martedì 27 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) CHIESA/ Rose: è la fede di Benedetto a spaccare i sassi in Uganda - INT. Rose Busingye martedì 27 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
2) Federvita e centri di aiuto alla Vita contro la Ru486 - di Antonella Diegoli*
3) Uomini di allevamento, prodotti di qualità - In un libro ed un DVD Chesterton e le minacce moderne dell’eugenetica - di Antonio Gaspari
4) USA: la libertà d'espressione dei cattolici è in pericolo - L'avvocato Bill Maurer spiega quali sono i pericoli - di Annamarie Adkins
5) Sinodo per l'Africa, penultimo atto. Le proposizioni finali - Sulla loro traccia Benedetto XVI scriverà il documento conclusivo. Tra i punti scottanti: gli odi interetnici, la sfida dell'islam e delle religioni tradizionali, la promozione dell'aborto, l'oppressione della donna, il concubinato del clero - di Sandro Magister
6) RIFLESSIONI SUL CASO M ARRAZZO ( E SU NOI UOMINI) - Torniamo per pietà alla vera questione morale - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 ottobre 2009
7) Paolini: «Il mio teatro in tv su crisi, economia e lavoro» - DI T IZIANA LUPI – Avvenire, 27 ottobre 2009


CHIESA/ Rose: è la fede di Benedetto a spaccare i sassi in Uganda - INT. Rose Busingye martedì 27 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
«È Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla». A dirlo è Rose Busingye, fondatrice del Meeting Point International di Kampala, Uganda. Il centro ospita donne sieropositive, «le mie donne», dice sempre Rose parlando di loro. Persone che hanno saputo trovare nella fede cristiana una speranza nuova di vita, l’unica risposta credibile alla disperazione dell’abbandono. È alle “sue” donne che corre sempre Rose col pensiero, quando deve parlare della fede, della Chiesa, della speranza che Cristo rappresenta oggi per il mondo, e per l’Africa. Si è concluso domenica il Sinodo dei Vescovi africani. Anche Rose ha partecipato, insieme a tanti altri ospiti. Ilsussidiario.net l’ha intervistata, alla vigilia del suo ritorno in Uganda.


Cos’ha voluto dire per lei questo appuntamento, alla luce dell’esperienza di Chiesa che vive in Africa?


Capire che è Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla. Tocchi con mano, una volta di più, l’incapacità nostra, però vedi bene che il cristianesimo va avanti lo stesso. Tutta la Chiesa in Africa sta crescendo. Ma non siamo noi a mandarla avanti; è lo Spirito. Questo l’ho visto benissimo dal modo con cui il papa è stato con noi, durante il Sinodo.


Cos’ha colto di così particolare nella presenza del Santo Padre?


Egli stava con noi senza programmi sul da farsi, ma semplicemente per farci compagnia. Come un padre, che suscita in te quella tenerezza per cui ti chiedi: cos’ho da temere? Era impossibile, davanti a quello sguardo, fraintendere. La prima preoccupazione, trattandosi di una chiesa giovane, come quella africana, poteva essere quella di “consolidare una chiesa futura”. Ma la Chiesa non è prima di tutto un’organizzazione. L’invito del papa, e la sua personale testimonianza, è stata quella di predisporsi ad accettare l’iniziativa di Dio su di noi. È in questa accettazione che sta il futuro - e il presente - della chiesa africana.


Ad ascoltare i programmi di sviluppo dei governi e di tante organizzazioni, sembrerebbe che la prima sfida per l’Africa sia trovare più soldi e fare più progetti.


L’uomo europeo ha tutto, ma allora come mai non è contento? Come mai le strade sono piene di facce tristi, di persone che non sorridono mai? È così perché in Europa si è perso che a renderci felici è il progetto di Dio, e non il nostro. Invece le “mie” donne vanno nella cava a spaccare pietre sorridendo e cantando. Anche se non hanno mangiato nulla.


La sfida più grande in occidente è che la società ha abbandonato le sue radici cristiane. Per la maggior parte delle persone il cristianesimo non ha più nulla da dire alla loro umanità. Qual è invece la sfida culturale che più urgente per i cattolici che vivono in Africa?


La fede in Cristo Gesù. Dico sempre che la fede è la fine della schiavitù. È astratto - mi hanno detto tanti di quelli che ho incontrato. Ma non è così, perché un uomo che vive la fede vede tutto come un dato ricevuto e ne gode. Gode del lavoro, dei figli, del creato. Per un uomo che vive la fede Dio è tutto. E lui è più libero.


Benedetto XVI, nella sua omelia in apertura del Sinodo, dell’Africa ha detto che «il suo profondo senso di Dio» è «un tesoro inestimabile per il mondo intero» e che «da questo punto di vista, l’Africa rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza». Cosa pensa di queste parole?


È per questo che è più facile oggi incontrare Cristo in Africa che non nei paesi occidentali. Perché un africano ha un senso del mistero tale da essere sempre consapevole di appartenere a Qualcosa. Qualcosa di grande, di più grande di sua madre e di suo padre. Ma questo Mistero è Cristo presente, Colui che ogni cuore attende. Se lo incontro, diventa la mia nuova identità, il mio giudizio nuovo su tutte le cose. Me ne accorgo quando guardo le “mie” donne. Vedi - mi dico - sono sempre più avanti!, non perché sono più intelligenti, ma perché sono semplici. La fede ha penetrato la loro vita. Quando c’è stato l’uragano di New Orleans percepivano le popolazioni colpite come parte di sé, anche se erano dall’altra parte del mondo. E le hanno aiutate. Quando conosci la fede tutto ti appartiene. È una mentalità nuova, persuasiva. Ti accorgi, semplicemente, che è più bello vivere da cristiano.


Il tema del Sinodo recita “la Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La giustizia e la pace sono cose per le quali vale la pena spendersi?
Ma la giustizia, senza Dio, che giustizia è? Lo ha detto bene il papa nell’omelia di domenica. Se non passa Gesù di Nazareth, che senso ha fare progetti? “Ho osservato la miseria del mio popolo… ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”. Posso trattar bene il mio prossimo, ma nel tempo mi stanco e allora perché devo farlo? Posso fare progetti di carità, ma alla lunga non reggono. Ma se il mio cuore vive di fede, tutto diviene più facile. E solo allora che ti tratto per quello che sei, perché sei anche tu di Dio. Sei “divino”, mi appartieni anche tu!


