via" al di fuori della quale nessuno arriva al Padre". Cercava non essendo ancora credente, ma "accolse" il dono di grazia.
Da questo momento in poi, Edith Stein esprime due sfaccettature di sé: la vita dello spirito e la vita nel mondo, con la certezza della "strada del cielo". L'esperire l'iniziativa di un Altro è simultanea per lei alla sua percezione di vita carmelitana e quindi della "salita" al senso dell'essere, cioè il cammino dei mistici che intraprese sui due fronti: intellettuale ed esperienziale. È possibile quindi un'affermazione, per certi aspetti audace: "Stein luogo di riflessione filosofica e di esperire mistico", che vuole dedicarsi a una filosofia costruita in modo particolare, una "filosofia della vita". Apre infatti sentieri e riflessioni proprie, illuminando le modalità dell'alterità, quando questa si presenti alla coscienza conoscente, proprio con l'atto empatico, cioè con il "rendersi conto", tuttavia si schiude pure a una conoscenza mistica perché l'incontro postula due persone che si riconoscono. In questa intuizione, Edith Stein traduceva il suo profondo ascolto della vita femminile.
Negli scritti posteriori alla conversione di Stein però non troviamo una ricerca specifica di approfondimento sull'empatia; non solo, il termine spesso neppure ricorre. Tuttavia rimane l'impianto preciso dell'empatia che dimostrerà un volto di pienezza diverso, ormai teologico e diventerà l'"atto della relazione personale-esistenziale Io-Tu" e investirà tutta la sfera dell'esperienza religiosa esprimendosi come agape, come dono.
Stein vive l'adesione e l'accoglienza interiore, che diventano esperire vitale e oggettivo, e si palesano nella preghiera contemplante, nell'ascoltare e nel gustare, in quella che Giovanni della Croce chiama "avvertenza amorosa"; ormai coglie per via empatica il Signore Presente, non cerca giudizi, ma esperisce immediatamente. Giovane studentessa aveva definita l'empatia lo strumento per la conoscenza di sé nel rapporto con gli altri, ormai carmelitana e studiosa matura, ne Il castello dell'anima, aveva indicato la stessa postura come "la porta del rapporto con gli uomini", senza peraltro servirsi del termine empatia, perché ormai la sua indagine si muoveva in campo prettamente spirituale.
Su questa postura si apre, quasi a fioritura, la via della conoscenza di sé attraverso l'unione con Dio. La relazione fra la persona e Dio non è forse un atto personale ed esistenziale di relazione, non è atto empatico? Edith Stein non aveva definito l'empatia "atto fondamentale degli atti", "atto dell'amore", apertura amorosa in cui trovano senso tutti gli atti di un essere umano. La relazione con Dio non si dimostra quindi l'atto fondamentale, l'atto di amore per eccellenza? Se l'empatia è rivolta e sperimentata con tutte le altre persone, perché non si può sperimentare anche con l'Uomo-Dio, con Gesù?
Perché Edith Stein, in questo contesto e in tutto il laborioso travaglio della ricerca non si è mai servita del termine empatia, mentre il procedimento si lascia scorgere ed è usato? Perché è la fede ormai a determinare questa scelta optata deliberatamente. La visione del mondo e della persona instauratasi è prettamente teologica e mistica, in questo rapporto l'Io di Dio non è soggetto o oggetto di empatia ma di accoglimento nella fede; nella relazione invece fra Dio e la persona l'empatia è atto fondante e mostra il suo volto di orazione. In questo senso scrive: "La preghiera è la più grande opera di cui lo spirito dell'uomo sia capace. Ma non è solo opera umana. La preghiera è una scala di Giacobbe, su di cui lo spirito dell'uomo sale a Dio e la grazia di Dio scende all'uomo".
