giovedì 29 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA STORIA/ "Ho la grazia di essere miserabile". Padre Aldo Trento si racconta - Marina Corradi INT. Aldo Trento - giovedì 29 luglio 2010 – ilsussidiario.net
2) Zapatero continua... – dal sito http://www.libertaepersona.org
3) La "legge del buon samaritano" - Di Lorenzo Bertocchi - 28/07/2010 – dal sito http://www.libertaepersona.org
4) Avvenire.it, 29 luglio 2010 - Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari - Non è vero che tutto è già scritto. Ecco la conferma di ciò che sapevamo - Giacomo Samek Lodovici
5) Avvenire.it, 29 luglio 2010 - LA FORZA DELLA FEDE - «Così per Caterina abbiamo preso d’assalto il cielo» - Lucia Bellaspiga
6) Avvenire.it, 29 luglio 2010 – diritti - Catanzaro, esclusa da concorso perché incinta: tar annulla graduatoria


LA STORIA/ "Ho la grazia di essere miserabile". Padre Aldo Trento si racconta - Marina Corradi INT. Aldo Trento - giovedì 29 luglio 2010 – ilsussidiario.net
L’intervista di Marina Corradi a padre Aldo Trento è contenuta nel libro di quest’ultimo I dieci comandamenti, primo titolo della collana Lindau I libri di Tempi. Il volume sarà in vendita, al prezzo lancio di 10 euro anziché 12, presso lo stand di Tempi al Meeting per l’amicizia fra i popoli (22-28 agosto, Fiera di Rimini, padiglione C3).
Aprile 2010. Padre Aldo Trento è di passaggio a Milano. Lo incontro a casa di un suo amico a Concorezzo. Non gli avevo mai parlato a tu per tu. Mi colpiscono la faccia semplice, da contadino del bellunese, e gli occhi chiarissimi, con qualcosa di infantile. Queste sono alcune delle domande che gli ho rivolto e le sue risposte.
Quello che non capisco è come fai a parlare di Cristo come di una Presenza assolutamente concreta. È una cosa che mi meraviglia. Io, Gesù Cristo non lo vedo. Lo cerco, lo inseguo, ma non è una Presenza come lo puoi essere tu ora davanti a me. Capisco bene il Barabba di Lägerkvist, che, dopo avere girato a lungo attorno al Golgota, dice sconfitto: «Ho desiderato di credere». Per me, pure nel desiderio, Gesù Cristo resta spesso un fantasma.
Anche a me accadeva quello che tu dici, una volta. Ciò che ha dato concretezza a Cristo è stato il modo in cui mi ha guardato Giussani, il modo in cui mi ha tenuto con sé e accompagnato. Attraverso lo sguardo di don Giussani, Cristo è diventato una Presenza concreta accanto a me.
D’accordo, tu hai conosciuto Giussani, ma d’altra parte non a tutti quelli che hanno incontrato Giussani ne è venuta una uguale certezza di fede. Mentre tanti uomini non incontrano né Giussani né alcun testimone credibile di Cristo. Di loro, che ne è?
Credo che chi conosce un cristiano autentico e prosegue tranquillamente per il suo cammino sia un borghese, che ha in fondo sulla vita una domanda modesta. Quanto a quelli che non incontrano nessuno, penso che operi una sorta di selezione naturale in base all’intensità della domanda di senso. Se la domanda è davvero forte, un uomo cerca e cerca: finché non trova.
E questi ultimi sono dei prediletti? Esistono, i prediletti?
Che esistano, lo testimonia la Scrittura e sono quelli che Dio castiga di più, perché non smettano di cercarlo.
Hai detto due anni fa al Meeting: la depressione è una grazia. La depressione, come tu sai molto bene, è anche una profonda sofferenza. Grazia, dunque, perché?
Per me è stata ciò che mi ha spinto a cercare oltre i miei limiti, la mia miseria, la mia ideologia giovanile. In maniera anche atroce: per anni non ho dormito, avrei sbattuto la testa contro il muro per la disperazione, desideravo di morire. Ma la depressione è stata la ferita che ha tenuto aperta la mia domanda di Cristo. Oggi chiunque abbia una sofferenza psicologica ritiene di essere malato e va dal medico. Ma io non credo che siamo tutti malati. È che non sopportiamo ciò che tiene quella ferita aperta: che sia depressione, o una malattia, o anche magari l’innamorarci di qualcuno di cui non dovremmo. Vogliamo eliminare in fretta i problemi. Magari moralisticamente vogliamo essere “bravi”. Giussani su questo era radicale: mai invitava a tirarsi indietro, ma sempre ad andare a fondo, ad affrontare ciò che ci si poneva come sfida. A me disse: se dovessi non dormire per un anno, e questo servisse a tenere sveglia la tua domanda di Cristo, ti direi di non dormire. Invece ciò a cui tendiamo è soffocare le ferite, analgesizzarle e addormentare la domanda.
[Quest’uomo, pensi, è di una radicalità che affascina e fa paura.] Tu parli e mostri di vivere di un’unica ragione, Gesù Cristo. Ma prova a guardare alla vita della maggior parte degli uomini oggi, che sembrano fare di Cristo, dunque di un senso ultimo, a meno. Come giudichi tu uno che, non credendo in Dio, nella difficoltà o nella vecchiaia, o anche solo nel vuoto che percepisce, sia più o meno educatamente disperato?
Lo giudico ragionevole. La disperazione, in chi sia convinto di essere solo al mondo e di andare verso il nulla, mi sembra un segno di lucidità, di un non raccontarsi storie.
Dunque è un aut aut: o in Cristo, o non c’è nulla per cui vivere davvero.
Sì, è un aut aut.
Senti: ma se vent’anni fa, quando eri drammaticamente depresso, ti avessero preso e curato con i migliori psicofarmaci, se ti avessero “sistemato” e rasserenato, oggi come saresti?
Non so. Non sarei come ora e credo fermamente che Dio abbia “voluto” questo per fare ciò che ha fatto. Non avrei cercato come ho cercato. Ora posso dire che quella sofferenza, che è stata davvero grande, ha avuto un senso: nei moribondi che assisto, così come in tanti che mi scrivono chiedendo aiuto come a un padre. Ora posso capire le “notti dell’anima” di cui parlano alcuni santi. Capisco quel buio, che è un vuoto teso a provocare una più intensa domanda.
Ma allora dalla depressione non bisogna curarsi? Mi sembra un’idea pericolosa.
Sarei un masochista se rispondessi di no. Dio ci ha creato per essere felici, non per soffrire, e tanto meno per soffrire questa malattia esistenziale che toglie non solo il gusto, ma anche la voglia di vivere. Il problema è accogliere questa malattia, come del resto ogni altra, come una possibilità di redenzione, di purificazione, come occasione per dire con tutta la propria libertà “sì” a Cristo, guardandolo in faccia. Come la ragione e la fede camminano insieme, così anche la fede non può non favorire e sostenere tutte quelle possibilità che la medicina offre per alleviare o vincere il dolore, quando è possibile. Ricordando sempre però che, in questo mondo, il dolore come la morte accompagnano sempre l’uomo. Per cui l’unico senso del dolore lo si coglie guardando il Crocifisso e il Cristo risorto.
Sono tanti, padre Aldo, quelli che ti scrivono?
Tantissimi. Ho ricevuto, dal Meeting del 2008, migliaia di e-mail. È stato come se parlare di depressione in quel contesto, e affermare addirittura che la depressione potesse avere un senso buono, fosse come scoperchiare una pentola. Un’esplosione. Quanti, quelli che si sono sentiti autorizzati a domandare una parola sulla sofferenza e a chiedere consiglio. Tantissimi ragazzi. Mi commuovono i ragazzi: siamo abituati a dire che i giovani sono degli sfortunati. No, gli sfortunati sono i genitori, siamo noi, che gli abbiamo dato ben poco di buono. Loro sono figli uguali a quelli di ogni generazione e forse più assetati: sono, anzi, pura domanda.
Ci sono altre cose che non capisco. Scrivi sempre della tua casa ad Asunción e dei moribondi che vi trovano ricovero. Tu vedi dunque ogni giorno una quantità di dolore per me inimmaginabile. Come fai, di fronte a tanto dolore, a ritenere che la vita sia un bene, un dono di cui essere grati a Dio? (Io, da ragazza, pensavo che nascere fosse una disgrazia).
Anch’io per molto tempo ho pensato che la vita fosse un male e ho passato dei momenti in cui non riuscivo a stare davanti, se non con molta fatica, ai miei genitori, vedendo in loro, per il fatto di avermi messo al mondo, il fattore principale della mia sofferenza. Solo nell’abbraccio di Cristo, nell’abbraccio riconosciuto, ho capito finalmente che nascere è un dono.
Ma questo dono in che cosa consiste? Oggi, magari tacitamente, tanti dubitano che la vita sia un dono.
Che la vita sia un dono io non l’ho capito a priori, perché me l’hanno insegnato al catechismo; quando poi ho conosciuto il “male del vivere”, non ho più sopportato i discorsi sul “dono della vita”, anzi, li rifiutavo. Ho colto il dolore come un dono per me, solo quando ho fatto l’esperienza di quello che Giussani definiva «Io sono Tu che mi fai», cioè quando ho cominciato a guardare me stesso con gli occhi del Tu, del Mistero. Vedevo il mio Io fiorire e, intorno a me, crescerne i frutti nelle opere di carità che riempiono questa parrocchia. Solamente quando quel cumulo di macerie, che era il mio Io, è stato messo insieme dalla grazia di un incontro e, dopo lunghi anni di pazienza, ho cominciato a sorridermi, a guardarmi con simpatia; da lì è sbocciato tutto, come un dono imprevisto, come una letizia che mi accompagna.
Padre Aldo, tu non hai paura della morte?
Spero di morire come i miei malati: abbracciato.
Ma intendo il dopo, ciò che c’è dopo, l’Aldilà. Come lo pensi?
Credo che sia un ulteriore ed eterno domandare ed essere dissetati, senza fine. Domandare ed essere dissetati, in una dinamica continua di desiderio e appagamento. Altrimenti, il Paradiso sarebbe noioso. Sarà un domandare ed essere sempre di nuovo abbracciati. Però senza il dolore.
Che cosa pensi dello scandalo della pedofilia nella Chiesa?
Vedi, il fatto è che io non riesco a non provare pietà anche per i pedofili. Perché so, dalla mia esperienza ad Asunción, che spesso essi stessi sono figli di violenze. Perché credo che io stesso, se Dio non mi tenesse la mano sulla testa, potrei essere capace di grandi peccati. Chi ha piena coscienza della propria miseria non sa più accusare, puntare il dito e gridare alla lapidazione. Chi ha coscienza della propria miseria ha pietà.
Il diavolo per te chi è? Come opera sugli uomini?
Il Demonio, quello che insegnano la Scrittura e la Chiesa. Però preferisco non parlarne, non evocarlo. Troppo forte è la memoria degli incubi e delle ossessioni che mi hanno perseguitato per anni. Io prego ogni giorno Dio di morire senza fare male a me stesso, agli altri e alla Chiesa.
Ma tu non ti chiedi perché il dolore, perché il mondo è pieno di dolore?
Non credo che nessun uomo possa essere santo e nemmeno giungere alla sua maturità, senza il dolore, senza affrontare la sua croce. Non c’è scorciatoia: per di lì bisogna passare.
Io ho il terrore del dolore, dopo che ho perso mia sorella bambina. Ho il terrore che mi vengano tolti i miei figli.
Pensa, però, che Dio non ci chiede mai prove troppo grandi per un uomo, prove che quell’uomo non possa sopportare.
Certo, se Cristo fosse quella Presenza concreta di cui tu parli, questo cambierebbe davvero la vita. C’è sempre di mezzo questo fatto di “non vederlo”.
Tu dici che non vedi perché non puoi toccare e misurare, perché sei dentro, come tutti, alla nostra cultura positivista. Ma se tu guardi che cosa succede ai nostri malati che si convertono ad Asunción, sei costretto a dire che c’è in loro un’autentica guarigione. Allora, se opera, “c’è” (è vero); se opera, Cristo è vero.
Che cosa fa bene, che cosa cambia in meglio un uomo?
Secondo me, come mi ha insegnato mia madre, confessarsi spesso. La confessione cambia e guarisce. E l’Eucaristia cambia ontologicamente una persona: il corpo di Cristo in noi ci cambia.
Nella quotidianità, nel fare magari apparentemente banale di tutti i giorni, che cosa fa bene?
L’aderire alla realtà. Mai sfuggirla, mai rifugiarsi nei propri pensieri, chiudersi nella propria stanza, isolarsi. Stare di fronte alla realtà che ci è data, affrontarla. Osservare molto. A me faceva bene guardare gli alberi, le piante e descriverli per iscritto. Per uscire dalle mie ossessioni. Stare tenacemente nella realtà, che è la circostanza in cui Cristo ci si presenta in quel momento. Questo mi ha insegnato Giussani, ed è lo stesso sguardo che ritrovo in don Julián Carrón e in don Massimo Camisasca.


Zapatero continua... – dal sito http://www.libertaepersona.org
In Spagna, nel mezzo di una gravissima crisi economica e sociale, il governo socialista del leader Luis Zapatero ha inflitto al Paese un ulteriore durissimo colpo alla civiltà della vita. Dal 5 luglio è entrata in vigore la nuova normativa di riforma sull’aborto, che de facto rende lo stesso una banalissima pratica sciolta del tutto da ogni vincolo etico-morale di rispetto per la persona.

