venerdì 30 aprile 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana - Sugli abusi sessuali ogni generalizzazione è indebita - Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana, che si conclude oggi a Roma. - di Mariano Crociata - L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010
2) “SPERO CHE I MIEI LETTORI SENTANO IL BISOGNO DI LEGGERE NEWMAN” - Pubblicato un libro di monsignor De Berranger - di Anita S. Bourdin
3) INDIA: ASSASSINATO UN SACERDOTE A MUMBAI - Padre Peter Bombacha gestiva una casa per il recupero degli alcolisti - NUOVA DELHI, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Padre Peter Bombacha, che avrebbe presto compiuto 74 anni, è stato assassinato questa notte a Baboola, a un chilometro dalla casa del Vescovo di Vasai, un'antica città situata nel nord-ovest dell'India.
4) "NELLA SCUOLA CATTOLICA NON ABBIAMO SAPUTO PRESENTARE UN'ALTERNATIVA" - Il Cardinal Cañizares inaugura un congresso sull'educazione cattolica a Valencia
5) PAPA/ Tornielli (Il Giornale): l'abbraccio di Benedetto riscatta gli errori della Chiesa - INT. Andrea Tornielli - venerdì 30 aprile 2010 – ilsussidiario.net
6) Il Consiglio d’Europa ha votato la risoluzione contro la discriminazione sessuale.Volonté e Farina: impostazione sbagliata, ma con i nostri emendamenti ci sono miglioramenti significativi - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 30 aprile 2010

Intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana - Sugli abusi sessuali ogni generalizzazione è indebita - Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana, che si conclude oggi a Roma. - di Mariano Crociata - L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010
L'educazione umana e quella cristiana sono tra loro in un rapporto molto stretto, anche se non vanno confuse, così che un percorso educativo esemplare dà forma indivisibilmente ad un buon cittadino e ad un vero cristiano. Come presbiteri, dunque, abbiamo la responsabilità di avvertire l'intreccio di motivi apparentemente distanti in un servizio ministeriale che edifica la comunità ecclesiale facendo crescere mature persone credenti.
La composizione dei diversi apporti così segnalati dentro un unitario e convergente progetto educativo ecclesiale lascia intravedere un cammino fecondo per i prossimi anni, affidato alla nostra responsabilità e al nostro impegno. Una prospettiva non difforme disegnano altri momenti e temi significativi della vita della Chiesa in Italia. Un primo evento è costituito dal procedere coinvolgente e sistematico della preparazione della prossima Settimana Sociale, in programma dal 14 al 17 ottobre a Reggio Calabria, di cui è imminente la divulgazione del documento preparatorio. Un secondo momento riguarda la pubblicazione del "Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici" (23 febbraio 2010).
Mi sembra importante accennare anche ad una questione che travaglia ormai da decenni la nostra società e che tocca mentalità e cultura diffuse nel nostro Paese: mi riferisco al tema dell'aborto, nel quadro vasto e complesso dell'accoglienza della vita e dei problemi di tipo bioetico ad essa connessi, a cui non ha mancato di fare ripetuti riferimenti Benedetto XVI nel suo magistero anche recente. Ho voluto richiamare questo punto perché proprio nell'ultimo periodo è stato autorizzato l'uso della pillola ru486, seppure solo in regime ospedaliero. Inoltre è nota la produzione di farmaci il cui effetto consiste nel cancellare preventivamente ogni traccia di eventuale concepimento, con il risultato che la donna che ha assunto tali sostanze non saprà se sia avvenuta una fecondazione.
La questione educativa è a suo modo interpellata dai gravi e tristi episodi di pedofilia che hanno coinvolto alcuni ecclesiastici e hanno suscitato una vasta eco mediatica. Probabilmente siamo ancora condizionati dalla impressione suscitata dal flusso continuo di notizie e commenti. Tuttavia, sia pure consapevoli della delicatezza e della complessità del tema, dobbiamo cercare di condurre una riflessione pacata e il più possibile oggettiva. Il rischio è quello delle estremizzazioni e degli unilateralismi: da una difesa per partito preso e dalla giustificazione assolutoria al colpevolismo e al giustizialismo. Bisogna anzitutto correggere, tra i tanti, un luogo comune ricorrente, che vorrebbe il magistero ecclesiastico fino all'altro ieri tollerante verso certe pratiche, quando invece la condanna esplicita della pedofilia non è cosa di oggi, ma va ricondotta almeno a documenti del 1922 e del 1962, che ne stigmatizzavano in maniera inequivocabile la natura criminosa e aberrante. Chi ha favorito atteggiamenti di indulgenza o pratiche di rimozione non ha mai applicato direttive di Chiesa, ma semmai le ha tradite, stravolgendo la doverosa riservatezza in complice copertura.
Senza dubbio c'è stata una evoluzione nella sensibilità sociale, che ha portato da un lato ad una più netta e condivisa percezione della inaudita gravità della pedofilia e dall'altro all'esigenza di una totale trasparenza nella individuazione e nel contrasto di comportamenti e responsabilità. Si tratta di una evoluzione positiva, che ha trovato una risposta adeguata e pronta nei documenti emanati sotto il pontificato di Giovanni Paolo ii, e, più recentemente, nella "Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda" (19 marzo 2010) di Benedetto XVI e nella "Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali" (12 aprile 2010).
Bisogna dire però che l'evoluzione della sensibilità comune si muove, purtroppo, dentro una interna contraddizione etica e culturale che non può essere occultata. Infatti, pur senza evocare le posizioni estreme di chi vorrebbe legittimare dal punto di vista culturale la pratica della pedofilia e avendo presente la diffusione incontrollata di pratiche e di immagini connesse con la pedofilia, non è improprio osservare che la cultura pansessualistica ed edonistica tanto diffusa non aiuta certo a sviluppare il senso del rispetto delle persone, specialmente delle più fragili e indifese, ridotte a oggetto di desiderio e di piacere.
Posto che un solo caso di pedofilia è già di troppo, in qualsiasi ambiente, un tale comportamento è doppiamente condannabile quando a metterlo in atto è un uomo di Chiesa, un prete, una persona consacrata. Per questo non basta dire che, in proporzione numerica, i casi di pedofilia tra il clero sono uguali o addirittura inferiori a quelli che si verificano in altre categorie di persone. Non possiamo infatti sorprenderci se la reazione di fronte ad abusi commessi da ecclesiastici è stata così forte. Noi stessi siamo cultori della grandezza e della elevatezza del ministero che ci è stato affidato, e desideriamo diffondere questo senso di sacralità nei fedeli e attorno a noi: è comprensibile che chi ci incontra si aspetti dal sacerdote un comportamento corrispondente. La rabbia e l'amarezza hanno un significativo rapporto con la consapevolezza dell'alta qualità morale e umana del clero, nonché con l'affidabilità maggiore da noi offerta e attesa dagli altri, particolarmente in rapporto ai minori consegnati alla nostra guida e alla nostra responsabilità educativa. Le aspettative più alte alimentate dal nostro ministero rendono smisuratamente più intollerabile e condannabile un tradimento così grave e devastante.
Detto questo, è doveroso aggiungere che ogni generalizzazione è indebita, e precisamente nelle due direzioni: nel far credere che in ogni prete si celi un potenziale pedofilo o, all'opposto, nel supporre che le accuse di pedofilia siano soltanto il frutto di un complotto architettato contro la Chiesa. Il fatto che qualche giornale o gruppo di pressione abbia intentato una campagna denigratoria, prendendo spunto da alcune notizie, non può far concludere che si tratti soltanto di una montatura mediatica. D'altra parte, l'emergere di casi puntuali non può dare adito a giudizi sommari, di per sé sempre superficiali. È necessario, invece, attenersi il più possibile ai fatti, senza lasciarsi sopraffare dal clamore delle notizie ad effetto né da un acritico garantismo, profondamente ingiusto rispetto alle vittime, che sono - non dimentichiamolo - nostri fratelli e sorelle nella fede e nella Chiesa.
Ci troviamo di fronte a persone da tutelare e da accompagnare: qui sta la sfida e la difficoltà di una condizione umana che interpella la responsabilità di tutti. Le vittime hanno bisogno di giustizia e di solidarietà; necessitano di essere protette e difese e poi accompagnate in un lungo cammino di recupero e di riconciliazione anzitutto con la loro storia. Dall'altra parte, anche gli autori degli abusi vanno accompagnati, senza falsa pietà, in un percorso di correzione e di contenimento che impedisca la reiterazione del male e ne favorisca il processo di redenzione.
La comunità cristiana, in tutto questo, si trova in una posizione peculiare, poiché è doppiamente colpita e danneggiata nei suoi membri, sia offensori che vittime; ma è ferita anche nella sua immagine pubblica in ordine all'esercizio della sua missione pastorale. A tutto ciò essa deve rispondere secondo lo stile di verità che le è proprio, ovvero secondo giustizia e misericordia. Ciò esige solidarietà e sostegno alle vittime, rigore e accompagnamento - nel rispetto delle leggi della Chiesa e dello Stato - verso chi si è reso responsabile di abusi, purificazione e penitenza al proprio interno, coraggio e rinnovato slancio nel condurre la propria missione.
Sempre, nel corso della storia, la Chiesa scopre nella prova di essere depositaria di una grazia, di una forza, di una integrità che non vengono dai suoi membri, ma dall'alto, cioè dal Signore. Perciò questo momento deve essere affrontato con coraggio e secondo verità. Non si deve aver paura di evidenziare e togliere il male di mezzo a noi, ma nello stesso tempo non si deve aver paura di annunciare il Vangelo. Si può aver vergogna di se stessi, ma non del Vangelo. E naturalmente, per non vergognarci del Vangelo, dobbiamo adoperarci per aderirvi con il cuore e con la vita, con tutto di noi stessi.
In conclusione, ritengo che si debbano avere due tipi di attenzioni. La prima riguarda la necessaria interazione e distinzione fra tre ambiti: lo spazio della giustizia umana, la competenza delle scienze, il regime della grazia e il suo ordinamento ecclesiale; in altre parole, il delitto, la malattia, il peccato. Di una persona che si macchia di abusi su minori può essere detto - ma va distintamente verificato - che ha compiuto un delitto, che è malata, che ha peccato. Una tale persona ha bisogno di sottoporsi alla giustizia, alla cura, alla grazia. Tutte e tre sono necessarie, ma non possono surrogarsi, sostituirsi, compensarsi: la pena per il delitto non guarisce né dà il perdono, ma anche, all'inverso, il perdono del peccato non guarisce la malattia né adempie le esigenze della giustizia, così come la cura non può sostituire la pena né tanto meno rimettere il peccato. Le indicazioni che vengono dalla Chiesa vanno proprio nella direzione della armoniosa interazione fra i tre livelli. C'è da sperare che, al di là delle polemiche mediatiche, si sia capaci di suscitare la cooperazione necessaria a lenire, se non a guarire, ferite così profonde.
Quanto alla seconda attenzione, la vicenda della pedofilia, come indicato da Papa Benedetto XVI, deve costituire l'avvio di un percorso di purificazione e di rinnovamento profondo all'interno della Chiesa. Questo rinnovamento richiederà alcune condizioni. La prima è una particolare diligenza nel discernimento vocazionale dei ministri e delle persone consacrate e nella loro preparazione e formazione al ministero e alla consacrazione. Una seconda condizione è che l'esercizio dell'autorità nella Chiesa assicuri permanentemente una elevata qualità umana, spirituale, intellettuale e pastorale in chi esercita un ministero e, nello stesso tempo, vigili con senso di carità e di responsabilità. Una terza condizione tocca ciascuno di noi, chiamato a fuggire dalla tentazione dell'individualismo e della chiusura nel privato, per vivere la fraternità ministeriale, religiosa ed ecclesiale, in modo da sviluppare l'evangelica correzione fraterna: essa ci sostiene potentemente in quel cammino di santità, che è il senso dell'esistenza cristiana in ogni stato di vita.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010)


“SPERO CHE I MIEI LETTORI SENTANO IL BISOGNO DI LEGGERE NEWMAN” - Pubblicato un libro di monsignor De Berranger - di Anita S. Bourdin

LIONE, mercoledì, 28 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Mi auguro che, leggendo il mio libro, i lettori sentano il bisogno di leggere gli scritti dello stesso Newman”, dichiara il Vescovo emerito della diocesi francese di Saint Denis, monsignor Olivier de Berranger, in questa intervista rilasciata a ZENIT.

Il presule sottolinea il carattere “mariano” del “processo” di Newman: Maria “è per noi simbolo, non solo della fede dei più semplici, ma anche di quella dei dottori della Chiesa”.

Buckingham Palace ha annunciato che Benedetto XVI si recherà in visita nel Regno Unito dal 16 al 19 settembre 2010 e che presiederà, a Coventry, la Messa di beatificazione del cardinale John Henry Newman.

In vista di questa beatificazione, la casa editrice Ad Solem ha recentemente pubblicato un libro atipico: “Par l'amour de l'invisible, itinéraires croisés de John Henry Newman et Henri de Lubac” [Per amore all’invisibile, itinerari incrociati di John Henry Newman e Henri de Lubac, n.d.r.].

In questa opera, monsignor De Berranger propone un approccio originale al pensiero del cardinale Newman e alla sua attualità.

Come ha pensato all’idea di abbinare le figure di Newman e di de Lubac?

Monsignor De Berranger: È l’editore che avvicina le figure di questi teologi nella copertina del libro, attraverso due foto che li ritraggono intorno ai loro 70 anni di età.

Newman (1801-1890) e de Lubac (1896-1991) non appartengono allo stesso secolo, né allo stesso Paese. Uno è oratoriano, l’altro è gesuita.

Ma il pensiero del primo ha esercitato un’influenza che anticipa il Concilio Vaticano II (1961-1965).

