Nella rassegna stampa di oggi:
1) La mia speranza per Caterina - 6 ottobre 2009 – Antonio Socci - fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
2) Il Papa ha ragione: l’AIDS non si ferma con il condom - Intervista al dott. Renzo Puccetti e al dott. Cesare Cavoni - di Antonio Gaspari
3) Iraq: assassinato un infermiere cristiano - L'Arcivescovo di Kirkuk definisce la situazione “preoccupante”
4) La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson - Dubbi e dolori di un prete solo - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009
5) SINDONE/ David Rolfe (BBC): gli scienziati di Repubblica hanno torto - INT. David Rolfe mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
6) L’ORIZZONTE DELLA MISERICORDIA - RICORDIAMOLO: NESSUN MALE MAI È COSÌ GRANDE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 ottobre 2009
7) IMPEGNO NEL SEGNO DELLA SUSSIDIARIETÀ - Una «rete» per battere la povertà alimentare - GIANCARLO ROVATI – Avvenire, 7 ottobre 2009
La mia speranza per Caterina - 6 ottobre 2009 – Antonio Socci - fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
Domani porteremo Caterina in un altro centro ospedaliero per iniziare la fase del risveglio (dopo che i bravissimi medici di Firenze le hanno salvato la vita). Abbiamo grande fiducia anche nei medici a cui la affidiamo. Ma sarà il momento più delicato e davvero avremo tanto tanto bisogno del soccorso della Madonna perché Caterina si svegli e stia bene.
Vi ringrazio ancora, dal profondo del cuore, per tutto il vostro affetto, le vostre preghiere incessanti e le vostre commoventi offerte di sacrifici: vi sarò debitore per tutta la vita.
Riporto qua sotto ciò che ho scritto a Maurizio Belpietro, Direttore di Libero, il giornale a cui collaboro, su questi giorni che ci aspettano.
LA MIA PREGHIERA PER CATERINA
Caro Direttore,
la mia Caterina ha occhi bellissimi. La sua giovinezza ora è distesa su un letto di luce e di dolore. E’ come una Bella addormentata. Ma crocifissa. Mi trovo involontariamente “inviato” nelle regioni del dolore estremo e in questo panorama dolente – se un angelo tiene a guinzaglio l’angoscia – ci sono diverse cose che mi pare di cominciare a capire.
La prima notizia è che il mio cuore batte. Il nostro cuore continua a battere. So bene che normalmente la cosa non fa notizia. Neanche la si considera. Finché non capita che a tua figlia, nei suoi 24 anni raggianti di vita, alla vigilia della laurea in architettura per cui ha studiato cinque anni, d’improvviso una sera il cuore si ferma e senza alcuna ragione. Si ferma di colpo (o, come dicono, va in fibrillazione).
Lì, quando ti si spalanca davanti quell’abisso improvviso che ti fa urlare uno sconfinato “nooooo!!!”, cominci a capire: è la cosa meno scontata del mondo che in questo preciso istante il cuore dei tuoi bimbi, il mio cuore o il tuo, amico lettore, batta.
Quante volte ho sentito don Giussani stupirci con questa evidenza: che nessuno fa battere volontariamente il proprio cuore. E’ come un dono che si riceve di continuo, senza accorgersi. Istante per istante dipendiamo da Qualcun Altro che ci dà vita…
C’illudiamo di possedere mille cose e di essere chissacchì, ma così clamorosamente non possediamo noi stessi. Un Altro ci fa. In ogni attimo. Vengono le vertigini a pensarci. Allora si può solo mendicare, come poveri che non hanno nulla, neanche se stessi, un altro battito e un altro respiro ancora dal Signore della vita (“Gesù nostro respiro”, diceva una grande santo).
Certo, si ricorre a tutti i mezzi umani e a tutte le cure mediche. Che oggi sono eccezionali e personalmente devo ringraziare degli ottimi medici, competenti e umani. Ma anch’essi sanno di avere poteri limitati, non possono arrivare all’impossibile, non potrebbero nulla se non fosse concesso dall’alto e poi se non fossero “illuminati” e guidati.
Rex tremendae majestatis… E’ Lui il padrone e la fonte della vita e di ogni cosa che è. E i nostri bambini e le nostre figlie sono suoi. E’ teneramente loro Padre. Allora – con tutte le nostre pretese annichilite e l’anima straziata – ci si scopre poveri di tutto a mendicare la vita da “Colui che esaudisce le preghiere…”.
Mendico di poter riavere un sorriso da mia figlia, uno sguardo, una parola… D’improvviso ciò che sembrava la cosa più ovvia e scontata del mondo, ti appare come la più preziosa e quasi un sogno impossibile… Son pronto a dare tutto, tutto quello che ho, tutto quello che so e che sono, darei la vita stessa per quel tesoro.
Ci affanniamo sempre per mille cause, obiettivi, ambizioni che ci sembrano così importanti da farci trascurare i figli. Ma oggi come appare tutto senza alcun valore al confronto dello sguardo di una figlia, alla sua giovinezza in piena fioritura…
Un gran dono ha fatto Dio agli uomini rendendoli padri e madri: così tutti possono sperimentare che significhi amare un’altra creatura più di se stessi. E così abbiamo una pallida idea del suo amore e della sua compassione per noi…
Caterina è una Sua prediletta, come tutti coloro che soffrono. Mi tornano in mente le parole di quella canzone spagnola cantata splendidamente dalla mia principessa e dedicata alla Madonna, “Ojos de cielo”, che dice: “Occhi di Cielo, occhi di Cielo/ non abbandonarmi in pieno volo”.
Riascolto il suo canto, con il nodo alla gola, come la sua preghiera: “Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri/ mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno./ Mi si cancella il mondo e scopro il cielo/ quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/ non abbandonarmi in pieno volo./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/ tutta la mia vita per questo sogno…/ Se io mi dimenticassi di ciò che è vero/ se io mi allontanassi da ciò che è sincero/ i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,/ se io mi allontanassi dal vero./ Occhi di cielo..”.
E infine quell’ultima strofa che oggi suona come un presagio: “Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse/ e una notte buia vincesse sulla mia vita,/ i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,/ i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida./ Occhi di cielo…”.
E’ con questa speranza certa che subito ho affidato il mio tesoro e la sua guarigione nelle mani della sua tenera Madre del Cielo. Per le parole, chiare e intramontabili di Gesù che ci incitano “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, che promettono “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà” e che esortano a implorare senza stancarsi mai come la vedova importuna del Vangelo (che – se non altro per la sua insistenza – verrà esaudita).
Sappiamo che la Regina del Cielo è con noi: pronta ad aprirci le porte dei forzieri delle grazie. E’ lei infatti il rifugio degli afflitti e la nostra meravigliosa Avvocata che può ottenere tutto dal Figlio. Già il primo miracolo, a Cana, gli fu dolcemente “rubato” da lei che ebbe pietà di quella povera gente…
In questi giorni ho ricordato le pagine del Monfort e quelle di s. Alfonso Maria de’ Liguori, “Le glorie di Maria”. E’ stupefacente come duemila anni di santi e di sante ci invitano a essere certi del soccorso della Madonna perché “non si è mai sentito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato” (S. Bernardo).
“Ogni bene, ogni aiuto, ogni grazia che gli uomini hanno ricevuto e riceveranno da Dio sino alla fine del mondo, tutto è venuto e verrà loro per intercessione e per mezzo di Maria” (s. Alfonso), perché così Dio ha voluto.
Infatti “nelle afflizioni tu consoli” chi in te confida, “nei pericoli tu soccorri” chi ti chiama: tu “speranza dei disperati e soccorso degli abbandonati”. Misero me se non la riconoscessi come Madre, convertendomi (questo significa: “sia fatta la tua volontà”) e lasciandomi guarire nell’anima. Per ottenere anche la guarigione del corpo.
Ma quanto è commovente accorgersi di avere una simile Madre quando si sente concretamente il suo mantello protettivo fatto dai tanti fratelli e sorelle nella fede, pronti ad aiutarti, dai giovani amici di Caterina, bei volti luminosi che condividono l’esperienza cristiana suscitata da don Giussani, dai tantissimi amici di parrocchie, comunità, dagli innumerevoli conventi di clausura e santuari – compresi radio e internet – dove in questi giorni si implora la Madonna per Caterina. Come non commuoversi?
Ho ricevuto decine di mail anche da persone lontane dalla fede che, per la commozione della vicenda di mia figlia, sono tornate a pregare, si sono riaccostate ai sacramenti dopo anni. E hanno compreso di avere una Madre buona che si può implorare e che non delude.
Ma è anzitutto della mia conversione che voglio parlare. Ci è chiesto un distacco totale da tutto ciò che non vale e non dura. Perché solo Dio non passa. Cioè resta l’amore.
Così quando ho saputo dei 4 mila bambini malati di un lebbrosario in India che, con i missionari (uomini di Dio stupendi e immensi), hanno pregato per la guarigione di Caterina, dopo l’emozione ho capito che quei bimbi da oggi fanno parte di me, della mia vita e della mia famiglia.
E così pure i poveri moribondi curati da padre Aldo Trento in Paraguay che hanno offerto le loro sofferenze per Caterina. Voglio aiutarli come posso.
Portando tutto il dolore del mondo sotto il mantello della Madre di Dio, affido a lei la guarigione di Caterina, perché torni a cantare “Ojos de cielo” per tutti i poveri della nostra Regina.
“Mia Signora, tu sola sei la consolazione che Dio mi ha donato, la guida del mio pellegrinaggio, la forza della mia debolezza, la ricchezza della mia miseria, la guarigione delle mie ferite, il sollievo dei miei dolori, la liberazione dalle mie catene, la speranza della mia salvezza: esaudisci le mie suppliche, abbi pietà dei miei sospiri, tu che se la mia regina, il rifugio, l’aiuto, la vita, la speranza e la mia forza” (S. Germano).
Antonio Socci
fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
Il Papa ha ragione: l’AIDS non si ferma con il condom - Intervista al dott. Renzo Puccetti e al dott. Cesare Cavoni - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Hanno destato scalpore le dichiarazioni del Cardinale del Ghana Peter Kodwo Appiah Turkson, in merito all’uso del profilattico all’interno di una coppia dove uno dei due è contagiato dall’AIDS.
Rispondendo alle domande di un giornalista il relatore generale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa ha spiegato che è più efficace investire in farmaci antiretrovirali piuttosto che in preservativi al fine di contenere la diffusione dell'AIDS.
La risposta ha riaperto il dibattito sull’uso dei profilattici come tecnica per contrastare la diffusione dell’Hiv.
Sulla questione il Pontefice Benedetto XVI si era già espresso e ne era nata una tempesta mediatica.
Per cercare di comprendere quali sono le argomentazioni che sottostanno al dibattito e che sembrano coinvolgere così tanti interessi, ZENIT ha intervistato il dott. Renzo Puccetti e il dott. Cesare Cavoni, il primo medico, l’altro docente di bioetica e giornalista di Sat2000, conduttore del programma “2030 tra scienza e coscienza”, che hanno appena consegnato all’editore il libro “Il Papa ha ragione! L’Aids non si ferma con il condom” (Fede & Cultura).
Cosa pensate delle dichiarazioni del Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson in merito all’uso del profilattico?
Puccetti: A leggere i giornali sono rimasto allibito, poi però ho letto la trascrizione dell'intervento del Cardinale e allora ho compreso che si trattava dell'ennesimo caso di distorsione del messaggio. Il Cardinale per prima cosa non si è soffermato su una valutazione morale della questione, allo stesso tempo attraverso le sue dichiarazioni non si è per niente discostato dal costante insegnamento morale della Chiesa.
Il Cardinale riconosce, come è logico, che insieme ai farmaci antiretrovirali, l'uso del preservativo si oppone alla diffusione dell'AIDS nei casi in cui non si ricorra all'astinenza e alla fedeltà. Si sta parlando quindi di quanto teoricamente può essere messo in campo.
Il Cardinale poi prosegue riferendo l'esperienza dei presidi sanitari del Ghana riconducibili alla Chiesa Cattolica, secondo cui nelle famiglie in cui è stato proposto il preservativo la prevenzione ha funzionato soltanto se ci si è risolti ad abbracciare la fedeltà. Il Cardinale ha ricordato che anche in caso di rapporti tra persone sierodiscordanti il ricorso al preservativo è fonte di una falsa sicurezza, aggravata dal fatto di affidarsi ad un manufatto.