La legge del 1985 che depenalizzò l’aborto in Spagna, rendendo un diritto quello che fino ad allora era un delitto, prevedeva l’autorizzazione solo nelle ipotesi di malformazione del feto, gravi rischi per la salute psichica o fisica della madre, violenza sessuale. Questi pochi scrupoli di coscienza del legislatore sono stati spazzati via dalla riforma Zapatero, che sta suscitando una forte alzata di scudi in tutto il Paese, Partito Socialista compreso, a causa della evidente aggressività a-morale di stampo radicale eugenetico che la legge presenta. Vediamo i punti cardine succintamente.

Con la nuova legge si alza la soglia, fino a 14 settimane, entro cui la donna sarà assolutamente libera di scegliere la soppressione del feto. In caso di malformazione del feto, sarà possibile l’aborto fino alla 22ª settimana.

Addirittura, sfidando il ragionevole margine di errore della diagnostica clinica, la legge prevede che – ove venisse diagnostica una patologia incurabile o «incompatibile con la vita del feto» – sarà eliminato ogni limite all’aborto. Ma il punto ancora più preoccupante – per lo sfaldamento di ogni vincolo solidaristico e pubblico della legge – è il fatto che le minorenni, dai sedici anni in su, sono autorizzate ad abortire liberamente, senza più la necessità del parere vincolante dei genitori, ma dietro una mera comunicazione agli stessi: in altri termini, se per un verso il diritto civile ritiene il minorenne privo della capacità giuridica di agire per il semplice acquisto di un bene od una normale transazione patrimoniale – proprio in quanto minore – per converso lo ritiene pienamente capace di agire laddove disponga la soppressione di una vita umana.

La disumana aggressione di questa riforma ai pilastri giuridici della tutela della persona ha portato ad una sollevazione dell’opinione pubblica a più livelli. In Parlamento il Partito Popolare ha già sollevato un’eccezione di illegittimità costituzionale della legge e si auspica la sua possibile sospensione in via cautelare: infatti la Corte Costituzionale spagnola già con sentenza del 1985 aveva creato un precedente affermando che la vita del non nato (sic) sia un bene giuridico costituzionalmente protetto dall’art.50 della Costituzione, Magna Carta spagnola. La liberalizzazione del’aborto fino a 22 settimane lascia praticamente il bimbo in grembo privo di protezione, alla mercè della libertà assoluta della madre.

A livello regionale – essendo la Spagna un Paese che al pari dell’Italia ha introdotto una forte autonomia legislativa e amministrativa alle Generalitat (Regioni, ndr) – la Navarra ha già presentato ricorso costituzionale contro la riforma Zapatero. A livello sanitario diverse associazioni che rappresentano i medici contestano al governo il peso insopportabile di una responsabilità che non intendono assumere, ovvero la decisione di sopprimere il feto, in luogo dei genitori o in presenza di malformazioni gravi che pregiudicano la vita. Infine, la dichiarazione di principio della riforma Zapatero, secondo cui l’aborto rientra nei diritti fondamentali della persona, apre un gravissimo vulnus giuridico nel sistema occidentale, e ripropone una questione dirimente che troppi legislatori e politologi – anche e purtroppo nel mondo cattolico – affrontano con evidente disagio se non ritrosia: la affermazione forte e chiara del rapporto necessario tra norma e morale nello Stato laico. CR n.1152 del 24/7/2010


La "legge del buon samaritano" - Di Lorenzo Bertocchi - 28/07/2010 – dal sito http://www.libertaepersona.org
Quante volte da bambini ci siamo sentiti dire dalla mamma che “il cibo non si spreca”, quante volte a fatica abbiamo trangugiato il pasto per non “far soffrire chi non ha nulla”. A parte la retorica buonista i numeri però mostrano che la questione non è per niente banale, effettivamente le nostre società post-moderne sprecano veramente grandi quantità di generi alimentari.
Negli USA si butta qualcosa come il 40% del cibo prodotto, mentre in Italia si può dire che ogni giorno circa 4.000 tonnellate di cibo ancora “buono” finiscono tra i rifiuti: pane, ortofrutta, latte, formaggi e carne. A ciò poi si possono aggiungere frutta e verdura che restano direttamente nei campi, gli scarti dell’agro-industria, dei mercati ortofrutticoli all’ingrosso, nonché i ritiri di mercato per controllare i prezzi delle derrate agricole.

Le cause di questa situazione sono varie e complesse e sono di tipo culturale, economico, sociale e politico. Il solidarismo cristiano proprio in questo campo è particolarmente attivo, al punto che per alcuni questo sarebbe l’unico spazio tollerabile di “ingerenza” nel sociale della Chiesa. Non mancano sensibilità “laiche” al problema, infatti, ONLUS di varia estrazione operano un filantropismo fondato sulla bandiera dell’etica in economia, bandiera che spesso assume le vesti di un credo quasi religioso anche se limitato ad una prospettiva di “salvezza” soltanto materialistica.

In Italia da un punto di vista normativo il passaggio fondamentale per sbloccare questa situazione è stato l’approvazione della L. 155/2003, la cosiddetta “legge del buon samaritano”, emanata dal governo Berlusconi allora in carica: una legge improntata sulla logica della sussidiarietà. Prima di questa legge il problema “fame e spreco” era trattato o in riferimento al passato, o rispetto al tema più generale della “fame nel mondo”, ma mancava un riferimento che si ponesse in modo pragmatico e operativo. Curioso notare che l’iter legislativo partì da una mamma – Cecilia Canepa – che vedendo lo spreco nella mensa della scuola dei figli si mise in moto coinvolgendo la Fondazione Banco Alimentare Onlus e così si arrivò, nel giro di 18 mesi, a far varare dal Parlamento italiano la “legge del buon samaritano”. Con questa legge – la prima in Europa - aziende, mense scolastiche, ristoranti, supermercati, ecc., non sono più responsabili del corretto stato di conservazione, del trasporto, del deposito e infine dell’utilizzo degli alimenti “invenduti”, ma le responsabilità sono trasferite alle organizzazioni di volontariato che li offrono ai bisognosi. In buona sostanza, con l’abolizione di queste rigidità che paralizzavano le donazioni, si è voluto incentivare la beneficenza e ora le Onlus che effettuano senza scopo di lucro distribuzione di prodotti alimentari sono state equiparate ai consumatori finali. Per lo standard italiano questa legge ha anche un ulteriore pregio: unisce sintesi ed efficacia, infatti, ha un solo articolo di 5 righe, nessun regolamento attuativo, eppure, riesce a modificare la destinazione di tonnellate e tonnellate di generi alimentari.

Per dare una dimensione del fenomeno si può citare proprio l’esempio del Banco Alimentare che complessivamente nel 2009 ha raccolto qualcosa come 78.270 tonnellate di alimenti che sono stati ridistribuiti gratuitamente a 7.711 associazioni ed enti caritativi che assistono circa 1.300.000 poveri ed emarginati in Italia. Tutto ciò è permesso dall’opera di ben 1.244 volontari e soltanto 86 dipendenti; il Banco opera nel nostro paese dal 1989.

Va detto che c’è ancora molta strada da fare e nonostante alcune eccellenze la “legge del buon samaritano” è poco conosciuta e poco applicata: il livello degli scarti alimentari è ancora elevato, troppo elevato. Come diceva Madre Teresa di Calcutta: “Ciò che mi scandalizza non è che esistano poveri e ricchi, ma che esista lo spreco”

Forse non è una caso che l’approvazione di questa legge sia potuta avvenire grazie all’impegno del Banco Alimentare le cui radici cristiane sono note, infatti, se guardiamo alla storia i seguaci di Cristo hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella difesa degli indigenti.
Questo ruolo è stato così importante che di fronte al rapido sviluppo dei cristiani l’imperatore Giuliano, in una lettera datata 362 d.C., scriveva ad un sacerdote pagano: “gli empi galilei non offrono sostegno solo ai loro poveri, ma anche ai nostri; tutti vedono che noi non diamo aiuto alla nostra gente” e si impegnò per lanciare delle istituzioni benefiche pagane nel tentativo di uguagliare i cristiani ed arginarne la diffusione. Insomma, fin da subito la testimonianza dell’amore fraterno fondato su quello del Cristo Crocifisso ha innescato una sorta di circolo virtuoso, anche se animato da una volontà di contrapposizione, segno del “lievito” inesorabile di un nuova realtà.

Il passo del Vangelo di Luca del “buon samaritano” nel corso della storia ha dato frutti meravigliosi ispirando a grandi santi istituzioni benefiche come ospedali, opere pie, case di accoglienza, mense per i poveri, monti di pietà, ecc.
Ad esempio il ‘400 italiano ha visto i frati minori osservanti percorrere le neo-nate città italiane contribuendo proprio alla stesura di codici e leggi utili ad organizzare le strutture civiche, informandole con il loro spirito cristiano profondamente attento al “bene comune”. Particolarmente interessanti risultano i Monti di Pietà in cui diritto, giustizia, morale e carità vanno a coniugarsi in un orizzonte evangelico: la caritas non è mera solidarietà, ma anche quando diventa prestito su pegno è sempre segno di un Amore ricambiato, cammino verso una “salvezza” al di là della vita terrena.


La L. 155/2003 - “legge del buon samaritano” – rappresenta un esempio di quanto ancora oggi quel “lievito” continui a far crescere il Vangelo nella vita sociale e culturale, perciò dovrebbe far riflettere quando in ambito politico si parla di solidarietà e di sussidiarietà. Dovrebbe far riflettere perché dimostra come più delle parole la buona politica si deve misurare sui fatti. La storia ci insegna qualcosa a proposito di questo “lievito” e l’apporto fondamentale che può dare al bene di tutti, credenti e non credenti. A buon intenditor poche parole.


Avvenire.it, 29 luglio 2010 - Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari - Non è vero che tutto è già scritto. Ecco la conferma di ciò che sapevamo - Giacomo Samek Lodovici
Ieri, un giornale sono stati pubblicato anche in Italia i risultati di un rapporto del Government accountability office (Gao), un organismo governativo americano che ha smentito impietosamente l’attendibilità dei test genetici per conoscere il rischio di contrarre una malattia che ha componenti genetiche. Li ha resi noti "Repubblica", e ha fatto bene. La Gao ha inviato, infatti, un campione di Dna dello stesso soggetto a diversi laboratori ottenendo risultati contraddittori e ha poi mandato dei campioni di altri soggetti, di nuovo ricevendo previsioni molto contrastanti. È emerso, insomma, che questi test non sono per nulla affidabili e, a volte, procurano angoscia e terrore per previsioni infauste (per esempio di cancro) ma assolutamente infondate. Tutto ciò a caro prezzo: negli Stati Uniti il costo dei test oscilla tra i 300 ed i 1.000 dollari e il business per i signori di questo mercato dev’essere davvero cospicuo, visto che solo per pubblicità fa spendere ogni anno tre miliardi dollari; senza contare, ovviamente, che prospettare la spada di Damocle di una malattia è il modo migliore per vendere farmaci.

Le contraddizioni dei referti dipendono da molte cause: dal modo di interpretare i dati, dalla storia sanitaria familiare dei soggetti, dall’etnia di appartenenza (che determina una differente vulnerabilità alle patologie) e così via. Oltre a ciò, sull’insorgere di una malattia incidono anche le condizioni psichiche del soggetto, in forza di quella profonda unità che (a dispetto di tanti proclamati dualismi) caratterizza psiche e corpo. Inoltre, come ha detto al giornale romano Francesco Cavalli Sforza – filosofo nonché divulgatore nel campo della genetica –, anche quando le malattie hanno una forte causa ereditaria sono comunque connesse a fattori ambientali e alla storia individuale della persona. Così, per Cavalli Sforza, «nessun uomo è figlio solo dei suoi geni», il nostro destino non è scritto una volta per sempre nel Dna. Con le debite specificazioni, lo stesso discorso si potrebbe ripetere – lo ha fatto per esempio il neuroscienziato Filippo Tempia in un’intervista su "Avvenire" del 9 giugno – in merito all’influsso del cervello sul nostro comportamento.

Tornando alla questione genetica, preme sottolineare il tema della libertà perché si sente non di rado parlare del «gene della violenza», del «gene del tradimento», eccetera. Questi discorsi affermano che tutto il nostro agire è scritto nei geni, negano la libertà umana e quindi cancellano la nostra responsabilità morale (e, in fondo, anche giuridica). Tuttavia, con buona pace dei tentativi di dimostrare che l’uomo è una macchina, non è possibile ridurre l’essere umano alla sola componente biologica, perché noi siamo costituiti anche da una dimensione spirituale, quell’anima di cui parlano, già prima del cristianesimo, alcuni filosofi greci. Per dimostrarne l’esistenza esistono diversi argomenti filosofici, che il lettore può ricostruire anche su alcuni manuali di storia del pensiero. In definitiva, il nostro Dna può implicare delle predisposizioni, dei tratti caratteriali e temperamentali, ma, nondimeno, grazie allo spirito siamo in grado, almeno in una certa misura, di trascendere i condizionamenti, possiamo sperimentare la vertigine della libertà, siamo capaci di interrompere la prevedibilità e l’inderogabilità dei nessi fisici di causa-effetto e di dare inizio a qualcosa di nuovo. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, agire significa incominciare e l’inizio dell’uomo «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa bensì di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore».
Giacomo Samek Lodovici


Avvenire.it, 29 luglio 2010 - LA FORZA DELLA FEDE - «Così per Caterina abbiamo preso d’assalto il cielo» - Lucia Bellaspiga
«La mattina di quel 12 settembre ero baldanzoso come un bambino e non sapevo che Caterina, la mia Caterina, doveva morire quella sera stessa. Era scritto che alle 21,30 sarebbe finito il mondo. Per me. Per sempre. O sarebbe cominciato un nuovo mondo». Inizia così, senza preavviso (come la gran parte delle tragedie) la tragedia di Caterina Socci, studentessa 24enne il cui cuore una sera senza alcun motivo si stanca di battere. Mancano dodici giorni alla sua laurea e in famiglia la vita sembra procedere senza sussulti, addirittura gioiosa («Non c’è nessuno più felice al mondo!», afferma quel mattino suo padre), tanto che la madre, con il buon senso di tutte le Cassandre, sorride allarmata: «Non dirlo, per carità... Non si sa mai cosa ci riserva la vita». E difatti quella sera di quasi un anno fa «il telefono squillò alle 21,30».

