venerdì 30 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
3) Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
4) "Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
5) Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
6) Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
7) Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009

Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nella sua catechesi, il Papa si è soffermato sullo sviluppo della teologia nel XII secolo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come "riforma gregoriana", che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.

Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche "invenzioni" del Medioevo cristiano. Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la "teologia monastica" e la "teologia scolastica". I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.

Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una "lettura spirituale", condotta in docilità allo Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.

Il Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture. A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. E’ importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.

La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è "per additionem" (cfr Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto "scolastico", della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il "funzionamento" del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.

Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: "La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità". La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.




[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai componenti l’Associazione Regionale Cori d’Abruzzo, qui convenuti con l’Arcivescovo Mons. Carlo Ghidelli in occasione del decimo anniversario del "Meeting della coralità". Cari amici, auguro che la festosità del canto e della musica che voi recate in tanti ambiti, siano un costante invito per quanti vi ascoltano ad impegnarsi per costruire un futuro ricco di speranza. Saluto i rappresentanti del gruppo "Maranatha", di Pinerolo, accompagnati dal Vescovo Mons. Giorgio Debernardi, come pure gli esponenti dell’Ente Fiera, di Isola della Scala. Mentre invoco dalla Vergine ogni desiderato bene su tutti voi e sulle vostre famiglie, formulo fervidi voti che questo incontro con il Successore di Pietro susciti in ciascuno un rinnovato impegno di testimonianza cristiana.

Saluto, infine, i giovani, i malati, e gli sposi novelli. Oggi la liturgia ricorda i Santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. La loro testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell'impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l'Amore di Dio e dei fratelli.

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Vorrei spendere anche io due parole sulle vicende che hanno colpito il governatore della regione Lazio in questi giorni; in tutto quello che è uscito sulla stampa non c’è stato nessun approccio cordiale al dramma di Marrazzo, nessuno sguardo pietoso verso le debolezze di una persona che ha visto non solo la propria dignità ma anche quella dei suoi familiari e delle persone vicine calpestate.



L’uomo ama e bestemmia, uccide e perdona. Non è perfetto. In lui convivono opere di infinita carità come pure di sconfinato egoismo. Questo vale per i potenti, per i religiosi, per la gente comune. Il problema allora non è scoprire e giudicare il peccato dell’altro ma una misura comune a tutti, talmente grande da saper abbracciare il nostro limite.



Penso che continui ad esserci un’enorme confusione tra peccato e reato senza capire che il problema del peccato esiste perché esiste il problema del senso della vita. Uno percepisce che la vita ha un senso, ma essendo spesso incapace di dare fino in fondo questo giudizio rischia di sprecare il proprio tempo. Che peccato!



Il problema del peccato ha dentro di sé, cioè, il tema del desiderio e del rapporto col potere. L’esercizio del potere corre il rischio di farci sentire onnipotenti e di poter surrogare attraverso la realizzazione di tutto quello che ci passa per la mente la consapevolezza di esser finiti, destinati alla vecchiaia e alla morte; insomma anche quando pensiamo che il potere sia tutto in realtà chiediamo altro.



È questo Altro che ci definisce completamente e che solo può essere la risposta al nostro bisogno. In quest’ottica esercitare il potere vuol dire anche accettare la sfida di comprendere che non siamo noi la risposta ultima ai bisogni dell’uomo, men che meno ai nostri bisogni.

Fare politica ha allora un senso? Sì, se guardiamo a quei fattori che tornano a farci comprendere il mistero dell’esistenza e del rapporto con gli altri uomini. Solo così è possibile guardare in modo più profondamente umano e vero anche al nostro peccato, e quello dei nostri simili, e per questo abbracciare con rispetto la nostra sproporzione.



Il mio auspicio è che gli scandali di questi mesi servano ad aprire un dibattito serio e costruttivo sulla “questione morale”, che vada oltre il gioco dei ricatti, un momento per riconoscere le nostre debolezze, e senza farci scudo di esse, innescare una tensione positiva soprattutto nella politica per ricondurla al suo senso originario: il bene del popolo.



Se insomma ci mettiamo in discussione di fronte a quello che è accaduto, non potremo non trattarci con maggior rispetto, certi di essere non migliori degli altri ma tesi al raggiungimento del bene comune.


Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Con un editoriale pubblicato su L’Osservatore Romano del 28 ottobre, il Presidente dello IOR (Istituto per le Opere di Religione), Ettore Gotti Tedeschi, ha illustrato i rischi e le opportunità delle biotecnologie nel contesto mondiale.

In merito al futuro della civiltà, il noto economista ha indicato tre sfide: risolvere al più presto la crisi economica; cogliere le opportunità ma anche i rischi della rivoluzione biotecnologia; e infine la competizione tra le nazioni per la leadership tecnologica nel settore delle biotecnologie.

Dopo aver ribadito le vere origini della crisi economica e cioè “il crollo della natalità e lo sviluppo insostenibile”, Gotti Tedeschi ha spiegato che le biotecnologie possono essere “un elemento realmente rivoluzionario nelle relazioni economiche e morali”.

La biotecnologia infatti può essere “il motore per uscire dalla crisi economica, ma con il rischio di relativizzarne la dimensione etica”.

Il Presidente dello IOR ha fatto riferimento alle biotecnologie vegetali, animali e mediche, come motore dello sviluppo, e alle biotecnologie che vogliono clonare e manipolare l’embrione umano come minaccia alla dimensione etica.

Per Gotti Tedeschi è “evidente l'opportunità di sviluppare attività produttive, basate sulla biotecnologia, con prospettive di crescita enormi in vari settori economici legati alla soddisfazione di bisogni di base: cibo, energia, salute”.

In questo modo – ha detto – “una rivoluzione biotecnologica che può sviluppare una Silicon Valley fatta di centri tecnologici di scienza per la vita - utili all'uomo, all'ambiente e di conseguenza anche al prodotto interno lordo - accelerando pertanto la soluzione della crisi economica. E ciò potrebbe anche essere un bene”.

“Ma la rivoluzione biotecnologica - ha osservato l’economista -, oltre a produrre elementi e risorse altrimenti scarsi in natura - si pensi al petrolio - ha dimostrato di essere in grado di modificare la materia e la struttura genetica e di potere produrre sinteticamente organismi biologici. Con l'illusione di comprendere il segreto della vita, di poterla programmare e persino costruire”.

Il Presidente dello IOR ha quindi confessato di guardare con evidente preoccupazione alla possibilità “di selezione e modifica di organismi viventi per uso umano”.

“La capacità di trasferire geni da un organismo all'altro – ha scritto – e di produrre ogni cosa per sintesi potrebbe infine annullare la percezione della differenza tra l'intervento a favore della salute dell'uomo e quello volto alla creazione di vita artificiale. E questo sicuramente non sarebbe un bene”.

In questo contesto il Presidente dello IOR ha notato che “si sta avviando la competizione per la leadership mondiale nel nuovo assetto geopolitico generato dalla crisi”. “Una competizione – ha notato – che probabilmente si svilupperà proprio nella ricerca di affermazione nel settore biotecnologico”.

Se così fosse, verrebbero “relativizzati ancora di più i criteri morali di valutazione su cosa sia utile e giusto per l'uomo e, in alcune Nazioni, potrebbe perfino nascere la tentazione di correggere la Bibbia per dare giustificazione a queste scelte”.

Infine Gotti Tedeschi scrive che “è ormai chiaro che da questa crisi si uscirà anche attraverso la rivoluzione biotecnologia”, mettendo poi in guardia sul pericolo di limitarsi “alla prudente soddisfazione delle esigenze dell'uomo” e di spingersi a “confondere le verità sulla vita umana stessa” per “sete di potere”.

“Di fronte a questo rischio anche l'economista ha diritto all'obiezione di coscienza”, ha concluso.


"Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
"Guarda bene queste immagini, guarda quella gente: è incapace di una rivoluzione, è troppo umiliata, ha troppa paura, è troppo frustrata. Ma, tra dieci anni, quelli che ora hanno dieci anni ne avranno venti, quelli che ne hanno quindici ne avranno venticinque. All'odio ereditato dai genitori aggiungeranno il loro idealismo e la loro impazienza. Si farà avanti qualcuno e trasformerà in parole i loro sentimenti inespressi". Chissà se il regista Michael Haneke aveva in mente questo passaggio tratto da L'uovo di serpente di Ingmar Bergman quando ha pensato di scrivere la sceneggiatura del film Il nastro bianco, Palma d'oro a Cannes, in uscita nelle sale italiane. Sta di fatto che tali parole sembrano adattarsi alla perfezione a questa pellicola di grande suggestione, il cui intento è mostrare almeno in parte la genesi di quello che è stato definito il male assoluto.
La storia si svolge in un villaggio protestante nel nord della Germania alla vigilia della prima guerra mondiale. La tranquilla vita quotidiana viene improvvisamente sconvolta da alcuni drammatici e misteriosi episodi di violenza: il medico viene fatto cadere da cavallo con una fune tesa tra due alberi e finisce in ospedale; una donna muore in uno strano incidente sul lavoro; il primogenito del barone locale viene malmenato a sangue; il figlio disabile della levatrice viene seviziato e rischia di perdere la vista. Nessuno sa chi possa essere stato. Ma il maestro - voce narrante che dopo molti decenni racconta quanto accaduto - finisce per sospettare dei bambini del villaggio. Quelle violenze inspiegabili e gratuite, si scoprirà, sono conseguenza delle vessazioni che subiscono da parte dei genitori.
Il nastro bianco è quello che il pastore del villaggio fa indossare ai suoi figli: deve essere il simbolo della loro purezza, richiamo a una vita segnata dalla virtù, che non cede alle tentazioni; ma anche un richiamo alle sue aspettative di padre, a una fiducia che non può essere tradita. Pena il castigo. Un castigo fatto di divieti, punizioni che diventano abusi, finanche sevizie. Tutto in nome di una religiosità malintesa, la quale induce a credere che ci si possa purificare dei peccati attraverso una pratica ipocrita e bigotta; una religiosità che pretende un'educazione autoritaria (ma non autorevole) basata sulla repressione e su una morale incapace di comprendere il male celato nella ricerca maniacale e irrazionale di un utopico bene. Al punto che quei bambini diventano oggetto di una ossessione educativa che finisce per minare la loro fragile psiche trasformandoli, attraverso quel processo perverso in cui le vittime diventano carnefici, in inconsapevoli mostri.
Violati nel corpo e nella mente, oppressi dai sensi di colpa, nel terribile sforzo di non deludere le assurde aspettative di incondizionata obbedienza degli adulti - i padri, perché le donne non hanno voce nelle questioni educative - i piccoli del villaggio trovano modo di scaricare le loro devastanti tensioni interiori, lasciandosi andare a comportamenti violenti della cui malvagità non sembrano rendersi conto. Una verità che gli adulti si rifiutano di accettare perché scomoda e compromettente.
In realtà non si tratta di una vendetta per ciò che subiscono. È molto peggio: pensano di agire per conto di Dio - non a caso il primo titolo scelto per il film era "la mano destra di Dio" - punendo quelli che non condividono i principi che loro sono costretti a seguire e ai quali finiscono per credere. Del resto, dopo il primo episodio di violenza, uno dei ragazzi oppresso dal senso di colpa mette a rischio deliberatamente la propria vita; e al maestro che gliene chiede conto risponde: "Ho voluto dare a Dio la possibilità di uccidermi. Non lo ha fatto. Dunque non è in collera con me".
L'occhio di Haneke, pur non mostrando esplicitamente nulla, non risparmia alcunché delle umane vicende che si consumano nel villaggio, dove serpeggiano stupidità, rancori e invidia e si nascondono torbide passioni. Con un bianco e nero freddo e di grande rigore stilistico, e con una fotografia d'altri tempi, in un formalismo che non trascura certo i contenuti, il regista - già apprezzato per La pianista - scandaglia con bravura la psicologia dei vari personaggi e, tramite questi, i meccanismi perversi attraverso i quali il seme del male si insinua nella società partendo dai suoi membri più giovani: quelli che una dozzina di anni dopo non avrebbero avuto difficoltà ad abbracciare l'aberrante ideologia nazista che avrebbe fatto della cieca obbedienza uno dei suoi pilastri. In tal senso Haneke presenta una lettura in qualche modo predittiva a posteriori, ma vuole anche mettere in guardia dai pericoli dell'autoritarismo ottuso, nutrito di ideali assoluti, facile preda del fondamentalismo. Con Il nastro bianco, film inquietante e interrogativo ma di grande suggestione, si va alla radice del male frutto di un ideale deviato.
(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009)


Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
C ellule germinali ottenute a partire da staminali em­brionali umane e in gra­do potenzialmente di trasfor­marsi in spermatozoi e ovuli. Uf­ficialmente la tecnologia impie­gata sarà applicata alla cura del­la sterilità, ma è anche un altro passo verso una riproduzione ' asessuata', dove l’uomo e la donna non sono più indispen­sabili per dare vita a un altro es­sere umano. Ne parliamo con Bruno Dallapiccola, docente di Genetica medica alla Sapienza di Roma, che innanzitutto invi­ta alla prudenza. «Un risultato come quello ottenuto dai ricer­catori della Stanford University non significa che esso sia effet­tivamente trasferibile in una te­rapia. Quali prove abbiamo che i gameti prodotti in questa ma­niera siano funzionalmente a­datti?
».
E fin qui, professor Dallapicco­la, parliamo di tecnica. Esisto­no però anche implicazioni etiche?
C’è senz’altro da chiedersi fino a che punto rite­niamo che sia eticamente corretto costruire un embrione e poi distruggerlo per recuperare da es­so cellule staminali da utilizzare per correggere l’infertilità, che è una patologia molto comune.
Esistono alternative all’utilizzo degli embrioni in questo filone di ricerca?
L’alternativa che si può proporre è l’utilizzo delle cellule IPS, le cellule adulte riprogrammate per di­ventare cellule staminali embrionali. In questo ca­so si evita il problema etico di creare un embrione per poi doverlo distruggere. Anche in questo caso, però, resterebbero dubbi sul reale funzionamento del genoma così ottenuto. Come la clonazione animale ha dimostra­to negli ultimi 10 anni, tutto ciò che è riprogrammazione cellulare comporta un margine elevato di errori, insuccessi, patologie.
Lo studio pubblicato su 'Nature' segna un altro passo verso la rea­lizzazione del sogno-incubo di u­na riproduzione della vita total­mente in laboratorio, senza la ne­cessità di un uomo e di una don­na.
Cosa ne pensa?
Penso che in una prospettiva lon­tana si può immaginare di arriva­re anche a questo risultato. Ma re­stano alcune domande di fondo: perché, per chi, per quale finalità i ricercatori mettono a disposizio­ne le loro energie? Dobbiamo fare davvero tutto ciò che si può fare? O siamo in grado a un certo pun­to di fermarci a riflettere su quel­lo che stiamo facendo? Un bam­bino non viene al mondo per un capriccio della scienza, ma ha il di­ritto ad avere l’imprinting di un padre e di una ma­dre. Mi pare che il buon senso che ha guidato per secoli la medicina stia venendo meno di fronte al­lo strapotere della scienza, che poi si mescola ma­lamente con interessi economici. Inventarsi gravi­danze che per vie naturali non potrebbero avveni­re può aprire la strada a richieste in questo senso da parte di persone nei confronti dei quali una par­te della politica e della società ha ancora delle ri­serve. Penso agli omosessuali. Ecco, questo futuro per ora è ipotetico, ma le ricerche degli scienziati lo stanno rendendo possibile.


Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
All’inaugurazione dell’anno accademico del «Marcianum» il patriarca di Venezia invoca «innovazione ma anche educazione» Prolusione di Gotti Tedeschi
C ome perseguire l’eccellenza, dall’università all’impresa, passando per l’intero siste­ma scolastico? Di che cosa sostan­ziare l’innovazione, obiettivo della riforma universitaria, ma anche pas­saggio obbligato per uscire dalla cri­si economica? Attraverso, ad esem­pio, l’unità dei saperi. Una risposta troppo semplice o troppo accade­mica? No, è l’esperienza quotidiana di uno dei principali poli del sape­re, lo Studium Generale Marcianum di Venezia, che ieri ha celebrato il Dies Accademicus 2010, con il pa­triarca Angelo Scola, suo Gran Can­celliere, il rettore Brian Ferme, Got­ti Tedeschi, economista e presiden­te dello Ior (Istituto per le Opere di Religione della Santa Sede), che ha tenuto la prolusione su “Il senso del­la vita e il senso dell’economia se­condo l’Enciclica Caritas in Verita­te”. Dopo l’erezione dell’Istituto di Diritto Canonico San Pio X a Fa­coltà, l’anno scorso, il Marcianum si è arricchito dell’Alta Scuola Società, Economia, Teologia (Asset). L’am­bizione del Marcianum - spiega il cardinale Scola - è quella di far in­teragire fra loro saperi e discipline in un’indagine attenta della realtà tutta intera, avendo cura dell’unità del soggetto personale e comunita­rio. Unità che, nel caso del Marcia­num trae origine dalla comunità di docenti e studenti, senza la quale, secondo il patriarca, nessuna au­tentica impresa culturale ed educa­tiva, dalla scuola primaria fino alla ricerca post-universitaria, sarebbe possibile. Un’esperienza, quella ve­neziana, che certifica come la ten­sione ad una maggior unità del sa­pere, dal punto di vista dell’oggetto, non può avvenire a carico di una di­sciplina che subordini a sé tutte le al­tre attraverso l’elaborazione di si­stemi comuni a tutte le scienze.
«Essa dovrà piuttosto far leva su quell’allargamento della ragione – così il patriarca – più volte richia­mato da Benedetto XVI». Un possi­bile paradigma? È proprio quello della Caritas in Veritate, in cui il Pa­pa «chiama il sapere teologico ad un dialogo necessario e fruttuoso con non pochi importanti saperi». In particolare, nel contesto della crisi economica e alla luce della ne­cessità, per lo stesso mondo pro­duttivo, di ripensare categorie co­me soggetto del lavoro, mercato, impresa e profitto «il Papa teologo ha efficacemente sostenuto che la carità nella verità non rappresenta un tocco cosmetico da aggiungere e­strinsecamente alle teorie econo­miche per correggerne ex-post le di­storsioni e gli squilibri, ma è un’esi­genza della stessa ragione econo­mica ». È un metodo, quello usato dal Pon­tefice, che, applicato ai diversi sa­peri, può rappresentare un potente stimolo per il lavoro delle istituzio­ni accademiche e culturali cui ancor più oggi tocca l’intrapresa dell’in­novazione. Innovazione, frutto di u­na cultura dell’unità, che non può più essere concepita senza una or­ganica paideia». La crisi, appunto. Per Ettore Gotti Tedeschi non ci sono dubbi: la sua origine non sta tanto nell’«avidità» di taluni banchieri, quanto nel fat­to che per lunghi, troppi anni «si è negata la vita umana». E «se la cre­scita è zero – ha spiegato Gotti Te­deschi – aumentano i costi fissi», da quelli per le pensioni a quelli per la sanità, perché la popolazione in­vecchia. E le tasse, evidentemente, non si possono diminuire. Crolla il risparmio, le attività finanziarie van­no in difficoltà, la produttività non aumenta, lo sviluppo si ferma.


Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009
Le riflessioni contenute nel vo­lume La società aperta , riguar­danti il rapporto tra scienza e fede, sono un’eco della più ampia trattazione del problema sviluppa­to da Karl Popper nella conferenza su Scienza e religione. «Non molto tempo fa - leggiamo all’inizio del suo discorso - esisteva una notevole ten­sione fra scienza e religione. Questa tensione si accentuò durante il XIX secolo, in particolare a partire dalla polemica su Darwin e la teoria del­l’evoluzione ». Ebbene, la tesi prin­cipale fatta propria da Popper è che «non ci può essere alcun disaccordo fra una scienza che non tenti di ol­trepassare i suoi confini e una reli­gione che non tenti di trattare argo­menti che in realtà appartengono al campo della scienza». Il contrasto del XIX secolo fra scienza e religio­ne - soggiunge Popper - trova la sua scaturigine in uno sconfinamento da entrambi i lati. «Entrambe le par­ti sono colpevoli, gli scienziati così come i difensori della fede: gli scien­ziati perché non si resero conto che il loro campo è interamente confi­nato al mondo dell’esperienza e per­ché lo straordinario sviluppo scien­tifico di cui erano testimoni li spin­se a credere che non ci fosse niente nel nostro mondo che non sarebbe rientrato un giorno nel campo del­la scienza. I difensori della fede, dal­l’altro lato, sono colpevoli perché non si resero pienamente conto che la fede religiosa è fondamental­mente differente da quella che soli­tamente chiamiamo conoscenza scientifica e che non è compito del­la religione fare affermazioni su pro­blemi che rientrano nel campo del­la scienza e che possono essere stu­diati con il metodo scientifico».
Né sostenibile, secondo Popper, è la posizione di coloro che affermano che la scienza o, meglio, gli sviluppi della scienza, supporterebbero la fe­de religiosa. Popper, al riguardo, as­sume un punto di vista completa­mente differente: «Ammettiamo - e­gli dice - che la scienza sia conside­rata come un qualcosa che suppor­ti la religione; allora, se in una de­terminata fase del suo sviluppo ri­sulta che essa è d’accordo con alcu­ne dottrine religiose che noi ab­bracciamo per questa ragione, do­vremmo anche accettare la confu­tazione di queste dottrine da parte della scienza, se in una certa altra fa­se del suo sviluppo la scienza do­vesse giungere ad una concezione differente». E, in effetti, la scienza «non si sviluppa tramite l’accumu­lazione di conoscenze»; essa, piut­tosto, «si sviluppa tramite rivoluzio­ni ». Legare la fede religiosa ad una teoria scientifica equivale a porla a livello delle ipotesi scientifiche. «Mi sembra però perfettamente chiaro ­insiste Popper - che questo non sia il significato della dottrina religiosa dell’esistenza di Dio. Una fede reli­giosa non si basa su ipotesi. Essa si situa a un livello completamente dif­ferente ». E qui sta «la ragione per cui scienza e fede non possono essere in conflitto reciproco, né supportarsi reciprocamente». Il livello in cui o­perano le fedi è soprattutto quello etico. E «il regno delle nostre azioni pratiche, dei nostri obiettivi pratici, e in particolare delle nostre decisio­ni morali, il modo in cui ci compor­tiamo nei confronti degli altri uomi­ni e in cui tentiamo di condividere le nostre vite, tutte queste cose co- stituiscono un regno che in un cer­to senso non rientra nel campo del­la scienza». In ambito etico, laddo­ve si deve scegliere quale compor­tamento assumere, «dobbiamo a­derire a quell’insegnamento fonda­mentale che è anche quello del cri­stianesimo, ossia che la nostra co­scienza è l’ultima corte d’appello. In tutte queste questioni, la scienza non può aiutarci. La scienza nel suo campo di ricerca specifico non può dirci che cosa dovremmo fare. Non interferisce nel campo morale e re­ligioso ». E c’è un ulteriore problema affron­tato da Popper: il problema del con­flitto tra religione e irreligiosità; un problema considerato di grande ri­levanza sia dai credenti in una o in un’altra delle religioni riconosciute, sia da quanti si sono considerati o si dichiarano atei o liberi pensatori o di non avere nessuna religione. «Penso anche qui - sottolinea Pop­per - che entrambe le parti abbiano torto. Lo credo più in particolare nel caso di quegli atei che hanno soste­nuto con così tanta enfasi di non cre­dere in nessuna religione specifica. Sostengo che queste persone erano indubbiamente religiose proprio nello stesso senso in cui diciamo che sono religiosi coloro i quali credono nelle tante differenti fedi. E sosten­go che quanto più entusiastica­mente dichiaravano la loro irreli­giosità, tanto più chiaramente di­mostravano, in realtà, di appartene­re a una religione. La mia tesi è che, sebbene ci possano essere vari gra­di di fede, sebbene la fede possa es­sere molto forte in alcuni e piuttosto debole in altri, non esiste probabil­mente alcun uomo che ne sia total­mente privo. Di conseguenza, anzi­ché contrapporre religione e irreli­giosità, possiamo contrapporre sol­tanto i differenti generi e gradi di fe­de ». E tra le fedi «completamente disu­mane » Popper ha in mente «i vari ti­pi di totalitarismo e di razzismo»: «Questi sono movimenti che con u­na fervente fede tentano di distrug­gere la maggiore conquista del cri­stianesimo: la credenza che siamo tutti fratelli, che tutte le differenze fra noi non sono alla fine molto im­portanti; la credenza, in breve, nel­l’unità dell’umanità». Di fronte alle diverse fedi e ai differenti principi e­tici, non possiamo rivolgerci alla scienza per decidere a chi credere o che cosa credere e che cosa fare. Di fronte al pluralismo delle fedi e al politeismo dei valori siamo con­dannati ad essere liberi: «Dobbiamo aderire a quell’insegnamento fon­damentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra co­scienza è l’ultima corte d’appello». Ed ecco come lo stesso Popper rias­sume il nucleo centrale della sua conferenza: «I regni della scienza e della religione non interferiscono re­ciprocamente. Ogni conflitto fra scienza e religione è dovuto a uno sconfinamento, da una parte o dal­l’altra. Ma i regni della religione e dei problemi morali in larghissima mi­sura coincidono. Ciò non significa, tuttavia, che l’essere religioso renda morale un uomo. Esistono anche re­ligioni del male e solo la nostra de­cisione, basata sulla nostra coscien­za, può aiutarci a distinguere che co­sa è giusto e che cosa è sbagliato».