In molti paesi africani i cristiani sono perseguitati. Ha fatto scalpore durante il Sinodo il racconto di monsignor Hiiboro Kussala, che ha raccontato di cristiani barbaramente uccisi in Sudan. I cattolici che lei conosce come vivono il rischio del martirio?


Sanno bene che possono morire a causa della loro fede, ma sono sereni, perché se uno ha un ideale per vivere, vale la pena morire per esso. Il problema, all’opposto, è quando manca qualcosa per cui sacrificarsi. I soldi non fanno felici, perché chi ha molti soldi anzi è più triste degli altri. È solo l’incontro con Dio che ci fa essere più uomini e ci fa scoprire il valore di noi stessi. È per questo che a Dio si può anche sacrificare la vita.


Per lei e le donne che vivono con lei, cosa vuol dire incontrare persone che credono in qualcos’altro? In Africa ci sono mille fedi diverse.


Ci sono mille fedi, ma tutti si trovano bene con noi. Più dialogo di così. È la prova che davvero solo in Cristo possiedi tutto. Quanti estranei ho visto sorprendersi, e accorgersi che è bello stare lì con noi, senza preconcetti, senza piani.


È una proposta anche per chi vi odia?


Sì. Immagini le nostre donne, che vanno in cava cantando i canti degli alpini. Uno vede, non capisce cosa vuol dire ma si commuove, perché è bello cantare così. Un uomo che è in rapporto con Dio attira, attira sempre. A Roma, durante il Sinodo, non mi sono mai stancata quando c’era il papa, ma quando non c’era. È stato bello sorprendere in lui tutta la tenerezza del padre che guarda i propri figli.


È l’esperienza del dolore e del male a fermarci, a bloccare tutto.


La fede vince tutto. Se la fede non vince, vuol dire che non è fede, ma un sentimento. Il Mistero di Dio attrae e cambia. Occorre lasciarsi cambiare. Invece misuriamo la Sua iniziativa, poniamo confini: facciamo noi un progetto per il mistero, dove deve arrivare e dove no! Meno male che non dipende da noi, ma “soffia dove vuole”: dove c’è un cuore semplice che lo attende.


Oggi tornerà a Kampala, in Uganda. Le sue donne le chiederanno cos’ha fatto. Che cosa dirà?


Parlerò del papa. Dirò che sono tranquilla perché in lui ho una guida sicura. Non temo più nulla, perché c’è un uomo che più di tutti vive la fede e io l’ho visto. Dobbiamo appartenere a Lui, al Suo popolo, alla Chiesa così com’è. Un uomo che vive l’appartenenza a Cristo come la vive il papa ti attira, non puoi più lasciarlo.


Questa fedeltà di cui parla - del papa verso Dio e sua personale verso il papa - non è una cosa estranea al sentire dell’Africa?


No, perché non è qualcosa di esterno, che viene da fuori, dall’Europa o dalla storia, ma da dentro di noi: uno la scopre guardando come il cuore è fatto. E il nostro cuore è fatto per incontrare Cristo. Un uomo che appartiene, come il papa, grida a Dio. Il mondo viene qui e pretende di dire quello che è bene per noi. Riduce il problema dell’Africa al preservativo. Non ci tratta da uomini. Invece lui, con il suo sguardo e la sua tenerezza di padre, è l’unico che ci vuole veramente bene. È importante che il cristianesimo - ha detto il papa una mattina - non sia una somma di idee, ma un modo di vivere. Il cristianesimo è carità, è amore, ha detto. E se la fede si trasforma in carità, non c’è nulla che le può resistere.


Uomini di allevamento, prodotti di qualità - In un libro ed un DVD Chesterton e le minacce moderne dell’eugenetica - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- L’editrice Fede & Cultura ha appena pubblicato il saggio di Fabio Trevisan dal titolo “Uomini di allevamento, prodotti di qualità. Nel mercato dell’eugenetica, la storia, la scienza, il dibattito”.

Il saggio parte dal noto scritto di Gilbert Keith Chesterton "Eugenetica e altri mali" e ricostruisce la letteratura scientifica ed il clima culturale dell'epoca, anche attraverso l'analisi di altre opere significative dello scrittore londinese.

Per rimarcare l'attualità di quella corrosiva e ironica denuncia dell’eugenismo, Fabio Trevisan si è immaginato un confronto teatrale liberamente tratto dal saggio di Chesterton ed ha illustrato il rischio eugenetico che anche la nostra epoca sta attraversando.

Fabio Trevisan è un imprenditore appassionato di filosofia cofondatore dei “Gruppi Chestertoniana Veronesi”.

Sul grande scrittore inglese ha già pubblicato due saggi “Uomo vivo con due gambe” (2006) e “Il pazzo ed il re” (2007).

Insieme al libro è allegato un DVD in cui, mediante un'interpretazione teatrale, Chesterton si confronta con un eugenista.

Il DVD contiene anche una intervista al direttore de “Il Foglio” Giuliano Ferrara sulle questioni riguardanti l’eugenetica, il controllo delle nascite e il senso della vita.

Per saperne di più ZENIT ha intervistato Fabio Trevisan.

Come, dove e perchè Chesterton criticò l’eugenetica, che in quel tempo era autorevole e condivisa?

Trevisan: “Eugenics” (traducibile in Eugenica o Eugenetica) fu una parola introdotta nel linguaggio scientifico da Francis Galton nel 1883. L’eugenetica, che significa “buona nascita”, ebbe un effetto dirompente ed esercitò una forte attrazione sulla società di quell’epoca, perché sembrava potesse dare risposte scientifiche e fornire rimedi praticabili alla crisi sociale ed economica di quegli anni.

Chesterton, ad onor del vero, fu uno dei pochi che non si lasciò ammaliare dalle suggestioni potenti di quella nuova presunta scienza e ne denunciò apertamente gli esiti disumanizzanti e feroci; egli intuì che le libertà delle persone e delle comunità fossero in forte pericolo. Chesterton guardò piuttosto alle implicazioni positive dell’Enciclica “Rerum novarum” di Leone XIII del 1891.