Quando il presidente dell'Uganda ha dato il via alla strategia ABC (Abstinence, Be faithful, Condom) che si è rivelata estremamente efficace nel contrastare l'epidemia di AIDS e che poi è stata presa a modello con pari successo in altri paesi africani, egli diceva cose assai simili a quello che ieri ha detto il Cardinale: la vita non può essere giocata affidandola ad un sottile strato di lattice.
Ma il preservativo serve o no a fermare l'AIDS?
Puccetti: Non è facile rispondere in modo secco, ma se devo dire se il preservativo serve a fermare l'AIDS nelle epidemie generalizzate la risposta che mi sento di dare sulla base del corpo di conoscenze scientifiche disponibili è "no".
Perché potesse funzionare l'uomo dovrebbe essere qualcosa di non troppo diverso da un topolino in una gabbia a cui prima di ogni copula qualcuno infila il preservativo. In quel caso il preservativo potrebbe essere utile.
Siccome però l'uomo non è un topolino, non vive nelle gabbie e non ci sono professionisti pronti ad infilare il condom, non ci deve stupire che l'efficacia teorica non la si ritrovi poi sul terreno della vita reale.
Perchè avete deciso di scrivere un libro su questo tema?
Cavoni: Questo libro nasce da una triste constatazione, e cioè che spesso l’informazione parla di fatti che non conosce e, per giunta, li deforma. È quello che è successo durante la prima visita del Papa in Africa nel marzo di quest’anno.
Ecco: il libro nasce da questa tristezza e, anche, dalla rabbia di vedere calpestati i principi fondamentali di una corretta informazione. Nello stesso tempo ci sembrava doveroso far conoscere al pubblico i fatti così come si erano svolti e, in qualche modo, far partire gli occhi all’opinione pubblica, in modo tale che non prenda come oro colato goffe strumentalizzazioni, perpetrate per motivi ideologici, per superficialità o per entrambe i fattori.
Come è impostato il libro e quali sono gli argomenti che sollevate per dire che il Papa ha ragione?
Puccetti: Il libro si articola in due parti. Nella prima è stato ricostruito con fedeltà assoluta il lavoro di impiastricciamento delle dichiarazioni del Santo Padre; dalla lettura del libro diventa oltremodo evidente la progressiva distorsione del messaggio operata con aggiunte, omissioni, sostituzioni. Abbiamo poi trascritto, così come fate voi oggi con quelle del Cardinale Turkson, le parole esatte del Pontefice al giornalistra francese che aveva posto la domanda sul preservativo. Nella seconda parte del libro abbiamo riassunto al meglio delle nostre capacità il panorama di conoscenze offerto dalla letteratura scientifica internazionale in tema di applicazione clinica della prevenzione mediante la promozione dell'uso del condom.
Abbiamo prestato particolare attenzione ai numeri, perché riteniamo che essi possano essere una base di discussione condivisa a prescindere dall'orientamento religioso. Quando un mio interlocutore mostra di essere sorpreso se dichiarazioni di eminenti scienziati confermano quanto dice il Papa, non posso che dedurne la scarsa conoscenza dei dati che nel corso degli anni si sono sedimentati e della vastità delle voci che su riviste internazionali come The Lancet o il British Medical Journal hanno replicato agli editoriali di quelle stesse riviste. Qualche giorno fa mi sono imbattuto alla televisione in un signore piuttosto corpulento che definiva "una cavolata" le parole del Papa, poi mi sono accorto che si trattava della stessa persona che spesso appare sullo schermo con una grande parruccona bionda. Beh, se chiunque può alzarsi la mattina e dare giudizi come se fosse un epidemiologo clinico, forse allora un libro che spieghi come stanno le cose può essere utile. Sono convinto che tanta parte di una bioetica in cui è sempre più difficile ravvisare qualche traccia di etica deriva da una sciatteria scientifica davvero preoccupante.
Perchè tanto clamore alle parole del Papa e come è avvenuta la disinformazione?
Cavoni: Tutti i maggiori quotidiani nazionali ed internazionali, si sono scagliati, direttamente o indirettamente contro il Pontefice, reo di aver detto che i ‘preservativi’ non risolvono i problemi in Africa anzi li aggravano.Le critiche si sono poi accentuate nel momento in cui sono arrivati i rilevi, più feroci, da parte di vari esponenti di governo europei e perfino la risoluzione del parlamento belga che chiedeva al Papa di smentire quanto affermato.
Il punto è che chi prende posizioni così forti, si presume che sappia che cosa ha detto davvero il Papa; e invece non è andata così. Tutti parlavano ma pochi avevano ascoltato. Tant’è che in un secondo momento, molti scienziati, hanno confermato i concetti espressi da Benedetto XVI.
Dobbiamo pensare che per molte persone la prima e unica fonte di informazione, di acculturamento, o di semplice conoscenza della realtà circostante, è detemirminata da giornali e telgiornali. Vige ancora, insomma, il classico ‘l’ha detto il telegiornale’, oppure, ‘l’ho letto sul giornale’, e questo a conferma della veridictà di quanto si è appreso.
I mezzi di informazione acquisiscono cioè un principio di autorità potentissimo. Se dunque le cose, i fatti, le notizie presentate si basano su ricostruzioni parziali o sbocconcellate della realtà, il lettore riceverà in dono una lettura della realtà deformata, non corrispondente al vero. Con questa tecnica si può addirittura creare una realtà virtuale parallela a quella reale.
Se io, dovendo riportare le parole del Papa, e commentarle, non le ascolto e non le riporto correttamente, rischio di commentare qualcosa che non è stato detto o è stato detto in maniera sostanzialmente diversa.
Il problema delle fonti giornalistiche, che devono essere accessibili eccetera eccetera, di cui si parla tanto in queste settimane, non vale solo, e non tanto, per gli atti, pubblici, delle procure, ma per l’abc del giornalismo: essere testimoni di quanto ci si appresterà a descrivere.
Non stiamo parlando di una fumosa oggettività, di imparzialità; no, stiamo parlando del fatto che devo essere presente sulla scena del fatto che descrivo. E se questo non è possibile, visto che nel caso specifico, non tutti i giornalisti possono essere al seguito del Pontefice, quanto meno mi prendo la briga di riascoltare, parola per parola, ciò che davvero il Papa ha detto e perché lo ha detto.
Invece in molti si sono fidati del sentito dire, di un primo testo, scorretto. Il resto è ordinaria storia di disinformazione.
Iraq: assassinato un infermiere cristiano - L'Arcivescovo di Kirkuk definisce la situazione “preoccupante”
KIRKUK, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).- E' stato assassinato questo sabato Imad Elia Abdul Karim, infermiere cristiano di 55 anni, sequestrato davanti alla sua casa nel quartiere di Mualimin, a Kirkuk (Iraq).
Fonti locali hanno riferito ad AsiaNews che questo sabato la polizia ha rinvenuto il cadavere dell'uomo “buttato” per strada, nel quartiere di Dumez e Asra Wa Mafqudin. E' lo stesso luogo in cui sono stati uccisi in precedenza Aziz Risqo, un importante funzionario cristiano della città, e due donne. Secondo un primo rapporto medico, il corpo “presenta evidenti segni di tortura”.
Nello stesso giorno, monsignor Louis Sako, Arcivescovo di Kirkuk, aveva rivolto un appello alle autorità e ai giornali locali per la liberazione, definendo la situazione dei cristiani “preoccupante” perché negli ultimi mesi sono sempre più “obiettivo di minacce, sequestri e omicidi”.
Il rapimento è avvenuto nel pomeriggio del 3 ottobre. Durante l'assalto, il gruppo – formato da tre persone – ha aperto il fuoco ferendo l'infermiere, sposato e padre di due figli.
Fonti locali hanno spiegato che Imad Elia Abdulkarim stava riparando la sua automobile quando è arrivato un “gruppo di tre persone che ha sparato” in direzione dell'uomo. I malviventi lo hanno portato via, facendo poi perdere le proprie tracce.
“Imad – ha detto un cristiano – è un uomo buono molto noto nell'ambiente della sanità a Kirkuk. Il motivo del sequestro potrebbe essere un'eventuale richiesta di denaro, o potrebbe essere collegata alla sua attività professionale”.
La comunità cristiana conferma il clima di “paura” per i numerosi casi di “sequestri e omicidi avvenuti quest'anno”. Dopo il rapimento del medico Samir Gorja, alcune famiglie “hanno abbandonato la città. Il Governo non fa nulla e i cristiani sono diventati un obiettivo” da attaccare.
Lo stesso giorno del sequestro, l'Arcidiocesi di Kirkuk ha rivolto un appello per la liberazione dell'infermiere. In un messaggio ai media e alle autorità cittadine, monsignor Sako ha confermato che “i cristiani sono un bersaglio della violenza” e ha denunciato quanti “mirano a guadagni politici” o “approfittano di una mancanza d'ordine” per continuare a sequestrare persone e a chiedere “riscatti in denaro”.
“Tutti – ha ricordato il presule – sanno che i cristiani sono cittadini di questo Paese e di questa città; nessuno dubita del loro amore per la patria, della loro sincerità”.
Allo stesso modo, ha parlato di “atti contro i cristiani che vogliono avere un ruolo nella ricostruzione del Paese” e di “una cultura dell'umiliazione che rifiutiamo con forza”, e ha invitato “le autorità governative e le persone oneste dell'Iraq e di Kirkuk a fare di tutto per difendere i cittadini, chiunque siano”.
Rinnovando la richiesta di “dialogo e cooperazione sincera”, monsignor Sako chiedeva “ai sequestratori di Imad Elia Abdul Karim di avere timor di Dio” e di liberare l'ostaggio perché potesse “tornare dalla sua famiglia e dai suoi figli il prima possibile”. Un appello che non è stato ascoltato.
La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson - Dubbi e dolori di un prete solo - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009
La strada che porta al piccolo villaggio di Ambicourt è brulla e sconnessa; l'unica accoglienza per chi dovrà occuparsi della parrocchia è l'abbraccio di due amanti che alla vista del nuovo arrivato si ricompongono furtivi, eludendo con vergogna ma anche con sdegno il suo sguardo innocente.
Bastano poche inquadrature per capire tutto lo stato d'animo di un film pervaso da una sofferenza composta ma via via sempre meno tollerabile. Tanto più che il male a cui è sottoposto il giovane curato non arriva solo dall'esterno, ma nasce anche da dentro. Dall'esigenza comprensibile, e tuttavia non richiesta né tanto meno indispensabile all'ufficio cui è preposto, di sentirsi amato dai suoi fedeli. Dal bisogno di portare avanti ogni giorno una parrocchia superando tanti piccoli problemi pratici, il che lo mette presto di fronte al problema morale di dover scendere a compromessi con dei peccatori che però possono rivelarsi utili e influenti.
Probabilmente nessun autore meglio di Robert Bresson poteva portare sullo schermo il romanzo Diario di un curato di campagna (1950) di Georges Bernanos, storia di un prete malato di cancro che alle pene del corpo vede sommarsi anche quelle dell'anima a causa dell'incomprensione ricevuta dalla piccola comunità di cui dovrà prendersi cura. Per il pudore del suo stile, innanzi tutto, essenziale, addirittura severo, fatto di continue sottrazioni - alla lunga quasi dolorose ma indispensabili - per raggiungere quella verità dell'immagine a cui il grande cineasta francese credeva ciecamente.
Più di Ingmar Bergman, di Carl Theodor Dreyer, e di altri autori dal grande rigore formale, Bresson è stato infatti regista in senso stretto, perché come nessun altro ha saputo sottomettere il testo - pure spesso importante e autorevole come in questo caso - ai mezzi espressivi precipui del cinema: la composizione certosina dell'inquadratura, i movimenti precisi e geometrici della cinepresa, e soprattutto l'uso di un montaggio che procede per piccoli dettagli per arrivare a un significato più alto e profondo, facendo vibrare la dimensione metafisica di volti e oggetti.