mercoledì 28 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Per Caterina noi come Bartimeo…. – di Antonio Socci - 27 ottobre 2009 , da http://www.antoniosocci.com/
2) Più di 200 milioni di cristiani subiscono discriminazioni - Denuncia del rappresentante vaticano all'ONU - di Roberta Sciamplicotti
3) Europa, gli anni di Erode - di Lorenzo Fazzini - Avvenire 23 ottobre 2009 - Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore…
4) Di fronte ai rischi della rivoluzione biotecnologica - Anche gli economisti hanno diritto all'obiezione di coscienza - di Ettore Gotti Tedeschi - L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009
5) I cattolici fanno bene agli Usa? - Lorenzo Albacete mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
6) IL CASO/ Fare figli e accudire anziani in Lombardia conviene - Luca Pesenti mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net


Per Caterina noi come Bartimeo…. – di Antonio Socci - 27 ottobre 2009 , da http://www.antoniosocci.com/
Domenica scorsa, con quattrocento giovani universitari di Firenze, gli amici di Caterina di Comunione e liberazione, abbiamo fatto un bellissimo pellegrinaggio a un Santuario mariano, per mendicare la guarigione di Caterina e la nostra conversione…

Infatti se Caterina è viva è letteralmente perché le vostre/nostre preghiere sono state ascoltate. E se guarirà – come guarirà! – è ancora una volta per questa incessante implorazione che sale al Cielo dal 12 settembre…

Torno a dire dunque del pellegrinaggio. Meraviglioso, sotto quel cielo azzurro, veder salire la preghiera corale e accorata di tanti ragazzi, commovente vedere lo spettacolo di quell’amicizia fraterna che ci rende un cuor solo e un’anima sola, struggente ascoltare i canti del coro che anche Caterina cantava fino al 12 settembre (e che canterà di nuovo, ne siamo certi!).

Arrivati a destinazione abbiamo sentito le parole del Vangelo di domenica 25 ottobre e la bellissima omelia di don Andrea. Quel Vangelo sembrava fatto apposta per noi: è tutto da rileggere.

Lì stanno tutte le risposte ai tanti che in queste settimane mi hanno chiesto il motivo del mio appello a pregare, a mendicare instancabilmente, a bussare a quella porta incessantemente…

E lì sta anche la risposta a coloro che – più o meno discretamente – mi hanno spiegato che non si deve “assillare” troppo il Signore, che potrebbe sembrare una pretesa eccetera…

Come dicevano a Bartimeo quelli che – in fondo – non sapevano quanto Gesù è buono e quelli che – in fin dei conti – pensavano di risparmiare a Gesù l’imbarazzo perché non credevano che Lui poteva (e può) tutto.

Noi non pretendiamo nulla perché siamo semplicemente dei poveri mendicanti, come Bartimeo siamo lungo la strada e come Bartimeo imploriamo il Re dei Cieli che è venuto per noi, è venuto a cercarci perché ci ama, e quando ci dicono di smetterla gridiamo ancora più forte «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ».

Da questa pagina del Vangelo si capisce bene com’è il Cuore di Gesù… Lui ascolta tutti come duemila anni fa ed ha compassione di tutti…



Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.

Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!».

E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.



La vicenda che stiamo vivendo con Caterina ci sta insegnando che noi siamo e dobbiamo essere come Bartimeo non solo oggi, nel dolore, nella prova, ma sempre, perché quello di cui abbiamo bisogno non è solo la guarigione fisica, ma Gesù.

E’ di Lui che abbiamo bisogno più dell’aria e più del pane. E’ Lui la luce e Lui è il medico e la medicina della nostra povera condizione umana… Mendicare Lui è la vita stessa!

Infatti è bellissima la frase finale di questo Vangelo: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”.

Come ci ha insegnato don Giussani: “Il protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”.

E’ Lui stesso che si è fatto uomo ed è venuto tra noi per mendicare il nostro cuore, il nostro amore…


Più di 200 milioni di cristiani subiscono discriminazioni - Denuncia del rappresentante vaticano all'ONU - di Roberta Sciamplicotti
ROMA, martedì, 27 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Anche se "non c'è alcuna religione al mondo che sia esente da discriminazione", quella cristiana è la più perseguitata, ha denunciato il 21 ottobre a New York l'Arcivescovo Celestino Migliore, Nunzio Apostolico e Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

"E' ben documentato che i cristiani sono il gruppo religioso più discriminato", visto che "più di 200 milioni di loro, di varie confessioni, sono in situazioni di difficoltà per strutture legali e culturali che portano alla loro discriminazione", ha ricordato il presule intervenendo alla 64ª sessione dell'Assemblea Generale dell'organismo sull'item 69 (b), "Promozione e difesa dei diritti umani".

"Pur essendo ripetutamente proclamato dalla comunità internazionale e specificato negli strumenti internazionali, così come nella Costituzione della maggior parte degli Stati", il diritto alla libertà religiosa "continua ad essere oggi ampiamente violato", ha ammesso.

"Atti di intolleranza e violazioni della libertà religiosa continuano ad essere perpetrati in molte forme", al punto che "sempre più casi vengono portati all'attenzione dei tribunali o dei corpi internazionali per i diritti umani".

La minaccia delle leggi sulla blasfemia

Nei mesi scorsi, ha ricordato l'Osservatore Permanente, alcuni Paesi dell'Asia e del Medio Oriente hanno visto le comunità cristiane "attaccate, con molti feriti e morti" e "chiese e case date alle fiamme".

Queste azioni, ha segnalato, "sono state commesse da estremisti in risposta alle accuse mosse contro alcuni individui in base alle leggi antiblasfemia".

In questo contesto, monsignor Migliore ha osservato che la sua delegazione "loda e sostiene" la promessa del Governo del Pakistan di "rivedere ed emendare quelle leggi".

Le disposizioni legislative sulla blasfemia, ha proseguito, "sono diventate troppo facilmente un'opportunità per gli estremisti di perseguitare quanti scelgono liberamente di seguire una tradizione di fede diversa" e sono state usate per "fomentare l'ingiustizia, la violenza settaria e la violenza tra religioni".

Di fronte a questa situazione, i Governi devono "affrontare le cause di base dell'intolleranza religiosa e abrogare queste leggi che servono come strumenti di abuso".

Volontà di cambiare

Se la legislazione che restringe la libertà d'espressione "non può cambiare atteggiamento", ha dichiarato l'Arcivescovo Migliore, "ciò che invece è necessario è la volontà di cambiare".

Questa, ha osservato, può essere raggiunta "aumentando la consapevolezza degli individui, portandoli a una maggiore comprensione della necessità di rispettare tutte le persone, indipendentemente dalla loro fede o dal background culturale".

Gli Stati, dal canto loro, "dovrebbero evitare di adottare restrizioni alla libertà d'espressione, che spesso hanno portato ad abusi da parte delle autorità e al mettere a tacere le voci dissenzienti, soprattutto quelle degli individui che appartenevano a minoranze etniche e religiose".

"L'autentica libertà d'espressione può contribuire a un maggior rispetto per tutti e fornire l'opportunità di parlare contro violazioni come l'intolleranza religiosa e il razzismo e di promuovere l'uguale dignità di tutti", ha indicato.

Visto che l'odio e la violenza verso religioni specifiche che persistono in vari luoghi suggeriscono una situazione caratterizzata dall'intolleranza, "è imperativo che i popoli delle varie tradizioni di fede collaborino per crescere nella comprensione reciproca. C'è bisogno di un autentico cambiamento di mente e cuore".

Questo obiettivo, ha aggiunto, si raggiunge soprattutto attraverso "l'educazione all'importanza della tolleranza e del rispetto per la diversità culturale e religiosa".

"La cooperazione tra le religioni - ha concluso l'Arcivescovo - è un prerequisito per la trasformazione della società", perché "si possa davvero costruire una cultura della tolleranza e della coesistenza pacifica tra i popoli".


Europa, gli anni di Erode - di Lorenzo Fazzini - Avvenire 23 ottobre 2009 - Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore…
Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore. Ogni secondo, negli Stati facenti parte l’Ue, si verificano 25 interruzioni di gravidanza, un trend che fa assommare all’enorme cifra di 1.237.731 gli aborti praticati in un anno (dati del 2007). Sono questi alcuni dei (terribili) numeri del rapporto «L’aborto in Europa» reso noto dall’Istituto europeo di politica familiare (Ipf), con sede a Madrid, e che diffonde i suoi studi in varie lingue. Proprio il Paese iberico è balzato di recente agli onori della cronaca per l’enorme marcia pro-vida tenutasi a Madrid contro la legge del governo Zapatero che apre la strada all’aborto libero per le minorenni.
«Le cifre parlano di migliaia di tragedie personali, famigliari e sociali davanti alle quali la società non può più continuare a restare indifferente – annota l’Ipf nell’introduzione al rapporto –. Tutto questo rappresenta una sfida prioritaria per la società e per le amministrazioni pubbliche, perché ogni madre che ricorre all’aborto costituisce una sconfitta per la società».
I numeri, dunque. Quelli del documento sono sconvolgenti: un milione e 200mila bambini non nati in un anno rappresenta l’intera popolazione una grande città del Continente. Nel decennio preso in considerazione l’Unione europea ha «perso» 13 milioni di bambini perché abortiti: come se scomparissero, assommate, l’intera popolazione della Svezia attuale e quella dell’Irlanda. Ciò significa che una gravidanza su 5 (il 19,1% per la precisione) nel Vecchio continente termina con un aborto. Tale fatto contribuisce all’«inverno demografico» che attanaglia l’Europa: nel 2008 le nascite sono diminuite di 774mila unità rispetto al 1982, con un saldo negativo del 12,5%.
Il rapporto di Ipf – che si basa su dati Eurostat e quelli forniti dai diversi Paesi – smonta alcuni cliché delle organizzazioni pro-aborto, ad esempio quello che recita «più contraccettivi = meno aborti». Orbene, se negli ultimi anni gli strumenti anticoncezionali hanno ormai dilagato – un esempio, la diffusione istituzionalizzata di preservativi nelle scuole superiori di diversi Paesi –, non per questo si assiste a un calo delle interruzioni di gravidanza. Anzi: se nel 1997 nei 15 Paesi allora facenti parti dell’Unione europea si registravano 837.409 aborti, dieci anni dopo questi sono saliti del 12,6%, arrivando a quota 931.396. Spagna e Gran Bretagna sono i Paesi con il maggior trend di crescita: Madrid ha avuto nel giro di 10 anni 62.500 aborti in più, il Regno Unito ha assistito ad un +27.500. Vi è un dato poi ulteriormente preoccupante, soprattutto sul versante educativo: un aborto ogni 7 viene richiesto da una donna con meno di 20 anni. Qui il primato spetta alla Gran Bretagna (48150), dove il problema delle adolescenti incinte rappresenta ormai un allarmante problema sociale, seguita da Francia (31779) e Romania (17272).
Ma quali sono i Paesi europei che nell’ultimo decennio hanno registrato il maggior numero di aborti? Il triste primato spetta alla Romania, con 2.114.639 aborti; segue la Francia (2.079.387), la Gran Bretagna (2.037.657), l’Italia (1.321.756), la Germania e la Spagna.
Una buona notizia arriva invece se si prendono in considerazione il numero di gravidanze soppresse nei dodici Paesi entrati a far parte della Ue negli ultimi anni, perlopiù nazioni dell’Est europeo: nel 1997 vi si praticavano 650.869 aborti, nel 2007 si è scesi a 306.335, con una diminuzione del 52,9%. Anche guardando alla situazione del nostro Paese, il rapporto di Ipf offre un lumicino di speranza: siamo uno dei Paesi in cui nell’ultimo decennio l’aborto è in calo. Nel 2007 da noi si sono avute 126.562 interruzioni di gravidanza, ovvero 13.604 in meno rispetto a 10 anni prima.
La Spagna rappresenta il «buco nero» dell’indagine di Ipf: se, come detto, essa è il Paese dei Ventisette dove l’interruzione di gravidanza si è più diffusa negli ultimi 10 anni, nel 2008 (secondo le stime di Ipf) avrebbe raggiunto quota 120mila aborti, diventando il 4° Paese Ue per vite nascenti soppresse.
Da questa amara constatazione l’Istituto di politica famigliare lancia un appello al mondo della politica: «È necessario e urgente che le amministrazioni pubbliche realizzino una vera politica di prevenzione (dell’aborto, ndr) basata sull’aumento dell’aiuto sociale ed economico in favore delle donne incinte» tralasciando di «perseguire politiche di contraccezione superate» che «non sono la soluzione più adeguata per la società. È necessario cogliere la sfida – chiosa il documento – e realizzare una vera politica di formazione – e non solo di informazione – in favore della vita aiutando le donne incinte».