“Eugenetica e altri mali” fu pubblicata da Gilbert Keith Chesterton nel 1922, nonostante che l’opera fosse stata pensata e scritta anteriormente al primo conflitto mondiale.

Perché lo scrittore inglese attese la conclusione di quell’ “inutile strage” (come la chiamò l’allora Pontefice Benedetto XV) per pubblicarla?

Trevisan: Chesterton confidava che le classi dirigenti inglesi ed occidentali, alla fine della guerra, non prendessero più a modello la Prussia, che aveva fatto dell’organizzazione scientifica e sociale una sua specialità. La critica allo spettro dell’eugenetica era una critica più generale alla mania moderna di scientificità e di rigorosa organizzazione sociale.

Cosa c’entrano Thomas Malthus e Charles Darwin con l’eugenetica?

Trevisan: Francis Galton (1822-1911) fu attratto dalla scoperta delle leggi dell’evoluzione e della selezione naturale del cugino Darwin a tal punto che ritenne, nella formazione della personalità dell’uomo, fossero preponderanti i caratteri biologici innati. Se vi fosse stata corrispondenza tra le qualità degli individui ed il loro corredo biologico ereditario, si sarebbe potuto migliorare la specie umana controllandone la capacità riproduttiva. In parole più semplici si sarebbe potuto avviare un’eugenetica positiva, ovvero una procreazione affidata alle persone più adatte e più agiate economicamente, culturalmente e socialmente.

Charles Darwin nel 1871 scrisse nell’”Origine dell’uomo”: “L’uomo ricerca con cura il carattere, la genealogia dei suoi cavalli prima di accoppiarli; ma quando si tratta del suo proprio matrimonio, di rado o meglio mai, si prende tutta questa briga. Eppure l’uomo potrebbe mediante la selezione fare qualcosa, non solo per la costruzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente o di corpo”.

Thomas Robert Malthus (1766-1834), economista e demografo inglese, esercitò una forte influenza su Darwin, soprattutto in merito alle teorie della lotta per la sopravvivenza e della sopravvivenza del più adatto. Malthus teorizzò il controllo delle nascite per impedire il temuto impoverimento dell’umanità ed insistette sull’urgenza di far desistere dallo sposarsi (eugenetica negativa) tutti coloro che non possedessero i requisiti minimi di sussistenza.

Chi erano i socialisti che sostennero le teorie eugenetiche e perchè Chesterton li criticò?

Trevisan: La pubblicazione nel 1859 dell’ “Origine delle specie” di Darwin assunse un peso importante nella scienza e negli ambienti intellettuali inglesi ed europei. Il movimento politico e sociale inglese della Fabian Society (Fabianesimo), istituito a Londra nel 1883, ebbe un’influenza consistente nella formazione del Labour Party (Partito Laburista).

Il Fabianesimo si prefiggeva come meta la graduale evoluzione della società attraverso riforme che avrebbero condotto al socialismo. Assai più noto è poi il fatto che Karl Marx (1818-1883) volesse dedicare a Darwin stesso il primo libro del “Capitale” dichiarandosi suo sincero ammiratore. Friedrich Engels (1820-1895), amico e finanziatore di Marx, così commentò l’interesse di Marx per Darwin: “Proprio come Darwin scoprì le leggi dell’evoluzione nella natura organica, Marx scoprì la legge dell’evoluzione nella storia umana”.

Come evidenziato, c’è un filo rosso che collega l’evoluzionismo all’eugenetica ed è il determinismo biologico ed il materialismo che annulla il libero arbitrio, la spiritualità e la dignità di ogni persona creata da Dio. Chesterton criticò questa deriva culturale e morale con le seguenti parole: “Una parabola letale che parte dall’evoluzionismo e arriva all’eugenetica”.

Ancora oggi alcuni sostengono la necessità di una buona eugenetica per migliorare la salute e la felicità della specie. Come rispose Chesterton e come risponderebbe lei?

Trevisan: Chesterton smascherò quale fosse il vero volto dell’eugenetica, ne colse in profondità le fonti e le denunciò apertamente con una lungimiranza tale che ancor oggi rimangono di una stringente attualità. Capì esattamente che l’eugenetica era essenzialmente un grave peccato, favorito pure dall’ “abnorme ingenuità” di quell’epoca.

Con accenti vibranti denunciò la tirannia dell’eugenetica come una rivoluzione contro l’etica dalle nefaste conseguenze. Difese con vigore la legge naturale, la legge non scritta che abita nel cuore dell’uomo e si appellò ad essa nel proteggere la vita dall’omicida eugenista. Comprese che era in atto un’autentica persecuzione contro la vita e la famiglia.

Per Chesterton la legge, la fede ed il senso comune avevano il compito primario di conservare e consolidare la famiglia. In merito alla “salute” ebbe delle intuizioni così profonde che meriterebbero ancor oggi un’analisi completa.

Per Chesterton la salute non era una cosa come il colore dei capelli o la lunghezza delle membra. La salute non era una qualità, ma una proporzione di qualità. Un uomo poteva essere alto e forte: ma la sua forza dipendeva dal non essere troppo alto.

Un cuore robusto per un nano poteva essere debole per una persona alta. Era così evidente che accoppiando due persone cosiddette sane (come avrebbero voluto gli eugenisti) si poteva produrre l’esagerazione chiamata malattia. Nulla poteva essere al di sopra dell’uomo, nulla tranne Dio.

In merito alla salute sfatò alcuni slogan che perdurano anche ai giorni nostri. “Non solo – scriveva Chesterton – la prevenzione non è meglio della cura: è peggio perfino della malattia”. “Prevenzione significa essere invalidi a vita, con l’esasperazione supplementare di godere ottima salute”. “Chiederò a Dio, ma non certo all’uomo, di prevenirmi in tutte le mie azioni”. Credo che queste affermazioni vadano riprese e considerate con serietà.