Ma ugualmente importante si rivela in questo caso un'altra caratteristica a ben vedere analoga di Bresson, ossia il suo modo di scomporre il racconto attraverso rivoli di narrazione che lasciano lo spettatore sempre più disorientato quasi fino alla fine del film, salvo poi in extremis tirarne le fila per arrivare a una ricomposizione che ha il carattere subitaneo e illuminante di un'epifania. Una tecnica quasi da tessitore di arazzi che raggiungerà le vette con storie corali come quella di Au hasard Balthazar (1966), forse il capolavoro assoluto del regista, ma che qui si rivela particolarmente congeniale a mettere in scena la vicenda di un parroco la cui coscienza, già indebolita dal precario stato di salute, sembra frangersi irrimediabilmente contro la superficie dura e impenetrabile di un prisma acuminato, rappresentato dal rapporto con gli altri: le cattiverie delle piccole catechiste, le maldicenze del paese, un collega che perde la fede, un conoscente che si suicida, tante saranno le delusioni e le incomprensibili crudeltà a cui il protagonista si ritroverà a dover far fronte, e che gradualmente ma inesorabilmente frantumeranno le sue certezze fondendosi invece in un tutt'uno con la malattia del suo corpo.
Una malattia rara, in un uomo giovane come lui, e quindi, in un certo senso, altrettanto inspiegabile. Eppure, alla fine ci sarà ancora tempo per una pacificazione provvidenziale che darà un senso al caos: "Che importa? Tutto è grazia", pronuncerà il protagonista in punto di morte, intravedendo nei misteri che lo avevano arrovellato gli imperscrutabili disegni divini. Parole che Bresson, coerentemente, affida alla voce fuori campo di un altro personaggio, in uno slancio supremo del suo usuale pudore.
E proprio l'epilogo permette al film di essere il più ottimista di questo grande autore. Che nel prosieguo della sua opera continuerà a interrogarsi sul perché del male nel mondo senza più trovare la disinteressata generosità di quel conforto.
(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009)
SINDONE/ David Rolfe (BBC): gli scienziati di Repubblica hanno torto - INT. David Rolfe mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Documentarista e grande appassionato di storia, David Rolfe lavora per l’azienda di produzione audiovisiva inglese “Performancefilms” per la quale ha realizzato centinaia di lungometraggi. Nel 1976 girò “The silent witness”, Il testimone silenzioso. Un documentario che aveva per oggetto la Sacra Sindone di Torino e per il quale è stato insignito del British Academy Award. Nel 2008 ha realizzato un nuovo documentario per la BBC che rimette in discussione le conclusioni del 1988 cui erano giunte le commissioni di studio sulla reliquia. Ilsussidiario.net lo ha intervistato in merito alle presunte dichiarazioni di alcuni membri del Cicap che, in un’intervista ospitata sul quotidiano La Repubblica, sostengono di essere riusciti a dimostrare come la Sindone altro non sia che un falso medievale
Dottor Rolfe, che cosa l’ha spinta a realizzare il suo documentario sulla Sindone per la BBC?
Fin dalla prima giovinezza ho avuto un profondissimo interesse per tutto quello che circonda la Sacra Sindone. Un interesse che ha potuto concretizzarsi nel lavoro che realizzai nel 1976, quando portai a compimento il mio primo documentario sull’argomento. Si trattò di un lavoro che ebbe riscontri planetari per il quale vinsi il British Academy Award. La mia passione per gli studi sindonologici non è mai cessata. Prendendo contatto con i responsabili del Centro Internazionale degli studi sulla Sindone ho avuto il permesso e la grande fortuna di realizzare un secondo documentario che la BBC è stata a sua volta ben contenta di trasmettere.
In Italia ha suscitato scalpore un articolo apparso su uno dei maggiori quotidiani nazionali che mette in dubbio l’autenticità della Sindone definendola un manufatto medievale. Per come si conoscono le cose è possibile affermare una cosa simile?
Ho avuto anch’io, qui in Inghilterra, la possibilità di dare un’occhiata all’articolo e devo dire che la pretesa di quegli scienziati di aver scoperto un possibile metodo utilizzato dai medievali per creare un falso è totalmente errata. Vorrei dire due cose a riguardo. In primo luogo da quando venne realizzato il famoso esame del C14 in molti si sono sbizzarriti a pensare le più diverse ipotesi sulla creazione della Sindone. Nel tempo l’opinione di molte persone si è fortificata nel convincimento che si tratti di un artefatto medievale. In effetti, alla prova del C14 le possibilità che si trattasse di un reperto del medioevo erano molte. Ma il mio film dimostra come invece ci siano parecchie incoerenze storiche e parecchie prove dell’esistenza della Sindone prima della data riportata dall’esame.
La seconda osservazione è che lo stesso professor Christopher Bronk Ramsey dell’università di Oxford che ha condotto il test del carbonio 14 vent’anni fa ha dichiarato che l’argomento deve essere riesaminato per gli innumerevoli fattori chimico fisici che possono aver influenzato la resa del test.
Il metodo utilizzato dal professor Garlaschelli, del centro CICAP, è consistito nell’utilizzo di un lino, tessuto a spina di pesce, dove è stato disteso un volontario al quale erano state sporcate di ocra le parti del corpo più in rilievo. Per il volto è stato utilizzato un bassorilievo di gesso. Per invecchiare invece il tessuto il lino è stato scaldato per tre ore a una temperatura di 250 °C e lavato in lavatrice con sola acqua. Le sembra un metodo convincente?
Lo stesso professor Garlaschelli, inconsapevolmente, ha dimostrato come non possa essere attendibile la procedura utilizzata per la riproduzione dell’immagine del sudario. Per riuscire a fare qualcosa di convincente devi realizzare una reliquia artificiale che abbia tutte le stesse caratteristiche dell’immagine del sudario. Se si legge con attenzione l’articolo si nota che Garlaschelli dice «con tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue». Abbiamo capito bene? Dopo aver riprodotto l’immagine hanno piazzato su il sangue.
Evidentemente Garlaschelli ignora che nel 1978 è stato scoperto inequivocabilmente che il sangue sulla Sindone si è riversato prima che si creasse l’immagine.
È molto facile, una volta che hai l’immagine di un corpo su un tessuto, aggiungere il sangue nei posti giusti, ma è molto difficile, una volta messo prima il sangue, far coincidere un’immagine di quel tipo. Quindi il professore che ha avuto la pretesa di dire di aver creato un’immagine con le stesse caratteristiche della Sindone ha affermato una cosa non corretta perché nella Sindone ci sono caratteristiche che la sua copia non ha.
Per quale motivo secondo lei l’approccio scientifico alla Sindone è spesso caratterizzato da un pregiudizio negazionista?
Il metodo che la scienza persegue molto spesso procede con prove negative, è raro che la scienza porti prove in positivo. Ed è anche giusto, perché sennò c’è il pericolo di fare affermazioni dogmatiche. Quando la Sindone si presentò sotto un profilo scientifico portò con sé un’innumerevole serie di prove a favore della sua autenticità. Quindi schiere di scienziati si presentarono con l’intenzione di smentirle una ad una. Ma c’è un fatto. Chi sostiene un’ipotesi del genere, o vuole iniziare uno studio con un metodo del genere, non considera tutti i fattori rispetto alla Sindone. La Sindone, per essere appieno studiata e compresa, ha bisogno del supporto di molti altri contributi derivanti da diversi campi dello scibile umano. In ballo c’è la storia, la geografia, la storia dell’arte, la chimica, la fisica e molto altro ancora. Pertanto ritengo che sia molto difficile per qualcuno che abbia davvero approfondito tutte queste conoscenze smentire l’autenticità della Sindone. Mentre è molto facile che chiunque si approcci al sudario con poca conoscenza e molti pregiudizi se cerca di trovare una ragione o una scusa scientifica di negarne la validità la trovi. Ma non si troverà nessuno che abbia studiato la Sindone a fondo e che abbia al contempo questo atteggiamento.
Dopo la realizzazione del suo documentario è andato avanti a investigare sul mistero della Sindone?
Sono molto contento di dire che abbiamo fra le mani un altro progetto che speriamo possa essere completato prima dell’ostensione del 2010. Si tratta di un lungometraggio che concluderà il lavoro che abbiamo iniziato nell’ultimo documentario e fornirà una spiegazione del fatto che l’esame del C14 abbia necessità di essere ripetuto. È la cosa a cui sto lavorando più intensamente in questo momento.
(Raffaele Castagna, Gabriele Ferré)
Il realismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Nelle prossime settimane, il presidente Obama dovrà prendere una delle più importanti decisioni della sua vita, cioè se continuare l’attuale strategia per sconfiggere i talebani in Afghanistan, mandando altri 40.000 soldati come richiesto dal comandante in capo da lui stesso nominato, il generale Stanley McChrystal.
In un incisivo articolo su The New York Times di domenica scorsa, James Traub faceva notare che le varie posizioni sulla guerra non possono essere identificate semplicemente come progressiste, neocon o conservatrici. Piuttosto, si possono individuare due posizioni di base, che Traub descrive come “We must” (si deve) e “We can”(si può).
Il presidente Obama, annota, ha definito questa guerra una “guerra di necessità”, perché è “fondamentale per la difesa del nostro popolo”, come Obama ha detto questa estate. In questo modo, Obama si è posto nel campo del “We must”: una guerra necessaria è una guerra dove si deve fare tutto il possibile per vincere.
Dall’altra parte, la posizione “We can” controbatte che se una simile guerra non può essere vinta, allora “bisogna ridefinire il concetto di necessità e scegliere di conseguenza una politica più modesta”, basata su ciò che si può fare. Questa fu la posizione sostenuta dal diplomatico e studioso George Kennan sulla guerra del Vietnam in un’audizione alla Commissione Affari Esteri del Senato nel lontano 1966.
Da candidato, Obama aveva detto di aver letto e fatto proprio il punto di vista di Kennan e di altri “realisti”, a differenza del presidente Lyndon Johnson, deciso a vincere la guerra a ogni costo. Chi critica le posizioni alla “We must” fa presente che Obama, definendo la guerra in Afghanistan come necessaria, sembra aver scelto la strada di Johnson, ignorando così i limiti reali del potere americano.
Tuttavia, questa settimana, soprattutto dopo la fuga di notizie sulle affermazioni del generale McChrystal che senza altri 40.000 soldati la guerra non poteva essere vinta, Obama sembrerebbe orientato a tornare alle vedute di Kennan e degli altri “realisti” della posizione “We can”.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, i “realisti” vinsero nel dibattito su come rispondere alla minaccia sovietica, con la conseguente scelta di una strategia di contenimento e non di aggressione. Sul Vietnam, invece, persero in favore della visione “costruiamo la nazione” di una generazione di progressisti della guerra fredda.
Nella guerra contro il terrorismo, i “neocon arrivati al potere con George W. Bush si dimostrarono altrettanto sprezzanti dei moniti del realismo che i progressisti della generazione precedente” afferma Traub. Oggi, la divisione sulla guerra in Afghanistan non è sinistra verso destra o “falchi” verso “colombe”, ma è determinata “dalla differenza tra la posizione alla Wilson del ‘cosa dobbiamo fare’ e quella alla Kennan del ‘cosa possiamo fare’”.
Il problema che si trova a fronteggiare Obama è: può una politica di contenimento alla Kennan funzionare contro Al Qaeda e le sue totalizzanti ambizioni religiose? Il recente arresto di Najibullah Zazi come aderente a un complotto per mettere bombe nella metropolitana di New York (un complotto di cui sembra non si conosca tuttora la reale estensione) dimostra forse che l’approccio “realista” non funziona con questo tipo di nemico?
In questa situazione, mi chiedo se la divisione tra dovere e potere sia il modo giusto di considerare ciò che è realmente in gioco. Il confronto non dovrebbe invece essere tra ciò che è “ragionevole” e ciò che è “irragionevole”? Ancora una volta incorriamo nella domanda “cosa è ragionevole”, che continua a essere l’unica via per dissipare la confusione che ci tormenta. Questo non rende sempre più urgente quell’“allargamento della ragione” che per Benedetto XVI rappresenta il contributo della fede alla politica?