di Lorenzo Fazzini
Avvenire 23 ottobre 2009


Di fronte ai rischi della rivoluzione biotecnologica - Anche gli economisti hanno diritto all'obiezione di coscienza - di Ettore Gotti Tedeschi - L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009
Tre fattori interdipendenti suscitano attualmente preoccupazione per il futuro stesso della nostra civiltà. Il primo è l'esigenza di risolvere al più presto la crisi economica; il secondo è l'opportunità, ma anche il rischio, offerti dalla rivoluzione biotecnologica come strumento di soluzione della crisi; il terzo risiede nella competizione tra Nazioni per conquistare la leadership nel nuovo settore trainante delle biotecnologie.
Riguardo al primo punto appare evidente che, dopo avere ignorato le vere origini della crisi economica - cioè il crollo della natalità e lo sviluppo insostenibile - perché considerate di ordine morale e quindi non condivise, si sta cercando di produrre soluzioni creative per riavviare il ciclo economico ed evitare che in tempi brevi si possano produrre nuovi squilibri di potere, come quello che si sta generando tra Asia e America.
Il secondo problema - relativo alla biotecnologia - rappresenta un elemento realmente rivoluzionario nelle relazioni economiche e morali. La biotecnologia può essere il motore per uscire dalla crisi economica, ma con il rischio di relativizzarne la dimensione etica. La gestione disinvolta e affrettata delle promesse di benessere e salute, che la cosiddetta scienza per la vita sta facendo balenare, potrà diventare presto una componente di piani economici di risanamento e sviluppo.
È infatti ormai evidente l'opportunità di sviluppare attività produttive, basate sulla biotecnologia, con prospettive di crescita enormi in vari settori economici legati alla soddisfazione di bisogni di base: cibo, energia, salute. Così la rivoluzione biotecnologica può sviluppare una Silicon Valley fatta di centri tecnologici di scienza per la vita - utili all'uomo, all'ambiente e di conseguenza anche al prodotto interno lordo - accelerando pertanto la soluzione della crisi economica. E ciò potrebbe anche essere un bene.
Ma la rivoluzione biotecnologica, oltre a produrre elementi e risorse altrimenti scarsi in natura - si pensi al petrolio - ha dimostrato di essere in grado di modificare la materia e la struttura genetica e di potere produrre sinteticamente organismi biologici. Con l'illusione di comprendere il segreto della vita, di poterla programmare e persino costruire.
Se ciò avvenisse si andrebbe oltre la fase di selezione e modifica di organismi viventi per uso umano. La capacità di trasferire geni da un organismo all'altro e di produrre ogni cosa per sintesi potrebbe infine annullare la percezione della differenza tra l'intervento a favore della salute dell'uomo e quello volto alla creazione di vita artificiale. E questo sicuramente non sarebbe un bene.
La terza questione spiega proprio perché questa pericolosa tentazione può diventare molto forte. In questa fase si sta infatti avviando la competizione per la leadership mondiale nel nuovo assetto geopolitico generato dalla crisi. È una competizione che probabilmente si svilupperà proprio nella ricerca di affermazione nel settore biotecnologico.
Verrebbero così relativizzati ancora di più i criteri morali di valutazione su cosa sia utile e giusto per l'uomo e, in alcune Nazioni, potrebbe perfino nascere la tentazione di correggere la Bibbia per dare giustificazione a queste scelte. È ormai chiaro che da questa crisi si uscirà anche attraverso la rivoluzione biotecnologica. Il pericolo è però che non ci si limiti alla prudente soddisfazione delle esigenze dell'uomo, ma che, per sete di potere, ci si spinga sino a confondere le verità sulla vita umana stessa. E di fronte a questo rischio anche l'economista ha diritto all'obiezione di coscienza.
(©L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009)


I cattolici fanno bene agli Usa? - Lorenzo Albacete mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Come “Latino-americano cattolico” (qualunque ne sia il significato, questa è la categoria socio-religiosa cui appartengo nella odierna società americana), ho seguito in questi giorni un programma della CNN, molto pubblicizzato, che si chiama “Latino in America”, una indagine su cosa vuol dire essere un Latino oggi negli Stati Uniti.


La ragione dell’interesse dalla CNN per questo tema è evidente: i Latino sono ora la minoranza più consistente negli Stati Uniti e si stima che il loro numero si triplicherà per il 2050. Secondo la CNN, il programma dà uno sguardo “nelle case e nei cuori di un gruppo destinato a cambiare gli USA”.



Dato che la maggior parte dei Latino si dichiara cattolica, ho prestato una attenzione particolare alla sezione intitolata: “I Latino possono essere il ‘futuro’ della Chiesa cattolica negli Stati Uniti”. Come esempio, il programma descriveva la situazione di una parrocchia di St. Louis, nel Missouri, che stava per essere chiusa dalla diocesi per motivi finanziari, poiché il numero dei parrocchiani di lingua inglese era sceso in modo drammatico.



Tuttavia, dopo essere diventata parrocchia per i Latino, la partecipazione è quadruplicata e la parrocchia, fondata un secolo fa da immigrati tedeschi, è ora frequentata per l’85% da ispanici. Il funzionario già responsabile per la diocesi della pastorale per gli ispanici vede in questo una prova di “imbrunimento della Chiesa cattolica negli Stati Uniti”. Gli ispanici, dice, sono “il presente… e il futuro della Chiesa cattolica negli USA”. Un terzo di tutti i cattolici e il 15% dei preti ordinati nel Paese sono Latino.



Prima però di poter dire che la presenza Latina cambierà il modo in cui la Chiesa cattolica degli Stati Uniti vive, celebra e proclama la fede cattolica, vi sono alcune osservazioni da fare. Prima di tutto, nessuno sa esattamente chi è un Latino (termine prevalente nell’Ovest e nel Sudovest) o un Ispanico (come si preferisce dire sulla costa orientale).



C’è una grandissima differenza tra un conservatore cubano (americano di Miami) e un leader sindacale progressista messicano (americano della California). Il principale fattore unificante è il linguaggio comune di origine? E i brasiliani che parlano portoghese? Gli americani con ascendenze spagnole sono Latino o Ispanici? E gli americani con origini catalane o basche?



In realtà, l’unico elemento che unifica tutti i Latino sembrerebbe essere le espressioni culturali comuni della fede Cattolica, ma le espressioni culturali della fede non sono la fede stessa, una fede che possa sopravvivere alle profonde trasformazioni culturali alle quali sono sottoposti i Latino negli Stati Uniti.

O, ancora meno, costituiscono una fede in grado di generare una nuova cultura che incorpori ciò che può essere incorporato della esperienza americana (un nuovo, splendido libro del Cardinale Francis George, Arcivescovo di Chicago, The Difference that God Makes, contiene una bella analisi di ciò che tutto questo comporta).



Vi sono parrocchie in cui non c’è alcuna esperienza di unità tra cattolici Latino e di lingua inglese, con il risultato di due comunità parallele che utilizzano le stesse strutture parrocchiali senza alcun contatto tra loro. Nella mia esperienza personale, la parrocchia in cui presto servizio sacerdotale la domenica è a stragrande maggioranza ispanica, ma molti frequentano la Messa in inglese e molti di lingua inglese partecipano alla Messa in spagnolo senza apparenti problemi o tensioni.



L’esperienza di unità prevale (personificata e sostenuta dall’opera di un parroco stimato e benvoluto), permettendo alla parrocchia di essere una presenza significativa nella zona, anche al di fuori dei suoi confini canonici, che ha portato alla chiusura di comunità evangeliche spagnole (una minaccia crescente alla presunta “identità cattolica” dei Latino).



La chiave per il futuro sta nella educazione dei sempre più numerosi giovani latino-americani. Gli verrà insegnato che la fede cattolica corrisponde e adempie completamente alla loro identità come esseri umani? Solo cominciando da questo il cattolicesimo americano sarà capace di dare un contributo reale alla storia dell’esperienza americana.


IL CASO/ Fare figli e accudire anziani in Lombardia conviene - Luca Pesenti mercoledì 28 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Il nuovo “Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia”, presentato alla fine della scorsa settimana a Roma, ha confermato un dato ricorrente nelle indagini sul tema: quello della perdurante e crescente fatica delle famiglie con figli.


Sono queste le “famiglie in salita”, come recita il titolo come sempre evocativo del Rapporto. Non a caso le coppie con tre o più figli sono anche quelle maggiormente rappresentate nella ricerca su “La povertà alimentare in Italia”, pubblicata da Fondazione per la Sussidiarietà e Fondazione Banco Alimentare.



Fare figli in Italia non conviene, dunque. Così come è sconveniente accudire tra le mura domestiche le persone disabili o gli anziani non autosufficienti. Un risultato raggiunto anche grazie a un sistema di welfare sviluppatosi come se la famiglia non ci fosse. Negando di fatto ai molti che non se lo possono permettere una autentica possibilità di scelta tra cura domestica e ricorso a servizi esterni.



È allora necessario invertire i termini, scommettendo al tempo stesso sulla capacità di scelta delle famiglie tra una pluralità di erogatori di servizi (come è accaduto in modo innovativo in alcune Regioni, prima tra tutte l’apripista Lombardia) e sulla disponibilità all’assunzione di una responsabilità di cura che per la sua valenza pubblica può e deve essere sostenuta.



Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità: quella della famiglia come “unità di offerta”. La famiglia offre al proprio interno servizi di cura, per i propri membri (i figli e gli anziani, per l’appunto) e spesso anche per altri, come accade nel caso dell’affido e dell’adozione.



L’idea prefigurata dalla legge lombarda sembra fatta apposta per cogliere proprio questa potenzialità, rivoluzionando il sistema di welfare italiano in senso radicalmente sussidiario. Pensare alla famiglia come a una “unità di offerta” potrebbe infatti significare mettere sullo stesso piano i servizi offerti da soggetti privati (profit e nonprofit) con quelli offerti dalle famiglie. E soprattutto permettere alle famiglie che lo desiderano di scegliere realmente tra l’una e l’altra opzione.



Invece di finanziarie, direttamente o indirettamente, solamente i servizi cui solitamente le famiglie si rivolgono per avere aiuto (dovendo per altro sempre sobbarcarsi una parte consistente della retta complessiva), sarebbe possibile sperimentare forme di finanziamento diretto alle famiglie, sotto forma di buoni o di voucher. Lasciando a loro uno spazio di responsabilità (e dunque di scelta) ancora più ampia.

Se così fosse potremmo scoprire ad esempio che in molti casi la scelta di mettere un anziano in una RSA (le vecchie case di riposo) è un ripiego dettato da esigenze economiche, perché tenere l’anziano in casa, con una o più badanti a disposizione oltre alle spese di vitto e alloggio, costerebbe molto di più. E che basterebbe un sostegno economico, anche più contenuto di quel che mediamente una Regione spende per cofinanziare un posto letto, per lasciare l’anziano in casa sua fin quando possibile.