In Edith Stein, giovane fenomenologa, mancava l'interesse metafisico con il suo fondale che, invece, emergerà quando conoscerà Teresa di Gesù e Il castello interiore, mentre Giovanni della Croce le donerà il centro interiore che lei saprà assumere e declinare fenomenologicamente, diventando così canto di unità dell'intera esperienza vissuta della fenomenologa e dell'esperire della mistica.
(©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009)
LA PROMOZIONE DEL BEL PAESE - MACCHÉ CASINÒ PUNTIAMO SUL BELLO NON SULL’AZZARDO - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 15 ottobre 2009
Li chiameremo a maneggiare fiches,
piuttosto che a vedere capolavori. Li inviteremo a sedersi al tavolo verde piuttosto che a restare a bocca aperta davanti a Raffaello, a Giotto, a Michelangelo. Surrettiziamente, quatto quatto, un decreto legge in avanzatissimo stato di elaborazione rischia di scatenare una proliferazione di Casinò nel nostro Paese. In nome del turismo. Mettendo davanti al fatto compiuto un Parlamento che (almeno finora) ha sempre avuto idee e preoccupazioni esattamente contrarie in proposito. Fatto sta che presto, forse già oggi, il Consiglio dei ministri comincerà a discutere della possibilità di aprire Casinò in ogni hotel di lusso che lo ritenga. Giochi d’azzardo per i soli clienti, si fa sapere. Ma come ha appreso chiunque sia stato una sola volta a Las Vegas, è facile che la camera venga offerta gratis a chi si siede al tavolo da gioco. Dunque, il turismo italiano punta sui casinò. Sull’azzardo come fattore di richiamo. E speriamo che qualche ministro – a cominciare da quello proponente – ci pensi e ci ripensi e si faccia toccare dal dubbio che il messaggio lanciato da una scelta del genere è che l’azzardo è un bene, una propensione da maneggiare senza cautela alcuna, offerta a tutti e incentivata dallo Stato. Anche se il giro di denaro che circonda le case da gioco non è sempre il più pulito e trasparente, anche se quel tipo di vincite non risulta che venga sistematicamente investito per visitar musei e riscoprir tesori della cultura e dell’arte.
Noi non crediamo che funzioni il pacchetto 'Roulette+Tiziano tutto compreso'. Non crediamo neppure che una simile scelta sia tra quelle che dovrebbero qualificare un provvedimento che punta a ridare slancio al turismo nel Bel Paese. E non riusciamo davvero a credere che una 'puntata' del genere sia portata sul tavolo del governo in un provvedimento d’urgenza, come se il fomentar azzardo in Italia fosse una questione di straordinaria necessità e urgenza. Ogni città e tantissimi paesi italiani hanno hotel di lusso, nati per servire un fenomenale dispiegamento di bellezze culturali e paesaggistiche. Aprire casinò in questi alberghi significherebbe disseminarne in ogni angolo d’Italia. È questa l’immagine turistica che vogliamo? Ed è questo il genere di turismo che vogliamo corteggiare? Nell’Est d’Europa l’hanno fatto, e offrirsi ai cercatori di brividi e di fortune non ha portato una grande fortuna. Qualcuno ci sta persino ripensando. Che facciamo: ci candidiamo a succursale di lusso?
In questi casi il pensiero corre alle lobby. Che certo ci sono, e spingono. E poi viene in mente il fisco che, si sa, dalla mole crescente di giochi più o meno d’azzardo lucra parecchio. Ma non sono motivi sufficienti. Sentiamo che c’è di più. Anzi di meno. C’è una debolezza culturale nell’immaginare l’Italia se progettiamo di vendere all’estero e a noi stessi l’Italia dei Casinò invece che l’Italia dei capolavori. Sentiamo che si punta di più sul verde del tavolo da gioco che sulle sfumature dei panorami di Piero della Francesca. E allora, forse, sarebbe meglio dirlo. Non si finga e lo si dichiari: non ci crediamo alla bellezza dell’Italia. Crediamo di più ai grandi lampadari, al luccicare dei tavoli e dei banconi dei bar. Crediamo di più alle nottate intontite ai tavoli da gioco che alla sospensione stupita di fronte a un capolavoro.