Il secondo, che ha partecipato al Concilio come esperto, non ha esitato ad apportarvi ciò che è stato “l’evento spirituale” del Movimento di Oxford, del quale Newman è stato uno dei principali esponenti, nella speranza di rinnovare la Chiesa in Inghilterra tra il 1833 e il 1843, quando vedeva in essa una “via mediana” tra il Protestantesimo e ciò che egli considerava una tendenza alle esagerazioni superstiziose del “romanismo”.

Approfondendo, a partire dallo studio dei Padri della Chiesa, la questione dello “sviluppo della dottrina cristiana”, si è reso conto che la verità nella sua pienezza si trovava nella Chiesa cattolica e ha deciso di “arrendersi” e di aderire alla Chiesa romana il 9 ottobre 1845.

Perché padre de Lubac aveva letto l’opera del cardinale Newman con tanta attenzione?

Monsignor De Berranger: Perché vedeva in lui un teologo, il cui pensiero – al pari dei tedeschi Johannes Adam Möhler (1796-1838) e Matthias Joseph Scheeben (1835-1888) – avrebbe potuto contribuire a rinnovare la vita della Chiesa.

E ciò attraverso influenze contrarie al modernismo, condannato da San Pio X nel 1910 e attraverso il neotomismo, che troppo spesso gli sembrava una cattiva risposta alle domande rivolte alla fede cristiana dai nostri contemporanei, perché prigioniero di formulazioni astratte e lontane dalla tradizione patristica ... e dallo stesso San Tommaso d’Aquino.

Ciò che de Lubac apprezzava in Newman era la purezza della fede, unita a un’acuta comprensione delle esigenze della cultura scientifica.

Inoltre, esisteva tra Newman e de Lubac un’altra affinità, oltre al fatto di essere stati nominati cardinali verso la fine della loro vita, il primo da Leone XIII, l’altro da Giovanni Paolo II (come Journet, Daniélou, Congar, Grillmeier,...): un’affinità di tipo spirituale.

Entrambi hanno cercato di essere umili interpreti della fede più radicata nella Tradizione.

Lei parla della loro “passione volta a far amare la Rivelazione cristiana ai suoi contemporanei”. Cosa hanno, in definitiva, in comune?

Monsignor De Berranger: Appunto, la stessa sensibilità verso la Rivelazione, quella che la costituzione conciliare Dei Verbum metterà in rilievo, completando in qualche modo la costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I (1870).

Entrambi hanno una conoscenza molto profonda della Scrittura nella storia, in cui il Verbo incarnato costituisce la chiave interpretativa.

Ma non si tratta di una pura dichiarazione di principi. È, sia per l’uno che per l’altro, una fonte di santità, perché secondo il motto del cardinale Newman, “cor ad cor loquitur” (il cuore parla al cuore).

Questo è il vero rapporto tra il credente e Cristo, che deve diventare il rapporto del credente con tutti, con il proprio fratello, che egli desidera portare all’amore verso Colui che si rivela per mezzo della Chiesa.

Come sottolineato da Newman, senza certezza non esiste possibilità di santità. Ciò non vuol dire che la fede non venga mai messa alla prova dal dubbio, come un cammino spirituale attraverso l’aridità, ma che l’intelligenza deve potersi fondare su un assenso molto fermo a Cristo, secondo la confessione di Pietro, roccia della Chiesa.

Perché Benedetto XVI ha tanto interesse a far conoscere Newman a tutta la Chiesa? Il Papa non solo ne promuove la beatificazione, ma presiederà egli steso la cerimonia, che non si svolgerà a Roma!

Monsignor De Berranger: Tutti sono d’accordo nel riconoscere in Benedetto XVI un grande teologo.

Non so quante volte egli abbia citato Newman nelle sue numerose opere. Ma poiché egli si è abbeverato alle stesse fonti della grande Tradizione e poiché come de Lubac, suo contemporaneo, ha letto l’opera di Newman, ha riconosciuto la sua santità nella ricerca della verità a qualunque costo.

Penso di poter dire che Newman rappresenti per Benedetto XVI una testimonianza della stessa levatura di una Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) per Giovanni Paolo II.

E, insieme a molti altri, spero che l’uno e l’altra siano dichiarati dottori della Chiesa.

A lei, personalmente, cosa le piace di più di Newman? Cosa ha voluto comunicare ai suoi lettori?

Monsignor De Berranger: Mi piace l’uomo e l’opera nella sua integrità. Mi consenta di citare un passaggio celebre del suo quindicesimo sermone universitario pronunciato a St. Mary di Oxford, quando era ancora un chierico anglicano.

Meditando sul versetto di Luca 2,19 (Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore), dice: “Maria è il nostro modello nella Fede, non solo nella ricezione, ma anche nello studio della Verità divina. Ella non si accontenta di accettarla, vive in essa; non le basta possederla, si serve di essa; sottomette la propria ragione, ma ragiona sulla fede, certamente non razionalizza prima, per poi credere, come Zaccaria, ma prima crede senza ragione e poi, con amore e rispetto, ragiona su ciò che crede. Pertanto, ella è per noi simbolo, non solo della fede dei più semplici, ma anche di quella dei dottori della Chiesa, che devono cercare, soppesare, definire, oltre che professare il Vangelo; per tracciare una linea tra la verità e l’eresia; per anticipare o rimediare alle aberrazioni di una falsa ragione, per combattere con le armi giuste (quelle della fede) l’orgoglio e la temerarietà e per trionfare sul sofista e l’innovatore” (2 febbraio 1843).

Mi auguro che, leggendo il mio libro, i lettori sentano il bisogno di leggere gli scritti dello stesso Newman, per rafforzarsi in questo processo “mariano”, ecclesiale, perché radicato nelle origini del Cristianesimo.

Sarà presente alla beatificazione?

Monsignor de Berranger: Rispondo come i romani: “Se Dio vuole, certo”.

I suoi studi sul cardinale Newman e sul cardinale de Lubac l’hanno aiutata nel suo ministero?

Monsignor De Berranger: Vorrei citare in particolare due opere che mi hanno particolarmente ispirato. Una mentre ero in Corea, l’altra mentre ero Vescovo di Saint-Denis in Francia.

In Corea, è stata la “Grammatica dell’assenso” che mi ha aiutato a inculturarmi in un’area così diversa dall’Europa.

Newman non si mostra solo preoccupato per “la fede dei più semplici”, per dimostrare coerenza profonda, ma dispiega una straordinaria sensibilità per l’influenza delle culture nell’espressione di una medesima fede.

E proprio nel momento in cui monsignor Tagliaferri, allora nunzio in quel Paese, mi ha detto che ero stato nominato alla sede di Saint-Denis, dovevo preparare una conferenza su un’opera apparentemente minore, del padre de Lubac: “Il fondamento teologico delle missioni”.

Ha dimostrato l’unità del genere umano di fronte alla sua fonte originale, creatrice, e si è opposto con vigore, nel gennaio del 1941, alle tesi razziste divulgate dal nazismo.

Questa coincidenza mi ha confortato in un ministero planetario.


INDIA: ASSASSINATO UN SACERDOTE A MUMBAI - Padre Peter Bombacha gestiva una casa per il recupero degli alcolisti - NUOVA DELHI, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Padre Peter Bombacha, che avrebbe presto compiuto 74 anni, è stato assassinato questa notte a Baboola, a un chilometro dalla casa del Vescovo di Vasai, un'antica città situata nel nord-ovest dell'India.
Le cause dell'omicidio sono ancora ignote. Il Vescovo di Vasai, monsignor Felix Machado, ha detto all'agenzia AsiaNews che il sacerdote era un uomo "pieno di fede, che serviva la Chiesa e la popolazione senza discriminazione di caste o di credo; si dimenticava di sé per servire i più poveri e gli abbandonati".
"Noi sacerdoti abbiamo già offerto la nostra vita nel giorno dell'ordinazione", ha detto il presule a Fides. "La nostra vita non ci appartiene, ma è di Dio. Padre Peter oggi è stato accolto dal Signore e dalla Madonna degli Abbandonati (Our Lady of Forsaken), cui era tanto devoto".
"La comunità è sotto shock", ha aggiunto monsignor Machado. Padre Peter attualmente gestiva una casa di recupero per alcolisti che egli stesso aveva creato. Contava sulla collaborazione di molti laici e sulla stima dei fedeli.
Il Vescovo ha detto di non credere che gli autori materiali di questo omicidio siano gruppi fondamentalisti indù: "Prima di tutto perché in questa zona non ve ne sono. Anzi, le relazioni con la comunità indù sul territorio sono ottime".
Molti fedeli si sono recati sul luogo per manifestare indignazione e solidarietà. Le esequie si svolgeranno questo giovedì. Si pensa che vi prenderanno parte circa 10.000 persone.


"NELLA SCUOLA CATTOLICA NON ABBIAMO SAPUTO PRESENTARE UN'ALTERNATIVA" - Il Cardinal Cañizares inaugura un congresso sull'educazione cattolica a Valencia
VALENCIA, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinale Antonio Cañizares, ha riconosciuto che la scuola cattolica non ha saputo presentare un'alternativa e ha sottolineato la necessità che mostri una nuova visione dell'uomo e della donna.
Lo ha fatto questo lunedì inaugurando il III Congresso Internazionale Educazione Cattolica per il XXI secolo dell'Università Cattolica di Valencia San Vicente Mártir, ha reso noto l'ateneo.
"Dobbiamo riconoscere che nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa ed è necessario farlo, perché la scuola cattolica ha una visione dell'uomo e della donna nuova, nella quale ci sono il futuro e la speranza", ha dichiarato.
A questo proposito, il porporato ha invitato a fare un "esame di coscienza" di fronte al fatto che il 30% della società spagnola è stato educato nella scuola cattolica e "non ha un'incidenza di fronte a tutto ciò che sta accadendo nella nostra società".
Questa percentuale "dovrebbe contribuire a far sì che la nostra cultura non sia la cultura della morte e la cultura relativista, ma la cultura dell'amore e della verità che ci rende liberi".
In "tempi di indigenza" e di "crisi di senso e di verità", la scuola cattolica "non può essere neutrale, deve andare controcorrente", ha osservato.
Per il prefetto della Congregazione vaticana, la scuola cattolica deve essere una "scuola rivoluzionaria e libera, perché il mondo ha bisogno di un cambiamento decisivo, senza il quale non ha futuro", di fronte alla "crisi morale e alla perdita dell'orizzonte umano, del senso della vita".
Secondo il Cardinal Cañizares, il male peggiore della società attuale è "non sapere più che cos'è moralmente buono e moralmente valido".
Difficoltà
Analizzando l'attuale momento educativo, il Cardinale ha sottolineato la difficoltà di "educare in una società che ammette l'aborto", con "leggi contro la famiglia" e "una televisione come quella che abbiamo attualmente, in cui si diffonde una visione dell'uomo del tutto contraria alla persona umana".
Si è anche riferito all'"ingiusto" sistema sociale, "con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri".
I sistemi educativi attuali, ha aggiunto, hanno fallito perché "non hanno risposto a sufficienza alla domanda o alle esigenze dell'educazione".
Quanto alla Spagna, il Cardinale Cañizares si è riferito alla legge sull'educazione definendola "uno dei fallimenti maggiori che ha avuto la società spagnola, per il predominio della ragione strumentale, perché non favorisce l'esercizio della ragione per cercare la verità e insabbia le domande fondamentali dell'essere umano".
In questo modo, ha lamentato, "si genera una società come quella che abbiamo, accompagnata da una cultura avvolgente che sta spezzando la nostra umanità".
Gesù Cristo al centro

La scuola cattolica "deve contribuire a una nuova umanità nella sintesi tra fede e ragione", ha proseguito, sottolineando che "al centro della concezione cristiana della scuola cattolica c'è Gesù Cristo, il suo messaggio di salvezza".
Secondo il porporato, nelle scuole cattoliche non deve impartirsi solo un "insegnamento di valori", ma anche l'"arte di vivere" che è alla base dell'evangelizzazione.
"Non bisogna aver paura di essere liberi, perché la scuola cattolica ha la vocazione di trasformare la società", ha detto.
Nel suo intervento, intitolato "L'educazione cattolica: futuro e speranza", il Cardinale ha poi rimarcato l'importanza della "coerenza" dei docenti.
"Non solo insegnanti, ma anche testimoni di ciò che vogliamo offrire, l'arte di vivere, l'umanità nuova", ha indicato.
In questo senso, ha ricordato l'importanza che "Gesù Cristo e la fede non siano un qualcosa di aggiunto, di complementare alla nostra esistenza professionale, ma il nostro essere sostantivo di maestri che sono nella scuola per evangelizzare, il che richiede una formazione molto concreta degli insegnanti".
Il Congresso, in svolgimento a Valencia dal 26 al 28 aprile, tratta l'infanzia come tappa particolarmente significativa del ciclo vitale e base della costruzione della persona, e allo stesso tempo come oggetto prioritario dell'attuale emergenza educativa.