E ancora. Perché finanziare soltanto i servizi per le madri lavoratrici e non ipotizzare forme innovative di sostegno alla genitorialità che ribaltino la corrente logica della conciliazione rendendola funzionale non solo alle necessità del mercato del lavoro ma anche a quelle delle famiglie? Oggi ad esempio per molte famiglie a basso reddito l’astensione facoltativa dal lavoro a seguito di una maternità nel periodo compreso tra i 4 e i 12 mesi di vita del bambino è del tutto illusorio, stante la significativa decurtazione di stipendio che ne risulta (70% in meno).



A queste famiglie è dunque sostanzialmente negata una possibilità di scelta tra due diritti concomitanti: quello al lavoro e quello all’accudimento del proprio figlio. Se queste famiglie fossero trattate come “unità di offerta”, in molti casi si potrebbero sperimentare forme di sostegno almeno parziale al reddito, affermando il principio della scelta come strumento per affermare la centralità della famiglia.



Sono solo alcuni esempi, sufficienti per prefigurare un nuovo paradigma per le politiche famigliari. Mostrano infatti uno spazio di sussidiarietà tutto da esplorare, che scommette tutto su una famiglia capace non solo di scegliere a chi affidare i bambini e gli anziani, ma anche di continuare ad essere “fornitrice” in proprio di servizi di pubblica utilità anche là dove la situazione reddituale non lo permetterebbe.



martedì 27 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) CHIESA/ Rose: è la fede di Benedetto a spaccare i sassi in Uganda - INT. Rose Busingye martedì 27 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
2) Federvita e centri di aiuto alla Vita contro la Ru486 - di Antonella Diegoli*
3) Uomini di allevamento, prodotti di qualità - In un libro ed un DVD Chesterton e le minacce moderne dell’eugenetica - di Antonio Gaspari
4) USA: la libertà d'espressione dei cattolici è in pericolo - L'avvocato Bill Maurer spiega quali sono i pericoli - di Annamarie Adkins
5) Sinodo per l'Africa, penultimo atto. Le proposizioni finali - Sulla loro traccia Benedetto XVI scriverà il documento conclusivo. Tra i punti scottanti: gli odi interetnici, la sfida dell'islam e delle religioni tradizionali, la promozione dell'aborto, l'oppressione della donna, il concubinato del clero - di Sandro Magister
6) RIFLESSIONI SUL CASO M ARRAZZO ( E SU NOI UOMINI) - Torniamo per pietà alla vera questione morale - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 ottobre 2009
7) Paolini: «Il mio teatro in tv su crisi, economia e lavoro» - DI T IZIANA LUPI – Avvenire, 27 ottobre 2009


CHIESA/ Rose: è la fede di Benedetto a spaccare i sassi in Uganda - INT. Rose Busingye martedì 27 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
«È Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla». A dirlo è Rose Busingye, fondatrice del Meeting Point International di Kampala, Uganda. Il centro ospita donne sieropositive, «le mie donne», dice sempre Rose parlando di loro. Persone che hanno saputo trovare nella fede cristiana una speranza nuova di vita, l’unica risposta credibile alla disperazione dell’abbandono. È alle “sue” donne che corre sempre Rose col pensiero, quando deve parlare della fede, della Chiesa, della speranza che Cristo rappresenta oggi per il mondo, e per l’Africa. Si è concluso domenica il Sinodo dei Vescovi africani. Anche Rose ha partecipato, insieme a tanti altri ospiti. Ilsussidiario.net l’ha intervistata, alla vigilia del suo ritorno in Uganda.


Cos’ha voluto dire per lei questo appuntamento, alla luce dell’esperienza di Chiesa che vive in Africa?


Capire che è Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla. Tocchi con mano, una volta di più, l’incapacità nostra, però vedi bene che il cristianesimo va avanti lo stesso. Tutta la Chiesa in Africa sta crescendo. Ma non siamo noi a mandarla avanti; è lo Spirito. Questo l’ho visto benissimo dal modo con cui il papa è stato con noi, durante il Sinodo.


Cos’ha colto di così particolare nella presenza del Santo Padre?


Egli stava con noi senza programmi sul da farsi, ma semplicemente per farci compagnia. Come un padre, che suscita in te quella tenerezza per cui ti chiedi: cos’ho da temere? Era impossibile, davanti a quello sguardo, fraintendere. La prima preoccupazione, trattandosi di una chiesa giovane, come quella africana, poteva essere quella di “consolidare una chiesa futura”. Ma la Chiesa non è prima di tutto un’organizzazione. L’invito del papa, e la sua personale testimonianza, è stata quella di predisporsi ad accettare l’iniziativa di Dio su di noi. È in questa accettazione che sta il futuro - e il presente - della chiesa africana.


Ad ascoltare i programmi di sviluppo dei governi e di tante organizzazioni, sembrerebbe che la prima sfida per l’Africa sia trovare più soldi e fare più progetti.


L’uomo europeo ha tutto, ma allora come mai non è contento? Come mai le strade sono piene di facce tristi, di persone che non sorridono mai? È così perché in Europa si è perso che a renderci felici è il progetto di Dio, e non il nostro. Invece le “mie” donne vanno nella cava a spaccare pietre sorridendo e cantando. Anche se non hanno mangiato nulla.


La sfida più grande in occidente è che la società ha abbandonato le sue radici cristiane. Per la maggior parte delle persone il cristianesimo non ha più nulla da dire alla loro umanità. Qual è invece la sfida culturale che più urgente per i cattolici che vivono in Africa?


La fede in Cristo Gesù. Dico sempre che la fede è la fine della schiavitù. È astratto - mi hanno detto tanti di quelli che ho incontrato. Ma non è così, perché un uomo che vive la fede vede tutto come un dato ricevuto e ne gode. Gode del lavoro, dei figli, del creato. Per un uomo che vive la fede Dio è tutto. E lui è più libero.


Benedetto XVI, nella sua omelia in apertura del Sinodo, dell’Africa ha detto che «il suo profondo senso di Dio» è «un tesoro inestimabile per il mondo intero» e che «da questo punto di vista, l’Africa rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza». Cosa pensa di queste parole?


È per questo che è più facile oggi incontrare Cristo in Africa che non nei paesi occidentali. Perché un africano ha un senso del mistero tale da essere sempre consapevole di appartenere a Qualcosa. Qualcosa di grande, di più grande di sua madre e di suo padre. Ma questo Mistero è Cristo presente, Colui che ogni cuore attende. Se lo incontro, diventa la mia nuova identità, il mio giudizio nuovo su tutte le cose. Me ne accorgo quando guardo le “mie” donne. Vedi - mi dico - sono sempre più avanti!, non perché sono più intelligenti, ma perché sono semplici. La fede ha penetrato la loro vita. Quando c’è stato l’uragano di New Orleans percepivano le popolazioni colpite come parte di sé, anche se erano dall’altra parte del mondo. E le hanno aiutate. Quando conosci la fede tutto ti appartiene. È una mentalità nuova, persuasiva. Ti accorgi, semplicemente, che è più bello vivere da cristiano.


Il tema del Sinodo recita “la Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La giustizia e la pace sono cose per le quali vale la pena spendersi?
Ma la giustizia, senza Dio, che giustizia è? Lo ha detto bene il papa nell’omelia di domenica. Se non passa Gesù di Nazareth, che senso ha fare progetti? “Ho osservato la miseria del mio popolo… ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”. Posso trattar bene il mio prossimo, ma nel tempo mi stanco e allora perché devo farlo? Posso fare progetti di carità, ma alla lunga non reggono. Ma se il mio cuore vive di fede, tutto diviene più facile. E solo allora che ti tratto per quello che sei, perché sei anche tu di Dio. Sei “divino”, mi appartieni anche tu!


In molti paesi africani i cristiani sono perseguitati. Ha fatto scalpore durante il Sinodo il racconto di monsignor Hiiboro Kussala, che ha raccontato di cristiani barbaramente uccisi in Sudan. I cattolici che lei conosce come vivono il rischio del martirio?


Sanno bene che possono morire a causa della loro fede, ma sono sereni, perché se uno ha un ideale per vivere, vale la pena morire per esso. Il problema, all’opposto, è quando manca qualcosa per cui sacrificarsi. I soldi non fanno felici, perché chi ha molti soldi anzi è più triste degli altri. È solo l’incontro con Dio che ci fa essere più uomini e ci fa scoprire il valore di noi stessi. È per questo che a Dio si può anche sacrificare la vita.


Per lei e le donne che vivono con lei, cosa vuol dire incontrare persone che credono in qualcos’altro? In Africa ci sono mille fedi diverse.


Ci sono mille fedi, ma tutti si trovano bene con noi. Più dialogo di così. È la prova che davvero solo in Cristo possiedi tutto. Quanti estranei ho visto sorprendersi, e accorgersi che è bello stare lì con noi, senza preconcetti, senza piani.


È una proposta anche per chi vi odia?


Sì. Immagini le nostre donne, che vanno in cava cantando i canti degli alpini. Uno vede, non capisce cosa vuol dire ma si commuove, perché è bello cantare così. Un uomo che è in rapporto con Dio attira, attira sempre. A Roma, durante il Sinodo, non mi sono mai stancata quando c’era il papa, ma quando non c’era. È stato bello sorprendere in lui tutta la tenerezza del padre che guarda i propri figli.


È l’esperienza del dolore e del male a fermarci, a bloccare tutto.


La fede vince tutto. Se la fede non vince, vuol dire che non è fede, ma un sentimento. Il Mistero di Dio attrae e cambia. Occorre lasciarsi cambiare. Invece misuriamo la Sua iniziativa, poniamo confini: facciamo noi un progetto per il mistero, dove deve arrivare e dove no! Meno male che non dipende da noi, ma “soffia dove vuole”: dove c’è un cuore semplice che lo attende.


Oggi tornerà a Kampala, in Uganda. Le sue donne le chiederanno cos’ha fatto. Che cosa dirà?


Parlerò del papa. Dirò che sono tranquilla perché in lui ho una guida sicura. Non temo più nulla, perché c’è un uomo che più di tutti vive la fede e io l’ho visto. Dobbiamo appartenere a Lui, al Suo popolo, alla Chiesa così com’è. Un uomo che vive l’appartenenza a Cristo come la vive il papa ti attira, non puoi più lasciarlo.


Questa fedeltà di cui parla - del papa verso Dio e sua personale verso il papa - non è una cosa estranea al sentire dell’Africa?


No, perché non è qualcosa di esterno, che viene da fuori, dall’Europa o dalla storia, ma da dentro di noi: uno la scopre guardando come il cuore è fatto. E il nostro cuore è fatto per incontrare Cristo. Un uomo che appartiene, come il papa, grida a Dio. Il mondo viene qui e pretende di dire quello che è bene per noi. Riduce il problema dell’Africa al preservativo. Non ci tratta da uomini. Invece lui, con il suo sguardo e la sua tenerezza di padre, è l’unico che ci vuole veramente bene. È importante che il cristianesimo - ha detto il papa una mattina - non sia una somma di idee, ma un modo di vivere. Il cristianesimo è carità, è amore, ha detto. E se la fede si trasforma in carità, non c’è nulla che le può resistere.


Uomini di allevamento, prodotti di qualità - In un libro ed un DVD Chesterton e le minacce moderne dell’eugenetica - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- L’editrice Fede & Cultura ha appena pubblicato il saggio di Fabio Trevisan dal titolo “Uomini di allevamento, prodotti di qualità. Nel mercato dell’eugenetica, la storia, la scienza, il dibattito”.

Il saggio parte dal noto scritto di Gilbert Keith Chesterton "Eugenetica e altri mali" e ricostruisce la letteratura scientifica ed il clima culturale dell'epoca, anche attraverso l'analisi di altre opere significative dello scrittore londinese.

Per rimarcare l'attualità di quella corrosiva e ironica denuncia dell’eugenismo, Fabio Trevisan si è immaginato un confronto teatrale liberamente tratto dal saggio di Chesterton ed ha illustrato il rischio eugenetico che anche la nostra epoca sta attraversando.

Fabio Trevisan è un imprenditore appassionato di filosofia cofondatore dei “Gruppi Chestertoniana Veronesi”.

Sul grande scrittore inglese ha già pubblicato due saggi “Uomo vivo con due gambe” (2006) e “Il pazzo ed il re” (2007).

Insieme al libro è allegato un DVD in cui, mediante un'interpretazione teatrale, Chesterton si confronta con un eugenista.

Il DVD contiene anche una intervista al direttore de “Il Foglio” Giuliano Ferrara sulle questioni riguardanti l’eugenetica, il controllo delle nascite e il senso della vita.