FINE VITA/ Il giurista: il caso di Firenze? Un precedente pericoloso senza fondamento - INT. Alberto Gambino mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Forse era inevitabile che la polemica sul testamento biologico si riaprisse, a livello comunale, proprio nella città che ha concesso la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, il padre di Eluana Englaro, la donna morta di fame e di sete a seguito della sospensione dell'alimentazione e idratazione assistita a cui era da anni sottoposta a causa della sua infermità (era in stato vegetativo a seguito di un incidente) e che di fatto ha aperto il caso del testamento biologico in Italia il cui disegno di legge è oggi fermo nell'aula del Senato. Il comune di Firenze ha infatti votato una delibera riguardo l'"Istituzione del Registro dei testamenti biologici" con relativo regolamento comunale. Ma è un atto legittimo? Abbiamo intervistato a questo proposito l'avvocato Alberto Gambino, avvocato e docente di Diritto Privato e Diritto Civile all'Università europea di Roma.
Avvocato Gambino, come valuta la delibera del Consiglio comunale?
E’ una delibera giuridicamente inutile, dunque pericolosissima.
In che senso è inutile dal punto di vista giuridico?
L’art. 117 della Costituzione riserva allo Stato il potere di legiferare in tema di ordinamento civile; dunque nessuna autorità territoriale è competente a dettare norme in tema di registri relativi a documenti assistiti da una valenza civile, come sarebbe per il caso dei “testamenti biologici”, atti di volontà individuale relativi ai trattamenti terapeutici in caso di perdita di conoscenza. E’ un tema, cioè, che riguarda il diritto civile italiano, non certo la scelta di un’amministrazione locale, come se fosse ammesso che i cittadini italiani abbiano diritti soggettivi diversi a seconda del luogo di residenza.
Nella delibera si dice che tale registro servirebbe per dare “certezza” alla data di un testamento biologico.
Ma a che serve dare certezza di data ad un atto che è giuridicamente inesistente?
Eppure nella delibera si ricorda che la più recente giurisprudenza di merito ha riconosciuto la rilevanza del testamento biologico ed è stata confermata in varie pronunce dalla Cassazione.
Si tratta di un’affermazione creativa. La delibera richiama espressamente tre sentenze della Cassazione, ma, in realtà, due sono relative allo stesso caso Englaro, e, di queste, una sola affronta la questione di merito, mentre l’altra si limita a rigettare il ricorso del PM per problemi procedurali; ma, soprattutto, l’altra sentenza citata – successiva a quella del caso Englaro – opta decisamente per l’inammissibilità generale del testamento biologico. Trovo grave che in una delibera di un Comune importante come quello fiorentino ci siano tali gravissime e fuorvianti imprecisioni.
Ma allora se non c’è certezza che i testamenti biologici siano riconosciuti, perché registrarli?
Appunto. Ed è per questo motivo che ritengo che oltre che inutile la delibera sia anche pericolosissima. E’ noto, infatti, che se un atto amministrativo non è giustificato da una sua effettiva utilità può dar luogo a responsabilità, a cominciare da quelle erariali. A dire: perché impiegare denaro della casse comunali per istituire registri, destinare personale, dotazioni e risorse per un’attività che può non avere alcuna rilevanza pratica, stante – quantomeno – il contrasto giurisprudenziale ricordato e l’impossibilità per un’amministrazione di innovare il codice civile italiano?
Ciò potrebbe configurare richieste di risarcimento del danno da parte di organi di controllo, come la Corte dei Conti?
Guardi, ogni Amministrazione deve operare rispettando il principio di legalità, che significa agire nei limiti delle proprie competenze, con efficienza ed efficacia rispetto ai propri obiettivi. Quando si esce da questi paletti, dando avvio a burocrazie onerose e presumibilmente inutili - stante l’incertezza ricordata di una valenza giuridica dei testamenti biologici - siamo davanti ad iniziative quantomeno imprudenti. E di questo sembra essersene reso conto anche il capo di quell’amministrazione comunale - il Sindaco di Firenze, Renzi – che, essendo tra l’altro laureato in legge, non risulta abbia partecipato al voto della delibera in questione.
L’ORIZZONTE DELLA MISERICORDIA - RICORDIAMOLO: NESSUN MALE MAI È COSÌ GRANDE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 ottobre 2009
U n ritiro di sacerdoti in un paesino della profonda campagna francese, Ars. Noto al mondo solo per un povero curato che vi fu mandato agli inizi dell’Ottocento, quando le anime in quel villaggio erano 230. Non sono molte di più, adesso. Ars è un grappolo di case strette attorno a un campanile e alla memoria di san JeanMarie Vianney. Dunque, in questo paese mille sacerdoti venuti da tutto il mondo hanno ascoltato gli esercizi spirituali predicati nell’anno sacerdotale dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. Per sette giorni, nella pace bucolica dell’Ain. Eppure, di ciò che è stato predicato a quella schiera di preti neri, bianchi, asiatici, qualcosa ti resta in mente tenacemente; come se poi le parole dette in quella quiete di convento dicessero molto di ciò che è vero sul mondo in cui viviamo. Schönborn ha esortato con forza quei mille a essere «testimoni di misericordia». Come la prima vera missione, come il senso primo di quell’abito che portano. Non predicatori, né «buoni esempi», né prima di tutto benefattori o filantropi. Ma testimoni di misericordia. «Solo alla luce della misericordia di Dio – ha detto il cardinale – possiamo guardare in faccia la nostra miseria. Se non c’è una percezione della misericordia di Dio, gli uomini non sopportano la verità. In un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi, e ad accusare gli altri. E quando ci si accorge della nostra miseria, siamo tentati dallo scoraggiamento e dalla disperazione ». Misericordia, l’immenso amore di Dio, quell’«amore con viscere materne» che tutto sa e tutto perdona. Infinitamente più grande che la giustizia degli uomini: la giustizia secondo Dio, la giustizia che fa rinascere. Misericordia divina, che presuppone uomini che la domandino; che non ritengano di essere autosufficienti, e di non averne dunque alcun bisogno, giacché sono adulti, e non più “figli” di alcun padre.
Ci siamo scoperti a sussultare, alle parole di Schönborn, come quando qualcuno, non conoscendoci, ci dica qualcosa di vero di noi. Di noi in Italia, almeno. L’orizzonte di una misericordia perduta. Una ampia smemoratezza di quella eredità cristiana in cui ci si sa capaci di male, e dunque peccatori; ma altrettanto si sa che nessun male è così grande, che Dio non lo possa perdonare. In questa luce si può guardarsi in faccia, così come siamo; si può, come è stato detto ad Ars, «guardare in faccia la nostra miseria». Si può sopportare la verità: su di noi e sugli altri.
Invece, «in un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi e ad accusare». Non c’è l’eco di questo smarrimento nella rabbia delle invettive e controaccuse che percorre ormai cronicamente giornali e tv, come se il resto dell’Italia reale, il lavoro, i nostri figli, non esistesse? Un ostinato autogiustificarsi, un farisaico dirsi sempre innocenti, un puntare il dito costantemente verso l’altro. Come in un vicolo cieco. Perché per ladri, impostori, bugiardi quale speranza c’è, se tutto ormai è indelebilmente fatto; se non c’è alcuna coscienza che capaci di male siamo tutti, e per tutti c’è un orizzonte di misericordia?
Insistono coloro che si giudicano “onesti”, e magari disonestamente accusano; e forse sono loro i peggiori, quei farisei che sanno tutto di ognuno, ma hanno scordato la propria miseria. Qualcuno, molti, restano a guardare: né inquisitori né accusati né autoassolti, si chiedono con ansia dove andrà, un Paese avvolto in questo turbine rabbioso. Si chiedono che cosa è cambiato, e quale patto di fondo si è incrinato: perché ricordano un’Italia sì divisa, partigiana, battagliera, ma nel fondo più civile e umana. Come se fossimo caduti dentro a un altro orizzonte. Come se mancasse qualcosa. Qualcuno, forse; con cui non puoi vantarti di essere senza peccato; qualcuno a cui, alla fine, devi anche tu chiedere perdono.
IMPEGNO NEL SEGNO DELLA SUSSIDIARIETÀ - Una «rete» per battere la povertà alimentare - GIANCARLO ROVATI – Avvenire, 7 ottobre 2009
L o studio sulla povertà alimentare elaborato dalla Fondazione per la Sussidiarietà con ricercatori di più università ha un'origine paradossale: è partito dalla risposta (già in atto) a un problema, per risalire all'analisi delle dimensioni quantitative e qualitative della domanda sottostante. Un punto di vista non convenzionale che ha valorizzato – con inedite elaborazioni – sia le informazioni statistiche ufficiali, sia il giacimento di informazioni in possesso degli enti caritativi che partecipano alla rete del Banco Alimentare. È stata così messa a punto una stima oggettiva dell' incidenza di povertà alimentare nel nostro Paese: 4,4% delle famiglie residenti (oltre un milione di unità) e 5,1% degli individui residenti (quasi tre milioni) e nello stesso tempo una stima della povertà assistita (almeno in parte) distinta per regioni, province, sistemi locali del lavoro. La differenza tra il numero delle persone che oggettivamente sono al di sotto della soglia di povertà alimentare (222 euro al mese di spesa per una famiglia di due persone) e il numero degli assistiti, offre un'attendibile stima del divario quantitativo e qualitativo da colmare per soccorrere più adeguatamente chi già riceve qualche forma di aiuto e chi ne è completamente escluso (almeno 700mila persone). L'impegno per una conoscenza più dettagliata si collega a un interesse per le politiche pubbliche, che devono prendere in maggior considerazione la componente alimentare della povertà e investire risorse adeguate per superare il paradosso della scarsità (per alcuni) nell'abbondanza (di molti). L'auspicio è che le analisi condotte trovino un ascolto effettivo e stiano alla base di nuove politiche sociali. Colpisce in proposito l'esperienza degli Stati Uniti, dove gli studi sulla povertà (iniziati 50 anni fa) sono in rapporto diretto con la messa a punto e il monitoraggio di 70 politiche federali a favore dei poveri. I dati sulla povertà alimentare assistita considerati nell'indagine provengono dagli enti (ben 7.705) che aderiscono alla Rete Banco Alimentare che nel loro insieme hanno assistito regolarmente nel 2007 un milione e mezzo di indigenti, pari al 65% dei 2 milioni e 300mila destinatari degli aiuti alimentari Ue, e rappresentano il 51% dei circa 15mila enti che distribuiscono tali aiuti. La speranza è di poter estendere l'analisi ad altre reti e di costituire un solido Osservatorio sulla povertà alimentare nel nostro Paese, in grado di monitorare il bisogno e la risposta effettiva.
Nell'attuale crisi economico-sociale, sono due le priorità politiche da perseguire: sostenere gli enti caritativi ed assistenziali che erogano aiuti, perché senza di loro i poveri diventerebbero ancora più poveri, numerosi e soli; coordinare meglio gli sforzi tra le istituzioni pubbliche, cui spettano le politiche generali e i finanziamenti necessari, le imprese della filiera agroalimentare che nel corso dell'anno danno un contributo rilevante alla necessaria 'colletta alimentare continua', le organizzazioni caritative e non profit perché prendano più coscienza del loro insostituibile ruolo operativo, informativo, educativo. La rete degli enti considerati nell'indagine mostra una capacità sociale e comunitaria di risposta al bisogno particolarmente mirata, in grado di affrontare il problema alimentare e di creare relazioni fiduciarie indispensabili alle persone per uscire dalla condizione di disagio e di emarginazione. Tra le cause principali della povertà c'è infatti la solitudine, che richiede forme di aiuto materiali capaci di generare anche nuovi rapporti personali e sociali.
Bisogna dunque impedire che questa rete si indebolisca, erogando maggiori aiuti pubblici e privati, in modo coordinato e tempestivo. Gli aiuti aggiuntivi servono anche a potenziare i servizi, a promuovere l'innovazione gestionale, a sviluppare il sistema informativo degli enti coinvolti. Nell'ambito delle difficoltà e delle risorse per andare oltre l'indigenza va considerata attentamente anche la gara contro il tempo, da cui dipende l'efficacia, l'entità e la sostenibilità delle politiche e dei singoli interventi.