PAPA/ Tornielli (Il Giornale): l'abbraccio di Benedetto riscatta gli errori della Chiesa - INT. Andrea Tornielli - venerdì 30 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Un dramma, lo scandalo pedofilia, che segnerà profondamente la Chiesa per gli anni a venire. Se prima l’errore è stato quello di tacere - dice a ilsussidiario.net Andrea Tornielli, vaticanista de Il Giornale - temendo la divisione e le ripercussioni sociali dello scandalo, ora il rischio potrebbe essere quello di farsi dettare l’immagine da una realtà secolare malata di giustizialismo. Ma Benedetto XVI è andato oltre: ha abbracciato le vittime.
Che idea si è fatto delle possibili conseguenze dello scandalo pedofilia per la Chiesa?
Lo scandalo alimenterà, in Europa, l’opinione pubblica negativa verso la Chiesa. La cosa di cui ci si rende forse poco conto è che queste campagne mediatiche vengono ricordate solo, o quasi, per i titoli dei giornali. Si ha un bel dire di essere equilibrati: purtroppo il messaggio, preconcetto e ingiustamente sommario, che è passato in questo periodo è «preti uguale pedofili» ed è un’opinione che rimarrà ancora a lungo.
Fin da quando è scoppiato lo scandalo, il celibato e finito subito sotto accusa.
Credo che la questione del celibato sia di minore importanza dal punto di vista mediatico, perché interessa solo i preti. Non ne parlo evidentemente dal punto di vista teologico e pastorale. C’è chi vuole mettere in discussione il celibato e coglie ogni occasione per farlo. Mi pare però che i commentatori laici più avveduti si siano guardati bene dal cavalcare la tesi di un presunto rapporto - inesistente nei fatti - tra pedofilia e celibato. Non era scontato.
C’è però una certa componente culturale di tipo «progressista», interna alla stessa Chiesa - alla Hans Küng per intenderci - che non perde occasione per tornare sulla questione del celibato e non rinuncia a proporre una sua concezione, tipicamente mondana, di riforma della Chiesa. È destinata a non fare opinione?
Di questo non sono così convinto. Certo, sono posizioni ben note, vecchie, ma che intercettano ancora un dissenso che esiste e che emerge. E soprattutto non intendono concedere nulla al pontificato di Ratzinger. A mio avviso però celibato e sacerdozio alle donne sono temi che interessano assai più il clero dell’opinione pubblica.
Negli Usa lo scandalo pedofilia del 2002 ha messo in crisi l’educazione dei giovani, distrutto dalla «sindrome del sospetto» verso gli adulti, preti o laici. Nel nostro paese c’è questo rischio?

Da noi la percezione della Chiesa è ancora buona e l’istituzione gode di fiducia. Però è indubbio, ed è un discorso che prescinde dagli scandali della pedofilia, che esiste un problema di comunicazione Chiesa-giovani: è un tema che riguarda il metodo della proposta cristiana prima ancora che aspetti pastorali o morali. A questo si aggiunge la difficoltà da parte dei giovani a riconoscere nella Chiesa un soggetto con cui confrontarsi. La situazione non è tragica come quella degli Usa, eppure ho l’impressione che la realtà italiana sia dipinta come troppo rosea rispetto alla realtà vera della nostra società.
Molti commentatori sottolineano che Benedetto XVI è stato inflessibile con la pedofilia. Le chiedo, provocatoriamente: Giovanni Paolo II no?
Si è passati da un estremo all’altro. Per decenni i casi di pedofilia dentro la Chiesa sono stati affrontati in modo inadeguato, avendo a cuore soltanto di evitare lo scandalo e finendo per insabbiare, senza avere la percezione che la prima missione cristiana era quella di essere vicini alle vittime, e di mettere i preti colpevoli in condizione di non nuocere. Ora, invece, la Chiesa deve guardarsi dal toccare l’altro estremo, quello tipicamente anglosassone della «tolleranza zero», che di cristiano ha ben poco. Al minimo sintomo del problema, ancora prima di accertare le reali responsabilità, la pretesa è di cacciare il colpevole, di ridurlo subito allo stato laicale. Cos’altro?
Ma quali sono secondo lei le reali responsabilità della Chiesa?
Ci troviamo di fronte ad una grave carenza di capacità di governo da parte dei vescovi, che prima non sono stati in grado di abbracciare le vittime e affrontare il problema, e che oggi corrono il rischio di eluderlo: quasi che un prete che ha commesso atti di pedofilia non riguardasse loro, le loro diocesi, il modo in cui questo prete è stato formato, il tipo di paternità che esercitano (o non esercitano) nei confronti dei preti. Perché mi sembra questo il nocciolo della questione: certi vescovi si sono mostrati incapaci di governare perché incapaci di essere veri padri per i loro preti. In questo quadro vanno visti a mio avviso i due pontificati.
E sul piano dei provvedimenti?
È fuor di dubbio che dal 2001, col motu proprio Sacrametorum dignitatis tutela e con i documenti di applicazione successivi, e dopo lo scoppio dello scandalo negli Usa la Chiesa ha preso una posizione decisa e precisa. Bisogna sempre ricordare che durante il pontificato di Giovanni Paolo II l’artefice era Ratzinger. Stanno emergendo in certi casi sottovalutazioni da parte dell’apparato di Curia, ma la linea di Ratzinger è sempre stata quella dell’inflessibilità, e anche talvolta di un minore garantismo. Detto questo, si fa fatica a capire, anche e soprattutto negli Stati Uniti, che la Chiesa non è una Procura della repubblica.
Si proietta sulla Chiesa, insomma, un’attitudine «giustizialista» che è tipicamente secolare e politica.
Sì. Una cosa è il sacrosanto diritto delle vittime di rivolgersi alla magistratura per ottenere giustizia, perché si tratta di reati penali, altra cosa è capire che la Chiesa ha un suo sistema di giustizia e un suo codice di diritto canonico. Oggi si pretende troppo che la Chiesa agisca come una procura, dimenticandosi che la Chiesa è soprattutto qualcos’altro.
Galli della Loggia, sul Corriere, ha scritto che l’«autoriforma» della Chiesa oggi sta nel fatto che essa «si è spogliata di ogni forma di intermediazione verso i suoi membri»: se il peccato non è più coperto è perché la Chiesa ha assunto il punto di vista dell’attuale società su un fatto grave come la pedofilia. Lei che ne pensa?
Ci andrei piano. Innanzitutto non sono pienamente d’accordo nel dare ora una versione di Ratzinger come se il suo ruolo fosse essenzialmente quello del nuovo fustigatore della pedofilia. La Chiesa, pur condannando la pedofilia, non si lascerà irretire da una società ipocrita che la condanna ma che poi accoglie senza batter ciglio discorsi aberranti sulla pedofilia fatti da intellettuali omosessuali che sui giornali vengono recensiti entusiasticamente. A parte questo, per la Chiesa esiste il peccato ed esiste la grazia: anche il peccatore che ha commesso questo peccato terribile può redimersi.
C’è stato allora secondo lei un progresso della Chiesa?

Assolutamente sì. Se negli anni in cui sono stati commessi la maggior parte di abusi la vittima rischiava di essere vista con sospetto, perché poteva apparire come un grimaldello che scardina la compattezza della Chiesa, grazie all’opera di Joseph Ratzinger prima e poi di Benedetto XVI non è più così. È come se finora la Chiesa avesse fatto fatica a capire che il segno che il colpevole lascia nella vittima, rimane. Ed è con quello che bisogna fare i conti. Il dramma non è tanto l’enormità del reato per la società, o per quello che la società pensa della Chiesa, ma la conseguenza di quel reato per la vita di persone che credevano di trovare nella Chiesa accoglienza, misericordia, educazione e hanno invece trovato qualcosa di tremendo.
Il papa a Malta ha incontrato le vittime. E ha pianto.
Il grande insegnamento di Benedetto XVI, con il cuore prima ancora che con la parola, è esattamente questo: il fatto che abbia incontrato le vittime, che abbia pianto con loro. Era la cosa che mancava, e lui l’ha fatta. Solo nell’abbraccio c’è una vicinanza vera con chi porta i segni dell’abuso. Con il suo pianto ha detto che al centro della Chiesa c’è la vittima. E pensare che in Curia alcuni si chiedevano perché mai a Malta il papa dovesse incontrare le vittime.
Julián Carrón ha scritto una lettera a Repubblica, in cui dice che la nostra esigenza di giustizia, essendo infinita, non può essere colmata da alcuna misura terrena. Per questo il papa, nota Carrón, ha detto che solo in Cristo questa sete di giustizia può venire soddisfatta.
Condivido in pieno. Non solo la Chiesa non è un tribunale, ma c’è un male che non potrà mai essere giustificato e ricompensato pienamente dal punto di vista umano. Occorre innanzitutto andare al fondo del problema umano per capire un dramma come questo. Benedetto XVI, con un atteggiamento di profonda umiltà, sta mostrando direi quasi «fisicamente» che noi siamo bisognosi della misericordia di Dio: abbiamo bisogno di un Altro senza il quale non siamo giustificati, non siamo salvati, non siamo redenti. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che la Chiesa trasmette innanzitutto una morale o una filosofia: ecco perché ci sarà sempre qualcuno a dire che la Chiesa non ha fatto abbastanza.


«Riconoscere le coppie gay non è obbligo»

Il Consiglio d’Europa ha votato la risoluzione contro la discriminazione sessuale.Volonté e Farina: impostazione sbagliata, ma con i nostri emendamenti ci sono miglioramenti significativi - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 30 aprile 2010
M iglioramenti signi ficativi sono stati apportati ieri dal l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa alla riso luzione presentata dal socia lista svizzero Andreas Gross contro la 'Discriminazione basata sull’orientamento ses suale e l’identità di genere'. Nonostante l’impianto an tropologico di fondo resti as sai criticabile, nel documen to approvato con 51 voti a fa vore, 25 contrari e cinque a stensioni, scompaiono le rac­comandazioni ai 47 stati membri sia in favore della a dozione dei single gay, sia del riconoscimento delle coppie omosessuali in quei Paesi nei quali ciò contrasti con la le gislazione nazionale. Un ul teriore emendamento ap provato esenta dalle politiche di cosiddetta inclusione dei gay le istituzioni religiose, nel rispetto dell’autonomia di ta li istituzioni e del loro credo morale.
Le modifiche sono state ot tenute grazie ad una conver genza tra il gruppo del Ppe (i taliani in prima fila) ed i par lamentari ortodossi (a parti re dai russi). Un ruolo signi ficativo è stato esercitato an che dal lituano di religione e braica, Egidjus Vareikis. Tra i più decisi sostenitori degli e­mendamenti anche l’irlan dese Ronan Mullen e il mol davo Valeriu Ghiletchi.
«Il problema dell’imposta zione culturale di fondo del documento rimane – ha commentato il capogruppo del Ppe, Luca Volontè –, ma con i nostri emendamenti, che hanno incontrato ampia considerazione nell’assem­blea, abbiamo potuto inseri re miglioramenti significati vi ». Sempre in tema di ado zioni, il Ppe ha ottenuto, nel punto in cui si invita ad e stendere al partner la re sponsabilità parentale di u no dei membri della coppia gay, la specificazione che de vono essere tutelati priorita riamente gli interessi dei bambini. Gli emendamenti del Ppe hanno anche ribadi to la libertà di insegnamento religioso e hanno definito con chiarezza la necessità che siano rispettate le speci ficità nazionali, in termini di tradizioni, di cultura e di re ligione.
Sottolinea il «netto migliora mento » della risoluzione rag giunto nel voto di ieri, Rena to Farina che nel suo inter vento ha sollecitato con for za l’approvazione degli e mendamenti, senza i quali quel documento sarebbe sta to soltanto «l’affermazione tendenzialmente totalitaria di un pensiero unico, di una sola antropologia, di una so la religione dopo le religioni». A sostegno degli emenda menti si sono schierati tra gli altri: gli italiani Deborah Ber gamini, Gennaro Malgieri, Paquale Nessa, Giacomo Santini, Oreste Tofani. Vio lenti attacchi alla Chiesa so no stati pronunciati negli in­terventi di alcuni parlamen tari socialisti e liberali. La ri soluzione Gross avrebbe già dovuto essere votato nella sessione di fine gennaio, ma l’alto numero di emenda menti ha indotto il parla mentare svizzero a ritirare il testo per ripresentarlo nella tornata attuale. Le racco mandazioni approvate dalla assemblea del Consiglio d’Europa, comunque, non sono vincolanti per i Paesi membri.


Avvenire.it, umanesimo e scienza - 29 aprile 2010, 2 - Il matematico Israel - Vuoi far lo scienziato? Studia storia e latino
«Non c’è dubbio: è in corso una pressione per ridurre progressivamente lo spazio delle discipline umanistiche nella scuola». Lo afferma paradossalmente uno scienziato, storico della matematica e della scienza di rilievo internazionale: il professor Giorgio Israel, ordinario alla Sapienza di Roma. La materia più colpita, osserva, è il latino «e ciò avviene in un momento in cui curiosamente è alla moda in un Paese non latino come gli Stati Uniti. Ma la pressione – aggiunge Israel – si esercita anche nei confronti della storia, sempre più ridotta a brandelli privi di organicità. E verso la filosofia: il fatto è molto grave in un continente a vocazione filosofica come l’Europa. Parlo di Europa perché le cose vanno ancora peggio che da noi in Paesi come l’Inghilterra, dove l’insegnamento della storia è visto sempre più come un orpello».

Professore, come si manifesta la strategia per soffocare queste materie?
«Predicando l’inutilità delle discipline umanistiche sul mercato del lavoro, o con argomenti demagogici come quello secondo cui il latino agli studenti non piace: con questo argomento si potrebbe proscrivere a maggior ragione l’insegnamento della matematica. Anzi, la soluzione ideale sarebbe chiudere addirittura la scuola…».

Quali conseguenze si producono negli studenti, soprattutto in quelli che progettano di lavorare un giorno nel mondo della ricerca scientifica e tecnologica?
«Le conseguenze? Gli studenti si formano una visione riduttiva della scienza, come se il suo fine fosse esclusivamente la manipolazione e non la conoscenza della natura».

Che tipo di scienza emergerà da studi specialistici e puramente tecnici che sono necessari, ma non si accompagnano ad adeguate conoscenze e riflessioni nel campo della filosofia, dell’etica, degli «studia humanitatis»?
«Un insieme di ricette pratiche alla lunga sterili e ripetitive, incapaci di generare vera "innovazione": ci si riempie la bocca di questa parola, ma a vanvera. La scienza occidentale – quella che ha rivoluzionato in tre secoli il mondo ed è "la" scienza "globalizzata" – è basata su una coesistenza di conoscenze di base e di tecnologia, in cui le prime hanno un ruolo motore. E le conoscenze di base sono, a loro volta, fondate su concezioni del mondo che storicamente si sono intrecciate in modo stretto con il pensiero filosofico e anche religioso. Alla base dello straordinario successo della scienza occidentale è stato proprio il suo rapporto con queste visioni e quelle che vengono chiamate "metafisiche influenti"».