Personalmente penso che non dovremmo dimenticare come cristiani quale sia il nostro fine ultimo e che dovremmo preoccuparci di salvare la nostra anima e possibilmente aiutare anche le altre persone a salvare la propria. “Salute” e “felicità” vanno comprese in una visione antropologica come unità sostanziale di anima e corpo, seconda la dottrina perenne di S.Tommaso d’Aquino.

Credo che la scienza, in quanto tale, debba porsi dei limiti precisi. Mi spiego meglio con un esempio: sulla mia gamba rotta il medico ha tutti i diritti e doveri di aggiustarla; una volta aggiustata, non può venirmi ad insegnare a camminare, perché questo l’abbiamo imparato, io e il medico, nella stessa scuola, dalla nostra mamma e nella nostra casa natale.

Nonostante gli orrori generati nella storia umana, ancora oggi è forte la tentazione di praticare politiche eugenetiche: aborti selettivi, clonazione, sperimentazione sui concepiti, eliminazione dei deboli e dei disabili ….Forse la minaccia non è stata compresa? Oppure vengono utilizzate tecniche sofisticate di “antilingua” e relativismo per far accettare pratiche eugenetiche senza che la gente si accorga della gravità dell’atto?

Trevisan: Chesterton deplorò il linguaggio positivista della sua epoca. Nelle parole “regressione” e “degenerescenza” egli vide che lasciavano trasparire un disegno eugenetico e razzista. Infatti il timore di una degenerazione biologica della specie umana spinse molti governi a provvedere con misure legislative e pratiche, scatenando un’intensa attività eugenetica.

Migliaia di persone furono sterilizzate dando persino del denaro. L’eugenismo tuttavia non è finito. Certo, al posto degli slogan sulla purezza razziale, i nuovi eugenisti parlano più pragmaticamente di un’economia più efficiente, di migliori prestazioni e di una migliore qualità della vita. Questa nuova e malvagia eugenetica trova sostegno nell’edonismo compiaciuto e diffuso di molta gente ed è a disposizione per l’accresciuta tecnologia del mercato.

L’aborto terapeutico, il family planning organizzato, la diagnosi pre-impianto, l’inseminazione artificiale sono tutti strumenti messi a disposizione del mondo medico e dell’industria. Conditi con parole rassicuranti vengono veicolate attraverso la manipolazione del consenso operata dagli apparati mediatici, culturali e finanziari; in questo modo “soft” non vengono neppure concepiti come orrori né tantomeno come errori e peccati. Sir Francis Crick, uno degli scopritori della struttura del DNA, ha affermato che: “Nessun bambino appena nato dovrebbe essere riconosciuto uomo prima di aver passato un certo numero di test riguardanti la sua dote genetica”.

Jacques Testart, l’artefice nel 1982 della prima bambina in provetta francese, ha scritto: “Ci incamminiamo verso una vera e propria possibilità di scelta del figlio a venire, grazie alla genetica diagnostica. Così le coppie non lo faranno più stupidamente a caso, come hanno sempre fatto”.

La minaccia non è stata compresa? Non credo che sia percepita nella reale dimensione. Fiumi di sangue innocente si stanno versando giorno dopo giorno e sembra che tutto sia inarrestabile. Non c’è solo l’olocausto degli ebrei nei deprecabili lager nazisti: ricordiamoci anche dell’olocausto dei bambini non nati per pratiche abortive!

Quanto sono attuali queste opere di Chesterton e che cosa pensa del comitato che vorrebbe introdurre una causa di beatificazione del noto scrittore?

Trevisan: Come ha detto il Card. Giacomo Biffi, Chesterton è stato un dono fatto direttamente da Dio alla cattolicità e all’umanità intera. Come possiamo rifiutare questo dono? Innanzitutto dovremmo tradurre e pubblicare le sue opere (in italiano tuttora sono state tradotte circa 1/6 delle sue opere).

Solamente piccole e nobili case editrici (Fede&Cultura, Morganti, Rubbettino, Raffaelli ecc.) stanno provvedendo a colmare questa lacuna. Dovremmo poi adoperarci con iniziative pubbliche per farlo conoscere (la meritoria Società Chestertoniana Italiana da anni allestisce il “Chesterton Day”, ma quanti lo conoscono?).

Ci sono Gruppi Chestertoniani che lavorano da anni (in particolare a Verona), ma ancora non è sufficiente. L’attualità delle opere di Chesterton costituisce un bene prezioso per l’approfondimento di molte tematiche di scottante attualità (le radici cristiane e l’islam, la difesa della vita e dell’ortodossia, il concetto di scienza e la difesa della famiglia).

Il tutto con un linguaggio profondo e ricco di sano humour cristiano. Per quanto riguarda la causa di beatificazione sono molto onorato di aver studiato per anni l’opera di un possibile Santo della Chiesa Cattolica e mi azzardo a dire, assumendone totalmente la responsabilità, che potrebbe diventare un futuro Dottore della Chiesa (penso ad opere importanti quali “Ortodossia” e “L’uomo eterno”).

In tal senso stiamo lavorando alla pubblicazione con l’editrice Fede&Cultura di un Breviario in suo onore, composto di preghiere e meditazioni tratte dalle sue opere. Si chiamerà “Il Breviario di un uomo vivo” e sarà pronto per il prossimo Santo Natale.


Federvita e centri di aiuto alla Vita contro la Ru486 - di Antonella Diegoli*
ROMA, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- A seguito del via libera all’uso della pillola Ru486, da parte dell'Agenzia dell'AIFA, la Federazione dei Movimenti per la vita, Centri di aiuto alla vita e Servizi di accoglienza alla Vita dell'Emilia Romagna non possono non pensare ai bimbi concepiti che quotidianamente tentano di salvare, assieme alle loro madri.

Sul diritto di aborto, lo Stato consacra oggi la licenza di uccidere, anche mediante pesticida umano il concepito. Da oggi metteremo anche a serio rischio e pericolo di morte la salute della donna, presente (effetti immediati, di cui esistono studi certamente non esaustivi) e futura (effetti a lungo termine, di cui non esistono studi).