1) La mia speranza per Caterina - 6 ottobre 2009 – Antonio Socci - fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
2) Il Papa ha ragione: l’AIDS non si ferma con il condom - Intervista al dott. Renzo Puccetti e al dott. Cesare Cavoni - di Antonio Gaspari
3) Iraq: assassinato un infermiere cristiano - L'Arcivescovo di Kirkuk definisce la situazione “preoccupante”
4) La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson - Dubbi e dolori di un prete solo - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009
5) SINDONE/ David Rolfe (BBC): gli scienziati di Repubblica hanno torto - INT. David Rolfe mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
6) L’ORIZZONTE DELLA MISERICORDIA - RICORDIAMOLO: NESSUN MALE MAI È COSÌ GRANDE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 ottobre 2009
7) IMPEGNO NEL SEGNO DELLA SUSSIDIARIETÀ - Una «rete» per battere la povertà alimentare - GIANCARLO ROVATI – Avvenire, 7 ottobre 2009
La mia speranza per Caterina - 6 ottobre 2009 – Antonio Socci - fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
Domani porteremo Caterina in un altro centro ospedaliero per iniziare la fase del risveglio (dopo che i bravissimi medici di Firenze le hanno salvato la vita). Abbiamo grande fiducia anche nei medici a cui la affidiamo. Ma sarà il momento più delicato e davvero avremo tanto tanto bisogno del soccorso della Madonna perché Caterina si svegli e stia bene.
Vi ringrazio ancora, dal profondo del cuore, per tutto il vostro affetto, le vostre preghiere incessanti e le vostre commoventi offerte di sacrifici: vi sarò debitore per tutta la vita.
Riporto qua sotto ciò che ho scritto a Maurizio Belpietro, Direttore di Libero, il giornale a cui collaboro, su questi giorni che ci aspettano.
LA MIA PREGHIERA PER CATERINA
Caro Direttore,
la mia Caterina ha occhi bellissimi. La sua giovinezza ora è distesa su un letto di luce e di dolore. E’ come una Bella addormentata. Ma crocifissa. Mi trovo involontariamente “inviato” nelle regioni del dolore estremo e in questo panorama dolente – se un angelo tiene a guinzaglio l’angoscia – ci sono diverse cose che mi pare di cominciare a capire.
La prima notizia è che il mio cuore batte. Il nostro cuore continua a battere. So bene che normalmente la cosa non fa notizia. Neanche la si considera. Finché non capita che a tua figlia, nei suoi 24 anni raggianti di vita, alla vigilia della laurea in architettura per cui ha studiato cinque anni, d’improvviso una sera il cuore si ferma e senza alcuna ragione. Si ferma di colpo (o, come dicono, va in fibrillazione).
Lì, quando ti si spalanca davanti quell’abisso improvviso che ti fa urlare uno sconfinato “nooooo!!!”, cominci a capire: è la cosa meno scontata del mondo che in questo preciso istante il cuore dei tuoi bimbi, il mio cuore o il tuo, amico lettore, batta.
Quante volte ho sentito don Giussani stupirci con questa evidenza: che nessuno fa battere volontariamente il proprio cuore. E’ come un dono che si riceve di continuo, senza accorgersi. Istante per istante dipendiamo da Qualcun Altro che ci dà vita…
C’illudiamo di possedere mille cose e di essere chissacchì, ma così clamorosamente non possediamo noi stessi. Un Altro ci fa. In ogni attimo. Vengono le vertigini a pensarci. Allora si può solo mendicare, come poveri che non hanno nulla, neanche se stessi, un altro battito e un altro respiro ancora dal Signore della vita (“Gesù nostro respiro”, diceva una grande santo).
Certo, si ricorre a tutti i mezzi umani e a tutte le cure mediche. Che oggi sono eccezionali e personalmente devo ringraziare degli ottimi medici, competenti e umani. Ma anch’essi sanno di avere poteri limitati, non possono arrivare all’impossibile, non potrebbero nulla se non fosse concesso dall’alto e poi se non fossero “illuminati” e guidati.
Rex tremendae majestatis… E’ Lui il padrone e la fonte della vita e di ogni cosa che è. E i nostri bambini e le nostre figlie sono suoi. E’ teneramente loro Padre. Allora – con tutte le nostre pretese annichilite e l’anima straziata – ci si scopre poveri di tutto a mendicare la vita da “Colui che esaudisce le preghiere…”.
Mendico di poter riavere un sorriso da mia figlia, uno sguardo, una parola… D’improvviso ciò che sembrava la cosa più ovvia e scontata del mondo, ti appare come la più preziosa e quasi un sogno impossibile… Son pronto a dare tutto, tutto quello che ho, tutto quello che so e che sono, darei la vita stessa per quel tesoro.
Ci affanniamo sempre per mille cause, obiettivi, ambizioni che ci sembrano così importanti da farci trascurare i figli. Ma oggi come appare tutto senza alcun valore al confronto dello sguardo di una figlia, alla sua giovinezza in piena fioritura…
Un gran dono ha fatto Dio agli uomini rendendoli padri e madri: così tutti possono sperimentare che significhi amare un’altra creatura più di se stessi. E così abbiamo una pallida idea del suo amore e della sua compassione per noi…
Caterina è una Sua prediletta, come tutti coloro che soffrono. Mi tornano in mente le parole di quella canzone spagnola cantata splendidamente dalla mia principessa e dedicata alla Madonna, “Ojos de cielo”, che dice: “Occhi di Cielo, occhi di Cielo/ non abbandonarmi in pieno volo”.
Riascolto il suo canto, con il nodo alla gola, come la sua preghiera: “Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri/ mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno./ Mi si cancella il mondo e scopro il cielo/ quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/ non abbandonarmi in pieno volo./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/ tutta la mia vita per questo sogno…/ Se io mi dimenticassi di ciò che è vero/ se io mi allontanassi da ciò che è sincero/ i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,/ se io mi allontanassi dal vero./ Occhi di cielo..”.
E infine quell’ultima strofa che oggi suona come un presagio: “Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse/ e una notte buia vincesse sulla mia vita,/ i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,/ i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida./ Occhi di cielo…”.
E’ con questa speranza certa che subito ho affidato il mio tesoro e la sua guarigione nelle mani della sua tenera Madre del Cielo. Per le parole, chiare e intramontabili di Gesù che ci incitano “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, che promettono “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà” e che esortano a implorare senza stancarsi mai come la vedova importuna del Vangelo (che – se non altro per la sua insistenza – verrà esaudita).
Sappiamo che la Regina del Cielo è con noi: pronta ad aprirci le porte dei forzieri delle grazie. E’ lei infatti il rifugio degli afflitti e la nostra meravigliosa Avvocata che può ottenere tutto dal Figlio. Già il primo miracolo, a Cana, gli fu dolcemente “rubato” da lei che ebbe pietà di quella povera gente…
In questi giorni ho ricordato le pagine del Monfort e quelle di s. Alfonso Maria de’ Liguori, “Le glorie di Maria”. E’ stupefacente come duemila anni di santi e di sante ci invitano a essere certi del soccorso della Madonna perché “non si è mai sentito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato” (S. Bernardo).
“Ogni bene, ogni aiuto, ogni grazia che gli uomini hanno ricevuto e riceveranno da Dio sino alla fine del mondo, tutto è venuto e verrà loro per intercessione e per mezzo di Maria” (s. Alfonso), perché così Dio ha voluto.
Infatti “nelle afflizioni tu consoli” chi in te confida, “nei pericoli tu soccorri” chi ti chiama: tu “speranza dei disperati e soccorso degli abbandonati”. Misero me se non la riconoscessi come Madre, convertendomi (questo significa: “sia fatta la tua volontà”) e lasciandomi guarire nell’anima. Per ottenere anche la guarigione del corpo.
Ma quanto è commovente accorgersi di avere una simile Madre quando si sente concretamente il suo mantello protettivo fatto dai tanti fratelli e sorelle nella fede, pronti ad aiutarti, dai giovani amici di Caterina, bei volti luminosi che condividono l’esperienza cristiana suscitata da don Giussani, dai tantissimi amici di parrocchie, comunità, dagli innumerevoli conventi di clausura e santuari – compresi radio e internet – dove in questi giorni si implora la Madonna per Caterina. Come non commuoversi?
Ho ricevuto decine di mail anche da persone lontane dalla fede che, per la commozione della vicenda di mia figlia, sono tornate a pregare, si sono riaccostate ai sacramenti dopo anni. E hanno compreso di avere una Madre buona che si può implorare e che non delude.
Ma è anzitutto della mia conversione che voglio parlare. Ci è chiesto un distacco totale da tutto ciò che non vale e non dura. Perché solo Dio non passa. Cioè resta l’amore.
Così quando ho saputo dei 4 mila bambini malati di un lebbrosario in India che, con i missionari (uomini di Dio stupendi e immensi), hanno pregato per la guarigione di Caterina, dopo l’emozione ho capito che quei bimbi da oggi fanno parte di me, della mia vita e della mia famiglia.
E così pure i poveri moribondi curati da padre Aldo Trento in Paraguay che hanno offerto le loro sofferenze per Caterina. Voglio aiutarli come posso.
Portando tutto il dolore del mondo sotto il mantello della Madre di Dio, affido a lei la guarigione di Caterina, perché torni a cantare “Ojos de cielo” per tutti i poveri della nostra Regina.
“Mia Signora, tu sola sei la consolazione che Dio mi ha donato, la guida del mio pellegrinaggio, la forza della mia debolezza, la ricchezza della mia miseria, la guarigione delle mie ferite, il sollievo dei miei dolori, la liberazione dalle mie catene, la speranza della mia salvezza: esaudisci le mie suppliche, abbi pietà dei miei sospiri, tu che se la mia regina, il rifugio, l’aiuto, la vita, la speranza e la mia forza” (S. Germano).
Antonio Socci
fonte: Libero (c) 6 ottobre 2009
Il Papa ha ragione: l’AIDS non si ferma con il condom - Intervista al dott. Renzo Puccetti e al dott. Cesare Cavoni - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Hanno destato scalpore le dichiarazioni del Cardinale del Ghana Peter Kodwo Appiah Turkson, in merito all’uso del profilattico all’interno di una coppia dove uno dei due è contagiato dall’AIDS.
Rispondendo alle domande di un giornalista il relatore generale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa ha spiegato che è più efficace investire in farmaci antiretrovirali piuttosto che in preservativi al fine di contenere la diffusione dell'AIDS.
La risposta ha riaperto il dibattito sull’uso dei profilattici come tecnica per contrastare la diffusione dell’Hiv.
Sulla questione il Pontefice Benedetto XVI si era già espresso e ne era nata una tempesta mediatica.
Per cercare di comprendere quali sono le argomentazioni che sottostanno al dibattito e che sembrano coinvolgere così tanti interessi, ZENIT ha intervistato il dott. Renzo Puccetti e il dott. Cesare Cavoni, il primo medico, l’altro docente di bioetica e giornalista di Sat2000, conduttore del programma “2030 tra scienza e coscienza”, che hanno appena consegnato all’editore il libro “Il Papa ha ragione! L’Aids non si ferma con il condom” (Fede & Cultura).
Cosa pensate delle dichiarazioni del Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson in merito all’uso del profilattico?
Puccetti: A leggere i giornali sono rimasto allibito, poi però ho letto la trascrizione dell'intervento del Cardinale e allora ho compreso che si trattava dell'ennesimo caso di distorsione del messaggio. Il Cardinale per prima cosa non si è soffermato su una valutazione morale della questione, allo stesso tempo attraverso le sue dichiarazioni non si è per niente discostato dal costante insegnamento morale della Chiesa.
Il Cardinale riconosce, come è logico, che insieme ai farmaci antiretrovirali, l'uso del preservativo si oppone alla diffusione dell'AIDS nei casi in cui non si ricorra all'astinenza e alla fedeltà. Si sta parlando quindi di quanto teoricamente può essere messo in campo.
Il Cardinale poi prosegue riferendo l'esperienza dei presidi sanitari del Ghana riconducibili alla Chiesa Cattolica, secondo cui nelle famiglie in cui è stato proposto il preservativo la prevenzione ha funzionato soltanto se ci si è risolti ad abbracciare la fedeltà. Il Cardinale ha ricordato che anche in caso di rapporti tra persone sierodiscordanti il ricorso al preservativo è fonte di una falsa sicurezza, aggravata dal fatto di affidarsi ad un manufatto.