Un esempio?
Tempo fa mi è stato richiesto una consulenza di gruppo da parte di un ingegnere di una nota casa automobilistica che desiderava un aggiornamento di storia della matematica e della scienza. Bizzarria? Perdita di tempo? Nient’affatto. Quella persona era mossa dalla corretta esigenza di un ritorno periodico ai fondamenti concettuali senza i quali anche la tecnologia deperisce. Sono state due giornate di grandissimo interesse. Ho trovato nelle discussioni la conferma di quanto ho sempre pensato: l’innovazione è impossibile senza la scienza di base. Oggi costruiamo automobili la cui concezione risale a un secolo fa (e lo stesso dicasi per i computer, concepiti 70 anni fa). Una vera rivoluzione tecnologica non può che ripartire da idee teoriche completamente nuove. Senza la scienza di base ciò è impossibile. E la scienza di base, senza un rapporto profondo con le scienze umane, non può che deperire. Uno dei nostri più famosi matematici, Federigo Enriques, diceva di essersi iscritto alla facoltà di matematica "per un’infezione filosofica liceale"».

L’umanesimo è un concetto affascinante e ampio. Il movimento si propone come l’erede del pensiero greco-latino e della tradizione giudaico-cristiana. Quali rapporti ha con l’umanesimo che si studiava a scuola, affermatosi nel XIV e XV secolo, quando avviene la scoperta dei classici antichi?
«Quei rapporti sono legati all’idea della dignità dell’uomo, la quale a sua volta dipende dal principio che l’uomo è libero. Pico della Mirandola – esponente di una visione che mirava a riconciliare il razionalismo greco con lo spiritualismo ebraico e cristiano – ammonisce: "Potrai degenerare in forme inferiori come quelle delle bestie o, rigenerato, avvicinarti alle forme superiori, che sono divine". Perciò la libertà non implica di per sé un esito benefico: dipende da come si decide di usarla. L’umanesimo rigetta radicalmente il naturalismo, l’idea che tutto si riduce a natura, che altro non è che una forma di materialismo. È un ammonimento di estrema attualità contro le pretese di certa tecnoscienza di voler rifare l’uomo sulla base di manipolazioni genetiche».

Perché Galileo, Pascal e Cartesio non si chiedevano a quale delle «due culture» (scientifica o umanistica) appartenessero? Quale idea della conoscenza li ispirava?
«Pur secondo punti di vista assai diversi, perseguivano una visione complessiva del processo conoscitivo di cui la scienza della natura era soltanto un aspetto e non la totalità. Perché erano tanto "scienziati" quanto "filosofi". Alcuni germi della divaricazione successiva tra scienze naturali e scienze umane sono già presenti, soprattutto in Galileo, ma la corrente dominante della scienza – almeno fino al prevalere del positivismo – s’ispira a una visione "integrale" della conoscenza».

E come riscoprire il valore «umano» della ricerca scientifica?
«Facendo ricerca e insegnamento in storia della matematica e della scienza, mi trovo in una posizione privilegiata (o, piuttosto, sfortunata…) per assistere al disprezzo con cui troppi colleghi guardano alle discipline di frontiera e le penalizzano in ogni modo, mostrando una rozzezza che avrebbe fatto inorridire qualsiasi scienziato di appena qualche decennio fa. Talvolta vengo assalito dalla tentazione di andare in pensione… Tuttavia, bisogna essere ottimisti. L’atteggiamento degli studenti mostra che, in fin dei conti, soltanto la prospettiva umanistica (storica, filosofica) permette di dare una ragione e una motivazione per fare scienza; e che le mere motivazioni tecniche, professionali o economiche lasciano con un drammatico vuoto interiore. Perciò, anche se attraversiamo un periodo alquanto buio – in cui impazza la dittatura degli "esperti" – i semi della cultura prima o poi germoglieranno, come è avvenuto in altre fasi storiche regressive. La dittatura degli "esperti" è destinata a perdere perché ha una profonda debolezza: non crede negli uomini, ma soltanto nelle proprie tecniche».
Luigi Dell’Aglio




giovedì 29 aprile 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) CATECHESI DEL SANTO PADRE: L’UDIENZA GENERALE, 28.04.2010 - L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. - Nel discorso in lingua italiana, il Papa, avvicinandosi la conclusione dell’Anno Sacerdotale, ha incentrato la sua meditazione sulla vita e sulle opere di due santi sacerdoti torinesi, San Leonardo Murialdo e San Giuseppe Cottolengo.
2) Il Pontefice vola più alto dei nuvoloni. E non li teme - Mass media di nuovo spiazzati - di Bruno Mastroianni - © Copyright Tempi, 28 aprile 2010
3) Il matrimonio non è un’opinione - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 28 aprile 2010 – un interessante e approfondito commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010
4) Meditazione sugli scritti della santa senese - Il sacerdote secondo Caterina - "Il sacerdozio ministeriale negli scritti di Santa Caterina da Siena" è il tema della meditazione che l'arcivescovo ordinario militare per l'Italia ha tenuto oggi, mercoledì 28, ai cappellani militari nella chiesa romana di Santa Caterina a Magnanapoli. Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento. - di Vincenzo Pelvi - L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010
5) Bisogna prevenire la pedofilia. La repressione spesso arriva tardi. Un fenomeno in espansione, attenzione al turismo sessuale, alla pornografia e al commercio dei bimbi. Critiche velenose contro la Chiesa. Anche chi non crede cerca il trascendente - Bruno Volpe – dal sito Pontifex.roma.it
6) «Stupri a neonati sul web Un clic e l’orrore è servito» Nell’indifferenza dei media - Don Di Noto: abusi ovunque in crescita - DA MILANO LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 25 aprile 2010
7) Avvenire.it, 27 APRILE 2010 - 1 - Il filosofo Agazzi - La cultura? Divorata dai «tecnici»
8) UN ANNO DI SPERANZE DELUSE - CUBA SOFFOCA È TEMPO DI APRIRE GLI OCCHI - GEROLAMO FAZZINI - Avvenire, 29 aprile 2010
9) Nelle scuole l’educazione «anticoncezionale» - di Antonella Mariani – Avvenire, 29 aprile 2010
10) «Quei prematuri lasciati morire dopo gli aborti» - intervista al Prof. Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli di Roma – Avvenire, 29 aprile 2010


CATECHESI DEL SANTO PADRE: L’UDIENZA GENERALE, 28.04.2010 - L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. - Nel discorso in lingua italiana, il Papa, avvicinandosi la conclusione dell’Anno Sacerdotale, ha incentrato la sua meditazione sulla vita e sulle opere di due santi sacerdoti torinesi, San Leonardo Murialdo e San Giuseppe Cottolengo.


San Leonardo Murialdo e San Giuseppe Benedetto Cottolengo

Cari fratelli e sorelle,

ci stiamo avviando verso la conclusione dell’Anno Sacerdotale e, in questo ultimo mercoledì di aprile, vorrei parlare di due santi Sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi: san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo.
Del primo ricordiamo i 110 anni dalla morte e i 40 anni dalla canonizzazione; del secondo sono iniziate le celebrazioni per il 2° centenario di Ordinazione sacerdotale.

Il Murialdo nacque a Torino il 26 ottobre 1828: è la Torino di san Giovanni Bosco, dello stesso san Giuseppe Cottolengo, terra fecondata da tanti esempi di santità di fedeli laici e di sacerdoti. Leonardo è l’ottavo figlio di una famiglia semplice. Da bambino, insieme con il fratello, entrò nel collegio dei Padri Scolopi di Savona per il corso elementare, le scuole medie e il corso superiore; vi trovò educatori preparati, in un clima di religiosità fondato su una seria catechesi, con pratiche di pietà regolari. Durante l’adolescenza visse, però, una profonda crisi esistenziale e spirituale che lo portò ad anticipare il ritorno in famiglia e a concludere gli studi a Torino, iscrivendosi al biennio di filosofia. Il “ritorno alla luce” avvenne - come egli racconta - dopo qualche mese, con la grazia di una confessione generale, nella quale riscoprì l’immensa misericordia di Dio; maturò, allora, a 17 anni, la decisione di farsi sacerdote, come riposta d’amore a Dio che lo aveva afferrato con il suo amore. Venne ordinato il 20 settembre 1851. Proprio in quel periodo, come catechista dell’Oratorio dell’Angelo Custode, fu conosciuto ed apprezzato da Don Bosco, il quale lo convinse ad accettare la direzione del nuovo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova che tenne fino al 1865. Lì venne in contatto anche con i gravi problemi dei ceti più poveri, ne visitò le case, maturando una profonda sensibilità sociale, educativa ed apostolica che lo portò poi a dedicarsi autonomamente a molteplici iniziative in favore della gioventù. Catechesi, scuola, attività ricreative furono i fondamenti del suo metodo educativo in Oratorio. Sempre Don Bosco lo volle con sé in occasione dell’Udienza concessagli dal beato Pio IX nel 1858.

Nel 1873 fondò la Congregazione di San Giuseppe, il cui fine apostolico fu, fin dall’inizio, la formazione della gioventù, specialmente quella più povera e abbandonata. L’ambiente torinese del tempo fu segnato dall’intenso fiorire di opere e di attività caritative promosse dal Murialdo fino alla sua morte, avvenuta il 30 marzo del 1900.

Mi piace sottolineare che il nucleo centrale della spiritualità del Murialdo è la convinzione dell’amore misericordioso di Dio: un Padre sempre buono, paziente e generoso, che rivela la grandezza e l’immensità della sua misericordia con il perdono.

Questa realtà san Leonardo la sperimentò a livello non intellettuale, ma esistenziale, mediante l’incontro vivo con il Signore. Egli si considerò sempre un uomo graziato da Dio misericordioso: per questo visse il senso gioioso della gratitudine al Signore, la serena consapevolezza del proprio limite, il desiderio ardente di penitenza, l’impegno costante e generoso di conversione. Egli vedeva tutta la sua esistenza non solo illuminata, guidata, sorretta da questo amore, ma continuamente immersa nell’infinita misericordia di Dio. Scrisse nel suo Testamento spirituale: “La tua misericordia mi circonda, o Signore… Come Dio è sempre ed ovunque, così è sempre ed ovunque amore, è sempre ed ovunque misericordia”. Ricordando il momento di crisi avuto in giovinezza, annotava: “Ecco che il buon Dio voleva far risplendere ancora la sua bontà e generosità in modo del tutto singolare. Non soltanto egli mi ammise di nuovo alla sua amicizia, ma mi chiamò ad una scelta di predilezione: mi chiamò al sacerdozio, e questo solo pochi mesi dopo il mio ritorno a lui”. San Leonardo visse perciò la vocazione sacerdotale come dono gratuito della misericordia di Dio con senso di riconoscenza, gioia e amore. Scrisse ancora: “Dio ha scelto me! Egli mi ha chiamato, mi ha perfino forzato all’onore, alla gloria, alla felicità ineffabile di essere suo ministro, di essere «un altro Cristo» … E dove stavo io quando mi hai cercato, mio Dio? Nel fondo dell’abisso! Io ero là, e là Dio venne a cercarmi; là egli mi fece intendere la sua voce…”.

Sottolineando la grandezza della missione del sacerdote che deve “continuare l’opera della redenzione, la grande opera di Gesù Cristo, l’opera del Salvatore del mondo”, cioè quella di “salvare le anime”, san Leonardo ricordava sempre a se stesso e ai confratelli la responsabilità di una vita coerente con il sacramento ricevuto. Amore di Dio e amore a Dio: fu questa la forza del suo cammino di santità, la legge del suo sacerdozio, il significato più profondo del suo apostolato tra i giovani poveri e la fonte della sua preghiera.

San Leonardo Murialdo si è abbandonato con fiducia alla Provvidenza, compiendo generosamente la volontà divina, nel contatto con Dio e dedicandosi ai giovani poveri. In questo modo egli ha unito il silenzio contemplativo con l’ardore instancabile dell’azione, la fedeltà ai doveri di ogni giorno con la genialità delle iniziative, la forza nelle difficoltà con la serenità dello spirito. Questa è la sua strada di santità per vivere il comandamento dell’amore, verso Dio e verso il prossimo.

Con lo stesso spirito di carità è vissuto, quarant’anni prima del Murialdo, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera da lui stesso denominata “Piccola Casa della Divina Provvidenza” e chiamata oggi anche “Cottolengo”. Domenica prossima, nella mia Visita pastorale a Torino, avrò modo di venerare le spoglie di questo Santo e di incontrare gli ospiti della “Piccola Casa”.

Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, il 3 maggio 1786. Primogenito di 12 figli, di cui 6 morirono in tenera età, mostrò fin da fanciullo grande sensibilità verso i poveri. Abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Gli anni della sua giovinezza furono quelli dell’avventura napoleonica e dei conseguenti disagi in campo religioso e sociale. Il Cottolengo divenne un buon sacerdote, ricercato da molti penitenti e, nella Torino di quel tempo, predicatore di esercizi spirituali e conferenze presso gli studenti universitari, dove riscuoteva sempre un notevole successo. All’età di 32 anni, venne nominato canonico della Santissima Trinità, una congregazione di sacerdoti che aveva il compito di officiare nella Chiesa del Corpus Domini e di dare decoro alle cerimonie religiose della città, ma in quella sistemazione egli si sentiva inquieto. Dio lo stava preparando ad una missione particolare, e, proprio con un incontro inaspettato e decisivo, gli fece capire quale sarebbe stato il suo futuro destino nell’esercizio del ministero.

Il Signore pone sempre dei segni sul nostro cammino per guidarci secondo la sua volontà al nostro vero bene. Per il Cottolengo questo avvenne, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino la diligenza, affollata come non mai, dove si trovava stipata un’intera famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete. Per un misterioso disegno incrociarono il Cottolengo, e fu proprio lui, con il cuore pesante e oppresso, ad accompagnare alla morte questa giovane madre, fra lo strazio dell’intera famiglia. Dopo aver assolto questo doloroso compito, con la sofferenza nel cuore, si recò davanti al Santissimo Sacramento e pregò: “Mio Dio, perchè? Perchè mi hai voluto testimone? Cosa vuoi da me? Bisogna fare qualcosa!”. Rialzatosi, fece suonare tutte le campane, accendere le candele, e accogliendo i curiosi in chiesa disse: “La grazia è fatta! La grazia è fatta!”.

Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi.

Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. Spostandosi verso la periferia di Torino per espandere la sua opera, creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio che riuscì a costruire assegnò un nome significativo: “casa della fede”, “casa della speranza”, “casa della carità”. Mise in atto lo stile delle “famiglie”, costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano. Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso: chi lavorava, chi pregava, chi serviva, chi istruiva, chi amministrava. Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari. Pensò anche ad un proprio seminario, per una formazione specifica dei sacerdoti dell’Opera. Fu sempre pronto a seguire e a servire la Divina Provvidenza, mai ad interrogarla. Diceva: “Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio.

La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino”. Per i suoi poveri e i più bisognosi, si definirà sempre “il manovale della Divina Provvidenza”.

Accanto alle piccole cittadelle volle fondare anche cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti, e li considerò tra le realizzazioni più importanti: una sorta di “cuore” che doveva battere per tutta l’Opera. Morì il 30 aprile 1842, pronunciando queste parole: “Misericordia, Domine; Misericordia, Domine. Buona e Santa Provvidenza… Vergine Santa, ora tocca a Voi”. La sua vita, come scrisse un giornale del tempo, era stata tutta “un’intensa giornata d’amore”.

Cari amici, questi due santi Sacerdoti, dei quali ho presentato qualche tratto, hanno vissuto il loro ministero nel dono totale della vita ai più poveri, ai più bisognosi, agli ultimi, trovando sempre la radice profonda, la fonte inesauribile della loro azione nel rapporto con Dio, attingendo dal suo amore, nella profonda convinzione che non è possibile esercitare la carità senza vivere in Cristo e nella Chiesa.

La loro intercessione e il loro esempio continuino ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato, e aiutino ciascuno a donarsi con gioia e generosità a Dio e al prossimo.
© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana


Il Pontefice vola più alto dei nuvoloni. E non li teme - Mass media di nuovo spiazzati - di Bruno Mastroianni - © Copyright Tempi, 28 aprile 2010
Esistono dei momenti in cui la personalità di papa Ratzinger riesce a rompere gli schemi preconcetti che la inseguono fin dalla sua elezione a pontefice e a venir fuori in tutta la sua ricchezza.
Uno di questi momenti fu l’estate scorsa, quando Benedetto XVI si ruppe il polso. I cronisti, per un attimo distratti dalle solite tematiche da prima pagina, si misero a raccontare delle sue attenzioni per non disturbare i collaboratori durante la notte, della sua tenerezza nei confronti del personale ospedaliero e il suo modo di reagire all’infortunio: «Forse il Signore voleva insegnarmi più pazienza e più umiltà».
Lo stesso è accaduto nella tempesta mediatica degli abusi sui minori: è venuto fuori il vero Joseph Ratzinger.
Quello che – anche se ne avrebbe avuto tutto il diritto – non si è dedicato a difendersi, a far la conta dei numeri, a presentare giuste ragioni o a respingere le accuse. Tutto concentrato nell’occuparsi delle vittime, nel rassicurare i fedeli, nell’elevare il problema all’ordine più alto della fedeltà al Vangelo e della santità della Chiesa, il Papa non ha avuto il tempo per pensare a se stesso o a manovre per salvare la “corporate image”. E mentre molti, spaventati dal temporale, hanno creduto che non sarebbe più finito (da qui la solita solfa di abolizioni del celibato, donne prete e fantasie varie di riforma), Benedetto XVI, con il suo modo di fare umano e cristiano, ha invitato tutti a non fermarsi alle nubi, per quanto torve e cariche di pioggia: al di sopra di esse il cielo è sempre rimasto terso e cristallino.
© Copyright Tempi, 28 aprile 2010


Il matrimonio non è un’opinione - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 28 aprile 2010 – un interessante e approfondito commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010
Così si potrebbe sintetizzare la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010. La Consulta ha rigettato, in parte dichiarandola inammissibile ed in parte infondata, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d’Appello di Trento, di diversi articoli del codice civile nella parte in cui non consentono alle persone omosessuali di contrarre matrimonio (la questione riguardava due persone di sesso maschile che avevano fatto opposizione al provvedimento dell’ufficiale di stato civile che aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione del matrimonio dagli stessi richiesta).
La sentenza riafferma un preciso significato al termine matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano. Esso ha dunque un contenuto costituzionale oggettivo e non è subordinato alle mutevoli interpretazioni dei tempi, alle opinioni soggettive ed agli orientamenti sociali desumibili da diverse – seppur minoritarie – forme di convivenza.
E’ un risultato importante, anche se la sola circostanza di aver dovuto ribadire, giuridicamente, la definizione di un dato insito nella stessa natura umana e relazionale (come il fatto di essere mori o di avere gli occhi azzurri, di avere 30 anni invece che 50, di essere maschi o femmine, di essere – appunto – sposati o no), la dice lunga – a mio avviso – sulla attuale crisi di corrispondenza tra segno e significato, tra parola e concetto racchiuso in essa.
Mi pare oggi essere a rischio, almeno dal punto di vista giuridico, la stessa convivenza lessicale. Si usano gli stessi termini, un tempo usati senza alcun dubbio di significato, con contenuti diversi, desunti dal mutato sistema di convivenza sociale (per l’affievolirsi di un tessuto culturale omogeneo di riferimento o per l’imporsi di progressi scientifici e tecnologici e l’aprirsi di nuove prospettive).
I termini vita, salute, famiglia, popolo, fede, persona, figlio, e gli istituti giuridici connessi con i conseguenti diritti, sono attualmente sottoposti ad un processo di relativizzazione, nel senso che sembrano perdere progressivamente il loro significato univoco e chiaro, per acquisire potenzialmente tanti significati, quante sono le possibilità applicative che si prospettano all’uomo e quante sono le opinioni in merito che si possono avere. Così è famiglia ciò che per me è tale, in relazione alla mia personale sensibilità o alla mutata sensibilità sociale.
Interessantissimi sono i presupposti da cui parte la proposizione della questione di legittimità costituzionale, da parte dei giudici rimettenti: “non si può ignorare – dicono i giudici – il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse di convivenza che chiedono protezione”; “il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona”; “la libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si risolve in una scelta sulla quale lo stato non può interferire”; “realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, anche all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio”…
Si parte dalla rilevazione dell’esistente, e si chiede l’adeguamento della realtà giuridica (evidentissima è questa evoluzione nel campo della bioetica, trattata sempre più frequentemente a livello di biodiritto). Non importa se in questo modo si debba alterare il significato stesso dei termini di riferimento.
L’art. 29 Cost. tutela la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” ed al secondo comma precisa che “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. La disposizione è estremamente chiara, non lascia spazio alcuno ad interpretazioni diverse da quella che vede il matrimonio a fondamento della famiglia legittima. Eppure, nel caso di specie, la questione di legittimità costituzionale del divieto di pubblicazione del matrimonio gay da parte dell’ufficiale di stato civile è stata prospettata proprio con riferimento (anche) alla presunta violazione dell’art. 29 Cost., come se esso dovesse comprendere una nozione di matrimonio “aperta” all’evoluzione dei costumi sociali.
E’ infatti evidente che – per superare il contenuto letterale dell’articolo costituzionale – occorre “alterare” il significato concettuale del termine matrimonio, assegnandogli un contenuto completamente diverso da quello sinora concepito, comprendendovi ogni esperienza che si proponga di realizzare una convivenza in qualche modo qualificata, indipendentemente dall’elemento della diversità di sesso fra i coniugi, sulla base della sola volontà dei conviventi. Così facendo il matrimonio non ha più caratteristiche oggettive di riferimento. Diventa matrimonio solo quello che viene considerato tale dalle parti. Non è più legato all’amore tra un uomo ed una donna ed alla costruzione di una famiglia, nel significato attribuitogli dalla carta costituzionale. Sarebbe tutt’altra cosa.
La Corte Costituzionale ne prende atto: “è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore”; “detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto di incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerate in alcun modo quando fu emanata”; “i costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”; “questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa”.
La Consulta, mi pare, pone alcuni paletti importanti.
a) Il primo è la distinzione tra attività interpretativa che spetta ai giudici ed attività creativa di diritto, che non spetta loro.
Sinora non si era mai differenziato, così chiaramente ed a così alto livello, nell’ambito della funzione di interpretazione giudiziale, tra attività ammessa (legata in qualche modo ad un dato normativo esistente o comunque ad un principio desumibile dall’ordinamento giuridico vigente) ed attività non ammessa perché esorbitante rispetto al complessivo contenuto normativo esistente (creatrice di nuovo diritto volto a regolamentare ex novo un vuoto normativo).
Forse, l’affermata distinzione può aiutare oggi a ripensare anche la vicenda Englaro, e la natura interpretativa o – più correttamente – creativa dell’attività svolta dai giudici, nell’individuare il nuovo principio di diritto che ha poi portato alla morte di Eluana (ed a ripensare forse anche al conflitto di attribuzione tra il potere giurisdizionale e quello legislativo, sbrigativamente liquidato – mi pare – dalla stessa Corte Costituzionale come inammissibile) [Mi sia permesso rinviare a S. SPINELLI, Re giudice o re legislatore?, in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 3, 2009, 1488 ss.].
b) Il secondo paletto è rappresentato dalla riaffermazione della nozione di matrimonio così come vigente nel nostro ordinamento giuridico e corrispondente alla definizione “oggettiva” costituzionalmente accolta nell’art. 29 Cost., che non lascia spazio ad interpretazioni soggettive.
Ciò significa che quello che la nostra costituzione tutela in via particolare e privilegiata non è qualsiasi unione, bensì quella che nasce dal matrimonio tra un uomo ed una donna.
Peraltro, tale circostanza porta ad escludere che in materia possa rinvenirsi violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.
Insomma, per ritenere il contrario, ed equiparare famiglie fondate sul matrimonio ed unioni diverse, bisognerebbe cambiare la stessa carta costituzionale.