Ma forse è tutto uno sbaglio. Un fraintendimento. O uno sbilenco eccesso di zelo. E si sta già pensando a puntare in altre direzioni. Servendo la bellezza dell’Italia, e chiamando il mondo ad amarla. Sì, ne siamo certi, è possibile avere ancora questa dignità. Covare questa fantasia. Meditare questo sano e calcolatissimo azzardo: puntiamo sul bello, invece che sul vizio.
Scola agli immigrati: non solo diritti - DA V ENEZIA - FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 15 ottobre 2009
La moschea? Sì, in linea di principio, ma non può essere calata dall’alto, va concessa in base alla consistenza della comunità che la domanda. Il razzismo? Va denunciato, ma non generalizziamo. L’impresa non paga il salario ai dipendenti? È un’ingiustizia. Il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, su iniziativa del Lions di Mestre, incontra un gruppo di giovani immigrati di seconda generazione, quasi tutti musulmani, e non si sottrae a nessuna domanda, neppure le più intriganti. Corina, romena, poco più che ventenne, conosce 5 lingue, l’italiano grazie ad un’insegnante che gliel’ha fatto imparare dopo le lezioni a scuola. «Era volontaria in parrocchia. Perché nelle vostre comunità non si fa altrettanto? ». «Questo è un compito della scuola, ma sarei contento se le parrocchie si aprissero di più a voi giovani, ci sarebbe anche più vita - risponde il patriarca . Voi, però, non dovete pensare che tutto vi sia dovuto. Ad ogni diritto corrisponde un dovere. Ci si può aiutare anche fra amici». «Noi figli di immigrati a scuola siamo isolati», protesta cortesemente Alexandro, 19 anni, pure lui romeno; «I nostri compagni non accettano i cambiamenti». «Capisco risponde il patriarca - . D’altra parte sta avvenendo nel mondo un rimescolamento di popoli e di civiltà. È inevitabile che questo processo di meticciato comporti tempi lunghi. Tocca a voi aiutare i vostri amici ad inserirsi. Senza avere paura delle difficoltà. La nostra è una terra ricca di storia; ha difficoltà a capire i cambiamenti così radicali». Alexandro insiste, il cardinale lo consiglia: «Prova a capire la paura dell’altro e far sì che l’altro si dia delle ragioni per superare questa paura». Christian è nato in Svizzera, ma la famiglia è del Ruanda. Ha 18 anni, studia a Mestre e sottopone al patriarca il problema del razzismo. «Non mi pare che sia un fenomeno maggioritario », obietta Scola. Christian cita episodi di scuola. «Ti capisco, perché li hai vissuti sulla pelle tua o degli amici. Ma credimi, non è la maggioranza a comportarsi così. E non trasformare la tua analisi in un’ideologia o nella lente con cui guardi tutti i rapporti». Christian ascolta attento, replica con qualche altra esperienza. «È difficile nella nostra vita accettare la diversità», ammette il patriarca. «Quando è necessario, passa alla denuncia, ma non rinunciare a dare il tuo contributo in positivo». Kanije, 24 anni, macedone, ha già una laurea, ne vuol fare un’altra in medicina. Porta il velo. «Lo sa che mi sento osservata e giudicata come una bomba che cammina? Perché anche tanti cristiani si permettono di generalizzare sul comportamento di qualche musulmano che si comporta male? ». «Conoscersi è la condizione per rispettarsi e amarsi », suggerisce il patriarca, ovviamente contrario alle generalizzazioni. È sempre Kanije a sollevare un altro problema delicato, quello della moschea. «Sul piano del diritto, nessuna difficoltà. Su quello dell’attuazione, bisogna verificare di volta in volta la situazione ». No, ad esempio, ad una moschea calata dall’alto, magari con i fondi dell’Arabia Saudita. Sì se lo chiede una comunità consistente di musulmani? «A Venezia, in centro storico, sarebbe del tutto sproporzionata, in terraferma ci può stare». Melon, del Bangladesh, lavora in un’impresa di appalti alla Fincanieri. «Da giugno non vengo pagato ed ho un ragazzo in affido», denuncia. «Sei vittima di un’ingiustizia. Mi auguro che queste cose non si ripetano: né per gli immigrati né per i nostri operai. Che tu reclami il tuo diritto e che ti venga incon- tro la solidarietà».
