venerdì 29 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) PIÙ FAMIGLIA CIOÈ PIÙ LIBERTÀ PER TUTTI
2) La vita non finisce con la morte cerebrale
3) La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo
4) Primi passi all'Onu della moratoria sull'aborto - Il segretario generale Ban ki-Moon contro "la selezione sessuale prenatale"
5) Il disprezzo del maschile genera solo insicurezza
6) Quell’aborto «leggero» mistificazione che pagherete
7) «Tasse più eque per la famiglia: così si può fare»
8) La bussola del cristiano di fronte alla politica


DOMENICA, IN 1.300 PIAZZE
PIÙ FAMIGLIA CIOÈ PIÙ LIBERTÀ PER TUTTI

Avvenire, 29.2.2008
GIANFRANCO MARCELLI
Sarà bene bonificare subito il terre­no da una trappola, che i soliti cli­ché massmediali prevalenti cerche­ranno di stendere sotto i piedi del Fa­mily day-bis in programma domenica prossima, 2 marzo, in oltre 1.300 piaz­ze d’Italia (elenco consultabile sul sito www.forumfamiglie.org). Obiettivo: raccogliere milioni di firme a sostegno della petizione in favore di un fisco fi­nalmente
friendly, davvero amichevo­­le, per madri, padri e figli. E dunque per un fisco realmente giusto. Diranno, ne siamo certi, che la 'lobby cattolica' del­la famiglia sfrutta l’occasione delle ele­zioni ormai vicine per battere cassa, premendo su partiti e candidati con lo scopo di strappare impegni in cambio di consensi.
A parte che in un simile comporta­mento non ci sarebbe nulla di riprove­vole, visto che con le urne all’orizzon­te tutte le istanze sociali organizzate hanno un ovvio interesse e una pari le­gittimazione ad esporre le proprie a­spettative a chi dovrà governare le isti­tuzioni per i prossimi cinque anni. E tuttavia c’è la prova inoppugnabile che questo appuntamento era in pro­gramma da ben prima che si sentisse odore di scioglimento anticipato delle Camere. Ci riferiamo alla conferenza stampa del 24 ottobre 2007 a Palazzo Madama, nella quale l’iniziativa venne annunciata come necessaria conse­guenza delle attese create con il mega­raduno di piazza San Giovanni il 12 maggio precedente.
Detto ciò, la chiave di lettura più fede­le e incisiva per sintetizzare il traguar­do prefissato dai promotori della ma­nifestazione si può riassumere, ci pare, in un semplicissimo slogan: dare più li­bertà agli italiani. Libertà di far nasce­re e crescere nuovi cittadini, senza su­bire taglieggiamenti supplementari dalla macchina tributaria. Libertà di as­sumere impegni familiari stabili, sfug­gendo ai condizionamenti subdoli di un sistema retributivo e impositivo ri­tagliato su misura per i 'single'. Libertà di incarnare modelli di vita controcor­rente, improntati alla generosità e al­l’apertura verso l’altro, nonostante tut­ti i messaggi in senso opposto inculca­ti dal mood sociale dominante.
A qualche osservatore malizioso po­tranno apparire finalità troppo ambi­ziose, magari troppo nobili, a fronte di una rivendicazione a prima vista mol­to concreta e quasi terra terra: esone­rare dall’imposizione fiscale una quo­ta di reddito familiare pari allo stretto necessario per mantenere e allevare i fi­gli. Eppure la direzione di marcia è i­nequivoca. Si tratta di rompere un tabù che, alla lunga, condiziona e vanifica un diritto inalienabile degli individui. Parliamo del diritto a realizzare la «for­mazione sociale» cardine della nazio­ne, la più importante, a nostro parere, tra quelle che l’articolo 2 della nostra Costituzione indica come oggetto di ri­conoscimento e di garanzia da parte della Repubblica. E che gli articoli 29, 30 e 31 pongono come destinataria di speciale tutela e particolari agevola­zioni.
Nelle pagine dell’odierno inserto 'è fa­miglia' torniamo a illustrare in detta­glio le ragioni di equità, di convenien­za generale, di sostenibilità economica e anche di modernità, che depongono in favore di una riforma in fondo di fa­cile attuazione. I milioni di cittadini che, da dopodomani in poi, si affianche­ranno agli oltre 300mila già scesi in campo a supporto della petizione del Forum, non cercano né privilegi né e­lemosine. Chiedono invece di veder spazzare via assurde penalizzazioni. E­sigono che si esca una volta per sem­pre dalla logica di uno Stato paternali­sta, che lascia cadere dall’alto briciole risarcitorie sempre parziali e in defini­tiva umilianti. Si augurano che questa iniziativa abbia anche, ebbene sì, il va­lore di serissimo avviso per chi si ac­cinge a chiedere voti in nome di valori troppo spesso declamati solo a parole.