c) Ribadita la nozione oggettiva dell’istituto matrimoniale, la Consulta affronta la questione del diritto dei conviventi dello stesso sesso di “vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”, ai sensi dell’art. 2 Cost. che garantisce i diritti dell’uomo nelle formazioni sociali, tra le quali “è da annoverare anche l’unione omosessuale”(P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 350-351, secondo il quale “la famiglia di fatto è tutelata dall’art. 2 Cost., quella legittima dal diritto di famiglia”). Detto compito riconoscitivo “spetta al Parlamento nell’esercizio della sua piena discrezionalità”.
Qui l’analisi è più complessa e propone delle aperture che lasciano perplessi.
La Consulta non esclude un intervento del legislatore che individui “forme di garanzia e di riconoscimento” anche di tali forme di convivenza, pur non arrivando sino al punto di vincolare l’azione legislativa, con una di quelle sentenze chiamate di “monito”, che la Corte suole invece emanare quando rileva un’omissione legislativa incompatibile con la carta costituzionale, diffidando il Parlamento a legiferare sulla materia. In sostanza, ben sarebbe possibile, nel caso di specie, lasciare le cose come stanno, senza procedere ad alcuna forma di riconoscimento. Ciò non violerebbe la carta costituzionale.
In ogni caso, una qualche forma, più o meno consistente, di riconoscimento delle unioni omosex, che il Parlamento nella sua discrezionalità volesse apprestare, non potrebbe risolversi in una equiparazione con l’istituto matrimoniale, perché allora – come detto sopra – violerebbe l’art. 29 Cost.
Qui pare essere l’aspetto più delicato della sentenza, in quanto non è facile capire come il riconoscimento di una disciplina parafamiliare per le coppie gay (o comunque per le unioni di fatto) possa salvaguardare l’istituto del matrimonio, come fondamento della società familiare. Alla famiglia fondata sul matrimonio (prevista in costituzione) si affiancherebbero altri tipi di famiglie, pur non fondate sul matrimonio, alle quali verrebbero estesi alcuni, pochi o tanti, a seconda della discrezionalità legislativa, diritti familiari. Ciò non toglie che l’art. 29 Cost. riconosca i “diritti della famiglia” esclusivamente come società naturale fondata sul matrimonio.
Inoltre, anche volendo considerare la tutela apprestata dall’art. 2 Cost., deve rilevarsi che esso riconosce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, mentre nella fattispecie si tratterebbe di riconoscere diritti familiari assegnati a nuove tipologie di coppie diverse da quelle coniugali.
d) Altra questione è l’estensione di alcuni singoli diritti riconosciuti alle coppie coniugate, a convivenze di diverso tipo. “Può accadere infatti – aggiunge la Corte Costituzionale – che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
Ma quali diritti dovrebbero/potrebbero essere estensibili? Se si tratta dei diritti che ciascuna persona ha in quanto tale, e che non possono essere limitati a seconda del tipo di convivenza scelta, la precisazione della Consulta non aggiunge nulla di nuovo alla tutela già apprestata dall’ordinamento, che fa riferimento ai diritti fondamentali della persona umana riconosciuti a “tutti” (art. 2 Cost.), e “senza distinzione di sesso” (art. 3 Cost.).
Se si tratta invece di diritti assicurati alla sola famiglia legittima proprio per la sua funzione sociale (costituzionalmente riconosciuta dall’art. 29 Cost. e riaffermata dalla stessa Consulta), applicabili anche alle coppie diverse da quella legittima, il rischio potrebbe essere quello di arrivare ad una sorta di equiparazione di fatto tra famiglia legittima ed altre forme di convivenza, venendosi potenzialmente ad aggirare l’affermazione di non equiparazione sancita in altra parte della sentenza.
Si avrebbe la “paradossale conseguenza di lasciare inestensibile il solo contenitore (l’istituto del matrimonio), non già il relativo contenuto (i diritti della famiglia), quasi che non esista un nesso di strumentalità fra il primo ed i secondi, in ragione della specificità del primo”(3 V. TONDI DELLA MURA, La sentenza della Corte che ha difeso la parola matrimonio) .
Poiché la specificità dell’istituto matrimoniale è stata espressamente sancita dalla Consulta, si ritiene che la precisazione in merito all’estensibilità – “in casi particolari” – di alcuni diritti familiari debba intendersi ristretto – appunto – al rango di eccezione e dei diritti del primo tipo. Diversamente si porrebbe un problema di contraddittorietà interna alla sentenza stessa. Se infatti la normativa vigente non viola gli artt. 29 e 3 Cost. in quanto “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”, ci si chiede in quali casi sarebbe ragionevole “un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale”.
In conclusione, né i giudici né altri soggetti che non siano il legislatore nazionale potrebbero attuare forme più o meno velate di riconoscimento di altre convivenze familiari diverse da quella costituzionalmente fondata sul matrimonio (si fa qui riferimento, per rivelarne l’inconsistenza giuridica, a quelle forme di riconoscimento operate a livello locale, mediante ipotesi di rilevazione ed iscrizione in elenchi amministrativi di coppie di fatto, raccogliendo le mere dichiarazioni di volontà dei componenti, anche indipendentemente dalla composizione sessualmente mista delle stesse).
Né un eventuale riconoscimento da parte del Parlamento potrebbe consistere – si ritiene – in “discipline paramatrimoniali”, ciò significando equiparare di fatto le altre unioni alla famiglia legittima.
Resta però l’apertura della Corte Costituzionale a forme di riconoscimento stabilite dal legislatore.
Su questo, possono farsi alcune considerazioni di carattere generale.
La questione sottoposta alla Consulta partiva dalla rilevazione dell’evoluzione di costumi e
dal mutato humus culturale e tradizionale di riferimento, per chiedere l’adeguamento delle nozioni concettuali e dei termini giuridici corrispondenti (“Davvero i matrimoni gay ferirebbero le nostre tradizioni? Negli anni Cinquanta era un’offesa al buon costume mettersi in bikini sulla spiaggia; oggi è un’offesa fare il bagno in calzamaglia. Davvero quei matrimoni sarebbero un oltraggio alla natura?”. M. AINIS, I gay e la legge che non c’è, La Stampa, Editoriale 23 marzo 2010).
A fronte di una richiesta di tal tipo, vi possono essere come due modalità di reazioni. La prima è di recuperare in ambito giuridico le nuove acquisizioni semantiche tratte dall’evoluzione fattuale della società, giuridicizzando l’esistente. Siccome vi è un più ampio modo di intendere l’unione matrimoniale, in conseguenza di esperienze di fatto esistenti (convivenze di fatto ed anche tra persone dello stesso sesso), allora si richiede una equiparazione acritica del termine lessicale con il termine giuridico corrispondente. Il fatto si impone al giurista e diventa diritto.
Ma si ritiene che funzione del diritto non sia assolutamente quella di recepire acriticamente le evoluzioni della società. Funzione del diritto è la giustizia (unicuique suum tribuere) e la scelta tra più opzioni possibili, che privilegi quella conforme alla natura umana ed alla sua situazione di relazioni interpersonali. Se un domani dovesse rinvenirsi una esperienza di fatto di convivenze tra più persone contemporaneamente, giustizia richiederebbe di continuare a riconoscere come esperienza fondamentale dell’uomo il matrimonio tra due persone, perché conforme alla situazione umana ed al suo bene. Allo stesso modo, se un domani dovesse rinvenirsi una esperienza di fatto di selezione eugenetica degli embrioni, sarebbe giustizia continuare a riconoscere come esperienza fondamentale dell’uomo l’accoglienza della vita, indipendentemente dalle caratteristiche del neonato, perché ciò corrisponde all’uomo ed al suo bene. Il fatto, in questa ottica, si impone al giurista attivando il suo giudizio rivolto al bene comune e sollecitando una sua valutazione critica in termini
di giustizia o di ingiustizia.
D’altra parte, se pure il diritto non è meramente sovrapponibile alla giustizia (conoscendosi in più parti ed in più momenti un diritto ingiusto), è comunque esperienza comune che esso debba rispondere ad un criterio di giustizia, cioè di proporzione tra limiti che pone e gli interessi che persegue, e che per ottenere giustizia occorre partire dalla verità, perché se si falsificano i dati di partenza, anche il risultato proporzionato sarà ingiusto. “Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori – talora nemmeno i significati – con cui giudicarla e orientarla”(Papa Benedetto XVI, Caritas in veritate, Introduzione, 9).
Da questo punto di vista, “le legislazioni favorevoli alle unioni omosessuali sono contrarie alla retta ragione perché conferiscono garanzie giuridiche, analoghe a quelle dell’istituzione matrimoniale, all’unione tra due persone dello stesso sesso. Considerando i valori in gioco, lo Stato non potrebbe legalizzare queste unioni senza venir meno al dovere di promuovere e tutelare un’istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio” (Congregazione per la dottrina della fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni
tra persone omosessuali, testo pubblicato nel 2003).
Stefano Spinelli


Meditazione sugli scritti della santa senese - Il sacerdote secondo Caterina - "Il sacerdozio ministeriale negli scritti di Santa Caterina da Siena" è il tema della meditazione che l'arcivescovo ordinario militare per l'Italia ha tenuto oggi, mercoledì 28, ai cappellani militari nella chiesa romana di Santa Caterina a Magnanapoli. Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento. - di Vincenzo Pelvi - L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010
Voce chiara e potente, quella di Caterina da Siena, che per volontà di Dio risuona nella Chiesa e non finisce di stupire. In questo anno dedicato dal Santo Padre alla santificazione dei sacerdoti, che camminando per la via del Verbo, tolgono la morte e rendono la vita al mondo (cfr. Orazioni, XII, 167) sembra veramente provvidenziale riflettere sul sacerdozio ministeriale negli scritti di santa Caterina, pensando soprattutto al capitolo cxix del Dialogo. I sacerdoti necessitavano di una profonda e impegnativa riforma. È un'analisi veritiera, sostenuta da un grande amore per la gerarchia, per riscoprire la dignità del sacerdozio, anche dinanzi alle tentazioni del maligno e a situazioni di peccato.
Ella - nella sua vita come nella dottrina - non ha pensato che al Cristo, alla Chiesa e al Papa, ai sacerdoti, facendo di questo impegno il motivo centrale della sua esistenza.
Offrì, infatti, se stessa per la conversione dei ministri della Chiesa, sperimentando un calvario luminoso, un Getsemani di obbedienza alla verità, un calice di passione di cui inebriarsi. Nel romanzo storico su santa Caterina da Siena, l'autore Louis de Wohl, afferma che la santa, tormentata dal dolore, ogni giorno si trascinava a San Pietro per pregare, magra e sottile come un ostia bianca da trasformare nel corpo del Signore. Soleva inginocchiarsi davanti al mosaico di Giotto raffigurante la barca di Pietro, scossa dalla tempesta, con gli apostoli accovacciati per la paura e Cristo che camminava sulle onde verso di loro.
Caterina pregava per ore, chiedendo al Signore che ancora una volta venisse in aiuto della sua Chiesa. Era il tormento del suo corpo e della sua anima. Quante volte si era offerta per i peccati di tutta la Chiesa, immaginando che quel Cristo sulle acque prendesse la navicella con sopra l'umanità e se la mettesse sulle spalle e che lei si sbriciolasse sotto il peso sino a cadere inerme a terra. Qualcuno aveva da sempre acceso in lei il fuoco dell'amore verso la Chiesa in un periodo in cui gli uomini di Chiesa erano coinvolti e travolti da ribellioni, ipocrisie, scambi politici e calcolo snervante a cui Caterina ricorda la parola del Vangelo: "Cosa vale conquistare il mondo se l'uomo perde se stesso?". Illuminata da Dio, comprese in quali difficoltà si dibatteva il clero e che da quei mali ci si poteva guardare soprattutto con la preghiera, la penitenza, una vita virtuosa e un singolare e continuo disprezzo di sé. Caterina scelse di consumarsi nel dolore per le indegne condizioni della Chiesa e anche se a stento leggeva o scriveva ebbe una lucidità insostituibile nel parlare tanto che religiosi e prelati, maestri di spirito e teologi venivano illuminati dalla sapienza spirituale del suo animo.
Per lei, la Chiesa non è altro che Cristo (cfr. Lettera 171) al quale si consegna come vittima per il clero e per il Pontefice (cfr. Lettera 371). Al dolce Cristo in terra (cfr. Lettera 196), nelle cui mani è custodito il sangue - e per suo tramite in quelle dei sacerdoti - si deve sempre amore e obbedienza; e chi non obbedisce a questo Cristo terrestre, che è una sola cosa col Cristo celeste (cfr. Lettera 207) non partecipa al frutto del sangue del Figlio di Dio. Né Caterina tace su quanto necessita per riformare i costumi della Chiesa, prima di tutto tra i sacri pastori, che con insistenza ammonisce: "Oimè, non più tacere. Gridate con cento migliaia di lingue. Veggo che, per tacere, il mondo è guasto; la Sposa di Cristo è impallidita, gli è tolto il colore, perché gli è succhiato il sangue da dosso, cioè il sangue di Cristo" (Lettera 16). Certo impressiona il tono libero, vigoroso, tagliente con cui vengono ammoniti preti, vescovi e cardinali. I mali che Caterina denuncia con franchezza sono: l'amor proprio dominante, l'insensibilità della coscienza, la lussuria, l'avarizia, la superbia, la cura di interessi materiali, l'usura, e persino l'abuso dei sacramenti per raggiungere scopi malvagi. Perciò, "occorre sradicare dal giardino della Chiesa le piante fradice sostituendole con piante novelle, fresche e olezzanti". Era l'ideale supremo a cui aveva ispirato tutta la vita, spendendosi senza riserva per la Chiesa. Sarà lei stessa a testimoniarlo ai suoi figli spirituali sul letto di morte: "Tenete per fermo, carissimi, che io ho dato la vita per la santa Chiesa" (beato Raimondo da Capua, Vita di Santa Caterina da Siena).
Il "desiderio" è certamente centrale nel Dialogo, nelle Lettere e nelle Orazioni. E se il desiderio orienta la vita delle creature nella verità della propria condizione, quanto più i sacerdoti, che vivono in Dio, sono i "cristi" del Padre (Orazioni xii, 179), colgono la realtà nella luce in cui Egli la vede, "hanno desiderio infinito, cioè sono uniti per affetto d'amore in me" (Dialogo, iii, 25) e devono essere come angeli, generosi, non avari e mai vendere la grazia dello Spirito per ambizione e brama di guadagno (cfr. Dialogo, cxiv, 405). Se il clero è abitato dal fuoco del desiderio di Dio, la presenza nella storia diventa feconda della fecondità stessa di Dio. Nel "Traeste me da te" (Orazioni, i, 69) respira l'identità del sacerdozio ministeriale. Una assimilazione nell'essere che è conformità, perché Dio assimila le creature che non resistono alla sua attrazione, si manifesta nella storia come misericordia, le predilige e le rende feconde della vita nella quale sono vivificate.
Il sacerdote, "un altro te per amore" (Orazioni, xxi, 75), desidera ciò che Dio desidera, condividendo la sua volontà. È il ministrare, servire il disegno di Dio, che vuole che tutti giungano alla conoscenza della verità, manifesta nella Croce di Cristo. Perciò essi devono essere rispettati non per le loro qualità personali ma per la reverenza al Sangue di cui sono ministri, perché il Sangue redentore ha lo stesso valore sia che venga amministrato da un sacerdote santo che da un cattivo ministro. I sacerdoti hanno una dignità che supera quella dei puri spiriti: "Allo stesso modo in cui essi esigono la limpidezza del calice in cui vanno a celebrare il sacrificio, così io esigo in loro purezza dei cuori, dell'anima e della mente. Voglio che il loro corpo, in quanto strumento dell'anima, conservi una perfetta purità" (Dialogo, cxiii, 385).
Non c'è nessuna bellezza sul volto della Chiesa che non sia un riverbero del fulgore del Risorto, "dove i gloriosi ministri, avendo ministrato il sole, ànno presa la condizione del Sole. Tutto è preso e derivato dal lume, cioè il corpo e il sangue de l'unigenito mio Figliolo, sole unito e non diviso. Così nella Chiesa ogni grandezza, ogni santità, ogni sanità è redenta; in conseguenza dell'amore del Signore Gesù che, senza pausa, rinnova l'umanità nel ricordamento del benefizio del Sangue" (Dialogo, cxix, 774).
Santificare gli uomini è opera propria di Dio, ma attraverso i suoi ministri santi. In che cosa consiste la santità sacerdotale se non in ciò per cui la mente applica se stessa e i suoi atti a Dio. Se amiamo veramente Dio, desideriamo conoscerlo di più e più lo conosciamo, più lo amiamo. In questo abbraccio fra volontà e intelletto, fra amore e conoscenza, fra carità e fede consiste la Verità. Caterina incoraggia i ministri del Sangue a essere immersi in questa Verità, perché da "cristi" siano una cosa sola, legati a Cristo, tirati dentro di lui.
Comprendiamo, così, l'attualità dell'ansia santificatrice di Caterina, desiderosa di condividere l'accostamento al Mistero per arricchire di bene il cuore dell'uomo per cui "dire tu" è "intendere Te". E, così, nel Sangue di Cristo crocifisso, Caterina balbetta l'abbraccio di Cristo che stringe a sé la Chiesa e i sacri ministri e li aiuta ad accostare quel pati divina, che fa crescere il senso dell'Eterno.
(©L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010)


Bisogna prevenire la pedofilia. La repressione spesso arriva tardi. Un fenomeno in espansione, attenzione al turismo sessuale, alla pornografia e al commercio dei bimbi. Critiche velenose contro la Chiesa. Anche chi non crede cerca il trascendente - Bruno Volpe – dal sito Pontifex.roma.it
Domenica scorsa, don Fortunato Di Noto, il coraggioso e valido parroco siciliano che ha dedicato una vita a combattere la pedofilia, ed anche la mafia nel pieno rispetto della legalità, ha vissuto la sua giornata più bella. Papa Benedetto XVI ha pubblicamente dato atto della rilevanza della Meter, la associazione di volontari che il sacerdote presiede, baluardo nel difendere i bimbi da ogni abuso e scoprire in rete i siti pedofili. Don Di Noto, per chi ha la fortuna di essergli amico, é un parroco signore e signor parroco, uomo tutto di un pezzo, di quelli che nei momenti difficili ti auguri di trovare. Don Di Noto che ha pensato quando il Papa ha lodato la Meter?: " sono rimasto impietrito ed onorato. Ringrazio il Papa, troppo buono, in fondo facciamo con passione solo e soltanto il nostro dovere. Il merito é di tutti e di una organizzazione che con poveri mezzi economici, svolge questo lavoro, non sempre aiutata come si dovrebbe. ...