Salute fisica e mentale: i 30 casi documentati di morte per l’uso della Ru486 sono esplicativi delle complicanze a cui può essere soggetta una donna che ricorra all’aborto chimico, mentre secondo uno studio del 1998, pubblicato sul “British Journal of Obstetrics and Gynecology”, il 56% delle donne sottoposte ad aborto chimico ha dichiarato di aver riconosciuto l’embrione, e il 18% ne ha denunciato, come conseguenze, incubi, flash-back e pensieri ricorrenti.

Uno dei teoremi più diffusi e radicati nel mondo medico e nella cultura popolare è quello di pensare che l’aborto volontario sia meno traumatico se effettuato nelle fasi iniziali della gravidanza, consegnando, così la pratica abortiva (e tra queste la Ru486) al criterio della “proporzionalità traumatica”: più piccolo è l’embrione più sicuro e più accettabile è l’aborto, con minori conseguenze per la donna, ma le esperienze del post-aborto sconfessano il teorema.

Ma soprattutto, richiamarsi alla legge 19478 per legalizzare il commercio della pillola Ru486 ancora una volta nasconde il tentativo da parte dello Stato di derubricare l'impegno di tutela sociale della maternità.

Non si può perseguire nel garantismo di un inesistente diritto di aborto, ma piuttosto bisogna pensare e operare per prevenire l'aborto anche post-concezionale, favorendo cioè la nascita dei figli già concepiti con l'invito alle madri ad un’adeguata riflessione sul valore della vita umana e offrendo alternative al dramma (per il concepito e per la donna) dell’interruzione della gravidanza.

La Ru486 riconduce la pratica abortiva volontaria, sotto l’apparente finalità della precocità e della sicurezza (Il 13% richiede un’evacuazione chirurgica, si veda Ojidu JI et all., m J. Obstet. Gynacol. 2001) nel tunnel dell’aborto fai-da-te (Faucher P. et all., Gynecol. Onstet Fertil. 2005), invertendo e contraddicendo le motivazioni storiche e psico-sociali che hanno persino motivato fortemente la legge 194: un aborto privato, per quanto precoce e sicuro sia, aggiunge solitudine a solitudine.Inoltre, mentre nell’aborto chirurgico l’interruzione di gravidanza viene delegata tecnicamente a una terza persona, nell’aborto chimico da Ru486 è la stessa madre che si auto-somministra il veleno che ucciderà il proprio figlio.

Gli effetti fisici sono gli stessi di un aborto chirurgico eseguito in anestesia: contrazioni, espulsione, emorragia, ma con la Ru486, la donna vive tutto questo in diretta, senza neanche l’assistenza medica. E’ il massimo della responsabilizzazione psicologica o il sicuro aumento di suicidi post-aborto delle donne stesse?

Queste profonde contraddizioni di tipo scientifico, etico e umano non si possono tacere nel momento in cui si va a legalizzare un uso estensivo dell’aborto farmacologico, in una società, quella italiana, già pesantemente colpita da un malessere diffuso che ci fa assistere, sempre più frequentemente, a malattie del corpo e della psiche nelle donne che hanno vissuto l’aborto.

Si obbligherà per legge a dichiarare, sul consenso informato per la donna, che l’aborto farmacologico ha una mortalità dieci volte maggiore, rispetto all’aborto chirurgico? Si avrà il coraggio di dire cosa ci si deve aspettare dopo l'assunzione della pillola per tutti i soggetti coinvolti a cominciare dal concepito ucciso?

La nostra Regione, il cui Assessore è anche membro dell'Aifa, avrà il coraggio della verità in materia di consenso informato? E tutti coloro che firmeranno quei certificati avranno coscienza della disinformazione che ricadrà soprattutto sulle donne non italiane, per le quali è di difficile comprensione anche la lettura di un semplice volantino?

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*Antonella Diegoli è presidente regionale di Federvita, la federazione cui fanno capo i Movimenti per la vita e i Centri di Aiuto alla Vita dell’Emilia Romagna


USA: la libertà d'espressione dei cattolici è in pericolo - L'avvocato Bill Maurer spiega quali sono i pericoli - di Annamarie Adkins
SEATTLE, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Negli Stati Uniti, i cattolici e le Diocesi sono diventati vittime delle leggi sul finanziamento delle campagne in generale (non solo politiche), che violano la loro libertà d'espressione.

In risposta a questa emergenza, è stata creata una coalizione di organizzazioni che abbracciano tutto lo spettro politico con il nome di Citizens United.

Per comprendere meglio la portata delle leggi sul finanziamento delle campagne, ZENIT ha intervistato l'avvocato Bill Maurer, direttore esecutivo dell'Istituto per la Giustizia di Washington e uno dei membri più attivi di Citizens United.

Maurer ha condiviso con ZENIT le ragioni per le quali i cattolici, soprattutto per la loro storia di persecuzione e lo status di minoranza e di stranieri, dovrebbero essere scettici di fronte a leggi che limitano la possibilità di parlare di questioni politiche.

I cattolici devono sospettare della riforma delle leggi sul finanziamento delle campagne?

Maurer: Tutti i nordamericani dovrebbero nutrire sospetti di fronte ai tentativi del Governo di regolamentare e restringere l'attività politica. I cattolici, che in passato hanno subito discriminazioni da parte di una maggioranza ostile, dovrebbero preoccuparsi proprio per non dare al Governo strumenti da usare per mettere a tacere la voce di chi dissente.

Se il Governo ha la possibilità di determinare quando l'influenza di una delle parti di un dibattito politico diventa “eccessiva” o “indebita”, allora è il Governo stesso che avrà la capacità di far tacere una voce per far sì che il dibattito sia “giusto”.

Non sorprenderebbe nessuno se il Governo concludesse che le voci che bisogna mettere a tacere sono quelle di coloro che si oppongono al potere. A questo riguardo, i cattolici sono pienamente consapevoli della lunga tradizione per cui alcuni in questo Paese si sono lamentati dell'influenza “indebita” della Chiesa nelle questioni di governo.

Quanto al denaro in politica, in un Paese grande come questo i soldi sono uno strumento assolutamente fondamentale perché gli oratori arrivino al pubblico. Visto quanto il Governo fa a livello statale e federale, sorprende che i nordamericani non spendano più denaro per i discorsi politici.