La vita non finisce con la morte cerebrale
Se ne è discusso al Consiglio Nazionale delle Ricerche
di Luca Marcolivio
ROMA, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Il confine tra vita e morte continua a porre notevoli dilemmi etici. In particolare intorno al concetto di "morte cerebrale".
L’argomento è stato trattato in modo sistematico nell’antologia Finis vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, edito da Rubettino, la cui traduzione italiana è stata presentata mercoledì sera al Consiglio Nazionale per le Ricerche (CNR).
Alla conferenza erano presenti alcuni medici, neurologi e accademici di fama internazionale, insieme al curatore del libro, il professor Roberto de Mattei, già Vicepresidente del CNR e docente di Storia del Cristianesimo all’Università Europea di Roma.
L’intervento del professor Paul A. Byrne, neonatologo del S.Vincent’s Medical Center di Bridgeport (Connecticut), ha subito messo in luce numerosi casi clinici sorprendenti. Quanto emerge dall’esperienza diretta del professor Byrne testimonia che spesso molti pazienti nati con danni cerebrali alla nascita, oggi conducono una vita sostanzialmente normale e, soprattutto, sono felici di vivere.
“Parliamo di morte – ha affermato Byrne – solo ed esclusivamente quando vengono a mancare tutte e tre, le funzioni vitali della persona: l’apparato circolatorio, l’apparato respiratorio e l’apparato cerebrale. Non è il cervello che conferisce la vita ad un corpo, bensì l’anima”.
“Il comitato di Harvard del 1968 – ha proseguito – identificò convenzionalmente il concetto di morte con la cessazione delle funzioni cerebrali, ovvero con il determinarsi di quello stato, definito di ‘coma irreversibile’. Da allora sono stati pronunciati almeno un’altra trentina di criteri per definire la soglia della morte”.
“La vita, in definitiva (e qui mi rifaccio al magistero di Papa Giovanni Paolo II) va tutelata dall’inizio alla fine, e non è accettabile che un medico possa contribuire alla morte di un proprio paziente, né che un uomo venga soppresso per salvarfe un altro uomo”, ha poi concluso.
“Il titolo del libro – ha affermato de Mattei – Finis vitae, allude non soltanto alla conclusione della vita, ma anche al significato della vita stessa. Il problema che abbiamo posto è di carattere giuridico-morale: è lecito asportare un organo vitale da una persona cerebralmente morta? La maggior parte dei sistemi giuridici occidentali risponde affermativamente”.
“Sul piano strettamente etico e filosofico – ha aggiunto de Mattei – si registra, al contrario, una comunità accademica divisa. La nostra posizione, in linea con il magistero della Chiesa, sostiene il rispetto della legge naturale, ovvero l’illiceità della soppressione di una vita, finanche per uno scopo nobile come salvarne un’altra”.
“La svolta di Harvard del ’68 fu condizionata dall’evento epocale del primo trapianto di cuore effettuato da Christian Barnard, alcuni mesi prima. Ciò poneva il dilemma morale delle modalità di espianto, visto il rapido deterioramento degli organi non vitali”.
“Ci si trovò dunque ad un bivio: modificare la morale o, in alternativa, cambiare il criterio di classificazione ed accertamento della morte – ha continuato –. La prima strada è la neoetica di impostazione laicista che si arroga il diritto di dire chi ha diritto o meno di vivere. È il sistema caro agli utilitaristi e ai sostenitori dell’aborto”.
“La seconda strada è scientifica e intende riformulare il momento della conclusione fisica della vita umana. Il punto è che non sta agli scienziati ma ai filosofi definire il significato profondo della vita”.
“Nessuno può affermare – ha proseguito de Mattei – che l’individualità biologica di una persona cessa con la morte cerebrale. Il cervello integra alcune funzioni dell’intero corpo umano ma non può essere l’integratore generale di tutte le funzioni vitali”.
“Un teologo come Vito Mancuso, citando a sproposito San Tommaso d’Aquino, arriva ad affermare che un neonato o un cerebroleso non sono da considerarsi persone, non avendo sviluppato le funzioni cerebrali – ha commentato lo storico –. In realtà la loro funzione vitale non risiede nelle facoltà intellettive, delle quali essi non sono privi, sebbene non possano esercitarle”.
Sul concetto di morte cerebrale è intervenuto anche il professor Josef Seifert, membro dell’Accademia Internazionale delle Scienze del Liechtenstein. “Se identificassimo la morte con la morte cerebrale – ha affermato Seifert – dovremmo ammettere che la distruzione dell’encefalo comporterebbe la dissoluzione dell’intero organismo umano”.
“La vita umana scaturisce, invece, dall’integrazione di corpo e anima – ha proseguito il filosofo – laddove l’intelletto è una funzione fondamentale ma non superiore alle altre, né può essere la sede dell’anima. Il collegamento tra anima e corpo è qualcosa che va ben al di là delle funzioni cerebrali”.
Di seguito il professor Cicero Galli Coimbra, neurologo dell’Università di San Paolo del Brasile, ha illustrato alcuni interessanti dati riguardanti la morte cerebrale e, in particolare i danni che possono scaturire ai pazienti dal test di apnea.
“C’è una vastissima percentuale (circa il 50%) di pazienti – ha detto Coimbra – in coma profondo che sono stati in grado di riprendersi (in alcuni casi fino al ritorno ad una vita normale) se sottoposti in tempo ad ipotermia, invece che al test di apnea”.
L’ultima relazione è stata quella di Mercedes Wilson, membro della Fondazione “Family of the Americas”, le cui considerazioni sono state essenzialmente di carattere etico.
“Il concetto di morte cerebrale – ha affermato la dottoressa Wilson – è stato ‘inventato’ per avvantaggiare gli interessi di una certa classe medica. È una falsità che viene utilizzata, spesso con la scusa di voler fermare il traffico di organi”.
“Il nostro punto di riferimento è la dottrina sociale della Chiesa che ha sempre ribadito la sacralità della vita, dal concepimento fino alla separazione totale dell’anima dal corpo: la morte si consuma solo in quell’istante e non è necessario essere medici per comprenderlo”.
“Dobbiamo accettare questa sfida, altrimenti saremmo condannati al silenzio”, ha poi concluso.