... I meriti non sono solo i miei, ma di tutti noi, dei volontari, dei collaboratori. Ma questo significativo riconoscimento ci serva di incoraggiamento a fare ancora di più sulla via della onestà e del rispetto dei diritti dei bimbi".

Che cosa vi proponete alla Meter?: " la promozione e la difesa della infanzia in ogni suo stadio, grado e livello. Il problema pedofilia esiste, ma non é il solo. E' quello che fa maggiormente clamore ed é abominevole, però rappresenta la punta dell' iceberg".

Di che cosa?: " di un mondo di criminali che sfruttano i bambini senza ritegno, a fini di vendita, di commercio organi, di turismo sessuale e di pedo pornografia e ,duole dirlo, tutto questo spesso avviene in danno di bimbi appartenenti a classi povere o paesi del terzo mondo e i fruitori sono invece ricchi viziosi, o pseudo turisti di nazioni benestanti".

Da che cosa dipende tutto questo?: " oltre che da patologie, da un malinteso senso di libertà, in base al quale ognuno si sente libero di fare quello che vuole, senza pensare a principi etici, alla coscienza".

Alcuni organi di stampa hanno censurato il fenomeno pedofilia nella Chiesa cattolica: " ignorare che il problema esista non sarebbe serio. Ma bisogna dire che la Chiesa cattolica ed il papa lo hanno affrontato e continuano a farlo, con la massina trasparenza e rigore, senza cedimenti. Generalizzare non ha senso, nel mondo siamo oltre 40000 sacerdoti e non mi pare giusto fare di goni erba un fascio. Spiacevolmente, fanno rumore i pochi servi disonesti, rispetto a tanta gente per bene".

Molti giovani sono disorientati e non sanno a che cosa credere: " anche chi non ha la fede o si abbandona ad altre credenze e mi riferisco a quelle orientali, a suo modo cerca Dio, va verso il trascendente e merita rispetto. Sono certo della buona fede di questo cammino e talvolta forme di rifiuto della fede vanno attribuite anche a noi. Bisogna aiutare questi fratelli e ricordo che la fede si propone, ma non si impone. Il cristianesimo é la religione del sì e della vita e dunque anche questi fratelli devono essere trattati con amore".
Bruno Volpe


«Stupri a neonati sul web Un clic e l’orrore è servito» Nell’indifferenza dei media - Don Di Noto: abusi ovunque in crescita - DA MILANO LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 25 aprile 2010
La denuncia di Meter nella XIV Giornata dei bambini vittime della pedofilia. «Scopriamo 600 siti al mese. Accesso gratis a immagini strazianti»
Nessuna password per entrare, nessun filtro: l’orrore è sotto gli occhi di tutti e basta un clic per accedervi. E così scorrono mi gliaia di fotografie con bambini, per sino con neonati, abusati da adulti che nemmeno sentono l’esigenza di coprirsi il volto e nascondere la pro pria identità. «Se vedeste queste im magini vi sollevereste tutti contro la pedofilia e la pedopornografia. Il pro blema grave è che nessuno vede ciò che accade, e i media tacciono», de nuncia don Fortunato Di Noto - da venti anni impegnato in prima linea contro la piaga dell’abuso sui minori - in questa XIV 'Giornata nazionale dei Bambini vittime della violenza, l’indifferenza e lo sfruttamento - Con tro la pedofilia'. Una Giornata istitui ta nel 1996 proprio dal sacerdote di Avola (Siracusa), fondatore di quella Associazione Meter che ha già dato la caccia a 200mila siti pedopornografi ci e prestato soccorso a 900 minori e famiglie.
Su uno dei siti che i volontari hanno scoperto in questi giorni sono gli stes si pedofili a descrivere orgogliosa mente l’eccezionalità dell’'offerta': il 'debutto di un bimbo di 1 anno' è lì alla portata di tutti, almeno finché la Polizia postale e delle Comunicazio ni e il Cncpo (Centro nazionale per il contrasto alla pedofilia online) non intervengono per porre fine allo scempio. Ma per un sito che viene o scurato altri dieci ne nascono e la lot ta si fa incessante: «Noi denunciamo 600 siti al mese - racconta don Di No­to - ma per il pedofilo la vita è molto semplice, visto che l’accesso a centi­naia di foto e video di piccoli stupra ti è gratuito. Ancora la settimana scor­sa abbiamo scoperto un servizio di free hosting (i siti che permettono di caricare gratuitamente e scambiarsi sul web i file, ndr ), con migliaia di im magini strazianti distribuite in galle rie da venti foto a pagina per 349 pa­gine... fate voi i calcoli. E tutto alla lu ce del sole, con i volti degli aguzzini in bella vista e centinaia di pedofili che scaricano questo materiale».
Di che inorridire. Eppure alle denunce del sacerdote, diffuse puntualmente attraverso tutte le agenzie di stampa, risponde il silenzio presso ché assoluto dei media: «Impressiona che quasi nessun quotidiano riporti queste sconvolgenti notizie, che nessuno protesti e gridi allo scanda lo. Davanti a quello che accade do vrebbe sollevarsi il mondo... Dove so no i titoloni in prima pagina?», com menta don Di Noto, che non si dà pa ce soprattutto per il ritmo con cui, gra zie alla complice indifferenza dei me dia, prosegue in Italia e nel mondo la silenziosa mattanza di bambini: «In soli tre mesi abbiamo denunciato alla Polizia postale italiana e alle Polizie di altri Paesi 2.010 siti, luoghi in cui l’orrore viene declinato in tutte le for me e con la massima fantasia perver sa ». Bimbi in tenera età sono utilizza ti per il 'piacere raffinato' dei maniaci più esigenti in un portale delirante che nelle ultime due settimane ha richiamato 162.387 utenti, e di questi ben 40mila 'clienti' della sezione più violenta. «È sacrosanto denunciare gli episodi di pedofilia quando avvengo no da parte di un religioso, ma non è accettabile che tutto il resto del feno meno, che ha dimensioni spavento se, passi invece sotto silenzio. Non posso non chiedermi perché ciò av venga ». Quasi inutile, in effetti, cercare in In ternet le cifre e le statistiche della pe­dofilia nel mondo: ci si imbatte in cen tinaia di approfondimenti sul coin­volgimento - sia vero che presunto di singoli sacerdoti, ma sui numeri della mattanza mondiale è silenzio o quasi. Eppure la piaga della pedofilia aumenta ogni anno a ritmi esponen ziali e in particolare l’Italia risulta sem pre ai primi posti nel turismo sessua le ai danni di bambini nei Paesi poveri. «Siamo consapevoli che la povertà condanna sempre più le fasce vulne rabili, e che fame, analfabetismo, in digenza e malattie favoriscono gli a busi sui minori - dichiara Di Noto rendendo la loro vita già precaria un inferno. La violenza sui bambini è un peccato contro Dio e un grave reato che richiede azioni concrete affinché non accadano mai più atti così ese crabili ». Non a caso la XIV Giornata ha per tema quest’anno 'Povertà e minori, responsabilità condivise'.
Le celebrazioni cominciano oggi alle 10.30 ad Avola con la Messa celebra ta dal vescovo di Noto Antonio Sta gliano, e si estenderanno a tutta Ita lia con molteplici iniziative (www.as sociazionemeter.org). Il momento più atteso alle 12, quando il Papa rivolgerà nel corso del Regina Coeli un 'saluto speciale' in piazza San Pietro, do ve sarà presente una delegazione Me ter. Il 2 maggio ad Avola la Messa con celebrata da tutti i parroci della città chiuderà la 'Giornata'. Non il suo im pegno per la civiltà.


Avvenire.it, 27 APRILE 2010 - 1 - Il filosofo Agazzi - La cultura? Divorata dai «tecnici»
«Il divorzio tra scienza e discipline umanistiche è avvenuto meno di due secoli fa, innescato in Europa dalla filosofia positivista dell’Ottocento. Ma per venticinque secoli, cioè a partire dal VI secolo avanti Cristo – quando nasce, nella Grecia classica, la cultura europea – scienza e umanesimo, sbocciati simultaneamente, avevano camminato uniti e in perfetta simbiosi». Il filosofo Evandro Agazzi ha scavato nel passato, e ha scoperto che la separazione tra scienza e "studia humanitatis" si può far risalire addirittura a Immanuel Kant.

Ma nel senso che, secondo l’autore della Critica della ragion pura, le scienze debbono occuparsi del mondo della natura mentre il mondo dell’uomo va riservato alla filosofia e alle altre discipline umanistiche. Il positivismo si appropria della tesi kantiana, la enfatizza, e decreta che anche la filosofia e le altre forme di conoscenza umanistica debbono rientrare nella giurisdizione della scienza. Cioè questa avrebbe il diritto di interpretare con il metodo sperimentale – rileva Agazzi – anche «questioni come il senso della vita, il destino ultimo dell’uomo, la dignità della persona, la libertà e il senso morale».

Ecco lo scientismo, che attribuisce alla scienza un potere assoluto, ossia la capacità, anzi il diritto, di «risolvere tutti i problemi umani». La cultura umanistica può finire in soffitta. A questo punto i filosofi reagiscono. Gli idealisti Benedetto Croce e Giovanni Gentile proclamano la superiorità degli studi umanistici su quelli scientifici. La divisione diventa contrapposizione e, a cavallo fra il XX e XXI secolo, si inasprisce. Evandro Agazzi, uno dei più autorevoli filosofi italiani, pensatore che gode di grande prestigio internazionale, è attualmente professore emerito di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova e insegna a Città del Messico. Qui l’Università Autonoma Metropolitana gli ha creato una cattedra per chiara fama. Agazzi viene invitato in tutto il mondo a tenere conferenze, soprattutto sul rapporto scienza-fede.

Professore, perché Kant divise due campi discplinari che erano rimasti uniti per tanti secoli?
«Gli eccezionali progressi conseguiti dalla scienza naturale, fondata da Galileo e Newton , indussero il filosofo di Königsberg a vedere nella scienza il paradigma del "sapere" in senso generale. Ma Kant non sottrasse minimamente alla filosofia le questioni fondamentali dell’uomo, come la moralità, la libertà, il senso della vita e il destino ultimo. Le considerava "razionalmente giustificabili" anche se non conoscenza scientifica in senso proprio».

Cioè riconobbe il diritto delle scienze umane di avere uno spazio insopprimibile?
«Certo. E si pensi che, a ben guardare, le moderne scienze umane erano nate con almeno un secolo di anticipo sulle scienze naturali. Il decollo avviene con quel fenomeno storico che nei manuali viene definito "umanesimo": si riscoprono i classici antichi e non solo le opere di letterati, storici e giuristi; anche i testi scientifici ricevono un trattamento rigoroso sul piano filologico».

Ma quali sono le ragioni oggettive dello scontro attuale? Si vuole affermare il principio che tutto ciò che non può essere dimostrato scientificamente non ha diritto di esistere?
«Tra cultura scientifica e cultura umanistica si è giunti a questa lotta perché sono scattate tre condizioni principali. La specializzazione, il tecnicismo dei linguaggi e soprattutto il riduzionismo. Una disciplina pretende di possedere i principi e i metodi per spiegare i fatti studiati dalle altre discipline. Le scienze della natura, ma anche l’economia o la psicoanalisi, pretendono di "interpretare tutto". In questo modo si dilata arbitrariamente l’aspirazione di ogni disciplina a spiegare, mediante i propri mezzi, il maggior numero possibile di questioni. Così la scienza finisce per ignorare i propri limiti oggettivi».

Perciò, per lo scientismo, le discipline umanistiche sono superate. E non è invece superato il materialismo di quegli scienziati i quali si rifanno, in pratica, ai pensatori pre-socratici che consideravano l’uomo una "cosa fra le cose" e furono smentiti da Socrate e Platone?
«Si assiste a una sorta di regresso. I primi filosofi greci (poi detti "fisici") sostenevano che tutto è materia e manifestazione di proprietà materiali. E anche l’uomo è materia. Socrate e Platone sconfissero questa ideologia. Portarono alla luce l’essenziale differenza specifica tra l’uomo e la natura fisica: lo spirito, cioè l’intelligenza, la coscienza morale, la capacità di creare il mondo della civiltà e della storia, insomma le forme e i valori della cultura umanistica».

Dietro lo scientismo e l’insistenza con cui si vuole ridurre lo spazio del sapere umanistico c’è dunque quella che lei ha chiamato "metafisica materialista"?
«Con ciò non intendo sottovalutare le dimensioni naturalistiche dell’essere umano: fisiche, chimiche, fisiologiche, genetiche, neuro-fisiologiche e così via. È innegabile la ricchezza dei contributi che vengono dalle scienze della natura e che permettono una migliore conoscenza del mondo umano. Si vuole soltanto rilevare che non è corretto ignorare le altre dimensioni dell’uomo. E le discipline umanistiche indagano e coltivano proprio queste dimensioni».