Per saperne di più ZENIT ha intervistato Fabio Trevisan.

Come, dove e perchè Chesterton criticò l’eugenetica, che in quel tempo era autorevole e condivisa?

Trevisan: “Eugenics” (traducibile in Eugenica o Eugenetica) fu una parola introdotta nel linguaggio scientifico da Francis Galton nel 1883. L’eugenetica, che significa “buona nascita”, ebbe un effetto dirompente ed esercitò una forte attrazione sulla società di quell’epoca, perché sembrava potesse dare risposte scientifiche e fornire rimedi praticabili alla crisi sociale ed economica di quegli anni.

Chesterton, ad onor del vero, fu uno dei pochi che non si lasciò ammaliare dalle suggestioni potenti di quella nuova presunta scienza e ne denunciò apertamente gli esiti disumanizzanti e feroci; egli intuì che le libertà delle persone e delle comunità fossero in forte pericolo. Chesterton guardò piuttosto alle implicazioni positive dell’Enciclica “Rerum novarum” di Leone XIII del 1891.

“Eugenetica e altri mali” fu pubblicata da Gilbert Keith Chesterton nel 1922, nonostante che l’opera fosse stata pensata e scritta anteriormente al primo conflitto mondiale.

Perché lo scrittore inglese attese la conclusione di quell’ “inutile strage” (come la chiamò l’allora Pontefice Benedetto XV) per pubblicarla?

Trevisan: Chesterton confidava che le classi dirigenti inglesi ed occidentali, alla fine della guerra, non prendessero più a modello la Prussia, che aveva fatto dell’organizzazione scientifica e sociale una sua specialità. La critica allo spettro dell’eugenetica era una critica più generale alla mania moderna di scientificità e di rigorosa organizzazione sociale.

Cosa c’entrano Thomas Malthus e Charles Darwin con l’eugenetica?

Trevisan: Francis Galton (1822-1911) fu attratto dalla scoperta delle leggi dell’evoluzione e della selezione naturale del cugino Darwin a tal punto che ritenne, nella formazione della personalità dell’uomo, fossero preponderanti i caratteri biologici innati. Se vi fosse stata corrispondenza tra le qualità degli individui ed il loro corredo biologico ereditario, si sarebbe potuto migliorare la specie umana controllandone la capacità riproduttiva. In parole più semplici si sarebbe potuto avviare un’eugenetica positiva, ovvero una procreazione affidata alle persone più adatte e più agiate economicamente, culturalmente e socialmente.

Charles Darwin nel 1871 scrisse nell’”Origine dell’uomo”: “L’uomo ricerca con cura il carattere, la genealogia dei suoi cavalli prima di accoppiarli; ma quando si tratta del suo proprio matrimonio, di rado o meglio mai, si prende tutta questa briga. Eppure l’uomo potrebbe mediante la selezione fare qualcosa, non solo per la costruzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente o di corpo”.

Thomas Robert Malthus (1766-1834), economista e demografo inglese, esercitò una forte influenza su Darwin, soprattutto in merito alle teorie della lotta per la sopravvivenza e della sopravvivenza del più adatto. Malthus teorizzò il controllo delle nascite per impedire il temuto impoverimento dell’umanità ed insistette sull’urgenza di far desistere dallo sposarsi (eugenetica negativa) tutti coloro che non possedessero i requisiti minimi di sussistenza.

Chi erano i socialisti che sostennero le teorie eugenetiche e perchè Chesterton li criticò?

Trevisan: La pubblicazione nel 1859 dell’ “Origine delle specie” di Darwin assunse un peso importante nella scienza e negli ambienti intellettuali inglesi ed europei. Il movimento politico e sociale inglese della Fabian Society (Fabianesimo), istituito a Londra nel 1883, ebbe un’influenza consistente nella formazione del Labour Party (Partito Laburista).

Il Fabianesimo si prefiggeva come meta la graduale evoluzione della società attraverso riforme che avrebbero condotto al socialismo. Assai più noto è poi il fatto che Karl Marx (1818-1883) volesse dedicare a Darwin stesso il primo libro del “Capitale” dichiarandosi suo sincero ammiratore. Friedrich Engels (1820-1895), amico e finanziatore di Marx, così commentò l’interesse di Marx per Darwin: “Proprio come Darwin scoprì le leggi dell’evoluzione nella natura organica, Marx scoprì la legge dell’evoluzione nella storia umana”.

Come evidenziato, c’è un filo rosso che collega l’evoluzionismo all’eugenetica ed è il determinismo biologico ed il materialismo che annulla il libero arbitrio, la spiritualità e la dignità di ogni persona creata da Dio. Chesterton criticò questa deriva culturale e morale con le seguenti parole: “Una parabola letale che parte dall’evoluzionismo e arriva all’eugenetica”.

Ancora oggi alcuni sostengono la necessità di una buona eugenetica per migliorare la salute e la felicità della specie. Come rispose Chesterton e come risponderebbe lei?

Trevisan: Chesterton smascherò quale fosse il vero volto dell’eugenetica, ne colse in profondità le fonti e le denunciò apertamente con una lungimiranza tale che ancor oggi rimangono di una stringente attualità. Capì esattamente che l’eugenetica era essenzialmente un grave peccato, favorito pure dall’ “abnorme ingenuità” di quell’epoca.

Con accenti vibranti denunciò la tirannia dell’eugenetica come una rivoluzione contro l’etica dalle nefaste conseguenze. Difese con vigore la legge naturale, la legge non scritta che abita nel cuore dell’uomo e si appellò ad essa nel proteggere la vita dall’omicida eugenista. Comprese che era in atto un’autentica persecuzione contro la vita e la famiglia.

Per Chesterton la legge, la fede ed il senso comune avevano il compito primario di conservare e consolidare la famiglia. In merito alla “salute” ebbe delle intuizioni così profonde che meriterebbero ancor oggi un’analisi completa.

Per Chesterton la salute non era una cosa come il colore dei capelli o la lunghezza delle membra. La salute non era una qualità, ma una proporzione di qualità. Un uomo poteva essere alto e forte: ma la sua forza dipendeva dal non essere troppo alto.

Un cuore robusto per un nano poteva essere debole per una persona alta. Era così evidente che accoppiando due persone cosiddette sane (come avrebbero voluto gli eugenisti) si poteva produrre l’esagerazione chiamata malattia. Nulla poteva essere al di sopra dell’uomo, nulla tranne Dio.

In merito alla salute sfatò alcuni slogan che perdurano anche ai giorni nostri. “Non solo – scriveva Chesterton – la prevenzione non è meglio della cura: è peggio perfino della malattia”. “Prevenzione significa essere invalidi a vita, con l’esasperazione supplementare di godere ottima salute”. “Chiederò a Dio, ma non certo all’uomo, di prevenirmi in tutte le mie azioni”. Credo che queste affermazioni vadano riprese e considerate con serietà.

Personalmente penso che non dovremmo dimenticare come cristiani quale sia il nostro fine ultimo e che dovremmo preoccuparci di salvare la nostra anima e possibilmente aiutare anche le altre persone a salvare la propria. “Salute” e “felicità” vanno comprese in una visione antropologica come unità sostanziale di anima e corpo, seconda la dottrina perenne di S.Tommaso d’Aquino.

Credo che la scienza, in quanto tale, debba porsi dei limiti precisi. Mi spiego meglio con un esempio: sulla mia gamba rotta il medico ha tutti i diritti e doveri di aggiustarla; una volta aggiustata, non può venirmi ad insegnare a camminare, perché questo l’abbiamo imparato, io e il medico, nella stessa scuola, dalla nostra mamma e nella nostra casa natale.

Nonostante gli orrori generati nella storia umana, ancora oggi è forte la tentazione di praticare politiche eugenetiche: aborti selettivi, clonazione, sperimentazione sui concepiti, eliminazione dei deboli e dei disabili ….Forse la minaccia non è stata compresa? Oppure vengono utilizzate tecniche sofisticate di “antilingua” e relativismo per far accettare pratiche eugenetiche senza che la gente si accorga della gravità dell’atto?

Trevisan: Chesterton deplorò il linguaggio positivista della sua epoca. Nelle parole “regressione” e “degenerescenza” egli vide che lasciavano trasparire un disegno eugenetico e razzista. Infatti il timore di una degenerazione biologica della specie umana spinse molti governi a provvedere con misure legislative e pratiche, scatenando un’intensa attività eugenetica.

Migliaia di persone furono sterilizzate dando persino del denaro. L’eugenismo tuttavia non è finito. Certo, al posto degli slogan sulla purezza razziale, i nuovi eugenisti parlano più pragmaticamente di un’economia più efficiente, di migliori prestazioni e di una migliore qualità della vita. Questa nuova e malvagia eugenetica trova sostegno nell’edonismo compiaciuto e diffuso di molta gente ed è a disposizione per l’accresciuta tecnologia del mercato.

L’aborto terapeutico, il family planning organizzato, la diagnosi pre-impianto, l’inseminazione artificiale sono tutti strumenti messi a disposizione del mondo medico e dell’industria. Conditi con parole rassicuranti vengono veicolate attraverso la manipolazione del consenso operata dagli apparati mediatici, culturali e finanziari; in questo modo “soft” non vengono neppure concepiti come orrori né tantomeno come errori e peccati. Sir Francis Crick, uno degli scopritori della struttura del DNA, ha affermato che: “Nessun bambino appena nato dovrebbe essere riconosciuto uomo prima di aver passato un certo numero di test riguardanti la sua dote genetica”.

Jacques Testart, l’artefice nel 1982 della prima bambina in provetta francese, ha scritto: “Ci incamminiamo verso una vera e propria possibilità di scelta del figlio a venire, grazie alla genetica diagnostica. Così le coppie non lo faranno più stupidamente a caso, come hanno sempre fatto”.

La minaccia non è stata compresa? Non credo che sia percepita nella reale dimensione. Fiumi di sangue innocente si stanno versando giorno dopo giorno e sembra che tutto sia inarrestabile. Non c’è solo l’olocausto degli ebrei nei deprecabili lager nazisti: ricordiamoci anche dell’olocausto dei bambini non nati per pratiche abortive!

Quanto sono attuali queste opere di Chesterton e che cosa pensa del comitato che vorrebbe introdurre una causa di beatificazione del noto scrittore?

Trevisan: Come ha detto il Card. Giacomo Biffi, Chesterton è stato un dono fatto direttamente da Dio alla cattolicità e all’umanità intera. Come possiamo rifiutare questo dono? Innanzitutto dovremmo tradurre e pubblicare le sue opere (in italiano tuttora sono state tradotte circa 1/6 delle sue opere).

Solamente piccole e nobili case editrici (Fede&Cultura, Morganti, Rubbettino, Raffaelli ecc.) stanno provvedendo a colmare questa lacuna. Dovremmo poi adoperarci con iniziative pubbliche per farlo conoscere (la meritoria Società Chestertoniana Italiana da anni allestisce il “Chesterton Day”, ma quanti lo conoscono?).

Ci sono Gruppi Chestertoniani che lavorano da anni (in particolare a Verona), ma ancora non è sufficiente. L’attualità delle opere di Chesterton costituisce un bene prezioso per l’approfondimento di molte tematiche di scottante attualità (le radici cristiane e l’islam, la difesa della vita e dell’ortodossia, il concetto di scienza e la difesa della famiglia).

Il tutto con un linguaggio profondo e ricco di sano humour cristiano. Per quanto riguarda la causa di beatificazione sono molto onorato di aver studiato per anni l’opera di un possibile Santo della Chiesa Cattolica e mi azzardo a dire, assumendone totalmente la responsabilità, che potrebbe diventare un futuro Dottore della Chiesa (penso ad opere importanti quali “Ortodossia” e “L’uomo eterno”).

In tal senso stiamo lavorando alla pubblicazione con l’editrice Fede&Cultura di un Breviario in suo onore, composto di preghiere e meditazioni tratte dalle sue opere. Si chiamerà “Il Breviario di un uomo vivo” e sarà pronto per il prossimo Santo Natale.


Federvita e centri di aiuto alla Vita contro la Ru486 - di Antonella Diegoli*
ROMA, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- A seguito del via libera all’uso della pillola Ru486, da parte dell'Agenzia dell'AIFA, la Federazione dei Movimenti per la vita, Centri di aiuto alla vita e Servizi di accoglienza alla Vita dell'Emilia Romagna non possono non pensare ai bimbi concepiti che quotidianamente tentano di salvare, assieme alle loro madri.