Comincia con uno squillo di telefono la gran parte delle storie di ragazzi (sono migliaia in Italia) che, per un incidente d’auto o uno scherzo del cuore, cadono in stato vegetativo. E con la sentenza di medici che non lasciano speranza: «Le hanno tentate tutte per rianimarla, ormai stanno mollando»...
In "Caterina, diario di un padre nella tempesta" (Rizzoli) Antonio Socci, noto giornalista, racconta il travaglio di questa sua figlia teneramente amata, ma è subito evidente che la cronaca del suo calvario è solo un pretesto per dire molto di più: di quanto accade nel letto di Caterina si sa poco, lo stretto indispensabile (dal primo capitolo, quando leggiamo che incredibilmente dopo un’ora e mezza il suo cuore si è rimesso in moto, solo a pagina 189 scopriamo che oggi "si è svegliata dal coma ed è cosciente"). Caterina non è la protagonista, è l’espediente: il perno, il motore immobile intorno al quale si genera il vero miracolo da raccontare.

Da quel 12 settembre 2009, infatti, un popolo immenso si è mosso attorno a lei, migliaia di persone che non l’hanno mai conosciuta hanno rivolto una supplica a Dio, hanno camminato accanto a un padre e una madre nella tempesta. Più di uno addirittura (e sono le lettere più toccanti) essendo malato terminale ha offerto le proprie sofferenze in cambio della guarigione di Caterina, qualcun altro i suoi ultimi mesi di vita purché lei riaprisse gli occhi. «Ho chiesto a Gesù di darmi la vostra croce per un po’. Vorrei essere il vostro cireneo», ha osato una madre.

Socci racconta tutto questo con commosso stupore, certo del fatto che il sacrificio di Caterina (e di tanti altri figli come lei) è origine e causa di insperate conversioni: «Quale mondo perverso stanno salvando i ragazzi e le ragazze crocifissi in questo reparto di rianimazione?». Non vite inutili, dunque, ma «le truppe scelte da Gesù in persona, i temerari, gli avventurieri del suo amore sconfinato».

All’indomani dell’arresto cardiaco, mentre di ora in ora la paura della morte lascia spazio a un incubo non meno spaventoso, quello di «danni immensi, devastanti, probabilmente irrecuperabili», è Socci stesso che chiama a raccolta chiunque possa offrire la forza della preghiera, ma poi la marea monta spontanea: ottomila e-mail irrompono nel suo blog, gli raccontano di figli che ce l’hanno fatta contro ogni previsione dei medici, lo implorano di non cedere, gli offrono la propria preghiera anche di non credenti ("Un giorno, quando potrò, racconterò quante persone che si dicono atee o agnostiche, per tenerezza verso Caterina, in queste ore hanno ricominciato a pregare", scrive Socci).

Ce lo ripete al telefono, seduto accanto a lei: «La mia figlia crocifissa ha convertito tante persone». E prima di tutti ha convertito lui, fervente cattolico ma «fino a quel 12 settembre diverso da oggi». La cosa che ha più imparato in questi mesi «è a prendere alla lettera l’insistenza di Gesù che nel Vangelo ci dice di chiedere, di importunarlo per essere esauditi. Gesù si fa strappare letteralmente i miracoli, a iniziare da Cana quando a insistere è Maria. Prima io supplicavo, chiedevo grazie, ma in fondo restava sempre un atomo di scetticismo, quasi che la preghiera fosse un messaggio in bottiglia gettato nel mare... Fino al 12 settembre pensavo: lui può tutto, se vuole la guarirà. Ora invece mi sono fatto mendicante, chiederò e busserò fino all’ultimo respiro. È questa la mia conversione». C’è un uomo più potente di Dio - ricorda il Curato d’Ars -, ed è l’uomo che prega. "Il regno dei Cieli appartiene ai violenti", ci provoca il Vangelo. «Dunque noi abbiamo preso d’assalto il Cielo», confessa Socci.

Attraverso le tante lettere che riporta, incontriamo un numero impressionante di storie di speranza, di figli dati per persi dalla neurologia e invece risvegliati ("Ai medici disperati io rispondevo con una totale fiducia nel loro lavoro - scrive una madre -, li incoraggiavo dicendo che stavo pregando per loro, per le loro mani"), o invece di genitori che in silenzio, senza apparire sui giornali, eroicamente amano i loro ragazzi addormentati, senza aspettarsi in cambio neanche un battito di ciglia. «Sono loro che mi hanno consolato, mi hanno scritto di lottare anche contro l’evidenza, di pregare da mattina a sera. Non immaginavo potesse esistere qualcosa del genere».

È soprattutto per loro che è nato questo libro (50mila copie e cinque edizioni nelle prime due settimane), «per ringraziare i tantissimi cui non ho potuto rispondere - spiega Socci -. E poi per restituire un patrimonio di testimonianze che non potevo tenere solo per me, perché tanti altri genitori hanno bisogno di sapere che quando tutto sembra perduto c’è ancora qualcosa da fare, pregare, pregare e pregare». Ma anche per far conoscere quegli eroi silenziosi, «genitori speciali che portano croci incredibili». Infine tendere una mano concreta ai sofferenti: «Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se facciamo la nostra piccola parte, al resto pensa la Madre dolce e benedetta. Con i diritti d’autore di questo libro aiuterò, finché avrò respiro, opere missionarie e di carità».
Col suo risveglio Caterina ha contraddetto la scienza. Poi lo ha rifatto pronunciando una notte la parola della rinascita, «mamma».

Ora la battaglia resta lunga e difficile, ogni giorno forse un piccolo progresso, «ma l’unica cosa certa è il lieto fine, perché vince sempre Lui», conclude suo padre. «Comunque vada». Anche se Caterina restasse inchiodata per sempre al suo letto, incapace più di cantare come faceva una volta, di correre o anche solo di vedere. Ferma sempre a dodici giorni dalla sua laurea. Parole vertiginose, «così pesanti da dire...», ma che grondano dolore e magnificenza. La lezione, ancora una volta, gli viene da Caterina, che alla scomparsa di don Giussani aveva scritto l’unica verità: la morte non ha l’ultima parola.
Lucia Bellaspiga


Avvenire.it, 29 luglio 2010 – diritti - Catanzaro, esclusa da concorso perché incinta: tar annulla graduatoria
Sentenza storica del Tar di Catanzaro nella lotta alle discriminazioni e per l'affermazione del principio di pari opportunità per uomini e donne in materia di accesso al lavoro: su ricorso presentato dalla lavoratrice e con l'intervento ad adiuvandum della consigliera regionale di parità della Calabria Stella Ciarletta il Tribunale Amministrativo Regionale ha disposto l'annullamento della graduatoria del concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di 2 posti come dirigente biologo presso l'Arpacal, nonchè dei provvedimenti amministrativi con i quali l'Amministrazione ha escluso la ricorrente dalla prova orale in quanto in stato di gravidanza, violando così un principio costituzionale nonchè la normativa in vigore in materia di pari opportunità e contrasto alle discriminazioni di genere, contenuta nel Codice sulle Pari Opportunità tra uomo e donna.

«La sentenza - secondo la consigliera - assume un significato strategico, condannando una grave discriminazione operata dalla Commissione nell'escludere la concorrente dal concorso solo perchè in stato di gravidanza. È importante ricostruire brevemente i fatti: la dottoressa si iscrive al concorso e, superata la prova scritta, viene ammessa all'orale; la data di convocazione coincide con il periodo del parto e la concorrente chiede di posticipare l'orale a un giorno successivo. La Commissione esclude tale possibilità, ma concede di poter effettuare l'esame lo stesso giorno ma in un'altra sede più vicina alla donna, e malgrado la stessa accetti, suo malgrado, tale proposta, non le viene mai comunicata la sede dell'esame e, ironia della sorte, partorisce proprio il giorno prima. Dopo di che il silenzio dell'Amministrazione, che si interrompe solo con la pubblicazione della graduatoria finale del concorso».

È evidente come la Commissione abbia ignorato le legittime richieste della concorrente, andando in aperto contrasto con i principi costituzionali di parità uomo donna sul lavoro e in particolare del Codice Pari Opportunità laddove vieta, all'art. 27, trattamenti discriminatori nell'accesso al lavoro. In tal senso, scrive il Tar nel provvedimento "l'applicazione concreta di tali enunciazioni imponeva, nella specie, alla
Commissione di consentire alla ricorrente di svolgere la prova orale successivamente al parto e nel rispetto delle condizioni di salute della madre e del bambino».



mercoledì 28 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) In prossimità della fine – dal sito http://www.libertaepersona.org del 27/07/2010 - Due cari amici, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno scritto oggi su Libero questo pezzo:…
2) HUMANAE VITAE: UN ANNIVERSARIO DIMENTICATO - di Angela Maria Cosentino (bioeticista, docente universitaria e autrice del volume Testimoni di speranza. Fertilità e infertilità: dai segni ai significati (Cantagalli, 2008), vincitore del premio Donna, Verità e Società, Scienza & Vita, Pontremoli 2009, “per aver mostrato il valore umano e sociale del talento naturale della femminilità”).
3) L’AMORE FAMILIARE VINCE ANCHE LE SFIDE IMPOSSIBILI - “The Blind Side” un film che racconta l’amore familiare - di Antonio Gaspari
4) Strage, uccise 100 milioni di bambine - Mancano all'appello ben cento milioni di femmine. - Il Giornale, 20 marzo 2010
5) Quando gli asini usano le matite per ragliare - Autore: Turra Giada Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 27 luglio 2010
6) Il problema omosessualità nella Chiesa esiste, il Papa lo aveva segnalato. Maggior selezione nei seminari. I giornali speculano, ma alcuni preti forniscono loro buini elementi. Danneggiano la credibilità della Chiesa - Bruno Volpe intervista Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
7) Dimenticare o perdonare? - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 luglio 2010
8) IL FATTO/ Il Regno Unito permette ai musulmani di trattare i ciechi peggio dei cani - Gianfranco Amato - mercoledì 28 luglio 2010 – ilsussidiario.net
9) Newman paladino della coscienza - intervista - Il grande pensatore, che sarà beatificato a settembre, cambiò la teologia con una nuova visione storica. Parla il biografo Gilley - «Era critico verso il cattolicesimo liberal: per lui le religioni non erano tutte uguali. - Rivalutò molto il ruolo dei classici» - DA LONDRA SILVIA GUZZETTI – Avvenire, 28 luglio 2010


In prossimità della fine – dal sito http://www.libertaepersona.org del 27/07/2010 - Due cari amici, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno scritto oggi su Libero questo pezzo:…
Se si trattasse solo di un comprensibile timore che ogni uomo prova in prossimità della fine, forse basterebbe una scommessa, un’ultima guasconata, per arrivare fin sulla soglia storditi abbastanza da non pensarci. Se fosse così, avrebbero ragione l’illuminismo e i suoi epigoni quando indicano nella banalissima paura della morte la banalissima origine della religione.

Se fosse così. Ma evidentemente non lo è, se fior di uomini di ingegno, figli delle più estrose varianti dei lumi, in prossimità del momento cruciale, si sono incamminati lungo strade imprevedibili. Evidentemente, non è così se le loro decisioni ultime tengono banco tra credenti e non credenti.

Se si continua a parlare della conversione di Renato Guttuso (nella foto la sua crocifissione), di quella indecifrabile di Indro Montanelli, di quella inquieta di Oriana Fallaci o di quella quasi certa di Antonio Gramsci. La conversione, o comunque la fiduciosa apertura su una trascendenza a lungo negata, continua a esercitare fascino persino sui disincantati abitanti del terzo millennio poiché va alla radice dell’esistenza di ogni singolo uomo. E sarebbe comico, se non fosse tragico, che gli unici a esserne imbarazzati sono certi cattolici che invitano il prossimo a non convertirsi in nome di una non meglio precisata autenticità.

Eppure, non vi è autenticità più concreta che la risposta al perenne richiamo del Vero, del Bello e Buono indicato da papa Benedetto come cifra del cuore di ogni uomo. Un richiamo pacificatore capace di rendere vero l’essere umano nel momento più importante della propria vita. Quando a San Carlo Borromeo chiesero che cosa avrebbe fatto se gli avessero detto che sarebbe morto entro un’ora rispose: “Cercherei di fare particolarmente bene ciò che sto facendo ora”.

Altri tempi, verrebbe da dire, e per certi non si sbaglierebbe. Erano tempi in cui i sacerdoti tenevano sul loro scrittoio un teschio proprio per aver ben presente la caducità dell’esistenza. Erano i tempi in cui era facile trovare sin nelle case più povere libretti che si intitolavano “Apparecchio alla buona morte”. Eppure, proprio per questo, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, erano tempi pieni di vita.