Quando il presidente dell'Uganda ha dato il via alla strategia ABC (Abstinence, Be faithful, Condom) che si è rivelata estremamente efficace nel contrastare l'epidemia di AIDS e che poi è stata presa a modello con pari successo in altri paesi africani, egli diceva cose assai simili a quello che ieri ha detto il Cardinale: la vita non può essere giocata affidandola ad un sottile strato di lattice.
Ma il preservativo serve o no a fermare l'AIDS?
Puccetti: Non è facile rispondere in modo secco, ma se devo dire se il preservativo serve a fermare l'AIDS nelle epidemie generalizzate la risposta che mi sento di dare sulla base del corpo di conoscenze scientifiche disponibili è "no".
Perché potesse funzionare l'uomo dovrebbe essere qualcosa di non troppo diverso da un topolino in una gabbia a cui prima di ogni copula qualcuno infila il preservativo. In quel caso il preservativo potrebbe essere utile.
Siccome però l'uomo non è un topolino, non vive nelle gabbie e non ci sono professionisti pronti ad infilare il condom, non ci deve stupire che l'efficacia teorica non la si ritrovi poi sul terreno della vita reale.
Perchè avete deciso di scrivere un libro su questo tema?
Cavoni: Questo libro nasce da una triste constatazione, e cioè che spesso l’informazione parla di fatti che non conosce e, per giunta, li deforma. È quello che è successo durante la prima visita del Papa in Africa nel marzo di quest’anno.
Ecco: il libro nasce da questa tristezza e, anche, dalla rabbia di vedere calpestati i principi fondamentali di una corretta informazione. Nello stesso tempo ci sembrava doveroso far conoscere al pubblico i fatti così come si erano svolti e, in qualche modo, far partire gli occhi all’opinione pubblica, in modo tale che non prenda come oro colato goffe strumentalizzazioni, perpetrate per motivi ideologici, per superficialità o per entrambe i fattori.
Come è impostato il libro e quali sono gli argomenti che sollevate per dire che il Papa ha ragione?
Puccetti: Il libro si articola in due parti. Nella prima è stato ricostruito con fedeltà assoluta il lavoro di impiastricciamento delle dichiarazioni del Santo Padre; dalla lettura del libro diventa oltremodo evidente la progressiva distorsione del messaggio operata con aggiunte, omissioni, sostituzioni. Abbiamo poi trascritto, così come fate voi oggi con quelle del Cardinale Turkson, le parole esatte del Pontefice al giornalistra francese che aveva posto la domanda sul preservativo. Nella seconda parte del libro abbiamo riassunto al meglio delle nostre capacità il panorama di conoscenze offerto dalla letteratura scientifica internazionale in tema di applicazione clinica della prevenzione mediante la promozione dell'uso del condom.
Abbiamo prestato particolare attenzione ai numeri, perché riteniamo che essi possano essere una base di discussione condivisa a prescindere dall'orientamento religioso. Quando un mio interlocutore mostra di essere sorpreso se dichiarazioni di eminenti scienziati confermano quanto dice il Papa, non posso che dedurne la scarsa conoscenza dei dati che nel corso degli anni si sono sedimentati e della vastità delle voci che su riviste internazionali come The Lancet o il British Medical Journal hanno replicato agli editoriali di quelle stesse riviste. Qualche giorno fa mi sono imbattuto alla televisione in un signore piuttosto corpulento che definiva "una cavolata" le parole del Papa, poi mi sono accorto che si trattava della stessa persona che spesso appare sullo schermo con una grande parruccona bionda. Beh, se chiunque può alzarsi la mattina e dare giudizi come se fosse un epidemiologo clinico, forse allora un libro che spieghi come stanno le cose può essere utile. Sono convinto che tanta parte di una bioetica in cui è sempre più difficile ravvisare qualche traccia di etica deriva da una sciatteria scientifica davvero preoccupante.
Perchè tanto clamore alle parole del Papa e come è avvenuta la disinformazione?
Cavoni: Tutti i maggiori quotidiani nazionali ed internazionali, si sono scagliati, direttamente o indirettamente contro il Pontefice, reo di aver detto che i ‘preservativi’ non risolvono i problemi in Africa anzi li aggravano.Le critiche si sono poi accentuate nel momento in cui sono arrivati i rilevi, più feroci, da parte di vari esponenti di governo europei e perfino la risoluzione del parlamento belga che chiedeva al Papa di smentire quanto affermato.
Il punto è che chi prende posizioni così forti, si presume che sappia che cosa ha detto davvero il Papa; e invece non è andata così. Tutti parlavano ma pochi avevano ascoltato. Tant’è che in un secondo momento, molti scienziati, hanno confermato i concetti espressi da Benedetto XVI.
Dobbiamo pensare che per molte persone la prima e unica fonte di informazione, di acculturamento, o di semplice conoscenza della realtà circostante, è detemirminata da giornali e telgiornali. Vige ancora, insomma, il classico ‘l’ha detto il telegiornale’, oppure, ‘l’ho letto sul giornale’, e questo a conferma della veridictà di quanto si è appreso.
I mezzi di informazione acquisiscono cioè un principio di autorità potentissimo. Se dunque le cose, i fatti, le notizie presentate si basano su ricostruzioni parziali o sbocconcellate della realtà, il lettore riceverà in dono una lettura della realtà deformata, non corrispondente al vero. Con questa tecnica si può addirittura creare una realtà virtuale parallela a quella reale.
Se io, dovendo riportare le parole del Papa, e commentarle, non le ascolto e non le riporto correttamente, rischio di commentare qualcosa che non è stato detto o è stato detto in maniera sostanzialmente diversa.
Il problema delle fonti giornalistiche, che devono essere accessibili eccetera eccetera, di cui si parla tanto in queste settimane, non vale solo, e non tanto, per gli atti, pubblici, delle procure, ma per l’abc del giornalismo: essere testimoni di quanto ci si appresterà a descrivere.
Non stiamo parlando di una fumosa oggettività, di imparzialità; no, stiamo parlando del fatto che devo essere presente sulla scena del fatto che descrivo. E se questo non è possibile, visto che nel caso specifico, non tutti i giornalisti possono essere al seguito del Pontefice, quanto meno mi prendo la briga di riascoltare, parola per parola, ciò che davvero il Papa ha detto e perché lo ha detto.
Invece in molti si sono fidati del sentito dire, di un primo testo, scorretto. Il resto è ordinaria storia di disinformazione.
Iraq: assassinato un infermiere cristiano - L'Arcivescovo di Kirkuk definisce la situazione “preoccupante”
KIRKUK, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).- E' stato assassinato questo sabato Imad Elia Abdul Karim, infermiere cristiano di 55 anni, sequestrato davanti alla sua casa nel quartiere di Mualimin, a Kirkuk (Iraq).
Fonti locali hanno riferito ad AsiaNews che questo sabato la polizia ha rinvenuto il cadavere dell'uomo “buttato” per strada, nel quartiere di Dumez e Asra Wa Mafqudin. E' lo stesso luogo in cui sono stati uccisi in precedenza Aziz Risqo, un importante funzionario cristiano della città, e due donne. Secondo un primo rapporto medico, il corpo “presenta evidenti segni di tortura”.
Nello stesso giorno, monsignor Louis Sako, Arcivescovo di Kirkuk, aveva rivolto un appello alle autorità e ai giornali locali per la liberazione, definendo la situazione dei cristiani “preoccupante” perché negli ultimi mesi sono sempre più “obiettivo di minacce, sequestri e omicidi”.
Il rapimento è avvenuto nel pomeriggio del 3 ottobre. Durante l'assalto, il gruppo – formato da tre persone – ha aperto il fuoco ferendo l'infermiere, sposato e padre di due figli.
Fonti locali hanno spiegato che Imad Elia Abdulkarim stava riparando la sua automobile quando è arrivato un “gruppo di tre persone che ha sparato” in direzione dell'uomo. I malviventi lo hanno portato via, facendo poi perdere le proprie tracce.
“Imad – ha detto un cristiano – è un uomo buono molto noto nell'ambiente della sanità a Kirkuk. Il motivo del sequestro potrebbe essere un'eventuale richiesta di denaro, o potrebbe essere collegata alla sua attività professionale”.
La comunità cristiana conferma il clima di “paura” per i numerosi casi di “sequestri e omicidi avvenuti quest'anno”. Dopo il rapimento del medico Samir Gorja, alcune famiglie “hanno abbandonato la città. Il Governo non fa nulla e i cristiani sono diventati un obiettivo” da attaccare.
Lo stesso giorno del sequestro, l'Arcidiocesi di Kirkuk ha rivolto un appello per la liberazione dell'infermiere. In un messaggio ai media e alle autorità cittadine, monsignor Sako ha confermato che “i cristiani sono un bersaglio della violenza” e ha denunciato quanti “mirano a guadagni politici” o “approfittano di una mancanza d'ordine” per continuare a sequestrare persone e a chiedere “riscatti in denaro”.
“Tutti – ha ricordato il presule – sanno che i cristiani sono cittadini di questo Paese e di questa città; nessuno dubita del loro amore per la patria, della loro sincerità”.
Allo stesso modo, ha parlato di “atti contro i cristiani che vogliono avere un ruolo nella ricostruzione del Paese” e di “una cultura dell'umiliazione che rifiutiamo con forza”, e ha invitato “le autorità governative e le persone oneste dell'Iraq e di Kirkuk a fare di tutto per difendere i cittadini, chiunque siano”.
Rinnovando la richiesta di “dialogo e cooperazione sincera”, monsignor Sako chiedeva “ai sequestratori di Imad Elia Abdul Karim di avere timor di Dio” e di liberare l'ostaggio perché potesse “tornare dalla sua famiglia e dai suoi figli il prima possibile”. Un appello che non è stato ascoltato.
La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson - Dubbi e dolori di un prete solo - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009
La strada che porta al piccolo villaggio di Ambicourt è brulla e sconnessa; l'unica accoglienza per chi dovrà occuparsi della parrocchia è l'abbraccio di due amanti che alla vista del nuovo arrivato si ricompongono furtivi, eludendo con vergogna ma anche con sdegno il suo sguardo innocente.
Bastano poche inquadrature per capire tutto lo stato d'animo di un film pervaso da una sofferenza composta ma via via sempre meno tollerabile. Tanto più che il male a cui è sottoposto il giovane curato non arriva solo dall'esterno, ma nasce anche da dentro. Dall'esigenza comprensibile, e tuttavia non richiesta né tanto meno indispensabile all'ufficio cui è preposto, di sentirsi amato dai suoi fedeli. Dal bisogno di portare avanti ogni giorno una parrocchia superando tanti piccoli problemi pratici, il che lo mette presto di fronte al problema morale di dover scendere a compromessi con dei peccatori che però possono rivelarsi utili e influenti.
Probabilmente nessun autore meglio di Robert Bresson poteva portare sullo schermo il romanzo Diario di un curato di campagna (1950) di Georges Bernanos, storia di un prete malato di cancro che alle pene del corpo vede sommarsi anche quelle dell'anima a causa dell'incomprensione ricevuta dalla piccola comunità di cui dovrà prendersi cura. Per il pudore del suo stile, innanzi tutto, essenziale, addirittura severo, fatto di continue sottrazioni - alla lunga quasi dolorose ma indispensabili - per raggiungere quella verità dell'immagine a cui il grande cineasta francese credeva ciecamente.
Più di Ingmar Bergman, di Carl Theodor Dreyer, e di altri autori dal grande rigore formale, Bresson è stato infatti regista in senso stretto, perché come nessun altro ha saputo sottomettere il testo - pure spesso importante e autorevole come in questo caso - ai mezzi espressivi precipui del cinema: la composizione certosina dell'inquadratura, i movimenti precisi e geometrici della cinepresa, e soprattutto l'uso di un montaggio che procede per piccoli dettagli per arrivare a un significato più alto e profondo, facendo vibrare la dimensione metafisica di volti e oggetti.