Sul diritto di aborto, lo Stato consacra oggi la licenza di uccidere, anche mediante pesticida umano il concepito. Da oggi metteremo anche a serio rischio e pericolo di morte la salute della donna, presente (effetti immediati, di cui esistono studi certamente non esaustivi) e futura (effetti a lungo termine, di cui non esistono studi).

Salute fisica e mentale: i 30 casi documentati di morte per l’uso della Ru486 sono esplicativi delle complicanze a cui può essere soggetta una donna che ricorra all’aborto chimico, mentre secondo uno studio del 1998, pubblicato sul “British Journal of Obstetrics and Gynecology”, il 56% delle donne sottoposte ad aborto chimico ha dichiarato di aver riconosciuto l’embrione, e il 18% ne ha denunciato, come conseguenze, incubi, flash-back e pensieri ricorrenti.

Uno dei teoremi più diffusi e radicati nel mondo medico e nella cultura popolare è quello di pensare che l’aborto volontario sia meno traumatico se effettuato nelle fasi iniziali della gravidanza, consegnando, così la pratica abortiva (e tra queste la Ru486) al criterio della “proporzionalità traumatica”: più piccolo è l’embrione più sicuro e più accettabile è l’aborto, con minori conseguenze per la donna, ma le esperienze del post-aborto sconfessano il teorema.

Ma soprattutto, richiamarsi alla legge 19478 per legalizzare il commercio della pillola Ru486 ancora una volta nasconde il tentativo da parte dello Stato di derubricare l'impegno di tutela sociale della maternità.

Non si può perseguire nel garantismo di un inesistente diritto di aborto, ma piuttosto bisogna pensare e operare per prevenire l'aborto anche post-concezionale, favorendo cioè la nascita dei figli già concepiti con l'invito alle madri ad un’adeguata riflessione sul valore della vita umana e offrendo alternative al dramma (per il concepito e per la donna) dell’interruzione della gravidanza.

La Ru486 riconduce la pratica abortiva volontaria, sotto l’apparente finalità della precocità e della sicurezza (Il 13% richiede un’evacuazione chirurgica, si veda Ojidu JI et all., m J. Obstet. Gynacol. 2001) nel tunnel dell’aborto fai-da-te (Faucher P. et all., Gynecol. Onstet Fertil. 2005), invertendo e contraddicendo le motivazioni storiche e psico-sociali che hanno persino motivato fortemente la legge 194: un aborto privato, per quanto precoce e sicuro sia, aggiunge solitudine a solitudine.Inoltre, mentre nell’aborto chirurgico l’interruzione di gravidanza viene delegata tecnicamente a una terza persona, nell’aborto chimico da Ru486 è la stessa madre che si auto-somministra il veleno che ucciderà il proprio figlio.

Gli effetti fisici sono gli stessi di un aborto chirurgico eseguito in anestesia: contrazioni, espulsione, emorragia, ma con la Ru486, la donna vive tutto questo in diretta, senza neanche l’assistenza medica. E’ il massimo della responsabilizzazione psicologica o il sicuro aumento di suicidi post-aborto delle donne stesse?

Queste profonde contraddizioni di tipo scientifico, etico e umano non si possono tacere nel momento in cui si va a legalizzare un uso estensivo dell’aborto farmacologico, in una società, quella italiana, già pesantemente colpita da un malessere diffuso che ci fa assistere, sempre più frequentemente, a malattie del corpo e della psiche nelle donne che hanno vissuto l’aborto.

Si obbligherà per legge a dichiarare, sul consenso informato per la donna, che l’aborto farmacologico ha una mortalità dieci volte maggiore, rispetto all’aborto chirurgico? Si avrà il coraggio di dire cosa ci si deve aspettare dopo l'assunzione della pillola per tutti i soggetti coinvolti a cominciare dal concepito ucciso?

La nostra Regione, il cui Assessore è anche membro dell'Aifa, avrà il coraggio della verità in materia di consenso informato? E tutti coloro che firmeranno quei certificati avranno coscienza della disinformazione che ricadrà soprattutto sulle donne non italiane, per le quali è di difficile comprensione anche la lettura di un semplice volantino?

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*Antonella Diegoli è presidente regionale di Federvita, la federazione cui fanno capo i Movimenti per la vita e i Centri di Aiuto alla Vita dell’Emilia Romagna


USA: la libertà d'espressione dei cattolici è in pericolo - L'avvocato Bill Maurer spiega quali sono i pericoli - di Annamarie Adkins
SEATTLE, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Negli Stati Uniti, i cattolici e le Diocesi sono diventati vittime delle leggi sul finanziamento delle campagne in generale (non solo politiche), che violano la loro libertà d'espressione.

In risposta a questa emergenza, è stata creata una coalizione di organizzazioni che abbracciano tutto lo spettro politico con il nome di Citizens United.

Per comprendere meglio la portata delle leggi sul finanziamento delle campagne, ZENIT ha intervistato l'avvocato Bill Maurer, direttore esecutivo dell'Istituto per la Giustizia di Washington e uno dei membri più attivi di Citizens United.

Maurer ha condiviso con ZENIT le ragioni per le quali i cattolici, soprattutto per la loro storia di persecuzione e lo status di minoranza e di stranieri, dovrebbero essere scettici di fronte a leggi che limitano la possibilità di parlare di questioni politiche.

I cattolici devono sospettare della riforma delle leggi sul finanziamento delle campagne?

Maurer: Tutti i nordamericani dovrebbero nutrire sospetti di fronte ai tentativi del Governo di regolamentare e restringere l'attività politica. I cattolici, che in passato hanno subito discriminazioni da parte di una maggioranza ostile, dovrebbero preoccuparsi proprio per non dare al Governo strumenti da usare per mettere a tacere la voce di chi dissente.

Se il Governo ha la possibilità di determinare quando l'influenza di una delle parti di un dibattito politico diventa “eccessiva” o “indebita”, allora è il Governo stesso che avrà la capacità di far tacere una voce per far sì che il dibattito sia “giusto”.

Non sorprenderebbe nessuno se il Governo concludesse che le voci che bisogna mettere a tacere sono quelle di coloro che si oppongono al potere. A questo riguardo, i cattolici sono pienamente consapevoli della lunga tradizione per cui alcuni in questo Paese si sono lamentati dell'influenza “indebita” della Chiesa nelle questioni di governo.

Quanto al denaro in politica, in un Paese grande come questo i soldi sono uno strumento assolutamente fondamentale perché gli oratori arrivino al pubblico. Visto quanto il Governo fa a livello statale e federale, sorprende che i nordamericani non spendano più denaro per i discorsi politici.

Mentre il Governo si amplia e arriva a settori della vita delle persone ai quali non era mai giunto in precedenza, la necessità di un dibattito pubblico informato su ciò che accade a livello governativo diventa più pressante che mai. La capacità del pubblico di ascoltare le idee politiche non deve limitarsi a chi ha le risorse o la capacità di ascoltare un politico di persona.

Qual è l'impatto delle leggi sul finanziamento delle campagne sulla partecipazione politica sia dei Vescovi che dei laici? Può fornire degli esempi concreti?

Maurer: I Vescovi e altri membri del clero sono in genere piuttosto discreti circa le attività politiche, non tanto per le leggi sul finanziamento delle campagne, ma per le restrizioni alle attività politiche collegate al mantenimento dello status di esenzione dalle imposte della Chiesa.

Ad ogni modo, quando i Vescovi e il clero si impegnano in campagne concrete, come contro le iniziative dello Stato su temi relativi alla vita umana, incontrano le stesse restrizioni degli altri cittadini.

Ad esempio, se si organizzano per dedicare dei fondi a opporsi all'iniziativa “morte con dignità”, come quella dello Stato di Washington, devono formare un comitato sul tema e dichiarare nomi, indirizzi e le persone per cui lavorano, così che il Governo possa pubblicarli in una base dati su Internet.

Questi obblighi scoraggiano enormemente il coinvolgimento delle persone nell'attività politica. Ad esempio, chi ha contribuito all'iniziativa contro il matrimonio omosessuale in California (Proposizione 8) è diventato oggetto di minacce, boicottaggi, manifestazioni e rappresaglie economiche, dopo che quanti si opponevano all'iniziativa hanno visto le informazioni delle loro donazioni sulla pagina web dello Stato.

Allo stesso tempo, chi si opponeva alla misura ha affermato che quanti la proponevano hanno utilizzato queste informazioni per cercare di ricattare i donatori perché contribuissero allo stesso modo a favore dell'altra “fazione”. L'assillo politico è a volte un gioco di uguaglianza di opportunità.

Quanto ai laici, quando la gente si unisce e dedica le proprie risorse a perseguire un cambiamento politico, in genere scopre che i suoi sforzi sono subordinati alle leggi sul finanziamento delle campagne.

Una delle principali leggi sul finanziamento delle campagne degli ultimi cinque anni ha infatti avuto a che vedere con gli sforzi del Wisconsin Right to Life per esortare due senatori a votare i candidati giudiziari del Presidente Bush, un'attività che rientrava nelle restrizioni legali al finanziamento delle campagne perché uno dei due senatori cercava di essere rieletto.

Poco tempo fa, la Diocesi di Bridgeport è stata posta sotto inchiesta dallo Stato del Connecticut per la presunta violazione della sua legge sulla competenza associativa quando ha esortato i cattolici a opporsi a una legge che avrebbe avuto effetti sul governo della Chiesa. Che cosa è successo in quel caso? Crede che vedremo altri esempi di un atteggiamento del Governo volto a regolamentare la voce della Chiesa nel settore pubblico?

Maurer: Nel marzo scorso, l'Assemblea Generale del Connecticut ha sottoposto a dibattito una legislazione che avrebbe privato i sacerdoti e i Vescovi della possibilità di partecipare agli organismi delle corporazioni che controllano la proprietà parrocchiale nel Connecticut e che ordinava che gli organismi governativi di queste corporazioni fossero formati solo da membri laici della parrocchia.

In risposta a quella che è stata considerata una sfida diretta all'autorità della Chiesa sul funzionamento interno delle parrocchie, la Diocesi di Bridgeport ha posto informazioni sulla legge sulla sua pagina web e ha chiesto ai pastori di leggere una dichiarazione nella Messa domenicale esortando ad opporsi alla legge.

La Chiesa ha anche invitato i fedeli ad assistere a un incontro e a contattare i legislatori.

Questi sforzi hanno fatto sì che la Diocesi venisse indagata dal Connecticut Office of State Ethics (OSE) per aver violato la legge statale sulla competenza associativa, che esige la registrazione di fronte allo Stato se un'entità vuole “chiedere ad altri di comunicare con qualsiasi funzionario o con la sua équipe del ramo legislativo o esecutivo del Governo... con il proposito di influire su qualsiasi azione legislativa o amministrativa”.

La Diocesi ha avviato una causa presso il tribunale federale sfidando la costituzionalità di questa legge, ma dopo che il Procuratore Generale del Connecticut ha concluso che le attività della Chiesa rientrano in un'eccezione statutaria l'OSE ha smesso le sue indagini e la Diocesi ha ritirato volontariamente l'istanza.

L'esperienza dell'Arcidiocesi di Bridgeport è purtroppo molto comune. I nordamericani si vedono in genere coinvolti in ampissime e complesse leggi di finanziamento delle campagne quando si dedicano ad attività che considerano protette dal Primo Emendamento.

Pur non avendo violato alcuna legge, il costo emozionale ed economico di essere indagati dal Governo può essere schiacciante.

Qualsiasi Chiesa varchi la soglia della “competenza associativa” può subire lo stesso destino dell'Arcidiocesi di Bridgeport se esorta i suoi fedeli ad agire riguardo a temi pubblici fondamentali per la fede cattolica. Queste parrocchie possono vedere le loro risorse spese per difendersi dagli ispettori governativi anziché usate per portare avanti la loro missione apostolica.

Quali principi devono tenere a mente i cattolici quando valutano le varie proposte di riforma della partecipazione al processo politico?

Maurer: In un momento in cui molti degli insegnamenti e delle convinzioni della Chiesa entrano in conflitto con le convinzioni dell'“establishment” politico del Paese, i cattolici dovrebbero ricordare che dare al Governo i mezzi per controllare il dibattito pubblico può avere come risultato il silenzio di quanti non sono d'accordo a livello politico.