Un uomo del Seicento non aveva bisogno di trovarsi davanti all’assurda tragedia del Love Parade per scoprire che esiste la morte. E, soprattutto, ne aveva avuto ben chiaro il senso. L’uomo moderno, invece, si trova sempre più spesso nella condizione di dover prendere atto dell’epilogo solo poco prima che avvenga. E, allora, non può più fingere. Per tutta la sua esistenza può aver giocato con la sacralità della vita. Può aver occultato, dissacrato, violentato il mistero della nascita, può continuare a ritenerlo un fatto puramente biologico fino all’ultimo atto della sua esistenza.

Ma la morte gli si presenta inevitabilmente anche sotto un aspetto soprannaturale. E, in questo frangente, non c’è teoria che tenga. Per la prima volta, il mistero gli si presenta in forma tanto decisa e prepotente da non essere eludibile. Ma gli si presenta in forma sincera e generosa, come Qualcosa che non deve essere decifrato o svelato, ma come Qualcosa che gli si fa incontro per dirgli chi è veramente. La consapevolezza dell’eterno si fa largo nella coscienza e mostra con le piccole, grandi e concrete evidenze della decadenza che l’eternità non ha nulla a che fare con il dato biologico ma con l’interezza della persona, anima e corpo.

Ed è qui, che la conversione giunge a compimento, nel punto in cui la persona finita scopre che può trarre il senso autentico della propria vita da una Persona che finita non può essere. Oggi, molti sostengono che il problema dell’ateismo sta nella difficoltà di spiegare l’origine della vita. In realtà, il vero problema dell’ateismo sta nella sua strutturale incapacità di spiegarne la fine. Il razionalista può anche illudersi di padroneggiare l’inizio dell’esistenza, ma non potrà mai farlo con la sua fine, neanche puntandosi un pistola alla tempia.

In prossimità della fine l’adulto è molto meno adulto di quanto potrebbe immaginare. Non a caso, gli insegnamenti più concreti sulla morte si trovano nelle fiabe. Ve n’è uno straordinario in un racconto modernissimo, nel film “Mr Magorium e la bottega delle meraviglie”. Al momento di lasciare questo mondo, uno straordinario Dustin Hoffman spiega il senso di tutto dicendo: ‘Quando re Lear muore nel quinto atto, sai Shakespeare che ha scritto? Ha scritto ‘muore’!”. Ci voleva un genio per raccontare in una parola il senso della vita. Ci vuole Dio fare in modo che quel senso non sia vano.


HUMANAE VITAE: UN ANNIVERSARIO DIMENTICATO - di Angela Maria Cosentino (bioeticista, docente universitaria e autrice del volume Testimoni di speranza. Fertilità e infertilità: dai segni ai significati (Cantagalli, 2008), vincitore del premio Donna, Verità e Società, Scienza & Vita, Pontremoli 2009, “per aver mostrato il valore umano e sociale del talento naturale della femminilità”).
ROMA, martedì, 27 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il 25 luglio del 1968 Paolo VI ha pubblicato l’enciclica Humanae vitae. Quest’anno l’anniversario non è stato ricordato, eppure sono presenti indicatori culturali e socioeconomici che, purtroppo, confermano l’attualità profetica di quell’enciclica incompresa.
Tra questi, recenti dati Istat che evidenziano, in Italia, il preoccupante aumento di separazioni e divorzi, causa di profonde sofferenze e fragilità per la società; l’inverno demografico, noto da tempo, ma non adeguatamente segnalato per le sue conseguenze negative, viene ora contemporaneamente indicato da economisti e demografi (nonché da Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate) come il fattore principale della crisi economica; leggi contrarie alla verità sull’uomo, orientate ad equiparare la famiglia naturale con le unioni dello stesso sesso, anche con possibilità di adozione, oppure orientate a promuovere una cultura di morte che proclama l’aborto come nuovo presunto diritto anche per destinatari sempre più giovani, sono alcune delle nuove minacce all’autentico bene dell’uomo, presente e futuro.
Potrebbe sembrare un paradosso affermare che aver contrastato e poi ignorato il profondo messaggio dell’Humanae vitae abbia contribuito a scivolare sul piano inclinato delle fughe dalla Creazione, eppure, tutto è iniziati da lì. L’enciclica, che supera l’aspetto morale, infatti, richiama alla questione antropologica e invita a guardare alla Chiesa come Madre che accoglie e Maestra che guida e avverte l’umanità sui possibili rischi (cf. Humanae vitae, 17) di una tecnica applicata alla procreazione che si allontana dalla verità sull’uomo.
La separazione, prima con la contraccezione e poi con la fecondazione artificiale, della dimensione unitiva da quella procreativa dell’atto coniugale (naturalmente collegate per Creazione), sotto la spinta della c.d. rivoluzione sessuale che ha veicolato nuovi interessi economici e ideologici, ha prodotto effetti deleteri nella società, che dovrebbero richiamare ad un ripensamento sull’Humanae vitae e a valorizzare l’Educazione ad un’autentica Procreazione Responsabile (riferita alla fertilità e all’infertilità) che l’enciclica ha ispirato.
Tale Servizio, presente sul territorio nazionale come Confederazione Italiana Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità ( www.confederazionemetodinatutali.it) riunisce circa 1000 operatori qualificati che insegnano a giovani e a coppie i moderni Metodi Naturali (Billings e Sintotermici) per risalire, dagli indicatori biologici, ai significati più profondi dell’amore, della vita e del procreare umano. I Metodi Naturali non sono solo metodi diagnostici per conoscere l’andamento del ciclo, per ricercare, distanziare o evitare la gravidanza, ma anche e soprattutto uno stile di vita che rispetta la verità della persona e la grammatica dell’amore, amore umano, totale, fedele, fecondo (cf. Humanae vitae, 9).
Educare a questa proposta è possibile e conveniente, sotto il profilo socio-sanitario, antropologico ed etico. Le coppie che hanno seguito il graduale percorso formativo ne confermano l’efficacia, le ricadute positive per la loro crescita, come pure per l’ecologia umana e ambientale.


L’AMORE FAMILIARE VINCE ANCHE LE SFIDE IMPOSSIBILI - “The Blind Side” un film che racconta l’amore familiare - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 27 luglio 2010 (ZENIT.org).- Nell’ambito del Fiuggi Family Festival è stato proiettato lunedì 26 luglio il film “The Blind Side” del regista John Lee Hancock, interpretato tra gli altri da Sandra Bullock.
La proiezione ha suscitato entusiasmo tra gli spettatori, i quali hanno applaudito in maniera spontanea alla fine della proiezione.
Si tratta di un film straordinario, che suscita risate e lacrime di commozione.
La storia è quella vera di Michael Oher, un ragazzo di colore nato in condizioni difficilissime. Non ha mai conosciuto il padre, la mamma si trascina tra droga e amanti occasionali. Michael ha almeno dieci fratelli di padri diversi.
All’età di sette anni il piccolo Oher viene strappato alla mamma e dato in adozione a diverse famiglie da cui scappa regolarmente.
Così cresce un ragazzo dal fisico gigantesco e potente, ma con il cuore a pezzi. Senza un letto, senza una casa, senza abiti, senza padre, senza nessuno che si curi di lui, in un ambito sociale degradato con i suoi coetanei che sopravvivono a malapena tra spaccio di droga, consumo di alcool, prostituzione, uso della violenza e delle armi. La maggior parte di loro muore in giovane età.
Alla vigilia del giorno del Ringraziamento, Michael, che tutti chiamano Big Mike, gira solo e infreddolito per le strade di Memphis. Finchè una famiglia bianca, ricca, cristiana, lo incontra e gli offre di andare a dormire da loro.
Quest’incontro cambia la vita a Michael, ma anche e soprattutto a tutta la famiglia che lo ha incontrato.
Esattamente come accade in ogni azione di amore gratuito, la carità cambia la vita e il cuore a tutti quelli che ci capitano dentro.
Michael è docile, buono e molto protettivo. La famiglia lo adotta, lo aiuta negli studi, cerca di ricostruire un rapporto con la madre naturale, lo invita a crescere e a non isolarsi, per questo provano a farlo giocare a Football.
E così Michael cresce proporzionalmente all’amore che riceve e che ricambia. Un miracolo di umanità che libera le potenzialità del ragazzo. Il film infatti ripercorre la storia vera di Michael Hoer che è diventato uno dei campioni più forti del Football americano.
Per la sua intensità e bellezza il film “The Blind Side” ha vinto nel 2009: i premi “Academy Award” come miglior attrice per Sandra Bullock; l’Academy Award nomination come miglior film; Sandra Bullcok per questo film ha anche vinto i premi Golden Globe come miglior attrice protagonista, il Critics Choiche Awarsd come miglior attrice e lo Screen Actors Guild Award come miglior performance femminile.
Il film in questione è straordinario e unico del suo genere perché rivoluziona completamente i luoghi comuni e i pregiudizi ideologici che hanno caratterizzato la concezione della famiglia, soprattutto quella bianca e cristiana del sud degli Stati Uniti.
Nell’immaginario collettivo, le famiglie bianche e cristiane del sud degli USA sono razziste e ipocrite, mentre in questo film si scopre la determinazione con cui la famiglia protagonista ama profondamente il ragazzo adottato fino al punto da rompere le relazioni con chi nutre ancora pregiudizi.
Nessun buonismo mieloso, ma tanto amore vero verso colui la cui infanzia è stata più difficile.
La storia di Michael è estremamente educativa, e mostra come attraverso atti di amore nessun obiettivo è precluso. E’ altresì evidente come la crescita di una famiglia cambia la società.
Imperdibile la scena in cui la Bullock strapazza le montagne di muscoli dei ragazzi della squadra di Football, e li sprona spiegando che sono una famiglia e che come una famiglia si devono difendere.
Resta inspiegabile, come ha sottolineato nell’introduzione alla visione del film, Alessandro Zaccuri, direttore artistico del Fiuggi Family Festival, il perché questo film, che pure negli Stati Uniti ha raccolto incassi notevoli, non sia stato distribuito nelle sale italiane.
Paradossale anche la vicenda della Bullock, che per questo film ha vinto l’Oscar, ma a marzo aveva ricevuto anche il 'Golden Raspberry Awards' meglio conosciuto come “Razzie Awards” cioè il “premio pernacchia d’oro” per il peggior film dell’anno che è stato “All About Steve”.
Singolare scoprire che il film “All About Steve” in Italia è stato distribuito nelle sale, mentre “The Blind Side” no.


Strage, uccise 100 milioni di bambine - Mancano all'appello ben cento milioni di femmine. - Il Giornale, 20 marzo 2010
Lo denuncia un'inchiesta dell'inglese Economist (rilanciata dall'agenzia Zenit il 15 marzo). Il titolo dell'inchiesta britannica, tradotto, suona così: «La guerra contro le bambine; genericidio (Gendercide); uccise, abortite o abbandonate, almeno cento milioni di bambine sono scomparse. E il numero sta aumentando». Il perché è presto detto. Se l'Occidente coccola le sue femmine, crea appositi ministeri perché abbiano pari opportunità e riserva loro «quote rosa» nei posti di comando o in quelli tradizionalmente maschili come le forze armate e la boxe, nel resto del mondo la nascita di una femmina è un dramma.
Per i poveri le figlie femmine sono un peso, perché bisogna trovar loro marito e fornirle di dote. Era così nel mondo precristiano e così è nel mondo che fuori dall'area cristiana è rimasto. In India, per esempio, nelle zone più arretrate ancora oggi non poche donne sono assassinate perché la loro dote è giudicata insufficiente. In Cina è lo stato comunista a provocare l'ecatombe. La politica del figlio unico obbligatorio, per contenere l'espansione demografica, fa sì che i genitori vogliano che tale figlio sia maschio. Ciò, sia per l'antica abitudine (anche da noi si usava augurare «salute e figli maschi») che per un motivo più concreto: è un'assicurazione per la vecchiaia in posti dove il welfare praticamente non esiste.
Prima, per ovviare all'indesiderata nascita femminile, si ricorreva a metodi brutali. Oggi c'è l'ecografia, che è alla portata di tutti, e si ricorre all'aborto. L'Economist calcola che in Cina e nell'India settentrionale le nascite maschili superino quelle femminili di almeno il 20 per cento. Chi ha studiato demografia all'università sa che, a lasciarla fare, la natura sforna alla nascita più maschi che femmine; ma i maschi hanno una mortalità maggiore e le due curve pareggiano solo nelle età fertili, per poi divergere in quelle successive fino a far sì che le femmine superino i maschi. Se si interviene, per così dire, artificialmente sugli equilibri naturali si provocano gli sconquassi ai quali stiamo assistendo. La Cina, per esempio, chiama «rami spogli» i suoi maschi non sposati (e che non possono trovare moglie perché le femmine occorrenti non sono mai nate), il cui numero è uguale a quello di tutti gli americani maschi in età fertile. Ciò provoca traffico di donne, violenze sessuali, suicidi.