Ma ugualmente importante si rivela in questo caso un'altra caratteristica a ben vedere analoga di Bresson, ossia il suo modo di scomporre il racconto attraverso rivoli di narrazione che lasciano lo spettatore sempre più disorientato quasi fino alla fine del film, salvo poi in extremis tirarne le fila per arrivare a una ricomposizione che ha il carattere subitaneo e illuminante di un'epifania. Una tecnica quasi da tessitore di arazzi che raggiungerà le vette con storie corali come quella di Au hasard Balthazar (1966), forse il capolavoro assoluto del regista, ma che qui si rivela particolarmente congeniale a mettere in scena la vicenda di un parroco la cui coscienza, già indebolita dal precario stato di salute, sembra frangersi irrimediabilmente contro la superficie dura e impenetrabile di un prisma acuminato, rappresentato dal rapporto con gli altri: le cattiverie delle piccole catechiste, le maldicenze del paese, un collega che perde la fede, un conoscente che si suicida, tante saranno le delusioni e le incomprensibili crudeltà a cui il protagonista si ritroverà a dover far fronte, e che gradualmente ma inesorabilmente frantumeranno le sue certezze fondendosi invece in un tutt'uno con la malattia del suo corpo.
Una malattia rara, in un uomo giovane come lui, e quindi, in un certo senso, altrettanto inspiegabile. Eppure, alla fine ci sarà ancora tempo per una pacificazione provvidenziale che darà un senso al caos: "Che importa? Tutto è grazia", pronuncerà il protagonista in punto di morte, intravedendo nei misteri che lo avevano arrovellato gli imperscrutabili disegni divini. Parole che Bresson, coerentemente, affida alla voce fuori campo di un altro personaggio, in uno slancio supremo del suo usuale pudore.
E proprio l'epilogo permette al film di essere il più ottimista di questo grande autore. Che nel prosieguo della sua opera continuerà a interrogarsi sul perché del male nel mondo senza più trovare la disinteressata generosità di quel conforto.
(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009)
SINDONE/ David Rolfe (BBC): gli scienziati di Repubblica hanno torto - INT. David Rolfe mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Documentarista e grande appassionato di storia, David Rolfe lavora per l’azienda di produzione audiovisiva inglese “Performancefilms” per la quale ha realizzato centinaia di lungometraggi. Nel 1976 girò “The silent witness”, Il testimone silenzioso. Un documentario che aveva per oggetto la Sacra Sindone di Torino e per il quale è stato insignito del British Academy Award. Nel 2008 ha realizzato un nuovo documentario per la BBC che rimette in discussione le conclusioni del 1988 cui erano giunte le commissioni di studio sulla reliquia. Ilsussidiario.net lo ha intervistato in merito alle presunte dichiarazioni di alcuni membri del Cicap che, in un’intervista ospitata sul quotidiano La Repubblica, sostengono di essere riusciti a dimostrare come la Sindone altro non sia che un falso medievale
Dottor Rolfe, che cosa l’ha spinta a realizzare il suo documentario sulla Sindone per la BBC?
Fin dalla prima giovinezza ho avuto un profondissimo interesse per tutto quello che circonda la Sacra Sindone. Un interesse che ha potuto concretizzarsi nel lavoro che realizzai nel 1976, quando portai a compimento il mio primo documentario sull’argomento. Si trattò di un lavoro che ebbe riscontri planetari per il quale vinsi il British Academy Award. La mia passione per gli studi sindonologici non è mai cessata. Prendendo contatto con i responsabili del Centro Internazionale degli studi sulla Sindone ho avuto il permesso e la grande fortuna di realizzare un secondo documentario che la BBC è stata a sua volta ben contenta di trasmettere.
In Italia ha suscitato scalpore un articolo apparso su uno dei maggiori quotidiani nazionali che mette in dubbio l’autenticità della Sindone definendola un manufatto medievale. Per come si conoscono le cose è possibile affermare una cosa simile?
Ho avuto anch’io, qui in Inghilterra, la possibilità di dare un’occhiata all’articolo e devo dire che la pretesa di quegli scienziati di aver scoperto un possibile metodo utilizzato dai medievali per creare un falso è totalmente errata. Vorrei dire due cose a riguardo. In primo luogo da quando venne realizzato il famoso esame del C14 in molti si sono sbizzarriti a pensare le più diverse ipotesi sulla creazione della Sindone. Nel tempo l’opinione di molte persone si è fortificata nel convincimento che si tratti di un artefatto medievale. In effetti, alla prova del C14 le possibilità che si trattasse di un reperto del medioevo erano molte. Ma il mio film dimostra come invece ci siano parecchie incoerenze storiche e parecchie prove dell’esistenza della Sindone prima della data riportata dall’esame.
La seconda osservazione è che lo stesso professor Christopher Bronk Ramsey dell’università di Oxford che ha condotto il test del carbonio 14 vent’anni fa ha dichiarato che l’argomento deve essere riesaminato per gli innumerevoli fattori chimico fisici che possono aver influenzato la resa del test.
Il metodo utilizzato dal professor Garlaschelli, del centro CICAP, è consistito nell’utilizzo di un lino, tessuto a spina di pesce, dove è stato disteso un volontario al quale erano state sporcate di ocra le parti del corpo più in rilievo. Per il volto è stato utilizzato un bassorilievo di gesso. Per invecchiare invece il tessuto il lino è stato scaldato per tre ore a una temperatura di 250 °C e lavato in lavatrice con sola acqua. Le sembra un metodo convincente?
Lo stesso professor Garlaschelli, inconsapevolmente, ha dimostrato come non possa essere attendibile la procedura utilizzata per la riproduzione dell’immagine del sudario. Per riuscire a fare qualcosa di convincente devi realizzare una reliquia artificiale che abbia tutte le stesse caratteristiche dell’immagine del sudario. Se si legge con attenzione l’articolo si nota che Garlaschelli dice «con tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue». Abbiamo capito bene? Dopo aver riprodotto l’immagine hanno piazzato su il sangue.
Evidentemente Garlaschelli ignora che nel 1978 è stato scoperto inequivocabilmente che il sangue sulla Sindone si è riversato prima che si creasse l’immagine.
È molto facile, una volta che hai l’immagine di un corpo su un tessuto, aggiungere il sangue nei posti giusti, ma è molto difficile, una volta messo prima il sangue, far coincidere un’immagine di quel tipo. Quindi il professore che ha avuto la pretesa di dire di aver creato un’immagine con le stesse caratteristiche della Sindone ha affermato una cosa non corretta perché nella Sindone ci sono caratteristiche che la sua copia non ha.
Per quale motivo secondo lei l’approccio scientifico alla Sindone è spesso caratterizzato da un pregiudizio negazionista?
Il metodo che la scienza persegue molto spesso procede con prove negative, è raro che la scienza porti prove in positivo. Ed è anche giusto, perché sennò c’è il pericolo di fare affermazioni dogmatiche. Quando la Sindone si presentò sotto un profilo scientifico portò con sé un’innumerevole serie di prove a favore della sua autenticità. Quindi schiere di scienziati si presentarono con l’intenzione di smentirle una ad una. Ma c’è un fatto. Chi sostiene un’ipotesi del genere, o vuole iniziare uno studio con un metodo del genere, non considera tutti i fattori rispetto alla Sindone. La Sindone, per essere appieno studiata e compresa, ha bisogno del supporto di molti altri contributi derivanti da diversi campi dello scibile umano. In ballo c’è la storia, la geografia, la storia dell’arte, la chimica, la fisica e molto altro ancora. Pertanto ritengo che sia molto difficile per qualcuno che abbia davvero approfondito tutte queste conoscenze smentire l’autenticità della Sindone. Mentre è molto facile che chiunque si approcci al sudario con poca conoscenza e molti pregiudizi se cerca di trovare una ragione o una scusa scientifica di negarne la validità la trovi. Ma non si troverà nessuno che abbia studiato la Sindone a fondo e che abbia al contempo questo atteggiamento.
Dopo la realizzazione del suo documentario è andato avanti a investigare sul mistero della Sindone?
Sono molto contento di dire che abbiamo fra le mani un altro progetto che speriamo possa essere completato prima dell’ostensione del 2010. Si tratta di un lungometraggio che concluderà il lavoro che abbiamo iniziato nell’ultimo documentario e fornirà una spiegazione del fatto che l’esame del C14 abbia necessità di essere ripetuto. È la cosa a cui sto lavorando più intensamente in questo momento.
(Raffaele Castagna, Gabriele Ferré)
Il realismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Nelle prossime settimane, il presidente Obama dovrà prendere una delle più importanti decisioni della sua vita, cioè se continuare l’attuale strategia per sconfiggere i talebani in Afghanistan, mandando altri 40.000 soldati come richiesto dal comandante in capo da lui stesso nominato, il generale Stanley McChrystal.
In un incisivo articolo su The New York Times di domenica scorsa, James Traub faceva notare che le varie posizioni sulla guerra non possono essere identificate semplicemente come progressiste, neocon o conservatrici. Piuttosto, si possono individuare due posizioni di base, che Traub descrive come “We must” (si deve) e “We can”(si può).
Il presidente Obama, annota, ha definito questa guerra una “guerra di necessità”, perché è “fondamentale per la difesa del nostro popolo”, come Obama ha detto questa estate. In questo modo, Obama si è posto nel campo del “We must”: una guerra necessaria è una guerra dove si deve fare tutto il possibile per vincere.
Dall’altra parte, la posizione “We can” controbatte che se una simile guerra non può essere vinta, allora “bisogna ridefinire il concetto di necessità e scegliere di conseguenza una politica più modesta”, basata su ciò che si può fare. Questa fu la posizione sostenuta dal diplomatico e studioso George Kennan sulla guerra del Vietnam in un’audizione alla Commissione Affari Esteri del Senato nel lontano 1966.
Da candidato, Obama aveva detto di aver letto e fatto proprio il punto di vista di Kennan e di altri “realisti”, a differenza del presidente Lyndon Johnson, deciso a vincere la guerra a ogni costo. Chi critica le posizioni alla “We must” fa presente che Obama, definendo la guerra in Afghanistan come necessaria, sembra aver scelto la strada di Johnson, ignorando così i limiti reali del potere americano.
Tuttavia, questa settimana, soprattutto dopo la fuga di notizie sulle affermazioni del generale McChrystal che senza altri 40.000 soldati la guerra non poteva essere vinta, Obama sembrerebbe orientato a tornare alle vedute di Kennan e degli altri “realisti” della posizione “We can”.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, i “realisti” vinsero nel dibattito su come rispondere alla minaccia sovietica, con la conseguente scelta di una strategia di contenimento e non di aggressione. Sul Vietnam, invece, persero in favore della visione “costruiamo la nazione” di una generazione di progressisti della guerra fredda.
Nella guerra contro il terrorismo, i “neocon arrivati al potere con George W. Bush si dimostrarono altrettanto sprezzanti dei moniti del realismo che i progressisti della generazione precedente” afferma Traub. Oggi, la divisione sulla guerra in Afghanistan non è sinistra verso destra o “falchi” verso “colombe”, ma è determinata “dalla differenza tra la posizione alla Wilson del ‘cosa dobbiamo fare’ e quella alla Kennan del ‘cosa possiamo fare’”.
Il problema che si trova a fronteggiare Obama è: può una politica di contenimento alla Kennan funzionare contro Al Qaeda e le sue totalizzanti ambizioni religiose? Il recente arresto di Najibullah Zazi come aderente a un complotto per mettere bombe nella metropolitana di New York (un complotto di cui sembra non si conosca tuttora la reale estensione) dimostra forse che l’approccio “realista” non funziona con questo tipo di nemico?
In questa situazione, mi chiedo se la divisione tra dovere e potere sia il modo giusto di considerare ciò che è realmente in gioco. Il confronto non dovrebbe invece essere tra ciò che è “ragionevole” e ciò che è “irragionevole”? Ancora una volta incorriamo nella domanda “cosa è ragionevole”, che continua a essere l’unica via per dissipare la confusione che ci tormenta. Questo non rende sempre più urgente quell’“allargamento della ragione” che per Benedetto XVI rappresenta il contributo della fede alla politica?