L’attacco al sapere umanistico si deve insomma alla mentalità materialistica che dilaga nelle nostre società?
«In parte, sì. Ma c’è anche un’altra ragione: ormai quasi tutto viene valutato in base a un criterio puramente utilitaristico e "pragmatico". Si è persa la consapevolezza che le cose che veramente valgono sono quelle che "non servono a nulla", in quanto valgono di per sé, e meritano che ci si ponga al loro servizio. L’utilitarismo fa perdere la stessa "dimensione umanistica" della scienza, che è una forma eccellente di "ricerca della verità". È quindi ovvio che le conoscenze di tipo umanistico siano considerate una presenza ingombrante nell’insegnamento scolastico perché sottraggono tempo e attenzione agli studenti. Questi debbono dedicarsi soltanto alle discipline che veramente "servono". Ma così i giovani non incontrano le materie che fanno maturare la personalità dell’allievo e affinano il suo spirito critico, il suo senso della responsabilità, la sua capacità di valutazione e di giudizio di fronte alle situazioni della vita, la sua attitudine a compiere scelte libere e consapevoli».

Le "discipline che servono" sono quelle richieste dal mercato del lavoro...
«Ma ridurre a questo la formazione scolastica significa aver dimenticato che nessun essere umano è semplice manodopera. Dietro una tale politica premono massicci interessi economici, ed è un fatto che venga perseguita da istituzioni come la Banca mondiale e l’Ocse, in contrasto con gli obiettivi dell’Unesco. Certo questa mentalità prevale anche perché si sono appannati ideali e valori, perfino in Europa che pure ha una cultura "con memoria", formatasi nell’antichità classica e nel Medioevo cristiano».
Luigi Dell’Aglio


UN ANNO DI SPERANZE DELUSE - CUBA SOFFOCA È TEMPO DI APRIRE GLI OCCHI - GEROLAMO FAZZINI - Avvenire, 29 aprile 2010
U n anno fa, di questi tempi, si parlava di Cuba con accenti di speranza e ottimi smo. Oggi il quadro è ben diverso: penuria economica e repressione politica continua no a essere le coordinate di una situazione ingessata da oltre mezzo secolo. Eppure l’o pinione pubblica di casa nostra fatica a scal darsi per un Paese e per un popolo che a lun go hanno mobilitato passioni (ideologiche), e che oggi meriterebbero una più che mai partecipe solidarietà.
Torniamo, per un momento, alla primavera del 2009. Nel corso del Vertice delle Ameri che, a Trinidad e Tobago, non pochi presi denti latinoamericani avevano fatto pres sioni su Obama per ottenere un cambio di atteggiamento politico da parte dell’ammi nistrazione Usa nei confronti dell’isla gran de .
Da parte sua l’erede di Fidel Castro, il fra tello Raúl, si era detto disponibile a dialoga re con Washington su tutti i temi, diritti u mani inclusi. Qualche segnale concreto di apertura s’era visto: Obama aveva elimina to le restrizioni che limitavano i viaggi dei cubano-americani sull’isola e liberalizzato l’invio di rimesse ai familiari. Timide, ma tutt’altro che disprezzabili, le riforme in ca sa cubana: la possibilità di possedere com­puter e telefonini, di utilizzare Internet, di accedere agli alberghi per stranieri.
A un anno di distanza dai segnali di disge lo, si registra ben altro clima. Il dissidente Guillermo Fariñas, è in sciopero della fame dal 24 febbraio, quando gli venne proibito di partecipare ai funerali di un altro dete nuto politico, Orlando Zapata Tamayo, mor to dopo quasi tre mesi di astinenza da ac qua e cibo, in segno di protesta contro il re gime. Inoltre, come ieri documentava que sto giornale, a Cuba da qualche tempo sta crescendo l’insofferenza del potere alle vo ci libere. Le Damas de Blanco – madri, mo­gli e fidanzate di dissidenti in carcere che o gni domenica sfilano per le vie centrali del l’Avana, in silenzio, per far memoria dei per seguitati politici – vengono insultate 'spon taneamente' per strada con sempre mag giori frequenza. «Cresce l’amara frustrazione di chi aveva so gnato che il governo di Raúl Castro avrebbe introdotto cambiamenti strutturali nell’an­chilosato sistema burocratico socialista», ha scritto di recente Yoani Sánchez sul suo co raggioso e seguitissimo blog 'Generación Y'. Aggiungendo: «Mai come oggi è stata così bassa la credibilità di una rivoluzione che ha passato più di 50 anni a giurare di non ave re prigionieri politici, di non torturare i de tenuti e di non uccidere i suoi oppositori».
Toni preoccupati, ancorché più prudenti, si leggono nell’intervista del cardinale dell’A vana, Jaime Ortega, al giornale diocesano
Palabra Nueva. Alcuni quotidiani italiani nei giorni scorsi hanno ripreso con una certa e videnza quelle parole. Tuttavia, non si sono visti cortei per le strade, appelli di intellettuali in favore della liberazione di Fariñas, mobi­litazioni particolari. Pierluigi Battista, sul
Corriere della Sera, ha parlato di una «indi gnazione selettiva» che «acuisce la reattività per le malefatte compiute a Guantanamo, ma spegne la sensibilità per i lager costruiti nella stessa isola sotto il controllo del regi me di Fidel Castro», osservando che «Cuba non è più lo specchio dei desideri di una si nistra sempre meno attratta dal richiamo del terzomondismo anti-americano, ma viene cancellata nell’indifferenza». Ma c’è ancora tempo per un sussulto di responsabilità, di indignazione genuina. O dobbiamo amara mente prendere atto che anche su una que­stione cruciale come i diritti umani scatta no i riflessi condizionati e prevale la logica degli schieramenti e delle nostalgie?


Nelle scuole l’educazione «anticoncezionale» - di Antonella Mariani – Avvenire, 29 aprile 2010
L’offensiva riparte con il solito ritornello: gli adolescenti italiani sono ignoranti sul sesso, non usano gli anticoncezionali salvo poi ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo (370 mila confezioni vendute nell’ultimo anno). Se questa è la diagnosi, ecco la terapia: guide al sesso sicuro da distribuire ai giovani e possibilmente accessibili via Internet all’universo mondo. Sintesi brutale, forse, ma in fondo è questo il messaggio emerso martedì dal convegno romano della Società italiana di ginecologica e ostetricia (Sigo) su «Adolescenti, sessualità e media». In particolare il presidente della Società, Giorgio Vittori, ha posto l’accento proprio sulla «confusione e disinformazione su questi temi».
Si potrebbe obiettare che l’informazione sul sesso ai giovani non manca affatto, a volerla minimamente cercare. Anche per l’impegno attivo della Sigo, appunto, che nel suo sito, sotto il nome «prevenzione giovani», pubblica una serie di guide al sesso sicuro, peraltro rilanciate anche su un altro sito molto frequentato, www.studenti.it.Detto questo, ci sarebbe da riflettere sull’insistenza con cui la Sigo si propone di coprire l’Italia di guide: memorabile quella dell’estate scorsa, Travelsex, (sottotitolo: il sesso sicuro non va in vacanza) in cui, tra le altre cose, si insegnava a dire preservativo nelle principali lingue d’Europa. Tipico della cultura oggi prevalente, che vede il sesso come tecnica: «Ma non si può fare educazione alla sessualità fornendo una corretta e completa informazione e basta – obietta Monica Prastaro, vicepresidente di Progetto Amos, associazione cattolica che a Torino promuove l’educazione all’affettività nelle scuole –. È una strategia che a lungo termine è perdente. È stato dimostrato che tutti i progetti di prevenzione – penso alle droghe – che fanno leva solo sull’informazione dei rischi e sulla paura delle conseguenze non raggiungono l’obiettivo di cambiare i comportamenti».
In breve: conoscere tutte le tecniche per il sesso sicuro non garantisce che i giovani modifichino le loro attitudini. «Per fare vera prevenzione bisogna educare a stili e scelte di comportamento diversi», sintetizza la Prastaro.

La questione, dunque, è un’altra e «l’offensiva sesso sicuro» posta in essere dalla Sigo è largamente insufficiente.
Forse bisogna partire da un dato fornito dalla stessa Società a Roma: il 61 per cento delle ragazze si dichiara delusa dalla «prima volta» e rimpiange che sia accaduto «troppo presto o in condizioni negative». E lo stesso dice il 39 per cento dei maschi. «Delusi, dunque. Forse perché si sono resi conto che l’aver accelerato i tempi non è stata una buona idea. Perché l’amore 'per tutta la vita' in realtà è durato due mesi. Perché nei film sembra tutto così coinvolgente e invece è stato un po’ squallido e triste», analizza la Prastaro, che incontra decine di classi ogni anno.
E allora, sarebbe il caso che, accanto a una informazione corretta sul piano «tecnico», si dicesse ai ragazzi che essere fisicamente maturi per la «prima volta» non è la stessa cosa che essere maturi emotivamente e affettivamente. È quello che fa quotidianamente Rosangela Carù, autrice con Monica Pinciroli e Luisa Santoro di Amore, sesso & co. Per vivere al top la tua adolescenza (In Dialogo, 2009) e operatrice dei consultori cattolici della Lombardia (Felceaf), che incontra ogni anno oltre 4 mila studenti delle medie e dei licei per spiegare che il sesso è soprattutto sentimento e relazione. «È questo che i ragazzi vogliono sentirsi dire – conferma –.
Certo, talvolta hanno le idee confuse da quello che vedono in tivù, dove è normale che due si incontrano al bar e poi finiscono la serata in camera da letto. In generale sanno molto su come 'funziona' il sesso, ma se chiedi quali gesti d’amore conoscono, trasecolano. Perché per loro il sesso e l’amore quasi non hanno nulla a che vedere». È per via del fatto che nelle 'guide' non c’è scritto? Rosangela Carù invece spiega ai ragazzi che il sesso è amore, è gesto che unisce un uomo e una donna, che non coinvolge solo il corpo ma l’intera persona e che dunque necessita di maturità affettiva.
«I liceali mi ascoltano con attenzione quando dico loro che vogliono prendere dal mondo degli adulti gesti, come il sesso, che appartengono agli adulti senza però saperne accogliere anche la responsabilità. Aggiungo anche che l’attesa del 'momento giusto' e della 'persona giusta' con la quale condividere un percorso, un itinerario di vita, è importante». Dunque, 'un’altra educazione sessuale è possibile'. Un’educazione che parli alla testa prima che al corpo, ai sentimenti prima che agli organi.


«Quei prematuri lasciati morire dopo gli aborti» - intervista al Prof. Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli di Roma – Avvenire, 29 aprile 2010
Il caso del neonato prematuro sopravvissuto per un giorno intero a un aborto effettuato a 22 settimane di gravidanza per malformazione, all’ospedale 'Nicola Giannettasio' di Rossano Calabro, ha suscitato molto clamore e indotto nuovamente una riflessione su vari aspetti legati all’applicazione della legge 194. Ma per capire cosa è successo si deve partire dall’assunto che non si tratta di un evento eccezionale perché, in casi come questo, quando cioè l’aborto avviene oltre la metà del periodo fisiologico della gestazione, può accadere che il feto nasca vivo. Ne parliamo con Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli di Roma.
Professor Noia, possiamo affermare che ciò che è successo nell’ospedale calabrese fa parte di un fenomeno più esteso?
«Sì, purtroppo non è un caso isolato, ho sentito molte altre volte che i feti non vengono praticamente assistiti, non rispettando la stessa legge che impone la rianimazione quando mostrano segni di vitalità. Ma questo triste episodio offre lo spunto per fare alcune importanti considerazioni».
Su cosa, dunque, è opportuno riflettere?
«L’enorme progresso scientifico e tecnologico degli ultimi decenni ha cambiato totalmente lo scenario della medicina perinatale. Più del 10% dei piccoli nati a sole 22 settimane di gestazione riesce a sopravvivere. E per quelli che sono definiti neonati di 'incerta vitalità', cioè con un’età gestazionale compresa fra le 22 e 25 settimane, la sopravvivenza può arrivare fino all’80% via via che le settimane aumentano. La legge 194 non tiene conto di questa evoluzione perché all’epoca si pensava che un bambino sotto le 25 settimane non avesse alcuna possibilità di sopravvivere dopo la nascita. Allora, per aggirare l’ostacolo, si adottano altre soluzioni».
A cosa si riferisce?
«La Società italiana di ginecologia e ostetricia raccomanda di effettuare l’ecografia morfologica a 19-21 settimane anziché a 20-22, anticipando l’eventuale diagnosi di malformazioni fetale, non considerando che la diagnosi tanto più è esatta quanto più si lascia passare il tempo. Queste linee guida nascono dal tentativo di andare incontro alle donne e causare, in caso si decida di interrompere la gravidanza, il minor disagio psicologico possibile. In realtà è una dinamica fortemente contraddittoria perché non è convalidata dai dati offerti dalla letteratura scientifica: sono proprio le donne che decidono di abortire i soggetti che nel tempo sviluppano tre volte di più sindromi depressive o disordini psichici. La scienza ostetrica non deve essere subordinata quindi a politiche sanitarie che non risolvono realmente i problemi».
Da dove nasce, secondo lei, questo orientamento?
«L’informazione, innanzitutto, deve farsi conoscenza altrimenti non è vera informazione. Poi c’è l’aspetto culturale: viviamo in una società che sembra non essere più capace di accogliere la disabilità e mette in atto comportamenti eugenetici: non potendo eliminare la sofferenza, si decide di eliminare il sofferente. Quel neonato si è ripreso tutta la sua dignità da solo, resistendo per quasi un giorno al freddo senza cure e assistenza. Occorre invece dare risposte alla scelta abortiva, più e meglio di quanto si fa oggi».
Nella sua esperienza quali reazioni suscitano episodi come quello di Rossano Calabro?
«Il personale sanitario non rimane indifferente, molti infermieri e medici rimangono scioccati.
Andrebbero quantomeno effettuate le autopsie sui feti abortiti per stabilire l’esattezza delle diagnosi effettuate».