Quante sono le donne «mancanti»? Il famoso economista indiano Amartya Sen nel 1990 calcolava sui cento milioni. Ma è sicuro che oggi siano molte di più, anche se le statistiche provenienti dai posti incriminati non sono mai sufficientemente attendibili. Insomma, c'è uno squilibrio innaturale tra maschi e femmine, cosa che nel mondo globalizzato non può non avere preoccupanti conseguenze. Il problema è, comunque, culturale più che economico. Infatti, lo si riscontra in Paesi niente affatto «poveri», come Taiwan e Singapore, nonché in nazioni balcaniche e caucasiche ex comuniste. Il governo indiano ha cercato di contenere il fenomeno vietando per legge l'ecografia ma pare che il divieto abbia avuto scarsa efficacia. Meglio è andata alla Corea del Sud, che si sta avviando alla normalità (ma va detto che il Paese è a maggioranza cristiana). Il problema vero è in Cina, dove il Partito non ha alcuna intenzione di cambiare politica demografica. Alla faccia di Mao, per il quale le donne sostenevano «la metà del cielo». La selezione sessuale fa sì che in certe province cinesi i maschi superino le femmine anche del trenta per cento e a farne le spese sono le nordcoreane, non di rado vendute ai contadini cinesi. Aveva ragione Montanelli, quando affermava che al terzomondo non servono tanto aiuti quanto missionari. Cristiani, naturalmente, perché solo col cristianesimo l'uomo ha smesso di considerare la donna «inferiore». Ma vallo a dire a Hu Jintao o ai fondamentalisti indù.
di Rino Cammilleri
Il Giornale, 20 marzo 2010


Quando gli asini usano le matite per ragliare - Autore: Turra Giada Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 27 luglio 2010
Intervista a don Marco Pozza, autore di - Asini dalle matite colorate -
Perchè gli asini sono necessari: fossero tutti dei geni la scuola non servirebbe a nulla. Ma se ad un asino dai in mano delle matite colorate, il rischio di contemplare un piccolo capolavoro è inversamente proporzionale alle aspettative: è molto alto. In una mattina d'autunno l'ennesima notizia: il tentato suicidio di un ragazzo. Trecento ragazzi la leggono: e un giovane prete assieme a loro. Quel ragazzo potrebbe benissimo essere uno di loro: giovane, avvenente, simpaticissimo. L'ennesimo ragazzo insospettabile. Dal fondo della classe si alza una voce: "Adesso basta!" E' il grido di un'anima giovane: non lo si può evitare, né tantomeno ignorare.
E allora tutti al lavoro. Con un pugno di matite colorate e un sito internet come quaderno virtuale. "Si parla di loro. E si parla pure di Dio. - afferma don Marco Pozza - Non ne parlano facilmente. Però parlano di solitudine, angoscia, tristezza, ansia, malinconia, fastidio, nausea, abisso, baratro. Oltrechè di stelle, fiori, stupori, innamoramenti, estro, fantasia, poesia, passione, luce. Fino a farti supporre che il loro non parlare di Dio sia proprio il loro modo creativo di parlarne. Ti parlano di Lui senza nominartelo: magari per opposti, per mancanza, per distanza, per dissonanza o distorsione. Sono degli asini geniali".
Perchè a tutti piacerebbe vivere in una città colorata. Ma perchè una città sia tale serve gente che abbia il coraggio di prendere in mano i colori ed usarli. Dietro il tutto ci stanno due amici: un prete (don Marco Pozza) e uno sportivo (Alessandro Zanardi), uniti dalla passione per le storie giovani da ricostruire.

Don Marco, il titolo ricalca la sua creativa provocazione. Perchè proprio l'immagine dell'asino come linea guida del vostro lavoro?
Perchè troppi studenti oggi sono assimilati ad un'idea sbagliata di asino che abbiamo in testa. Dare ad uno studente dell'asino significa dipingerlo come persona bistrattata, non valorizzata, alla quale promettere il futuro togliendo la possibilità di giocarsi il presente. Ma è l'asino che offre all'insegnante la possibilità di guadagnarsi il pane: fosse un mondo di gente geniale a che servirebbe la scuola?

Ma questi suoi asini hanno le matite colorate. Che significa?
Significa una cosa molto semplice: che pur essendo asini tengono in mano creatività e genio, fantasia e innamoramento, talento e tanta ispirazione. Oltrechè la nostalgia, forse la matita più bella della quale servirsi per poter scrivere la storia con loro. La rubi nei loro sguardi trafitti e torturati, nei movimenti nervosi, disattenti e studiati, nei lineamenti tetri, cupi e passionali. Nelle tristi occhiate, nei sorrisi funamboli, nei passi e nei passaggi veloci.
I nostri ragazzi stanno cercando: il futuro, la mano, lo sguardo. La Verità.

Ne è uscito una specie di catechismo in versione giovane.
Questa definizione mi sta un po' stretta perchè oggi i giovani sono restii alle definizioni dogmatiche e non s'affezionano a chi pretende di tenere la verità in tasca. Più che un catechismo preferisco definirlo uno Zibaldone stile wikipedia: sono delle riflessioni aggiornabili in continuazione, commentabili, passibili di critica e di miglioramento. Però le domande sono vere ed autentiche perchè nate da loro. Quello che m'interessava salvare era la bellezza dell'imperfezione giovane: troppo spesso chiediamo la perfezione ai ragazzi e poche volte sappiamo tradurre la ricchezza della loro imperfezione.

Siete partiti da un sito internet - possiamo dire un po' per gioco - e ora la realtà si sta dimostrando più interessante di quello che si pensava.
D'altronde si può anche partire per caso quando si fa qualcosa: ma io sono convinto che il caso non sia altro che il vestito che l'Eterno indossa quando decide di viaggiare in borghese tra le strade dell'umanità. Quando abbiamo aperto il sito immaginavamo qualcosa di bello: sta arrivando qualcosa che supera le aspettative. E il merito non è di chi l'ha ideato: ma di coloro che con passione s'aggregano sempre più in questa nostra forma di evangelizzazione.

A chi è rivolto questo testo in particolare?
E' rivolto ai ragazzi che hanno voglia di crescere interrogandosi. E interrogandosi allargare gli orizzonti. Un testo che porteremo nelle scuole dove ci invitano, che qualche parroco sta prendendo come regalo da lasciare ai suoi animatori, che più di qualche professore sta decidendo di usare nelle sue ore scolastiche. Il tema, purtroppo, c'aiuta: chissà quanti altri suicidi si tenteranno. E qualcuno pure riuscirà nell'intento. Ma ogni volta noi proveremo a ripartire perchè se è vero che il suicidio è la fine di un sogno, è altrettanto vero che potrebbe diventare l'inizio di una nuova rinascita. E noi vogliamo cantare la speranza dentro il mondo giovane.

Nel primo mese oltre 7000 copie ordinate: un piccolo successo editoriale se si pensa che d'estate la scuola va in vacanza.
Per me il successo più bello è un altro. Attraverso un'email ci arriva un invito ad organizzare un incontro con tre istituti scolastici riuniti assieme: una cosa normale. Il bello viene quando ci scrivono la città: Corleone (PA). E ciò che ci aggiungono dopo: "Anche qui abbiamo le matite colorate". Per me la soddisfazione più bella: perchè mi parla di un mondo in cui la speranza sa rinascere sempre dalle macerie.

La bellissima prefazione porta la firma di Alessandro Zanardi.
Un amico che, assieme a me, conserva intatta e vergine la voglia di accendere i ragazzi. Spesso ultimamente le nostre storie si stanno incrociando: qualcosa vorrà pur dire. La sua è una storia di andata e ritorno: una storia credibile perchè pagata sulla pelle e impreziosita da una sublime risalita. Non ci poteva essere prefazione più azzeccata per un piccolo lavoro che sogna di diventare il prontuario d'uso per chi ha voglia di non gettare la vita alle ortiche.

Anni fa a Padova c'era il tormentone di don Spritz: ora il suo sacerdozio sta diventando una realtà ben più creativa. Che aggrega, provoca e s'interroga. Da indiscrezioni giunge voce di un grossissimo lavoro già comperato da un colosso dell'editoria che dovrebbe uscire a fine anno.
La ringrazio. Anche don Spritz matura: siamo tutti dentro l'evoluzione della specie. Qualcuno poi viene modificato geneticamente da Dio e allora la creatività è la dote che gli viene data in cambio. Non rinnegherò mai quel soprannome; dietro ci sta la simpatia e l'affetto di centinaia di giovani. Con i quali un giorno ci ritroveremo per raccontarci la vita. Magari sotto lo stello cielo della terra veneta. Per quanto riguarda il futuro c'abbiamo una grande fortuna tra le mani.

Quale?
Che in un tempo di grande crisi economica, le aziende che hanno voglia di investire non cercano più le contraffazioni o i duplicati ma vanno in cerca di intuizioni originali, creative e fresche. La nostra fortuna è che quando capitano le occasioni c'abbiamo qualcosa da poterci giocare. E la nostra passione viene premiata: molto spesso al di là delle aspettative. D'altronde da noi c'è un solo cartello affisso davanti al cantiere: "lavori in corso". Sempre quello, il più creativo. Eppoi la fotocopiatrice non è il nostro strumento preferito: preferiamo la bottega dell'artigiano dove tutto ciò che esce non è mai "in serie".

Bella questa scuola. Per un giorno via le algebriche supposizioni, le matematiche certezze, la letteraria sapienza: Omero e Talete, Anassimandro e Caravaggio, Kuiper e Agostino. La Commedia, Mozart e l'atletica. I diagrammi, gli insiemi, i teoremi e gli assiomi. Le dimostrazioni, il registro, la pagella. E in cattedra sale la nostra esistenza.
Chi firma questa intervista è pure lei una degli asini battezzati da tale sacerdote. Ma essere asini creativi in un mondo di geni noiosi è una sfida intrigante. Perchè, magari sbagliando per inesperienza, potremmo sempre custodire la bellezza d'averci provato.
A tenere accesa la speranza!


Il problema omosessualità nella Chiesa esiste, il Papa lo aveva segnalato. Maggior selezione nei seminari. I giornali speculano, ma alcuni preti forniscono loro buini elementi. Danneggiano la credibilità della Chiesa - Bruno Volpe intervista Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
Lo scandalo dei preti gay e delle loro notti brave, ha destato clamore come era prevedibile. Ne parliamo con il professor Massimo Introvigne, sociologo ed autorevole esperto di cose di chiesa, garanzia di serietà e rigore. Professor Introvigne, la ha turbata la cosa?: " certo, da cattolico non mi ha fatto piacere, ma in fondo hanno scoperto l' acqua calda". In che senso scusi?: " che l' omosessualità fosse presente anche nel clero era noto da tempo e non vi é da sconcertarsi essendo una cosa onnipresente e trasversale. Indubbiamente se queste condotte vengono tenute da un uomo di chiesa obbligato alla castità é maggiormente sconcertante. Però il Papa attuale questo problema lo aveva evidenziato da tempo sollevando le ingiustificate proteste dei soliti ben pensanti ed invece aveva ragione lui". A che cosa si riferisce?: " al fatto che l' accesso ai seminari deve essere maggiormente rigido, che vanno vagliate con accuratezza le tendenze omosessuali dei candidati non per una discriminazione, ma per evitare che domani questi soggetti possano fare danni nell' esercizio del loro ministero sacerdotale".

Alcuni Vescovi infatti sottolineano la scarsa selezione oggi nell' ingresso ai seminari: " é vero ed hanno ragione, il vero nodo é quello e di chi pensa al sacerdozio come ad una sistemazione e basta, dimenticando che il sacerdozio é una missione. Pertanto condivido la durezza del comunicato del Vicariato di Roma che non poteva dire cose differenti. I preti non possono tenere i piedi in due scarpe, o servono correttamente Dio o stanno a casa e si cercano se ci riescono, un altro lavoro".

Questo fatto pensa possa aver danneggiato la credibilità della Chiesa?: " apparentemente direi di sì, almeno a, leggere certe reazioni superficiali. Ma per dare una risposta credibile e seria occorre fare analisi sul lungo periodo e non indagini da rotocalco televisivo, sia pur effettuate da persone autorevoli".

Che cosa pensa dell' atto di Panorama?: " non benevolo e dettato forse da maligne idee, del resto in estate quando mancano gli argomenti seri, si ricore al gossip per vendere. Detto questo, i sacerdoti e la chiesa sono vittime di malevolenza, ma devono anche evitare con prudenza di cadere in condotte vere e innegabili che si prestano alle maldicenze. Mi riferisco ad un caso di Rimini in cui un prete prendeva il sole nudo. Non era la fine del mondo, ma la cosa era vera. Dunque poteva benissimo risparmiarsi la condotta, per lo meno sconveniente e dettata da colpo di sole, visti i titoloni deicati dalla stampa locale al fatto".


Dimenticare o perdonare? - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 luglio 2010
Durante lo scandalo del Watergate, un importante commentatore politico (di cui non ricordo il nome) disse che, con il moralismo usato nell’investigare sui peccati di Nixon, neppure San Francesco d’Assisi avrebbe potuto essere presidente degli Stati Uniti.