Botta e risposta tra il patriarca di Venezia e un gruppo di giovani stranieri.Tra i temi affrontati le moschee, il razzismo e la paura del diverso. «Aiutateci a conoscervi»
Ru486 - Dieci buone ragioni per dire «no» - punti fermi – di Lorenzo Fazzini –Avvenire, 15 ottobre 2009
Dieci motivi per spiegare il 'no' convinto alla pillola Ru486; li ha redatti l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa. Diffondendoli ieri tramite il sito www.vanthuanobservatory.org, l’Osservatorio informa sulle «dieci buone ragioni contrarie all’aborto chimico», come spiega nel testo il presidente, monsignor Crepaldi, neo-arcivescovo di Trieste. Eccone una sintesi.
1Sempre aborto è. Il documento ricorda che «la modalità – chimica o chirurgica – con cui si realizza non cambia» la qualifica dell’aborto che resta «delitto abominevole» poiché provoca «l’eliminazione di un essere umano innocente».
2Più pericoloso. Il decalogo anti-Ru486 rilancia la notizia delle 29 donne morte dopo l’assunzione della kill-pill e sottolinea che «questa metodica è dieci volte più pericolosa di quella chirurgica ». Un dato incontrovertibile e che i sostenitori della Ru486 omettono sempre di citare.
3È un veleno. Altro che medicina: «Il mifepristone
Dall’Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa un testo firmato da monsignor Crepaldi per sintetizzare i nodi decisivi
», ovvero la Ru486, «compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico ». La sua azione «non cura nessuna malattia, ha un solo scopo: eliminare un embrione umano».
4Banalizzazione. Due gli effetti «culturali» della Ru486: «Ritenere che l’aborto sia una cosa facile» e che «rientri nell’ambito delle terapie mediche ». La gravidanza sarebbe una «'malattia' da potersi 'curare', ovvero eliminare, attraverso un’opzione medica». Ma «una gravidanza è la presenza di un nuovo essere umano, non è un mal di testa o un raffreddore».
5Solitudine. Considerati i tempi in cui la Ru486 produce i suoi effetti «è impensabile che tutto il percorso sia realizzabile in ospedale», visti i costi altissimi di un lungo ricovero. Risultato: si torna alla «donna sola nella gestione dell’aborto ».
6Tempi stretti. Si azzera ogni riflessione: andando presa entro le prime 7 settimane, la Ru486 appare «una 'soluzione' rapida, un automatismo: sono incinta-non lo voglio-prendo la pillola».
7Diseducazione. La banalizzazione dell’aborto chimico porta a deresponsabilizzare: «Il modo più semplice per risolvere i problemi» si risolve in
8Ideologia. C’è poi un dato ideologico palese: si vuole infatti «che questa modalità chimica diventi la normale via per abortire e che addirittura
9No alle imposizioni. Visto che non è un farmaco, la Ru486 non può essere imposta ai medici né ai farmacisti. «Ogni medico deve essere libero di dissociarsi e di rifiutarne la prescrizione».
10 Un’ingiustizia. Chiosa finale dell’Osservatorio: nonostante gli sforzi per renderlo banale, un banale «prendere una pastiglia».
possa sostituirsi alla contraccezione».
routinario, l’aborto resta un atto ingiusto.