La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo
Avverte la dottoressa Taboada, esperta di Medicina Palliativa

di Marta Lago
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Una “eccessiva enfasi” sul “principio di autonomia del paziente” nel prendere decisioni sulla sua terapia conduce a forme di abbandono del malato e a carenze nella responsabilità del medico.
Lo ha affermato la dottoressa Paulina Taboada, medico internista esperto in Medicina Palliativa, nel corso del Congresso Internazionale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) – Città del Vaticano, 25 e 26 febbraio – sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”.
Al programma di interventi di carattere scientifico, antropologico, etico e deontologico, la professoressa, che insegna presso la Pontificia Università Cattolica del Cile e dirige il Centro di Bioetica della stessa università, ha apportato un'ampia riflessione sul tema “Mezzi ordinari e straordinari di mantenimento della vita: l'insegnamento della tradizione morale”.
La docente ha chiarito l'equivoco medico che equipara “la distinzione ordinario/straordinario” con l'“usuale/inusuale” nelle terapie.
“La distinzione tra mezzi 'ordinari' e 'straordinari' non si riferisce in primo luogo al tipo di mezzo in generale – ha detto nel suo intervento –, ma piuttosto al carattere morale che l'utilizzo di questo mezzo ha per una persona in particolare”.
Dilemma etico
“Come medico esperto di bioetica, la domanda più frequente che mi pongono colleghi e professori si riferisce ai criteri per decidere la limitazione o meno delle terapie nei pazienti”, ha detto a ZENIT la dottoressa Taboada a proposito del suo intervento.
E' uno degli interrogativi a cui “è più difficile rispondere”, aggiunge, “per noi, come medici, e a maggior ragione per i pazienti stessi e per le famiglie, che inoltre confidano in buona misura nel giudizio medico”.
“Di fronte a questo dilemma etico, la tradizione morale della Chiesa cattolica ha proposto la distinzione classica tra mezzi ordinari e straordinari”, “ampiamente conosciuta nel mondo medico e che si applica per le decisioni di limitare gli sforzi terapeutici”, ma “purtroppo nel mondo medico questo insegnamento non sempre è ben compreso”, osserva.
“La mentalità medica è formata da un pensiero scientifico-tecnico che ama le risposte concrete e rapide”, spiega, ma “per poter rispondere sul limite da raggiungere con le terapie mediche bisogna compiere un giudizio etico, un giudizio di prudenza, che è complesso, ha bisogno di calma e di tener conto di molti elementi”.
Tra questi, la dottoressa Taboada cita “l'utilità medica del trattamento – perché ci sono prove scientifiche che quella data cura possa aiutare in concreto il paziente”, “le complicazioni di quei trattamenti – perché tutti hanno associato qualche effetto negativo”, o anche “se quel trattamento è disponibile nel luogo in questione, una cosa difficile nei Paesi poveri, perché nelle capitali possono esistere e nei villaggi più lontani no”.
Dall'autonomia all'abbandono
Il giudizio – estremamente “delicato”, insiste l'esperta – sull'obbligatorietà morale di una cura pone anche davanti a decisioni “da prendere nel contesto individuale del paziente”.
La dottoressa ha detto a ZENIT che “nell'etica medica contemporanea esiste una tendenza a dare eccessiva enfasi al principio di autonomia del paziente”.
“Rispettando profondamente la libertà e l'autonomia delle persone, non sono d'accordo con questo approccio, perché penso che noi professionisti della salute abbiamo una responsabilità enorme di aiutare i pazienti a prendere decisioni giuste in relazione alla loro salute e alla loro vita”, ha avvertito.
“La responsabilità ultima verso la propria salute e la propria vita ce l'ha sicuramente la persona stessa – sottolinea –, ma per poter prendere una decisione responsabile circa le cure mediche c'è bisogno di informazioni, e queste in genere provengono dal personale medico”.
Perché il paziente possa quindi esercitare bene questa responsabilità, “ha bisogno che l'équipe sanitaria gli fornisca informazioni comprensibili, complete, adeguate alla sua situazione e che in qualche modo includano anche un giudizio morale”.
In questo contesto, la dottoressa propone un rapporto medico-paziente “più partecipativo”, che includa “un processo di dialogo per giungere a una decisione comune della terapia adatta al caso particolare”.
“Mi sembra che lasciare il paziente solo nel prendere decisioni, dandogli solo informazioni, e poi aspettare che scelga ciò che vuole sia una forma di abbandono”, ha sottolineato.
Ascolto e silenzio
Per accompagnare la persona nella fase finale della sua vita, ha proseguito la dottoressa Taboada, è “estremamente importante prendere sul serio il tema della sofferenza”.
“Quando si soffre sono coinvolte tutte le dimensioni e si sperimenta una certa solitudine; c'è qualcosa di incomunicabile”.
Quando ci si avvicina alla fine della vita, “ciò si moltiplica, perché alle sofferenze fisiche” “si somma il dolore spirituale”.
Per questo è importante “imparare ad ascoltare”, che “presuppone anche il captare i segni corporei, non solo le parole”, perché “in molte occasioni i pazienti esprimono molto di ciò che stanno vivendo attraverso i gesti”.
“Nella mia esperienza – ha confessato la dottoressa a ZENIT –, quando le persone dicono 'non ce la faccio più', 'non voglio continuare a soffrire', molte volte hanno bisogno di un sostegno umano, di qualcuno che li accompagni, e anche di un sostegno che getti una luce di senso su quello che stanno vivendo”.
“Mi aiuta una cosa che ho applicato con i pazienti e con me stessa – ha concluso –, una frase di Giovanni Paolo II: molte volte, con la sofferenza, ciò che bisogna fare è mantenere un rispettoso silenzio, e di fronte al mistero permettere a Dio di avere i suoi segreti”, “accettare che non possiamo comprendere tutto”.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]