Questa affermazione mi ritorna spesso alla mente seguendo le audizioni al Senato dei candidati alla Corte Suprema, e continuo a meravigliarmi di come, di fronte a un esame così minuzioso di qualsiasi cosa uno abbia scritto, detto o fatto, vi sia ancora qualcuno disposto ad accettare queste candidature.
Oggi la situazione è decisamente peggiorata, come dimostrato in un interessante articolo di Jeffrey Rosen su The New York Times Magazine di domenica scorsa, dal titolo “La fine del perdono.”
Il problema per i peccatori oggi è internet. Per dirla semplicemente: a quanto pare, qualunque cosa venga messa in internet, qualunque cosa venga fatta per nascondere la propria identità quando si naviga o si chiacchiera in internet, rimarrà lì per per omnia saecula saeculorum, senza apparentemente alcuna possibilità di cancellarla (è deprimente pensare che nell’anno 3010 le mie capacità letterarie e di analisi verranno giudicate su articoli come questo!).
Rosen sintetizza il problema così: “Sappiamo da tempo che il web consente, in un modo mai sperimentato in precedenza, voyeurismo, esibizionismo e indiscrezioni più o meno volontarie, ma stiamo solo ora iniziando a capire quali costi comporti un’epoca in cui così tanto di quanto noi diciamo, o gli altri dicono su noi, rimane permanentemente sui nostri, pubblici, file digitali. L’incapacità di dimenticare di internet minaccia, quasi a un livello esistenziale, la nostra capacità di controllare le nostre identità, di conservare la possibilità di reinventare noi stessi e di ripartire da capo, di superare il nostro altilenante passato.”
Rosen prende in esame anche i tentativi per risolvere il problema di “giuristi, esperti di tecnologia e cibernetici” nella lotta “con la prima grande crisi esistenziale dell’era digitale” (la soluzione che preferirei sarebbe una dichiarazione di “Bancarotta reputazionale”. Personalmente sono pronto a qualcosa di simile già da lungo tempo!).


Questo problema appare particolarmente pericoloso per l’ideale americano del “self-made man.” L’America si è costruita sulla possibilità di sfuggire al peso di essere definiti a priori dal luogo di nascita, dalla “tribù” di appartenenza, dalla classe sociale di provenienza, ecc., per creare da zero una nuova identità, modificando le proprie scelte di vita secondo le necessità o i propri desideri.
È questa capacità che ora viene minacciata da fenomeni quali Facebook, Twitter e altri strumenti di “social networking” (non usando nessuno di questi, sfortunatamente i miei dati non potranno essere trovati alla Biblioteca del Congresso di Washington, dove sembra approdi il materiale di Twitter).
Non voglio però scherzare su questo problema. Rosen fornisce esempi commoventi di vittime di questa situazione e mi dispiace che l’articolo non vada di più al fondo di questa crisi. Il problema sta nel modo in cui concepiamo la possibilità di costruire la nostra identità. La nostra identità di esseri umani è definita dal rapporto con il Mistero infinito che ci crea e ci sostiene in ogni secondo.
Questo Mistero è diventato un Uomo, Gesù Cristo, morto proprio per distruggere la nostra identità di peccatori, di nemici del Mistero, e renderci una nuova creazione dello Spirito Santo, dandoci una nuova identità come figli e figlie in Lui, l’unico beneamato Figlio del Padre. La secolarizzazione di questa esperienza di perdono del peccato, di redenzione, è ciò che ha portato al bisogno di dimenticare, ora però diventato apparentemente impossibile.
Solo in Cristo possiamo trovare il trionfo del perdono sulla dimenticanza.


IL FATTO/ Il Regno Unito permette ai musulmani di trattare i ciechi peggio dei cani - Gianfranco Amato - mercoledì 28 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Scene di ordinaria intolleranza nella Londra multiculturale. Questa volta è toccato a quei ciechi che si sono visti sbattere in faccia le porte di bus e taxi, perché accompagnati da cani-guida. Il fatto è che proprio quegli animali, considerati dai britannici i migliori amici dell’uomo, sono ritenuti dalla legge islamica “najis”, esseri impuri, il cui contatto implica per il musulmano devoto la cosiddetta “najasat”, ovvero una condizione giuridico-religiosa che gli impedisce di accedere ad alcuni atti rituali. L’ultimo dei malcapitati, George Herridge, pensionato cieco di settantatre anni che vive con la moglie Janet a Tilehurst, quartiere di Reading, si è rivolto al quotidiano Daily Mail per raccontare le disavventure in cui è incorso a causa del fido Andy, un Labrador nero.

Per ben due volte, infatti, al pensionato guidato da Andy è stato impedito l’accesso al bus pubblico. La prima a causa del rifiuto di un conducente musulmano, e la seconda a causa di due passeggere, una donna islamica e la propria figlia, che alla vista dell’animale impuro sono state colte da un attacco isterico. Il povero Mr. Herridge, peraltro, è avvezzo a simili scene d'intolleranza, cui è costretto ad assistere anche quando si reca in ospedale o al supermercato. La Guide Dogs for the Blind Association, l’associazione dei cani-guida per ciechi, e la National Federation of the Blind (NFB), la Federazione Nazionale Ciechi, hanno confermato che questo problema è assai più diffuso di quanto si possa immaginare e sta «sempre più degenerando».

Jill Allen-King, portavoce della NFB, ha confessato di essere stata ripetutamente lasciata sul marciapiede da tassisti musulmani che si rifiutavano di far salire a bordo dell’auto il suo cane-guida. Un giorno che tentò, invano, di forzare il blocco, fu persino insultata dal tassista, il quale le gridò che, a causa del suo cane, lui avrebbe dovuto tornare a casa e ricorrere alle abluzioni rituali per eliminare la najasat. I guai tra cani e islam non riguardano, però, soltanto le persone non vedenti. E’ capitato anche a Judith Woods, giornalista del Telegraph, che lo scorso 22 luglio ha scritto un commento sulla vicenda.
«In due occasioni, la scorsa settimana - ha raccontato la giornalista - il mio cane si è visto sbarrare le porte dei bus londinesi, non perché sia particolarmente pericoloso, ma per ragioni squisitamente religiose». Il motivo del primo altolà, infatti, era dovuto al fatto che sull’autobus vi fosse una donna musulmana. Non è stata neppure concessa la possibilità di fare delle rimostranze, perché al primo tentativo di protesta le porte del bus si sono chiuse ed il mezzo è partito. La Woods è stata particolarmente sfortunata quel giorno, perché quando è arrivato il secondo autobus, si è vista opporre un successivo rifiuto. Questa volta il problema era l’autista islamico.


«Io so che i musulmani - ha scritto Judith Wooods nel suo articolo - considerano i cani come animali impuri, ma il nostro non è un Paese musulmano, e la società dei trasporti londinesi non è un’organizzazione confessionale». «Io sono cattolica - ha proseguito la giornalista - ma non mi sognerei mai di pretendere che venga imposto il divieto di salire sugli autobus alle persone divorziate». Judith Woods ha confessato di aver avvertito una sorta di «latente forma di intolleranza, mascherata da devozione religiosa». Il fenomeno, tra l’altro, ha assunto un tale rilievo da meritare persino l’attenzione della House of Lords, grazie ad un’interrogazione parlamentare presentata, lo scorso 13 luglio, da Lord Monson.

Il Ministro dei Trasporti, Norman Baker, ha riferito, in proposito, che ai possessori di cani può essere legittimamente richiesto di non salire sugli autobus pubblici, qualora gli animali dovessero creare disagio. Tuttavia, ha precisato che un rifiuto fondato su motivazioni religiose apparirebbe, in effetti, «more questionable», un pochino più opinabile. Il tema della najasat dei cani sta diventando, in Gran Bretagna, un ulteriore elemento di frizione nel tormentato rapporto con la comunità islamica. Ricordo, ad esempio, la vicenda della Polizia del Tayside, regione scozzese, che tempo fa lanciò una campagna pubblicitaria per diffondere il proprio numero di telefono, utilizzando delle cartoline postali in cui era riprodotta l’immagine di un simpatico cucciolo di cane poliziotto.
Tanto bastò per far infuriare la locale e nutrita comunità musulmana, al punto che, dopo la formale protesta di Mohammed Asif, consigliere comunale della città di Dundee, la Tayside Police ha dovuto chiedere pubblicamente scusa alla comunità, e dare immediate disposizioni per il ritiro del materiale spedito. Nei confronti dei cittadini britannici musulmani, inoltre, si ha anche il riguardo di non sottoporli al controllo dei cani poliziotto anti-bomba ed anti-droga, proprio a causa della najasat, come ha denunciato il giornalista Tom Whitehead con il suo articolo, pubblicato dal Daily Express, “Sniffers dogs offend muslims”. Tutta questa vicenda, surreale ma sintomatica, impone alcune riflessioni.

La prima è che con i musulmani non si può parlare di “integrazione” di culture. Siamo di fronte a concezioni antropologiche troppo distanti e tra loro inconciliabili. Comunque impossibili da integrarsi. Si può e si deve, in realtà, parlare di convivenza pacifica, di civile coabitazione, di reciproco rispetto, di mutua comprensione, ma non di più. L’islam stesso, del resto, è un fenomeno che non lascia spazi a cedimenti e compromessi, ed appare intrinsecamente strutturato per l’inclusione e non per l’integrazione, come la storia ha ben dimostrato.

E’ sufficiente pensare a cosa è accaduto alle altre culture nei Paesi dove l’islam è oggi maggioranza, e come esso non sia riuscito ad integrarsi nei Paesi in cui rappresenta una consistente minoranza, neppure dopo secoli di convivenza all’interno di uno stesso popolo. Emblematici sono, ad esempio, i casi dell’India, del Kossovo, delle Filippine, della Thailandia. Ha ragione il Patriarca di Venezia, il Cardinal Angelo Scola, quando dice che «siamo “condannati” al dialogo con l'Islam», perché «si tratta di un processo storico che non chiede il permesso, e che può essere orientato ma non evitato».

Giustissimo. Ma per dialogare occorrono due interlocutori con la piena consapevolezza della propria identità, e soprattutto uno Stato che garantisca un grado minimo di tolleranza reciproca, un clima in cui non debbano avvenire episodi spiacevoli come quelli accaduti a Mr. Herridge, perché, altrimenti, tutto rischia di rimanere a livello di astrazione intellettuale, con effetti contrari ai buoni propositi. Il confronto di civiltà, infatti, non avviene nei dibattiti accademici di seminari, conferenze e convegni, ma si realizza soprattutto a livello di vita vissuta.

Il vero incontro non è tra culture ma tra persone concrete che pure hanno la loro cultura ed una propria fede religiosa, e avviene sempre attraverso l’esperienza quotidiana che gli uomini vivono in famiglia, al lavoro, a scuola, nell’autobus. Per questo esiste una precisa responsabilità di chi deve politicamente guidare i processi di incontro tra civiltà diverse, e sarebbe un gravissimo errore assumere atteggiamenti rinunciatari e pilateschi.

E per questo, ancora una volta, ha ragione il Cardinal Scola quando denuncia «la grande lentezza di risposte» degli europei, che lo stesso porporato - mutuando un’espressione dai Cori della Rocca di T.S. Eliot - definisce «un po’ impagliati», e chiusi nell’astrazione di chi ama «discettare nei propri salotti piuttosto che guardare in faccia i processi della realtà e della vita». Con sano realismo, Sua Eminenza ammonisce che il fenomeno di approccio con la cultura islamica «ci riguarda direttamente non solo perché “questi ci vengono in casa”, ma ancor di più perché mancherebbe la grammatica stessa per intenderci, se noi europei ci chiamassimo fuori». Resta, comunque, imprescindibile una delle condizioni “sine qua non” del dialogo: la garanzia e la concreta realizzazione di un clima di tolleranza reciproca. Senza questa condizione il dialogo rischia di diventare un inutile monologo. O peggio, un astuto inganno.


Newman paladino della coscienza - intervista - Il grande pensatore, che sarà beatificato a settembre, cambiò la teologia con una nuova visione storica. Parla il biografo Gilley - «Era critico verso il cattolicesimo liberal: per lui le religioni non erano tutte uguali. - Rivalutò molto il ruolo dei classici» - DA LONDRA SILVIA GUZZETTI – Avvenire, 28 luglio 2010
Sheridan Gilley, autore del saggio Newman and his age, ovvero Newman e il suo tempo , pubblicato dall’editore Darton, Longman and Todd, è uno dei più importanti esperti del famoso teologo che il Papa beatificherà il prossimo 19 settembre a Cofton Park, vicino al cimitero dell’Oratorio di Birmingham dove Newman venne sepolto il 19 agosto 1890.

All’accademico di Oxford, diventato poi pastore anglicano e infine ricevuto nella Chiesa cattolica nell’ottobre del 1845, Gilley ha anche dedicato una serie di articoli e interventi a convegni. Professore di teologia all’università inglese di Durham dal 1978 al 2002, Gilley è uno specialista del cristianesimo e dell’identità irlandese in epoca vittoriana.

Professor Gilley, perché per Benedetto XVI Newman è così importante, tanto che ha deciso di beatificarlo personalmente?

«Perchè Newman è uno dei più grandi teologi del diciannovesimo secolo. Il pensiero ma anche l’azione di Newman ebbero un impatto pubblico notevole. Il suo tentativo di ricattolicizzare la Chiesa di Inghilterra, che partì dall’università di Oxford, dove Newman insegnava, provocò una reazione pubblica molto ampia».

Perché era così famoso che le sue vicende spirituali, il suo passaggio al cattolicesimo per esempio, diventavano un fatto pubblico?

«Penso che molti, atei, anglicani e cattolici potessero ritrovarsi in Newman: egli stesso era stato prima ateo, poi anglicano per poi passare alla Chiesa cattolica. Io stesso ero anglicano, nel 1993 sono diventato cattolico e ho ritrovato molti dei miei problemi in Newman. Fra l’altro va anche detto che scriveva in un modo meraviglioso. Era un grande divulgatore e la sua autobiografia spirituale, l’Apologia pro vita sua,

è stata letta da migliaia di persone».

Quale fu la sua importanza come teologo?

«La grandezza di Newman sta nel fatto che ha studiato i primi Padri della Chiesa e ha saputo spiegare come, da quel nucleo centrale del Vangelo e della Bibbia, si siano sviluppate le altre fondamentali dottrine cristiane.

Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana Newman ha messo a punto un metodo rivoluzionario per spiegare lo sviluppo degli insegnamenti cristiani dando loro una prospettiva storica. Per lui gli insegnamenti contenuti nel Nuovo Testamento impiegano secoli per svilupparsi, attualizzarsi e diventare dottrine e a questa evoluzione contribuiscono spiritualità e liturgia. Per esempio il credo niceno, secondo il quale Gesù è vero uomo e vero Dio, non è una serie di dottrine che vanno comprese solo con la ragione, ma è uno sviluppo spirituale, dell’insegnamento e della liturgia».

Come si trovò Newman nella Chiesa cattolica?

«Si sentiva molto lontano dal partito degli ultramontanisti, forte a quell’epoca, che propugnavano un’autorità fortissima del Papa. Quando nel 1870 venne proclamata l’infallibilità del Papa, Newman S pensava che il momento fosse sbagliato. Eppure l’interpretazione che Newman dette di quella dottrina, i limiti che, secondo lui, l’infallibilità del Papa doveva avere, furono quelli accettati dalla Chiesa cattolica».

Che cosa avrebbe detto di quello che sta succedendo oggi nella Chiesa anglicana d’Inghilterra che si sta dividendo tra chi è a favore e chi è contro l’ordinazione delle donne vescovo?

«Newman era contro una concezione dipendente dal liberalismo che pensa che tutte le religioni si equivalgono e credeva fermamente nell’autorità. Direbbe che quello che sta succedendo dipende dal fatto che la Chiesa di Inghilterra non ha una singola autorità vivente, un centro vivo di autorità come la Chiesa cattolica. Per Newman la Chiesa era altrettanto importante di Gesù ed essenziale al cristianesimo».

Newman viene spesso presentato come il campione della coscienza contro l’autorità. Che cosa ne pensa?

«Penso che sia una interpretazione sbagliata. La sua famosa frase 'brindo alla coscienza prima e poi al Papa' non è stata letta in modo corretto ed è stata usata spesso per dire che Newman preferiva, all’autorità del Papa, quella della coscienza. In realtà Newman è convinto che la coscienza, nella quale crede profondamente, lo porterà sempre alla Chiesa e ad accettare quello che la Chiesa presenta come vero».

Che cosa pensava Newman del rapporto tra fede e cultura?

«Credeva che per il cristianesimo è difficile mettersi in rapporto con la cultura nella quale vive.

Da un lato il cristianesimo deve vivere nel mondo e trovarsi a suo agio in esso perché il mondo è stato creato da Dio. Nello stesso tempo però il cristianesimo deve redimere il mondo. Newman era profondamente consapevole del rischio di essere troppo amici del mondo, ma anche di quello di volerlo cristianizzare a tutti i costi».

Che idea aveva Newman dell’università?

«Newman, che fu rettore dell’Università cattolica di Dublino dal 1851 al 1857, pensava che l’obiettivo principale di una università fosse la diffusione della cultura più che l’insegnamento della religione.

Aveva anche una idea della cultura piuttosto elitaria, tipica dei tempi nei quali viveva. Lo scopo dell’istruzione universitaria era, secondo Newman, di dare, a una particolare sezione della popolazione, accesso alla tradizione classica. Secondo Newman la cultura era soprattutto cultura classica, filosofia, greco e latino ed era questo che costruiva il gentiluomo o la persona colta».

Che cosa pensa dell’ipotesi tanto sbandierata di recente da alcuni media che egli fosse omosessuale, giustificata dal fatto che abbia voluto essere sepolto col suo amico Ambrose St. John al quale era molto legato?

«È una polemica inesistente. Era infatti normale all’epoca che si sviluppassero fortissimi legami tra uomini e che essi volessero essere sepolti insieme. Newman aveva anche molte amiche donne, ma a quel tempo, negli ambienti di Oxford, la maggioranza di insegnanti erano uomini e quindi inevitabilmente si sviluppavano forti amicizie tra uomini. Chi ha studiato il Newman giovane e adolescente si rende conto benissimo che era assolutamente eterosessuale».


martedì 27 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dalla_stampa: Spagna, primo aborto «segreto» per legge - Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010
2) Un metodo infallibile - Come rinnovare la teologia - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)
3) Avvenire.it, 27 luglio 2010 - Oltre la secolarizzazione - Il segno di Duisburg nell’Europa che rivuole catacombe - Davide Rondoni
4) L’ERRORE DI NUSSBAUM CHE PARLA DI «PRIVILEGIO» ANTI-OMOSESSUALE - Per lo Stato il matrimonio ha rilevanza sociale non sentimentale - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 27 luglio 2010
5) IL CINEMA DEI VALORI - In Usa «Blind Side» ha avuto incassi da capogiro e fatto vincere a Sandra Bullock il premio più ambito. Da noi esce solo in dvd. Racconta di un campione di football diventato tale grazie ad una famiglia che l’ha adottato - Il film Oscar sulle adozioni in Italia non si può vedere - Unica proiezione al Fiuggi Family Festival - La tesi della Warner Italia: «È una storia ambientata nel mondo dello sport e da noi certe pellicole non fanno incassi» - DI ILARIO LOMBARDO - Avvenire, 27 luglio 2010

Dalla_stampa: Spagna, primo aborto «segreto» per legge - Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010
Madrid. Si è presentata in una clinica di Barcellona per abortire.
Sola.
I suoi non sanno nulla.
E forse non sapranno mai che la loro ragazza – a 17 anni – la scorsa settimana ha deciso di interrompere una gravidanza senza neppure avvertirli.
È stato il quotidiano La Razon a rivelare la storia (ovviamente del tutto anonima) del primo aborto compiuto in Spagna da una minorenne che non ha informato né genitori né tutori.
Lo prevede la nuova legge del governo di José Luis Rodriguez Zapatero, entrata in vigore il 5 luglio.
Contro la depenalizzazione continuano a fioccare le critiche, soprattutto nel mondo cattolico.
In una lettera pastorale, l’arcivescovo di Burgos, monsignor Francisco Gil Hellin, l’ha definita come una «tirannia» che, «solo in Spagna, ha distrutto più persone delle popolazioni di Saragozza, Cordova e Burgos».
In riferimento all’obiezione di coscienza, l’arcivescovo aggiunge: «Questa legge non è una legge», nessuno «ha il diritto di eliminare un innocente. Dunque, non obbliga. Al contrario, esige un’opposizione frontale e senza distinzioni».
Uno dei punti più spinosi del testo riguarda proprio le minorenni.
A 16 e 17 anni non hanno più bisogno dell’autorizzazione di madre o padre per fermare una gravidanza: vengono trattate a tutti gli effetti come delle donne adulte, nonostante la legge spagnola proibisca loro di comprare un pacchetto di sigarette.
I genitori, in teoria, devono essere informati.
Ma ci sono delle eccezioni: se c’è il rischio di «conflitto» – qualora l’intenzione di abortire generasse violenze o pressioni in casa – l’adolescente non sarà nemmeno obbligata ad avvertire i suoi.
Dovrà soltanto spiegare la sua vicenda al medico, che a sua volta potrà ricorrere ad un assistente sociale o psicologo per capire realmente se dice la verità.
È quello che è accaduto qualche giorno fa a Barcellona.
La 17enne ha parlato di «un conflitto» in casa.
Il medico ha chiamato un assistente sociale, che ha studiato il caso e ha visitato il quartiere della ragazza; qualche giorno dopo ha diagnosticato una «situazione familiare di conflitto» e lo ha detto al ginecologo, che ha deciso di procedere senza informare i genitori.
Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010


Un metodo infallibile - Come rinnovare la teologia - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)
Se alla genesi della teologia sta il mistero cristiano, ed essa si può definire come "intelletto della fede", non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare. Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell'identità. È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, non mai insegnate prima di lui.
Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione. La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata, ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza.
La teologia non si lascia impressionare e condizionare dal mito del divenire e del progresso, consapevole com'è che essa è nata e di continuo rinasce dalle risorse inesauste e immodificabili della Rivelazione che si è compiuta e non si logora, dalla comunione con la Parola di Dio, antica e sempre nuova.
È anche vero che al rinnovamento della teologia può concorrere una nuova filosofia, ma a condizione che essa offra, per così dire, uno spazio più aperto alla prevalenza e all'intelligenza del mistero e che venga esercitata all'interno dell'"intelletto della fede".
È significativo che il geniale storico della teologia medievale, Marie-Dominique Chenu, affermi che "non è l'ingresso di Aristotele a determinare il pensiero di san Tommaso, così come non è la rinascita dell'Antichità a costituire la teologia del secolo xiii". Questa rinascita ne rappresenta soltanto una componente di rinnovamento: il suo impulso e il suo incremento sono assegnati all'"evangelismo", come egli lo chiama.
Senza dire che non potrà mai essere la filosofia a giudicare la validità di una teologia: questo giudizio spetta solo alla Parola di Dio, mentre la stessa teologia potrà giudicare la pertinenza o meno di una filosofia a concorrere all'intelligenza della fede.
Qui, però, non ci interessa illustrare la relazione tra filosofia e teologia cristiana, ma indicare la scelta grazie alla quale questa potrebbe e dovrebbe ricevere un profondo rinnovamento o nuovo assestamento: una scelta del resto imprescindibile, perché fondata sull'evento da cui nasce la fede e quindi l'"intelletto della fede". Questa via è il cristocentrismo. Veramente, non si tratta affatto di una novità. La teologia cristiana ha sempre avuto al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento.
Ma forse questa originaria centralità richiede una traduzione più rigorosa, più coerente e più completa. Anzitutto a partire dalla stessa definizione di cristocentrismo.
Esso non significa soltanto l'eccellenza di Cristo rispetto a tutto il resto, ma la sua predestinazione a essere la ragione incondizionata di tutto quello che Dio ha chiamato e chiama all'esistenza.
Ma occorrono altre imprescindibili e essenziali precisazioni. Quando si parla di cristocentrismo, non si intende solo affermare il primato del Verbo, ma il primato o la "precedenza" nel disegno di Dio del Verbo incarnato, morto e risuscitato mediante il quale, nel quale e in vista del quale, "furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili" (Colossesi, 1, 15-17). Ovviamente, non in alternativa ma come a compimento della prospettiva giovannea, secondo la quale non v'è nulla che non sia stato fatto per mezzo del Verbo (Giovanni, 1, 3).
Il "Primeggiante su tutte le cose" (Colossesi, 1, 18) è, esattamente, il Crocifisso glorificato, che tutto antecede, e da cui tutto diparte. È come dire che Gesù redentore, con la grazia del suo perdono, è il fondamento ontologico e il movente storico di ogni cosa (cfr. Colossesi, 1, 17), l'Oggetto dell'eterno "proposito" di Dio.
La Prima Lettera di Pietro parla del "sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia", "predestinato già prima della fondazione del mondo", "manifestato negli ultimi tempi" (1, 19-20), e quanto ai profeti afferma che "cercavano di sapere quale momento e quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che sarebbero seguite" (1, 11). Ma se Gesù risorto da morte è il Predestinato, vuol dire che la figura di umanità originariamente ideata e "preferita" da Dio è l'umanità glorificata del Figlio, al cui successo è orientata tutta la storia.
In essa ogni umanità trova la sua ragione e il suo modello: tutti gli uomini sono predestinati, creati "in grazia", ossia "predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio, perché egli sia il primogenito di molti fratelli" (Romani, 8, 29).
Noi possiamo definire tutto quanto abbiamo descritto coi termini di Paolo: "Mistero di Dio che è Cristo" (Colossesi, 2, 2), o più precisamente: "Sapiente mistero di Dio", che è "Cristo crocifisso" (cfr. 1 Corinzi, 1, 21. 23). Ebbene, il compito della teologia è l'esplorazione di questo mistero. Chi vi si dedica ha la missione di "parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli" (1 Corinzi, 2, 7).
È da questo "realismo" e su di esso che si edifica la teologia cristiana, a cui non interessa stemperarsi nel mondo dei piani o dei disegni divini ipotetici. Quello che avrebbe potuto fare Dio lo sa soltanto lui. Tutto è stato creato nella grazia di Gesù crocifisso e risorto.
In particolare è stata motivata su quella grazia la natura dell'uomo. Una "natura pura" per un "puro" fine "naturale" non è mai esistita e di essa noi non possiamo sapere nulla.
Di fatto, l'"Originale" che alla sacra dottrina importa anzitutto conoscere e, quindi, il primo àmbito dell'interesse teologico, è il Crocifisso glorioso da sempre Predestinato, e, quindi, la sua vita con i suoi avvenimenti, nei quali avviene la manifestazione, si potrebbe dire, particolareggiata dell'eterno disegno generato e motivato dalla misericordia.
In questo senso la teologia cristiana è originariamente cristica: il Cristo risorto da morte descrive e offre esaurientemente tutto il suo oggetto. Egli è l'Oggetto che si tratta di capire, in quanto concreta e storica "narrazione" del disegno (cfr. Giovanni, 1, 18). È la dimensione che la cristologia deve assumere.
Ma Cristo non ferma a sé: egli è il Figlio e, perciò, è il rimando al Padre, che nessuno ha veduto e del quale è l'Epifania ed è l'attestazione dello Spirito: in lui si ritrova la Trinità, che si rivela come Trinità creatrice e misericordiosa, che sta al principio di un ordine voluto come una iniziativa di misericordia. È l'ordine che il teologo è chiamato a studiare, che riguarda particolarmente l'uomo, che appare però preceduto, prima della sua creazione, da un mondo angelico già segnato da Cristo e dalle decisioni relative a lui: di accoglienza, ma anche di rigetto, ossia di peccato.
In particolare, Cristo ci disvela un Dio che, nel suo amore misericordioso, dona il Figlio, predisposto come perdono del peccato dell'uomo, il quale trova, così, il suo vantaggio non nel venire al mondo, ma nell'essere redento. Come scrive sant'Ambrogio: Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 41-42 ).
La sacra dottrina tratta allora dell'antropologia, cioè dell'uomo esistente unicamente come disposto nella grazia e nella gloria della Croce: una grazia e una gloria in atto nei sacramenti, che Tommaso d'Aquino vede tutta quanta sospesa all'"energia della passione di Cristo" (Summa Theologiae, iii, 62, 5, c). È facile allora avvertire di che cosa tratti l'ecclesiologia: esattamente dell'umanità che sale dalla Pasqua di Cristo e si trova configurata e intimamente associata al Signore risorto da morte. Quanto all'escatologia, essa è l'esplorazione della gloria e quindi del successo del Crocifisso: una gloria che trascende e attrae la storia ed è il fine per cui l'uomo e con lui tutte le cose sono state create e volute dall'eternità.
Se è vero che la teologia cristiana ha sempre fatto questo, riterrei tuttavia che sia possibile, anzi necessario, ricentrarla in modo ancora più coerente e approfondito sul cristocentrismo. Ne verrebbe un forte mirabile impulso di rinnovamento, che vanamente si ricercherebbe altrove.
(©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)


Avvenire.it, 27 luglio 2010 - Oltre la secolarizzazione - Il segno di Duisburg nell’Europa che rivuole catacombe - Davide Rondoni
La parata dell’amore, la <+corsivo>love parade<+tondo> si è trasformata in un incubo. In una tragedia. Come se nell’inutile, vano macello di questi poveri ragazzi, tra cui una italiana – bella e sensibile – di 21 anni, ci fosse un marchio strano, un avviso strano di questa epoca strana. Come in altri casi, ad esempio nell’indimenticato stadio Heysel, lo show è andato avanti.