Mentre il Governo si amplia e arriva a settori della vita delle persone ai quali non era mai giunto in precedenza, la necessità di un dibattito pubblico informato su ciò che accade a livello governativo diventa più pressante che mai. La capacità del pubblico di ascoltare le idee politiche non deve limitarsi a chi ha le risorse o la capacità di ascoltare un politico di persona.

Qual è l'impatto delle leggi sul finanziamento delle campagne sulla partecipazione politica sia dei Vescovi che dei laici? Può fornire degli esempi concreti?

Maurer: I Vescovi e altri membri del clero sono in genere piuttosto discreti circa le attività politiche, non tanto per le leggi sul finanziamento delle campagne, ma per le restrizioni alle attività politiche collegate al mantenimento dello status di esenzione dalle imposte della Chiesa.

Ad ogni modo, quando i Vescovi e il clero si impegnano in campagne concrete, come contro le iniziative dello Stato su temi relativi alla vita umana, incontrano le stesse restrizioni degli altri cittadini.

Ad esempio, se si organizzano per dedicare dei fondi a opporsi all'iniziativa “morte con dignità”, come quella dello Stato di Washington, devono formare un comitato sul tema e dichiarare nomi, indirizzi e le persone per cui lavorano, così che il Governo possa pubblicarli in una base dati su Internet.

Questi obblighi scoraggiano enormemente il coinvolgimento delle persone nell'attività politica. Ad esempio, chi ha contribuito all'iniziativa contro il matrimonio omosessuale in California (Proposizione 8) è diventato oggetto di minacce, boicottaggi, manifestazioni e rappresaglie economiche, dopo che quanti si opponevano all'iniziativa hanno visto le informazioni delle loro donazioni sulla pagina web dello Stato.

Allo stesso tempo, chi si opponeva alla misura ha affermato che quanti la proponevano hanno utilizzato queste informazioni per cercare di ricattare i donatori perché contribuissero allo stesso modo a favore dell'altra “fazione”. L'assillo politico è a volte un gioco di uguaglianza di opportunità.

Quanto ai laici, quando la gente si unisce e dedica le proprie risorse a perseguire un cambiamento politico, in genere scopre che i suoi sforzi sono subordinati alle leggi sul finanziamento delle campagne.

Una delle principali leggi sul finanziamento delle campagne degli ultimi cinque anni ha infatti avuto a che vedere con gli sforzi del Wisconsin Right to Life per esortare due senatori a votare i candidati giudiziari del Presidente Bush, un'attività che rientrava nelle restrizioni legali al finanziamento delle campagne perché uno dei due senatori cercava di essere rieletto.

Poco tempo fa, la Diocesi di Bridgeport è stata posta sotto inchiesta dallo Stato del Connecticut per la presunta violazione della sua legge sulla competenza associativa quando ha esortato i cattolici a opporsi a una legge che avrebbe avuto effetti sul governo della Chiesa. Che cosa è successo in quel caso? Crede che vedremo altri esempi di un atteggiamento del Governo volto a regolamentare la voce della Chiesa nel settore pubblico?

Maurer: Nel marzo scorso, l'Assemblea Generale del Connecticut ha sottoposto a dibattito una legislazione che avrebbe privato i sacerdoti e i Vescovi della possibilità di partecipare agli organismi delle corporazioni che controllano la proprietà parrocchiale nel Connecticut e che ordinava che gli organismi governativi di queste corporazioni fossero formati solo da membri laici della parrocchia.

In risposta a quella che è stata considerata una sfida diretta all'autorità della Chiesa sul funzionamento interno delle parrocchie, la Diocesi di Bridgeport ha posto informazioni sulla legge sulla sua pagina web e ha chiesto ai pastori di leggere una dichiarazione nella Messa domenicale esortando ad opporsi alla legge.

La Chiesa ha anche invitato i fedeli ad assistere a un incontro e a contattare i legislatori.

Questi sforzi hanno fatto sì che la Diocesi venisse indagata dal Connecticut Office of State Ethics (OSE) per aver violato la legge statale sulla competenza associativa, che esige la registrazione di fronte allo Stato se un'entità vuole “chiedere ad altri di comunicare con qualsiasi funzionario o con la sua équipe del ramo legislativo o esecutivo del Governo... con il proposito di influire su qualsiasi azione legislativa o amministrativa”.

La Diocesi ha avviato una causa presso il tribunale federale sfidando la costituzionalità di questa legge, ma dopo che il Procuratore Generale del Connecticut ha concluso che le attività della Chiesa rientrano in un'eccezione statutaria l'OSE ha smesso le sue indagini e la Diocesi ha ritirato volontariamente l'istanza.

L'esperienza dell'Arcidiocesi di Bridgeport è purtroppo molto comune. I nordamericani si vedono in genere coinvolti in ampissime e complesse leggi di finanziamento delle campagne quando si dedicano ad attività che considerano protette dal Primo Emendamento.

Pur non avendo violato alcuna legge, il costo emozionale ed economico di essere indagati dal Governo può essere schiacciante.

Qualsiasi Chiesa varchi la soglia della “competenza associativa” può subire lo stesso destino dell'Arcidiocesi di Bridgeport se esorta i suoi fedeli ad agire riguardo a temi pubblici fondamentali per la fede cattolica. Queste parrocchie possono vedere le loro risorse spese per difendersi dagli ispettori governativi anziché usate per portare avanti la loro missione apostolica.

Quali principi devono tenere a mente i cattolici quando valutano le varie proposte di riforma della partecipazione al processo politico?

Maurer: In un momento in cui molti degli insegnamenti e delle convinzioni della Chiesa entrano in conflitto con le convinzioni dell'“establishment” politico del Paese, i cattolici dovrebbero ricordare che dare al Governo i mezzi per controllare il dibattito pubblico può avere come risultato il silenzio di quanti non sono d'accordo a livello politico.

Negli esempi che ho menzionato in precedenza – la Proposizione 8, il caso del Diritto alla Vita nel Wisconsin e le esperienze della Diocesi di Bridgeport –, le leggi sul finanziamento delle campagne sono state utilizzate per cercare di porre fine all'attività politica che sosteneva i punti di vista della Chiesa. La lezione è che quando il Governo ha il potere di regolare il discorso politico, qualunque oratore può vedersi ridotto al silenzio.