29 febbraio 2008
Il Foglio, Giuliano Ferrara
Primi passi all'Onu della moratoria sull'aborto - Il segretario generale Ban ki-Moon contro "la selezione sessuale prenatale"
"Un numero imprecisato di donne non ha neppure diritto alla vita. Nessun paese, nessuna cultura, nessuna donna giovane o vecchia è immune da questo flagello. Per troppo tempo i crimini sono rimasti impuniti e i perpetratori hanno camminato liberamente"
Soltanto un anno fa la Commissione sullo status delle donne, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dell’“uguaglianza di genere” e della situazione femminile nel mondo, stabilì che l’aborto selettivo delle bambine, responsabile della sparizione di decine di milioni di femmine dalle statistiche demografiche cinesi, indiane e di altri paesi asiatici, non era cosa da meritare un’esplicita e inequivocabile condanna. Riunita a New York dal 26 febbraio al 9 marzo 2007, con all’ordine del giorno l’“eliminazione di tutte le forme di discriminazione e violenza contro giovani donne e bambine”, la Commissione bocciò la richiesta avanzata dalla delegazione americana perché fosse inserito nel documento finale un chiaro divieto di infanticidio e di aborto finalizzato alla selezione del sesso del nascituro. L’International Alliance of Women, che riunisce decine di associazioni femminili, non riuscì nell’impresa di far condannare l’infanticidio delle bambine. Un anno dopo all’Onu l’aria è cambiata. Lo dimostra il grande discorso che il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban ki-Moon, ha tenuto di fronte alla stessa Commissione. "La violenza contro le donne è una questione che non può attendere. Una donna su tre viene picchiata, costretta al sesso o ad altri abusi nella propria vita. Attraverso la pratica della selezione sessuale prenatale, un numero imprecisato non ha neppure diritto alla vita. Nessun paese, nessuna cultura, nessuna donna giovane o vecchia è immune da questo flagello. Per troppo tempo i crimini sono rimasti impuniti e i perpetratori hanno camminato liberamente".
di Giulio Meotti



L’ULTIMA CAMPAGNA CHOC DI OLIVIERO TOSCANI
Il disprezzo del maschile genera solo insicurezza