FINE VITA/ Il giurista: il caso di Firenze? Un precedente pericoloso senza fondamento - INT. Alberto Gambino mercoledì 7 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Forse era inevitabile che la polemica sul testamento biologico si riaprisse, a livello comunale, proprio nella città che ha concesso la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, il padre di Eluana Englaro, la donna morta di fame e di sete a seguito della sospensione dell'alimentazione e idratazione assistita a cui era da anni sottoposta a causa della sua infermità (era in stato vegetativo a seguito di un incidente) e che di fatto ha aperto il caso del testamento biologico in Italia il cui disegno di legge è oggi fermo nell'aula del Senato. Il comune di Firenze ha infatti votato una delibera riguardo l'"Istituzione del Registro dei testamenti biologici" con relativo regolamento comunale. Ma è un atto legittimo? Abbiamo intervistato a questo proposito l'avvocato Alberto Gambino, avvocato e docente di Diritto Privato e Diritto Civile all'Università europea di Roma.
Avvocato Gambino, come valuta la delibera del Consiglio comunale?
E’ una delibera giuridicamente inutile, dunque pericolosissima.
In che senso è inutile dal punto di vista giuridico?
L’art. 117 della Costituzione riserva allo Stato il potere di legiferare in tema di ordinamento civile; dunque nessuna autorità territoriale è competente a dettare norme in tema di registri relativi a documenti assistiti da una valenza civile, come sarebbe per il caso dei “testamenti biologici”, atti di volontà individuale relativi ai trattamenti terapeutici in caso di perdita di conoscenza. E’ un tema, cioè, che riguarda il diritto civile italiano, non certo la scelta di un’amministrazione locale, come se fosse ammesso che i cittadini italiani abbiano diritti soggettivi diversi a seconda del luogo di residenza.
Nella delibera si dice che tale registro servirebbe per dare “certezza” alla data di un testamento biologico.
Ma a che serve dare certezza di data ad un atto che è giuridicamente inesistente?
Eppure nella delibera si ricorda che la più recente giurisprudenza di merito ha riconosciuto la rilevanza del testamento biologico ed è stata confermata in varie pronunce dalla Cassazione.
Si tratta di un’affermazione creativa. La delibera richiama espressamente tre sentenze della Cassazione, ma, in realtà, due sono relative allo stesso caso Englaro, e, di queste, una sola affronta la questione di merito, mentre l’altra si limita a rigettare il ricorso del PM per problemi procedurali; ma, soprattutto, l’altra sentenza citata – successiva a quella del caso Englaro – opta decisamente per l’inammissibilità generale del testamento biologico. Trovo grave che in una delibera di un Comune importante come quello fiorentino ci siano tali gravissime e fuorvianti imprecisioni.
Ma allora se non c’è certezza che i testamenti biologici siano riconosciuti, perché registrarli?
Appunto. Ed è per questo motivo che ritengo che oltre che inutile la delibera sia anche pericolosissima. E’ noto, infatti, che se un atto amministrativo non è giustificato da una sua effettiva utilità può dar luogo a responsabilità, a cominciare da quelle erariali. A dire: perché impiegare denaro della casse comunali per istituire registri, destinare personale, dotazioni e risorse per un’attività che può non avere alcuna rilevanza pratica, stante – quantomeno – il contrasto giurisprudenziale ricordato e l’impossibilità per un’amministrazione di innovare il codice civile italiano?
Ciò potrebbe configurare richieste di risarcimento del danno da parte di organi di controllo, come la Corte dei Conti?
Guardi, ogni Amministrazione deve operare rispettando il principio di legalità, che significa agire nei limiti delle proprie competenze, con efficienza ed efficacia rispetto ai propri obiettivi. Quando si esce da questi paletti, dando avvio a burocrazie onerose e presumibilmente inutili - stante l’incertezza ricordata di una valenza giuridica dei testamenti biologici - siamo davanti ad iniziative quantomeno imprudenti. E di questo sembra essersene reso conto anche il capo di quell’amministrazione comunale - il Sindaco di Firenze, Renzi – che, essendo tra l’altro laureato in legge, non risulta abbia partecipato al voto della delibera in questione.
L’ORIZZONTE DELLA MISERICORDIA - RICORDIAMOLO: NESSUN MALE MAI È COSÌ GRANDE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 ottobre 2009
U n ritiro di sacerdoti in un paesino della profonda campagna francese, Ars. Noto al mondo solo per un povero curato che vi fu mandato agli inizi dell’Ottocento, quando le anime in quel villaggio erano 230. Non sono molte di più, adesso. Ars è un grappolo di case strette attorno a un campanile e alla memoria di san JeanMarie Vianney. Dunque, in questo paese mille sacerdoti venuti da tutto il mondo hanno ascoltato gli esercizi spirituali predicati nell’anno sacerdotale dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. Per sette giorni, nella pace bucolica dell’Ain. Eppure, di ciò che è stato predicato a quella schiera di preti neri, bianchi, asiatici, qualcosa ti resta in mente tenacemente; come se poi le parole dette in quella quiete di convento dicessero molto di ciò che è vero sul mondo in cui viviamo. Schönborn ha esortato con forza quei mille a essere «testimoni di misericordia». Come la prima vera missione, come il senso primo di quell’abito che portano. Non predicatori, né «buoni esempi», né prima di tutto benefattori o filantropi. Ma testimoni di misericordia. «Solo alla luce della misericordia di Dio – ha detto il cardinale – possiamo guardare in faccia la nostra miseria. Se non c’è una percezione della misericordia di Dio, gli uomini non sopportano la verità. In un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi, e ad accusare gli altri. E quando ci si accorge della nostra miseria, siamo tentati dallo scoraggiamento e dalla disperazione ». Misericordia, l’immenso amore di Dio, quell’«amore con viscere materne» che tutto sa e tutto perdona. Infinitamente più grande che la giustizia degli uomini: la giustizia secondo Dio, la giustizia che fa rinascere. Misericordia divina, che presuppone uomini che la domandino; che non ritengano di essere autosufficienti, e di non averne dunque alcun bisogno, giacché sono adulti, e non più “figli” di alcun padre.
Ci siamo scoperti a sussultare, alle parole di Schönborn, come quando qualcuno, non conoscendoci, ci dica qualcosa di vero di noi. Di noi in Italia, almeno. L’orizzonte di una misericordia perduta. Una ampia smemoratezza di quella eredità cristiana in cui ci si sa capaci di male, e dunque peccatori; ma altrettanto si sa che nessun male è così grande, che Dio non lo possa perdonare. In questa luce si può guardarsi in faccia, così come siamo; si può, come è stato detto ad Ars, «guardare in faccia la nostra miseria». Si può sopportare la verità: su di noi e sugli altri.
Invece, «in un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi e ad accusare». Non c’è l’eco di questo smarrimento nella rabbia delle invettive e controaccuse che percorre ormai cronicamente giornali e tv, come se il resto dell’Italia reale, il lavoro, i nostri figli, non esistesse? Un ostinato autogiustificarsi, un farisaico dirsi sempre innocenti, un puntare il dito costantemente verso l’altro. Come in un vicolo cieco. Perché per ladri, impostori, bugiardi quale speranza c’è, se tutto ormai è indelebilmente fatto; se non c’è alcuna coscienza che capaci di male siamo tutti, e per tutti c’è un orizzonte di misericordia?
Insistono coloro che si giudicano “onesti”, e magari disonestamente accusano; e forse sono loro i peggiori, quei farisei che sanno tutto di ognuno, ma hanno scordato la propria miseria. Qualcuno, molti, restano a guardare: né inquisitori né accusati né autoassolti, si chiedono con ansia dove andrà, un Paese avvolto in questo turbine rabbioso. Si chiedono che cosa è cambiato, e quale patto di fondo si è incrinato: perché ricordano un’Italia sì divisa, partigiana, battagliera, ma nel fondo più civile e umana. Come se fossimo caduti dentro a un altro orizzonte. Come se mancasse qualcosa. Qualcuno, forse; con cui non puoi vantarti di essere senza peccato; qualcuno a cui, alla fine, devi anche tu chiedere perdono.
IMPEGNO NEL SEGNO DELLA SUSSIDIARIETÀ - Una «rete» per battere la povertà alimentare - GIANCARLO ROVATI – Avvenire, 7 ottobre 2009
L o studio sulla povertà alimentare elaborato dalla Fondazione per la Sussidiarietà con ricercatori di più università ha un'origine paradossale: è partito dalla risposta (già in atto) a un problema, per risalire all'analisi delle dimensioni quantitative e qualitative della domanda sottostante. Un punto di vista non convenzionale che ha valorizzato – con inedite elaborazioni – sia le informazioni statistiche ufficiali, sia il giacimento di informazioni in possesso degli enti caritativi che partecipano alla rete del Banco Alimentare. È stata così messa a punto una stima oggettiva dell' incidenza di povertà alimentare nel nostro Paese: 4,4% delle famiglie residenti (oltre un milione di unità) e 5,1% degli individui residenti (quasi tre milioni) e nello stesso tempo una stima della povertà assistita (almeno in parte) distinta per regioni, province, sistemi locali del lavoro. La differenza tra il numero delle persone che oggettivamente sono al di sotto della soglia di povertà alimentare (222 euro al mese di spesa per una famiglia di due persone) e il numero degli assistiti, offre un'attendibile stima del divario quantitativo e qualitativo da colmare per soccorrere più adeguatamente chi già riceve qualche forma di aiuto e chi ne è completamente escluso (almeno 700mila persone). L'impegno per una conoscenza più dettagliata si collega a un interesse per le politiche pubbliche, che devono prendere in maggior considerazione la componente alimentare della povertà e investire risorse adeguate per superare il paradosso della scarsità (per alcuni) nell'abbondanza (di molti). L'auspicio è che le analisi condotte trovino un ascolto effettivo e stiano alla base di nuove politiche sociali. Colpisce in proposito l'esperienza degli Stati Uniti, dove gli studi sulla povertà (iniziati 50 anni fa) sono in rapporto diretto con la messa a punto e il monitoraggio di 70 politiche federali a favore dei poveri. I dati sulla povertà alimentare assistita considerati nell'indagine provengono dagli enti (ben 7.705) che aderiscono alla Rete Banco Alimentare che nel loro insieme hanno assistito regolarmente nel 2007 un milione e mezzo di indigenti, pari al 65% dei 2 milioni e 300mila destinatari degli aiuti alimentari Ue, e rappresentano il 51% dei circa 15mila enti che distribuiscono tali aiuti. La speranza è di poter estendere l'analisi ad altre reti e di costituire un solido Osservatorio sulla povertà alimentare nel nostro Paese, in grado di monitorare il bisogno e la risposta effettiva.
Nell'attuale crisi economico-sociale, sono due le priorità politiche da perseguire: sostenere gli enti caritativi ed assistenziali che erogano aiuti, perché senza di loro i poveri diventerebbero ancora più poveri, numerosi e soli; coordinare meglio gli sforzi tra le istituzioni pubbliche, cui spettano le politiche generali e i finanziamenti necessari, le imprese della filiera agroalimentare che nel corso dell'anno danno un contributo rilevante alla necessaria 'colletta alimentare continua', le organizzazioni caritative e non profit perché prendano più coscienza del loro insostituibile ruolo operativo, informativo, educativo. La rete degli enti considerati nell'indagine mostra una capacità sociale e comunitaria di risposta al bisogno particolarmente mirata, in grado di affrontare il problema alimentare e di creare relazioni fiduciarie indispensabili alle persone per uscire dalla condizione di disagio e di emarginazione. Tra le cause principali della povertà c'è infatti la solitudine, che richiede forme di aiuto materiali capaci di generare anche nuovi rapporti personali e sociali.
Bisogna dunque impedire che questa rete si indebolisca, erogando maggiori aiuti pubblici e privati, in modo coordinato e tempestivo. Gli aiuti aggiuntivi servono anche a potenziare i servizi, a promuovere l'innovazione gestionale, a sviluppare il sistema informativo degli enti coinvolti. Nell'ambito delle difficoltà e delle risorse per andare oltre l'indigenza va considerata attentamente anche la gara contro il tempo, da cui dipende l'efficacia, l'entità e la sostenibilità delle politiche e dei singoli interventi.