Dopo molte ore, molti delle migliaia dei ragazzi partecipanti non sapevano nulla di quanto accaduto, storditi dal ballo, dal bere e da altro. Ma l’avviso, il segno che leggiamo dentro questo ballare che si trasforma in morte, dentro questa parata che da eccitante si fa morente, non è quello immediato, evidente che hanno colto subito gli stessi organizzatori. Che hanno deciso: mai più. Non è solo un segno, ennesimo, di «eccesso giovanile» su cui non è giusto speculare. E non si tratta solo del segno che qualcuno ha chiamato del fascino della «tribù».

È vero, c’è in questo potente richiamo a radunarsi, a "sentirsi" vicini, a condividere ritmo e corpo, a condividere modi e gergo, sì c’è un segno dell’ancestrale richiamo degli uomini a fare tribù. Richiamo che le esperienze e i mezzi della globalizzazione, la coscienza delle distanze e dei rapidi modi per superarle, non hanno illanguidito, semmai fortificato e reso potente, più esplosivo. Ma c’è di più di quell’antico segno. La parade è un corteo. Una processione. So che storceranno il naso. Ma è così. Si tratta di una ripresa della usanza antica che, sempre a sfondo religioso, ha mosso cortei di ogni genere, per celebrare dei, imperatori o generali che si credono dei, per ringraziare il cielo di vittorie, per supplicare interventi celesti, per la fine di calamità, o per l’arrivo delle piogge.

È un grande rito. Secolarizzato, come dicono, con una parola che vuol dire poco o niente. Che cosa ormai è secolare e cosa no? Davvero ci sono differenze, in questa epoca di suggestioni e di superstizioni?

Il fatto è proprio questo, il segno purtroppo scritto anche con il sangue, come sempre accade quando la nostra attenzione intorpidita deve riscuotersi e guardare. Un grande rito nel cuore d’Europa. Un grande rito che somiglia (nella sua eccezionale differenza) ai grandi ritrovi dei giovani lanciati da Giovanni Paolo II – ancora storceranno il naso quelli di prima. Un rito di una «tribù» che ha come dei le immagini dell’Amore, della Musica, e della loro medesima Tribù. Come antichissimi riti. Che segno, che avviso per coloro che pensano che l’uomo sia progredito abbandonando quei culti e quei riti.

Che segno per coloro che anche sulla pagine dei nostri giornali e nei parlamenti europei si consumano il cervello per mostrare che credere in Gesù Cristo e mostrare segni cristiani sia oscuro e antidemocratico mentre avere altre fedi, altre superstizioni, e sì, altri riti e "parate" no? Che avviso, che segno per tali cervelli torbidi e oziosi. La loro lotta senza quartiere al cristianesimo, alla Croce e al Crocifisso, punta a far scomparire o a far rientrare nelle catacombe i riti cristiani, le processioni, le preghiere. E se si faranno largo – e già si fanno largo – altre processioni, altri riti, uomini dediti ad altri dei?

Altro che secolarizzazione. Come per i primi cristiani si tratta di vivere in un mondo pieno di adoratori. Di riti strani, dai risvolti spesso violenti, di poteri oscuri. Questo il segno che arriva da Duisburg. Lo stiamo leggendo?
Davide Rondoni


L’ERRORE DI NUSSBAUM CHE PARLA DI «PRIVILEGIO» ANTI-OMOSESSUALE - Per lo Stato il matrimonio ha rilevanza sociale non sentimentale - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 27 luglio 2010
Interrogata, nel corso di un’intervista, se avesse intenzione di risposarsi, Martha Nussbaum – tra le filosofe più in voga del momento e non solo negli Usa – elude la domanda, trasformando la risposta in un’indicazione ideologica: qualora tornasse a sposarsi, essa ci dice, cercherebbe di non perdere la consapevolezza di usufruire in tal modo di un «privilegio», negato alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

Ciò che è rilevante in questa risposta non è l’evidente apertura al matrimonio tra omosessuali, ma l’argomento addotto per tale apertura: ritenere il matrimonio eterosessuale un privilegio, che, come tutti i privilegi, andrebbe rimosso, estendendo i benefici di questo istituto a tutti coloro che ne sono esclusi. Ora, che i privilegi siano sempre odiosi e vadano combattuti, va da sé ed è inutile insistere su questo punto. Meno inutile, forse, è ricordare ciò che la Nussbaum sembra aver dimenticato e cioè che i privilegi si combattono non solo estendendoli a chi non ne fruisca, ma anche, ben più semplicemente, abolendoli (come è avvenuto ad esempio in Italia quando quelle antichissime forme di privilegio che si sostanziavano nei titoli nobiliari vennero abolite dalla nuova Costituzione repubblicana).

Se il matrimonio, paradossalmente, venisse abolito (o se se ne cancellasse il rilievo pubblico), gli omosessuali non avrebbe più nulla di che dolersi e quindi più nulla da rivendicare. Ma il vero cuore della questione non è nemmeno questo. Sta, piuttosto, nel fatto stesso che la Nussbaum qualifichi come privilegio il matrimonio eterosessuale. Qui i conti non tornano.

Per ritenere che lo status coniugale costituisca un indebito privilegio a favore degli eterosessuali bisogna infatti ipotizzare che dal matrimonio scaturiscano per i coniugi vantaggi e utili sociali tali da discriminare coloro che dal matrimonio sono esclusi, come appunto gli omosessuali. La verità sta piuttosto nel contrario: è nei confronti dei coniugi che la legislazione moderna in tema di diritto di famiglia tende a mostrare un volto di assoluto rigore, soprattutto quando il matrimonio va in crisi e bisogna regolare le micidiali pendenze economiche e sociali che nascono dal divorzio. Se così non fosse, non si spiegherebbe il dilagare delle convivenze di fatto e la vistosa 'dematrimonializzazione' che caratterizza tutti i Paesi occidentali.

In realtà, ciò che gli omosessuali richiedono non è di poter godere di vantaggi e utili sociali, cioè di una serie di ipotetici privilegi oggi loro negati, ma di uno statuto simbolico, avvalorato pubblicamente dal diritto dello Stato.

Ora, lo Stato non esiste per venire incontro alle esigenze simboliche dei cittadini. Quando le soddisfa è solo perché queste esigenze simboliche corrispondono a esigenze oggettive del bene comune. Così, ad esempio, si può ritenere giusto che una laurea abbia un riconoscimento pubblico (cioè un valore legale), ma non per soddisfare il narcisismo dei laureati, bensì per garantire la società in merito alle specifiche competenze di chi svolga un’attività professionale. Se un uomo e una donna, sposandosi, acquistano il titolo simbolico di coniugi è perché lo Stato ritiene (e ha sempre riconosciuto) lodevole e meritevole di rilievo pubblico non tanto un qualsiasi rapporto affettivo, per quanto intenso, ma lo specifico impegno familiare, procreativo, reciproco e incondizionato di un uomo e di una donna, perché è solo su questo impegno che si fonda l’ordine delle generazioni – e fino ad oggi non si è mai riusciti a dimostrare il contrario.

Nessuno vuol sostenere che ciò che manca al rapporto tra omosessuali sia l’autenticità dei sentimenti (che peraltro può benissimo essere carente anche nel matrimonio eterosessuale): ciò che gli manca è un’obiettiva rilevanza sociale e generazionale. Che questo venga sempre meno capito al giorno d’oggi, anche da parte di un’intellettuale raffinata come Martha Nussbaum, è un segno non piccolo della crisi antropologica della modernità.


IL CINEMA DEI VALORI - In Usa «Blind Side» ha avuto incassi da capogiro e fatto vincere a Sandra Bullock il premio più ambito. Da noi esce solo in dvd. Racconta di un campione di football diventato tale grazie ad una famiglia che l’ha adottato - Il film Oscar sulle adozioni in Italia non si può vedere - Unica proiezione al Fiuggi Family Festival - La tesi della Warner Italia: «È una storia ambientata nel mondo dello sport e da noi certe pellicole non fanno incassi» - DI ILARIO LOMBARDO - Avvenire, 27 luglio 2010

La domanda sorge spontanea: com’è possibi le che un film campione d’incassi negli Stati Uniti, forte di un Oscar per la migliore attri ce protagonista, sia proiettato solo al Fiuggi Fa mily Festival e non trovi spazio nei nostri cinema? «Magie» della distribuzione all’italiana, capace i nizialmente di rifiutare perché «deprimente» un film come The Road , tratto dal l’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, considerato un ca polavoro della letteratura con­temporanea. Ma qui, si è anda to oltre. The Blind Side , il film che ha premiato Sandra Bullock, in un inedito ruolo drammatico, prima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, che ha fatto com muovere famiglie di americani con quella storia, vera, di un gigante buono del football americano e ha rastrellato 255 milioni di euro, quarto incasso assoluto della stagione, in I talia è disponibile solo in dvd, dopo una fugace apparizione su Mediaset Premium. Una scelta in controtendenza, per la pellicola che, nata dal nul la, al botteghino ha scalzato in America addirittu ra i teen vampiri amati da orde di adolescenti, di

Twilight: New Moon.

Resta la domanda. perché questo film che parla di sport e adozione non è degno di arrivare nei cine ma italiani? «D’accordo con la società produttrice del film – ha raccontato Paolo Ferrari, presidente di Warner Bros Italia – abbiamo ritenuto che il sog getto fosse poco adatto al pubblico italiano, che ha sempre mostrato di gradire poco i film sullo sport e in particolare sulle discipline, come il football a mericano, sconosciute nel nostro paese. L’investi mento promozionale per lanciare un film sul mer cato delle sale è diventato gravoso e le previsioni di incasso per Blind Side sconsigliavano di ri schiare

». Insomma, secondo al Warner, agli italiani, popo lo che vive di pane e calcio, non piacciono i film sullo sport. Eppure Invictus di Clint Eastwood, sembra dimostrare il contrario. Quel film, dove il rugby è uno strumento di lotta politica, dove non si gioca soltanto una partita ma si raccontano e mozioni e storie individuali, o collettive (il Suda frica di Mandela) da noi è andato molto bene. E non è l’unico.

Anche in The Blind Side il football è un pretesto. Anzi è il contesto, dentro cui si dibatte il destino di Michael Oher, un grattacielo d’uomo, campio ne dei Baltimore Ravens. Oggi, a soli 24 anni, la sua storia è diventata un libro e un film. La storia di un ragazzo afroamericano di Memphis, orfano di padre e con una madre tossicodipendente, che non ha nulla, se non un futuro di degrado e la staz za per fendere il quadrilatero verde. Alle soglie di un destino senza destino lo salva Leigh Anne Tuohy (Sandra Bullock appunto), assieme al marito e a due figlie. Reginetta della commedia sentimenta le per un’intera generazione, l’attrice ha abban donato impacci romantici e buf fi corteggiamenti, per un ruolo che lei stessa ha definito «impe gnato e impegnativo»: «Ha su bito avuto un significato molto importante per me: perché par la delle mamme, che si occupa no sempre dei figli, naturali o a­dottati, e non importa da dove vengono».

Anne apre la propria casa di bianchi benestanti a quel bambinone triste di co­lore. Lo adottano, gli pagano gli studi, lo seguono e gli fanno coltivare il suo sogno, racchiuso in po tenza nel suo talento innato: il football. Michael a vrà la ribalta, ma soprattutto avrà una famiglia. È la quinta essenza dell’american dream , nella sua versione caritatevole. Il razzismo della povertà bat tuto dalla pietà e dallo sport che è sfida, conqui sta e successo. E, anche se spesso ci sfugge di men te, solidarietà.