Avvenire, 29.2.2008
CLAUDIO RISÉ
V i descrivo le foto della campagna 'Contro la violenza sulle donne', affidata a Oliviero Toscani, che campeggiano da ieri sull’ultimo numero del settimanale
Donna Moderna,
oltre che sui siti Internet dei principali quotidiani.
A sinistra un bambino completamente nudo, con sopra la testa il proprio nome: Mario, impresso su una striscia nera e sotto i piedi la scritta: carnefice, anche quella su un graffito nero­sporco. A destra una bimba ricciolina, anche lei nuda, con sopra la testa la scritta: Anna, sempre su una striscia nera, e sotto i piedi la scritta: vittima (sempre sul nero). La pelle bianca dei bambini contrasta col nero-sporco delle scritte, e la violenza delle due parole: carnefice, vittima. Quei due bambini sono già due vittime.
Bisogna avere un cuore ben duro per non provare pietà per queste creature innocenti, esposte sulla stampa nude in un tempo di pedofilia fuori controllo, per veicolare un messaggio di odio fra i due sessi. Quello dei carnefici, i maschi, e quello delle vittime, le femmine. Designati come tali fin dall’infanzia. Perché, il loro status di carnefice, e di vittima, è evidentemente impresso nella loro appartenenza di genere. Un marchio in questo caso scritto sotto due creature prepuberi, ma che, secondo la violenza contro l’infanzia applicata in manifesti recentissimi, potrebbe essere stampato su un braccialetto da neonato: Mario, maschio, carnefice. In un’intervista sul settimanale, alla domanda: «Perché non è Anna a diventare carnefice?», Toscani risponde: «Un po’ dipende dal sangue, dal Dna, non c’è dubbio». La spiegazione conferma, ma è pleonastica.
Quando sotto una figura umana, caratterizzata dal colore della pelle, o dal sesso, si scrive carnefice, il messaggio è: quelli con quella pelle, o quel sesso, sono carnefici.
Messaggi di questo tipo dovrebbero far diminuire l’insopportabile violenza maschile? Ne dubito fortemente. Sarebbe la prima volta che una campagna di discriminazione razziale, fin dall’infanzia, rende più mansueto il gruppo discriminato. I maschi sono già disperati, per non poter salvare i loro figli dall’aborto quando la madre decide altrimenti, per non poterli crescere se si separano, per la moda di discredito sociale che accompagna il loro genere. Infatti, il suicidio tra i maschi è tre volte più frequente che fra le femmine: nel 2004 (ultimo dato disponibile), in Italia vi hanno ricorso 924 femmine contro 3.154 maschi. (Anche le donne uccise da maschi, purtroppo, sono state il triplo degli uomini uccisi dalle donne: 114, contro 21). Al di là di questi dati estremi, ma ugualmente significativi, è di queste ore il risultato di un’indagine organizzata da una brava psicologa, Gianna Schelotto, in una serie di scuole, da cui è risultato che 6 ragazzi su 10 (il 62%) tra i 14 e i 16 anni preferirebbero risvegliarsi donne.
Buon segno? Non tanto.
Antropologia, sociologia, e psicologia, misurano come il malessere identitario alimenti i comportamenti più nefasti.
L’uomo tranquillo e generoso è quello che sa bene che la sua identità ha un valore, e il mondo lo riconosce. Il male bashing,
il disprezzo del maschile, genera solo insicurezza, e devianza. Donne, uomini, e certamente i bambini innocenti spregiudicatamente utilizzati per veicolarlo, hanno tutto da perdervi.


COLLOQUIO SULLA RU486 CON MIA FIGLIA E LE SUE AMICHE
Quell’aborto «leggero» mistificazione che pagherete

Avvenire, 29.2.2008
MARINA CORRADI