Negli esempi che ho menzionato in precedenza – la Proposizione 8, il caso del Diritto alla Vita nel Wisconsin e le esperienze della Diocesi di Bridgeport –, le leggi sul finanziamento delle campagne sono state utilizzate per cercare di porre fine all'attività politica che sosteneva i punti di vista della Chiesa. La lezione è che quando il Governo ha il potere di regolare il discorso politico, qualunque oratore può vedersi ridotto al silenzio.

Il Governo non indaga e non registra più le attività dei politici stranieri, come ha fatto come i diritti civili e i movimenti contro la guerra negli anni Sessanta. Ora obbliga i cittadini a registrarsi e poi compila una base dati delle attività delle persone a disposizione di chiunque abbia accesso a un computer e a Internet.

Questo non può rappresentare uno sviluppo positivo per una Chiesa che parla così spesso contro i punti di vista predominanti tra chi è al governo.

Per ogni proposta di “riformare” le leggi sul finanziamento delle campagne, i cattolici dovrebbero chiedersi: (1) se questo incoraggerà o scoraggerà il discorso e l'attività politica, (2) se interferirà con la capacità di chi rappresenta una minoranza di esprimere senza riserve i propri punti di vista, (3) se questa proposta darà a chi è al potere uno strumento con cui sopprimere il punto di vista di chi la pensa diversamente.

In ultima istanza, i cattolici devono sostenere una sfera pubblica vivace e non irreggimentata, dove la verità e la saggezza dei temi che interessano la nostra vita possano essere dibattuti in modo libero e appassionato.

Per ulteriori informazioni, www.ij.or


Sinodo per l'Africa, penultimo atto. Le proposizioni finali - Sulla loro traccia Benedetto XVI scriverà il documento conclusivo. Tra i punti scottanti: gli odi interetnici, la sfida dell'islam e delle religioni tradizionali, la promozione dell'aborto, l'oppressione della donna, il concubinato del clero - di Sandro Magister
ROMA, 26 ottobre 2009 – Con la messa celebrata ieri nella basilica di San Pietro Benedetto XVI ha chiuso il secondo sinodo speciale per l'Africa, al quale hanno preso parte 231 padri.

I media internazionali hanno dato all'assise una scarsissima copertura. Per varie ragioni, non ultime la povertà del dibattito e la modestia delle proposte finali.

Benedetto XVI ha assistito di persona a numerose sessioni. Ma non è mai intervenuto direttamente nella discussione, a differenza di quanto fece in sinodi precedenti. Ha pronunciato due omelie nelle messe di apertura e di chiusura, ha tenuto una meditazione dopo l'ora terza del primo giorno dei lavori e ha detto poche battute al termine del pranzo che ha concluso i lavori sabato 24 ottobre (vedi foto).

Ma in queste poche battute il papa ha messo a nudo quelli che sono stati i limiti effettivi del sinodo, il cui tema era: "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. 'Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo' (Mt 5, 13.14)".

Papa Joseph Ratzinger ha detto:

"Il tema, di per sé, era una sfida non facile, con due pericoli, direi. Il tema 'Riconciliazione, giustizia e pace' implica certamente una forte dimensione politica, anche se è evidente che riconciliazione, giustizia e pace non sono possibili senza una profonda purificazione del cuore, senza un rinnovamento del pensiero, una 'metanoia', senza una novità che deve risultare proprio dall’incontro con Dio. Ma anche se questa dimensione spirituale è profonda e fondamentale, pure la dimensione politica è molto reale, perché senza realizzazioni politiche, queste novità dello Spirito comunemente non si realizzano. Perciò la tentazione poteva essere di politicizzare il tema, di parlare meno da pastori e più da politici, con una competenza, così, che non è la nostra.


"L’altro pericolo è stato – proprio per fuggire da questa tentazione – quello di ritirarsi in un mondo puramente spirituale, in un mondo astratto e bello, ma non realistico. Il discorso di un pastore, invece, deve essere realistico, deve toccare la realtà, ma nella prospettiva di Dio e della sua Parola. Quindi questa mediazione comporta da una parte essere realmente legati alla realtà, attenti a parlare di quanto c’è, e dall’altra non cadere in soluzioni tecnicamente politiche; ciò vuol dire indicare una parola concreta, ma spirituale".

Nonostante questi pericoli, tuttavia, il sinodo è stato "un buon lavoro", ha detto il papa. È riuscito sufficientemente a mediare tra la dimensione politica e quella spirituale. "E per me questo è anche motivo di gratitudine perché facilita molto l’elaborazione del documento postsinodale".

Ogni sinodo, infatti, approda a una esortazione apostolica postsinodale scritta dal papa, pubblicata mesi dopo, sulla base delle proposte formulate dai padri al termine dell'assise.

In passato tali proposte restavano riservate, ma da quando Ratzinger è papa esse sono di dominio pubblico, per sua decisione.

Le proposte – in latino "propositiones" – sono state questa volta 57.


R IFLESSIONI SUL CASO M ARRAZZO ( E SU NOI UOMINI) - Torniamo per pietà alla vera questione morale - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 ottobre 2009
I l caso Marrazzo continua a tener banco, trascinato agli onori delle cronache da una catena di piccoli e grandi squallori. E io vorrei tenermi lontano dal guazzabuglio delle reazioni di parte e ancor di più – com’è costume di questo giornale – dal greve gioco al massacro che s’è subito aperto. Perché è legittimo stigmatizzare le debolezze di un uomo pubblico – e trarne, sul piano politico e morale, le inevitabili conseguenze – ma non può diventare motivo per massacrare la dignità sua e la sensibilità di coloro che lo amano o che gli sono legati.
Che questa sia, piuttosto, l’occasione per una riflessione seria, dura e al tempo stesso pietosa (sì usiamolo questo aggettivo, senza il quale ogni società umana decade, poiché senza pietà ogni umano consorzio si disfa e si insanguina).
Perché si tratta di considerare una cosa: nel cuore di un uomo può agire la spinta ideale, buona e costruttiva a darsi da fare, a impegnarsi bene, e anche, contemporaneamente, agire la spinta a buttarsi via, a obnubilarsi in un oscuro dispendio di se stesso, del proprio corpo, della propria energia. Costruzione e dispendio. Fare del bene e buttarsi via. Questo può succedere, e non di rado.
Succede perché l’uomo è anche fatto così. Non è un meccanismo dove al bene si attacca e consegue per forza il bene. Possono convivere male e bene, alternarsi. Succedere l’uno all’altro. Non ce ne dovremmo stupire, se ci conosciamo almeno un poco. Lo diceva anche san Paolo di se stesso, figurati se non vale per ognuno di noi poveracci. I cristiani iniziano il momento più importante per loro, la Messa, battendosi il petto. L’ultimo peccatore come il Papa.
Sembra che queste cose non abbiano a che fare con la cronaca. Questa eterna contraddizione dell’esser nostro vale per i re, per i capi, e per il popolo. Per gli eletti, e per gli elettori. Se la questione morale fosse davvero il proporsi di una questione circa la moralità, beh allora dovremmo finalmente discutere su quali sono i reali argini alla debolezza morale (e dovremmo discutere anche su perché accade che mentre qualcuno viene 'massacrato' e fatto fuori sui giornali sulla base di carte false, intorno ad altri, persino immortalati in video sgradevoli, scattano strani meccanismi di solidarietà e di protezione ad alto livello).
Dovremmo discutere, insomma, su che cosa rende 'morale' la vita di un uomo. La mancanza di errori? La presenza di un controllo totale sui suoi atti pubblici e privati? O la sua magari faticosa adesione a un pulito e schietto ideale di umanità? La sua costruzione di un’identità pubblica che non sia l’altra faccia di quella privata?
Eppure il caso Marrazzo mi suscita infinita pena. Dello stesso tipo di pena che ho verso me stesso, la medesima abbandonata e irrimediabile pena. Se davvero la 'questione morale' fosse un momento per guardarsi in faccia, anche con le proprie debolezze, allora forse la politica e i suoi teatri ne riceverebbero una nuova tensione positiva, e un’aria meno ammalata. Se davvero fosse un’occasione per parlare tra uomini in carne e ossa, preoccupati per il decadere delle istituzioni politiche e di garanzia; insomma, se il disastro umano di questo o quel caso noto servisse per uscire un attimo dal teatro di 'bambocci' (cioè di pupi, d’uomini finti) a cui sembra ridursi spesso la politica italiana, allora penso che ne verrebbe un guadagno per tutti. Ridiscutendo di cosa sia la morale, che tensione sia, che necessità ci sia di non fissarsela da soli, di non rispondere soltanto – senza stile e senza sobrietà – alla propria immagine di potere o di pensiero.
Una vera questione morale sarebbe il tratto di un’epoca di agire retto e dove non si usa la comune debolezza umana come clava gli uni contro gli altri. Dove politici, uomini dello Stato e mass media non lavorano per sfasciare la gente. E per prenderla per il naso. Sarebbe una stagione meno farisaica e scandalistica, più pulita e di maggior tensione al bene comune. Se no, ne verrà solo altro avvilimento, e incattivimento. Proseguendo un periodo cupo e pazzo in cui in nome della morale fai-da-te o improvvisamente riscoperta si distoglie amoralmente lo sguardo dai problemi veri della gente vera e si aprono le porte ai modi più feroci e distruttivi di lotta.


Paolini: «Il mio teatro in tv su crisi, economia e lavoro» - DI T IZIANA LUPI – Avvenire, 27 ottobre 2009
Il titolo è, a dir poco, curioso. Lo spetta­colo che Marco Paolini propone su La7 lunedì 9 novembre (in prima serata, in diretta dal porto di Taranto) si chiama Mi­serabili. Io e Margareth Thatcher ed è una ballata ( con monologhi, canzoni e brevi narrazioni) che racconta la metamorfosi della società, italiana e non solo, a partire dagli anni ’80 fino ad oggi.
Paolini, perché questo titolo?
Iniziamo dalla prima parola: miserabili. So­no partito da cinque righe del romanzo di Victor Hugo che fanno gelare il sangue per dare voce al disagio che avevo intorno ma che non riuscivo a definire, dal concetto di miseria non come povertà ma come man­canza di prospettive.
In che senso mancanza di prospettive?
Non si esce dalla miseria senza qualcosa che la con­trasti. Cioè, la speranza. Ma la politica e, soprattutto, l’e­conomia, che si è messa co­me una specie di pellicola trasparente sulle cose e sul­le nostre vite, mancano di speranza perché la tradu­cono in attese e previsioni.
Insomma, rispetto al pas­sato, oggi abbiamo più sol­di ma non siamo più in gra­do di coltivare una speranza.
Suona molto come il vecchio adagio «Si stava meglio quando si stava peggio»…
Non voglio fare il guru, per carità. Con que­sto spettacolo provo solo a ragionare sulla presunzione nel voler salvare il mondo da parte degli economisti, tralasciando quel­la parte di noi che non ha a che fare con l’e­conomia. E, ripeto, togliendoci la speran­za. Per chi crede c’è la religione, per chi non crede c’è anche la cultura. La paura, l’o­mofobia, sono tutti sintomi di una miseria culturale che politica ed economia, da so­le, non possono affrontare né, tanto meno, risolvere. Le faccio un esempio: gli Ameri­cani, eleggendo il presidente Obama, han­no dimostrato di avere la capacità di im­pegnarsi dietro ad un sogno. E il valore del Nobel per la pace sta proprio in questo: aiu­tare chi prova a coltivare questa speranza.
In tutto questo, cosa c’entra Margareth Thatcher?
La Thatcher è l’originale. Il resto sono co- pie, e parlo, naturalmente, più a livello e­conomico che politico. Lei non è l’autrice di ricette economiche ma un potente am­plificatore di teorie economiche che, con lei, sono diventate moda. Se esistesse un’Al­ta Moda nell’economia, lei sarebbe la stili­sta più potente. La Thatcher disse: «Non e­siste la società. Esistono solo uomini, don­ne e famiglie». Io dico: stiamo attenti a che le famiglie, da sole, non diventino un ghet­to in cui crescere separatamente da tutti gli altri.
Perché ha scelto di andare in onda dal por­to di Taranto?
Perché è un luogo simbolo dei temi af­frontati dallo spettacolo. È la porta d’O­riente per lo scambio di merci tra il mercato asiatico e l’Europa.
L’artista tra Victor Hugo e la Thatcher: «Denuncerò la perdita della speranza, vero motore dell’uomo»