Il Governo non indaga e non registra più le attività dei politici stranieri, come ha fatto come i diritti civili e i movimenti contro la guerra negli anni Sessanta. Ora obbliga i cittadini a registrarsi e poi compila una base dati delle attività delle persone a disposizione di chiunque abbia accesso a un computer e a Internet.

Questo non può rappresentare uno sviluppo positivo per una Chiesa che parla così spesso contro i punti di vista predominanti tra chi è al governo.

Per ogni proposta di “riformare” le leggi sul finanziamento delle campagne, i cattolici dovrebbero chiedersi: (1) se questo incoraggerà o scoraggerà il discorso e l'attività politica, (2) se interferirà con la capacità di chi rappresenta una minoranza di esprimere senza riserve i propri punti di vista, (3) se questa proposta darà a chi è al potere uno strumento con cui sopprimere il punto di vista di chi la pensa diversamente.

In ultima istanza, i cattolici devono sostenere una sfera pubblica vivace e non irreggimentata, dove la verità e la saggezza dei temi che interessano la nostra vita possano essere dibattuti in modo libero e appassionato.

Per ulteriori informazioni, www.ij.or


Sinodo per l'Africa, penultimo atto. Le proposizioni finali - Sulla loro traccia Benedetto XVI scriverà il documento conclusivo. Tra i punti scottanti: gli odi interetnici, la sfida dell'islam e delle religioni tradizionali, la promozione dell'aborto, l'oppressione della donna, il concubinato del clero - di Sandro Magister
ROMA, 26 ottobre 2009 – Con la messa celebrata ieri nella basilica di San Pietro Benedetto XVI ha chiuso il secondo sinodo speciale per l'Africa, al quale hanno preso parte 231 padri.

I media internazionali hanno dato all'assise una scarsissima copertura. Per varie ragioni, non ultime la povertà del dibattito e la modestia delle proposte finali.

Benedetto XVI ha assistito di persona a numerose sessioni. Ma non è mai intervenuto direttamente nella discussione, a differenza di quanto fece in sinodi precedenti. Ha pronunciato due omelie nelle messe di apertura e di chiusura, ha tenuto una meditazione dopo l'ora terza del primo giorno dei lavori e ha detto poche battute al termine del pranzo che ha concluso i lavori sabato 24 ottobre (vedi foto).

Ma in queste poche battute il papa ha messo a nudo quelli che sono stati i limiti effettivi del sinodo, il cui tema era: "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. 'Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo' (Mt 5, 13.14)".

Papa Joseph Ratzinger ha detto:

"Il tema, di per sé, era una sfida non facile, con due pericoli, direi. Il tema 'Riconciliazione, giustizia e pace' implica certamente una forte dimensione politica, anche se è evidente che riconciliazione, giustizia e pace non sono possibili senza una profonda purificazione del cuore, senza un rinnovamento del pensiero, una 'metanoia', senza una novità che deve risultare proprio dall’incontro con Dio. Ma anche se questa dimensione spirituale è profonda e fondamentale, pure la dimensione politica è molto reale, perché senza realizzazioni politiche, queste novità dello Spirito comunemente non si realizzano. Perciò la tentazione poteva essere di politicizzare il tema, di parlare meno da pastori e più da politici, con una competenza, così, che non è la nostra.


"L’altro pericolo è stato – proprio per fuggire da questa tentazione – quello di ritirarsi in un mondo puramente spirituale, in un mondo astratto e bello, ma non realistico. Il discorso di un pastore, invece, deve essere realistico, deve toccare la realtà, ma nella prospettiva di Dio e della sua Parola. Quindi questa mediazione comporta da una parte essere realmente legati alla realtà, attenti a parlare di quanto c’è, e dall’altra non cadere in soluzioni tecnicamente politiche; ciò vuol dire indicare una parola concreta, ma spirituale".

Nonostante questi pericoli, tuttavia, il sinodo è stato "un buon lavoro", ha detto il papa. È riuscito sufficientemente a mediare tra la dimensione politica e quella spirituale. "E per me questo è anche motivo di gratitudine perché facilita molto l’elaborazione del documento postsinodale".

Ogni sinodo, infatti, approda a una esortazione apostolica postsinodale scritta dal papa, pubblicata mesi dopo, sulla base delle proposte formulate dai padri al termine dell'assise.

In passato tali proposte restavano riservate, ma da quando Ratzinger è papa esse sono di dominio pubblico, per sua decisione.

Le proposte – in latino "propositiones" – sono state questa volta 57.