— un gran È giorno per le donne italiane, ha dichiarato il ginecologo radicale Silvio Viale in occasione del primissimo passo «istruttorio» in sede Aifa della procedura per l’introduzione della Ru486. E per il presidente della Camera Fausto Bertinotti è una decisione che rassicura sul «grado di civiltà e sul rispetto della persona». Poi, Bertinotti ha definito la Ru486 un «anticoncezionale», in un lapsus infelice che però dice qualcosa di come la pillola per abortire, in quanto «pillola», e dunque all’apparenza cosa semplice che si manda giù con un bicchier d’acqua, viene comunemente percepita.
Leggendo di tanto entusiasmo e civiltà e progresso, mi è venuta in mente mia figlia. Caterina avrà undici anni in estate. È ancora una bambina, ma è già di quella generazione che – se il Progresso procede come deve – dai giornali, dagli amici, dalla tv, da tutto il mondo attorno sarà educata a pensare che, semmai ci si ritrovasse ad aspettare un bambino, è semplice: c’è una pillola. Forse le più avvertite delle sue amiche sapranno che non è una ma sono due, e che non funzionano proprio in un’ora ma in molte, e che te le danno solo in ospedale. Però, insomma, un paio di pillole, ci si dirà nelle confidenze fra quindicenni, e il problema è risolto. Di certo l’idea di una pillola preoccupa di meno che i ferri del chirurgo addosso. Sembra – sembra, soltanto – una soluzione più lieve. E se la soluzione sembra lieve, non diventa meno grave anche la paura di trovarsi nella situazione di abortire? Se accade, pazienza, c’è la pillola che rimette a posto le cose.
Non ragioneranno così quelle che oggi hanno l’età di mia figlia? Non è del tutto naturale che comincino a ragionare così? Ma a mia figlia e alle altre vorrei dire, da madre: guardate che è un inganno doloroso, quello in cui vi conducono. L’introdurre un sistema che abbassa la percezione del dramma che l’aborto in realtà è, non è farvi un favore. È invece una mistificazione, che pagherete voi. Ci cascheranno dentro le più sole, e quelle che riflettono meno.
Scopriranno con un sussulto di aspettare un figlio che non vogliono, e si rincuoreranno: beh, c’è la pillola, ora. Una pillola semplice, e nessun complicato pensiero. Lo crederanno – perché glielo avranno fatto credere. Poi, nelle lunghe ore in cui il veleno agisce, si affacceranno nelle ragazze educate a non pensare i pensieri negati, e ombre, e dubbi, e forse taciti ambivalenti desideri di quel figlio annientato. Ma sarà troppo tardi, in una solitaria silenziosa agonia. L’aborto 'semplice' sarà l’aborto più ferocemente censurato tra sé e sé; quello di cui non si dice con gli altri, non si fa cenno, non si piange. Quello che però torna tagliente come una lama di coltello il giorno in cui stringi felice fra le braccia un figlio (in un pensiero lacerante: il figlio che non è nato, era come lui). Quello che rode dolorosamente se poi nessun figlio, quando lo vuoi, arriva, e tu continui per sempre a ricordarti di 'lui'. ( Queste cose i noti ginecologi non le sanno, e neanche i presidenti della Camera. Le sanno, e le dicono poco, le donne). Caterina e le altre, quello che voglio dirvi è che quest’ultimo ritrovato del Progresso servirà a non riconoscere con chiarezza cosa è davvero in gioco, quando si rifiuta un figlio – a confinare l’aborto in una insostenibile leggerezza. Ma, non esiste un aborto 'leggero'. C’è una radice nella donna, di questi tempi negata, eppure c’è: un figlio, voluto o rifiutato, resta per sempre nella pelle, e nel cuore. Vi diranno: ora basta una pillola. Vi diranno: un bicchier d’acqua, e via. E, spensieratamente, nulla vi diranno del dolore.


INTERVISTA L’economista Vernizzi spiega i meccanismi del sistema basato sulle deduzioni
«Tasse più eque per la famiglia: così si può fare»

Avvenire, 29.2.2008
Un sistema semplice, di immediata applicazione, graduabile nel tempo, assolutamente lineare per la filosofia politica che lo sorregge, saldamente ancorata ai dettati costituzionali. Achille Vernizzi, docente di Statistica economica alla facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano, è tra gli economisti che più hanno studiato il sistema della tassazione familiare e la proposta avanzata dal Forum delle Associazioni familiari sulla quale domenica saranno raccolte le firme in milletrecento piazze d’Italia. La proposta alla quale si riferisce la petizione è basata sul cosiddetto Bif (Basic income familiare) e consiste nella possibilità di dedurre dall’imponibile il minimo vitale per ogni familiare a carico. I calcoli degli esperti, in una prima approssimazione, parlano di un minimo vitale intorno a 7mila euro l’anno per ogni figlio a carico, da riconoscere senza limiti di reddito. Ma l’attuazione della proposta è appunto graduabile nel tempo.
Partiamo subito da una delle obiezioni principali: questo sistema finirebbe per privilegiare i ricchi.
Non è vero. Penso che in Italia si sia abituati ad una sorta di ossessione redistributiva, che impedisce di guardare le cose come stanno realmente. Per cui quando si deve varare una misura per le famiglie si congegnano sistemi complicatissimi per misurare la condizione economica dei genitori, oltretutto di difficile e costosa verifica per l’amministrazione pubblica.
Ciò non vale invece per altre agevolazioni: rottamazioni di auto e motorini, incentivi per il risparmio energetico, donazioni ai partiti e quant’altro.
La nostra Costituzione, però, sancisce un obbligo di solidarietà: chi più ha, deve pagare tasse in misura più che proporzionale, la cosiddetta progressività delle aliquote, o anche equità verticale.
Certo. E in questo si dimostra che il Bif è un sistema lineare.
Perché non ostacola affatto la redistribuzione di ricchezza tramite la progressività. E anzi, se si volesse renderla anche più consistente, aumentando le aliquote marginali, ciò sarebbe possibile.
Allora dove incide la proposta del Forum?
Nel fatto che il reddito corrispondente alla spesa necessaria, 'vitale', sostenuta per il mantenimento e l’educazione dei figli non può essere tassato, perché viene usato per esercitare un diritto­dovere sancito dalla Costituzione. È anch’esso un obbligo di solidarietà, anzi un obbligo primario verso le nuove generazioni. Quindi questo minimo vitale non può far parte dell’imponibile, cioè del livello del reddito sul quale si calcolano le imposte. Del resto se un genitore non mantenesse il figlio, interverrebbe immediatamente la magistratura ad imporgli l’espletamento di questo obbligo.
Secondo alcuni calcoli, però, il vantaggio è maggiore per i redditi più elevati...
Il fatto è che il Bif riporta la progressività delle aliquote – l’equità verticale – nei suoi giusti canali. Un conto è se impongo aliquote crescenti su quote di reddito successive di un single. In quel caso è evidente che quelle fasce di ricchezza vanno a coprire bisogni via via meno necessari.
Nel caso della famiglia con figli, invece, c’è un effetto improprio della progressività perché aliquote in ascesa vanno a sottrarre reddito via via maggiore da sostanze che hanno la medesima destinazione: coprire i bisogni elementari dei figli. Quindi non è che a queste famiglie il Bif dà di più, ma solo restituisce quello che un uso improprio della progressività ha tolto (o meglio: non glielo toglie più, ndr). Come ha osservato il professor Marco Martini – l’economista che ideò il Bif, scomparso nell’ottobre del 2002 – il problema «non è di “dare” alle famiglie qualcosa in più, ma di smettere di sottrarre alle famiglie con figli qualcosa che esse non dovrebbero versare, riparando un’ingiustizia nei loro confronti che perdura da troppi anni». E attenzione: il dato da monitorare non è il reddito in sé ma il numero dei figli a carico. Come afferma un ben noto adagio: 'Un panino da due euro, quando hai moglie e due figli, ne costa 8'. In ogni caso, le soluzioni tecniche possibili sono svariate, la cosa importante è che il minimo vitale diventi una sorta di parametro di riferimento della politica familiare da aggiornare periodicamente, la base di una no tax area familiare valida per tutti.
C’è anche chi accusa il Bif di disincentivare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. È così?
Niente di più falso. Si può dire anzi che è esattamente il contrario. Gli attuali interventi per la famiglia sono basati sulle 'trappole della povertà', cioè a dire che se una donna, o un uomo, nella sua giusta realizzazione professionale arriva a guadagnare di più, perde progressivamente le agevolazioni di cui godeva per i figli. Insomma, è come se per lo Stato valesse questo monito: 'se vuoi il riconoscimento sociale del valore del figlio, rinuncia alla tua realizzazione professionale'. Questo sì che è un disincentivo al lavoro, tanto delle donne che degli uomini.
Questo invece non accade con il sistema del Bif, con le deduzioni, a cui si ha sempre diritto, anche nel caso delle famiglie 'incapienti' (cioé con redditi così bassi da non usufruire pienamente dei benefici fiscali, ndr), attraverso la restituzione dell’imposta negativa, un versamento da parte dello Stato. E poi la proposta del Forum lascia i coniugi liberi di scegliere le strategie migliori per la gestione della loro famiglia, senza condizionare a determinate soluzioni l’intervento. Dunque è la piena attuazione delle pari opportunità.
Il Forum sostiene inoltre che il Bif è il superamento dell’assistenzialismo.
Infatti si tratta di scegliere chiaramente tra due impostazioni. Da una parte quella di una sorta di dirigismo dello Stato che prima tassa le famiglie e poi eroga un intervento stabilito sulla base dei suoi criteri di ingegneria politica, o sociale. Dall’altra parte, invece, c’è il riconoscimento del valore di un figlio per tutta la collettività, la logica della sussidiarietà per cui non si deve mortificare la famiglia, togliendole quelle risorse che sono necessarie al mantenimento dei figli. Si tratta di intraprendere chiaramente questa seconda strada. È importante che si parta rispettando il criterio di riconoscimento universale del valore di ogni figlio, questo lo si può fare anche con una prima approssimazione del minimo vitale (cioè una cifra inferiore ai 7mila euro all’anno ipotizzati, ndr), che sarà poi raggiunto via via integralmente.
Si tratta di iniziare una rivoluzione culturale, che ha al centro la cittadinanza sociale e fiscale della famiglia. Ciò che appare fondamentale è imboccare questa strada, magari percorrendola poi in tappe successive. Tutto ciò con il Bif è possibile perché è un sistema semplice, di immediata applicazione, graduabile nel tempo.
Pierluigi Fornari


29.02.2008, La bussola del cristiano di fronte alla politicaGiorgio Vittadini, Il Giornale

giovedì 28 febbraio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mai ho amato tanto scartoffie, burocrazia e notai, di Giuliano Ferrara
2) Antologia ragionata del dott. Umberto Veronesi, nichilista di tendenza
3) Padre Pio, difesa delle stimmate
4) Benedetto XVI: “abbiamo bisogno di una conversione permanente”
5) Pio XII e Fatima «Ho rivisto il miracolo»
6) Diritto alla vita, insieme, del feto e della madre