R IFLESSIONI SUL CASO M ARRAZZO ( E SU NOI UOMINI) - Torniamo per pietà alla vera questione morale - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 ottobre 2009
I l caso Marrazzo continua a tener banco, trascinato agli onori delle cronache da una catena di piccoli e grandi squallori. E io vorrei tenermi lontano dal guazzabuglio delle reazioni di parte e ancor di più – com’è costume di questo giornale – dal greve gioco al massacro che s’è subito aperto. Perché è legittimo stigmatizzare le debolezze di un uomo pubblico – e trarne, sul piano politico e morale, le inevitabili conseguenze – ma non può diventare motivo per massacrare la dignità sua e la sensibilità di coloro che lo amano o che gli sono legati.
Che questa sia, piuttosto, l’occasione per una riflessione seria, dura e al tempo stesso pietosa (sì usiamolo questo aggettivo, senza il quale ogni società umana decade, poiché senza pietà ogni umano consorzio si disfa e si insanguina).
Perché si tratta di considerare una cosa: nel cuore di un uomo può agire la spinta ideale, buona e costruttiva a darsi da fare, a impegnarsi bene, e anche, contemporaneamente, agire la spinta a buttarsi via, a obnubilarsi in un oscuro dispendio di se stesso, del proprio corpo, della propria energia. Costruzione e dispendio. Fare del bene e buttarsi via. Questo può succedere, e non di rado.
Succede perché l’uomo è anche fatto così. Non è un meccanismo dove al bene si attacca e consegue per forza il bene. Possono convivere male e bene, alternarsi. Succedere l’uno all’altro. Non ce ne dovremmo stupire, se ci conosciamo almeno un poco. Lo diceva anche san Paolo di se stesso, figurati se non vale per ognuno di noi poveracci. I cristiani iniziano il momento più importante per loro, la Messa, battendosi il petto. L’ultimo peccatore come il Papa.
Sembra che queste cose non abbiano a che fare con la cronaca. Questa eterna contraddizione dell’esser nostro vale per i re, per i capi, e per il popolo. Per gli eletti, e per gli elettori. Se la questione morale fosse davvero il proporsi di una questione circa la moralità, beh allora dovremmo finalmente discutere su quali sono i reali argini alla debolezza morale (e dovremmo discutere anche su perché accade che mentre qualcuno viene 'massacrato' e fatto fuori sui giornali sulla base di carte false, intorno ad altri, persino immortalati in video sgradevoli, scattano strani meccanismi di solidarietà e di protezione ad alto livello).
Dovremmo discutere, insomma, su che cosa rende 'morale' la vita di un uomo. La mancanza di errori? La presenza di un controllo totale sui suoi atti pubblici e privati? O la sua magari faticosa adesione a un pulito e schietto ideale di umanità? La sua costruzione di un’identità pubblica che non sia l’altra faccia di quella privata?
Eppure il caso Marrazzo mi suscita infinita pena. Dello stesso tipo di pena che ho verso me stesso, la medesima abbandonata e irrimediabile pena. Se davvero la 'questione morale' fosse un momento per guardarsi in faccia, anche con le proprie debolezze, allora forse la politica e i suoi teatri ne riceverebbero una nuova tensione positiva, e un’aria meno ammalata. Se davvero fosse un’occasione per parlare tra uomini in carne e ossa, preoccupati per il decadere delle istituzioni politiche e di garanzia; insomma, se il disastro umano di questo o quel caso noto servisse per uscire un attimo dal teatro di 'bambocci' (cioè di pupi, d’uomini finti) a cui sembra ridursi spesso la politica italiana, allora penso che ne verrebbe un guadagno per tutti. Ridiscutendo di cosa sia la morale, che tensione sia, che necessità ci sia di non fissarsela da soli, di non rispondere soltanto – senza stile e senza sobrietà – alla propria immagine di potere o di pensiero.
Una vera questione morale sarebbe il tratto di un’epoca di agire retto e dove non si usa la comune debolezza umana come clava gli uni contro gli altri. Dove politici, uomini dello Stato e mass media non lavorano per sfasciare la gente. E per prenderla per il naso. Sarebbe una stagione meno farisaica e scandalistica, più pulita e di maggior tensione al bene comune. Se no, ne verrà solo altro avvilimento, e incattivimento. Proseguendo un periodo cupo e pazzo in cui in nome della morale fai-da-te o improvvisamente riscoperta si distoglie amoralmente lo sguardo dai problemi veri della gente vera e si aprono le porte ai modi più feroci e distruttivi di lotta.


Paolini: «Il mio teatro in tv su crisi, economia e lavoro» - DI T IZIANA LUPI – Avvenire, 27 ottobre 2009
Il titolo è, a dir poco, curioso. Lo spetta­colo che Marco Paolini propone su La7 lunedì 9 novembre (in prima serata, in diretta dal porto di Taranto) si chiama Mi­serabili. Io e Margareth Thatcher ed è una ballata ( con monologhi, canzoni e brevi narrazioni) che racconta la metamorfosi della società, italiana e non solo, a partire dagli anni ’80 fino ad oggi.
Paolini, perché questo titolo?
Iniziamo dalla prima parola: miserabili. So­no partito da cinque righe del romanzo di Victor Hugo che fanno gelare il sangue per dare voce al disagio che avevo intorno ma che non riuscivo a definire, dal concetto di miseria non come povertà ma come man­canza di prospettive.
In che senso mancanza di prospettive?
Non si esce dalla miseria senza qualcosa che la con­trasti. Cioè, la speranza. Ma la politica e, soprattutto, l’e­conomia, che si è messa co­me una specie di pellicola trasparente sulle cose e sul­le nostre vite, mancano di speranza perché la tradu­cono in attese e previsioni.
Insomma, rispetto al pas­sato, oggi abbiamo più sol­di ma non siamo più in gra­do di coltivare una speranza.
Suona molto come il vecchio adagio «Si stava meglio quando si stava peggio»…
Non voglio fare il guru, per carità. Con que­sto spettacolo provo solo a ragionare sulla presunzione nel voler salvare il mondo da parte degli economisti, tralasciando quel­la parte di noi che non ha a che fare con l’e­conomia. E, ripeto, togliendoci la speran­za. Per chi crede c’è la religione, per chi non crede c’è anche la cultura. La paura, l’o­mofobia, sono tutti sintomi di una miseria culturale che politica ed economia, da so­le, non possono affrontare né, tanto meno, risolvere. Le faccio un esempio: gli Ameri­cani, eleggendo il presidente Obama, han­no dimostrato di avere la capacità di im­pegnarsi dietro ad un sogno. E il valore del Nobel per la pace sta proprio in questo: aiu­tare chi prova a coltivare questa speranza.
In tutto questo, cosa c’entra Margareth Thatcher?
La Thatcher è l’originale. Il resto sono co- pie, e parlo, naturalmente, più a livello e­conomico che politico. Lei non è l’autrice di ricette economiche ma un potente am­plificatore di teorie economiche che, con lei, sono diventate moda. Se esistesse un’Al­ta Moda nell’economia, lei sarebbe la stili­sta più potente. La Thatcher disse: «Non e­siste la società. Esistono solo uomini, don­ne e famiglie». Io dico: stiamo attenti a che le famiglie, da sole, non diventino un ghet­to in cui crescere separatamente da tutti gli altri.
Perché ha scelto di andare in onda dal por­to di Taranto?
Perché è un luogo simbolo dei temi af­frontati dallo spettacolo. È la porta d’O­riente per lo scambio di merci tra il mercato asiatico e l’Europa.
L’artista tra Victor Hugo e la Thatcher: «Denuncerò la perdita della speranza, vero motore dell’uomo»