27 febbraio 2008
Diario della gioia
Di Giuliano Ferrara
Mai ho amato tanto scartoffie, burocrazia e notai
Roma 27 febbraio. Dopo una giornata grigia, con il diavolo adagiato sulla mia spalla, oggi provo brividi di piacere alla vista di un modulo. La notte mi ha portato consiglio. M’illumino d’immenso quando entra il signor Notaio e autentica una firma. Tocco il cielo con un dito allorché ripasso il manualetto intitolato “istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature”. A ogni paragrafo che rinvia a un capitolo che rinvia a un dpr che rinvia a una nota, fremo di gioia. Circoscrizione per circoscrizione, lista per lista, facciamo ruotare bei nomi che saranno eletti alla Camera, e comunque saranno eletti. Scelti per aprire una strada e tenere viva una cosa morta da trent’anni: la strana idea, e molto sexy, che le cose tristi si combattono e quelle allegre si preparano, anche con la grintaccia della battaglia politica ed elettorale. Perché no?
Dopodomani al mattino di buon’ora al Ministero dell’Interno, consegna del contrassegno all’ufficio elettorale centrale, poi di corsa a Catania a parlare e ascoltare i molti giovani di don Francesco Ventorino: argomento la Spe salvi, l’enciclica che ha liquidato le illusioni sulla politica nutrite da molte generazioni del Novecento. Sulla politica, dico, non sulla superpolitica. Non sul fatto di esserci perché si ha finalmente qualcosa da dire di importante, qualcosa da comunicare in forme nuove. Su accoppiamento amoroso, nascita, educazione, destino, con qualche appunto per il dopo: e tutto questo dire all’insegna del grido che scatta in un incendio, in un naufragio come quelli che ci accompagnano da qualche decennio: “Prima le donne e i bambini!”.
Il pezzo di Agnoli su Veronesi letto nel server del Foglio a notte alta, un biglietto mail di un insospettabile amico navigatore che mi ha mandato un video di Al Pacino sul coraggio nel football americano alle ore una e zero nove del mattino, e tutta la nebbia che sale e scompare. Vogliamo lasciare libero il campo, per quanto piccolo sia lo spazio che siamo destinati a occupare, alla sola parola professional-politica, alle tiritere televisive su dove stai, con chi ti accompagni, di chi è la colpa, ha! ha!, il più pulito c’ha la rogna, e completiamo in fretta la Roma-Formia? Via: la politica è bella quando parla di tasse, salari, occupazione, pensioni, scuola, ospedali, inflazione e prezzi, energia, pulizia e sicurezza delle strade, ma è ancora più bella e vera se include le questioni vitali dentro le quali si esiste, si insiste a vivere.
Qui in nome della Donna vogliono introdurre nuovi veleni farmacologici, raccontano la storiella dell’aborto facile e indolore, mobilitano una capacità di truffa a mezzo stampa che ha del parossistico. E noi a casa, a compulsare un dizionario di bioetica o a leggere Moby Dick. No. Ci vuole un mese di fuoco, che riscaldi ancora di più, sempre con buonumore e responsabilità, senza fanatismo, la corrente calda che si è risvegliata dovunque non ci sia la Donna, ma ci siano donne e bambini.



Antologia ragionata del dott. Umberto Veronesi, nichilista di tendenza
Data:
27 Febbraio 2008
Autore:
Francesco Agnoli
Aborto, fecondazione artificiale, clonazione, eutanasia: il celebre oncologo diffonde il verbo della tecnoscienza con una crescente mole di pubblicazioni.
Cari cattolici democratici, ecco chi è il vostro capolista al Senato in Lombardia.
Umberto Veronesi è un famoso oncologo italiano, che, dopo una brillante carriera, ha deciso di dedicarsi alla pubblicistica, e a diffondere alcune certezze: la bontà dell'aborto, della fecondazione artificiale, della clonazione, della sperimentazione occisiva sugli embrioni umani e di tutte le altre possibilità tecnoscientifiche odierne. Recensito un libro di Umberto Veronesi, ne esce immediatamente un altro. Non è facile, dunque, starci dietro, benché i concetti siano piuttosto semplici, in quanto, in fondo, sono sempre gli stessi. Uno degli ultimi libri pubblicati, "Organismi geneticamente modificati" (Sperling&Kupfer, 2007), scritto insieme a Chiara Tonelli, inizia subito con un concetto che è caro al celebre oncologo: "La vita è infatti un insieme di reazioni chimiche", e "per la natura l'essere umano potrebbe essere semplicemente uno dei tanti tasselli da sacrificare, se l'evoluzione lo imponesse". Che sia chiaro: stiamo parlando di uomini, ma è come se stessimo parlando di animali, piante, reazioni chimiche, e basta! Il primo capitolo del libro è intitolato "Un pianeta destinato alla fame" e esordisce con una citazione da Thomas Malthus. Nihil sub sole novi: continua la battaglia contro l'uomo, continua l'opera di riduzionismo filosofico. Il lettore di Veronesi deve convincersi, sino alla spossatezza, di non essere nulla, se non un insieme di pulsioni e reazioni chimiche, talvolta assai pericolose, per il destino stesso del pianeta. Di non essere affatto un "animale politico", un "animale sociale", pensante e parlante, dotato di corpo e di anima: questo è il nucleo forte del Veronesi-pensiero.
Sui dettagli, si può variare, ma non troppo. Nel precedente "Scienza e futuro dell'uomo" (Passigli, 2005) Veronesi partiva sempre dalla stessa dogmatica affermazione: l'uomo con Copernico sarebbe "tornato ad essere parte di un processo evolutivo che include animali, piante e tutti gli esseri viventi. L'uomo viene così ridimensionato e nasce da lì il pensiero scientifico". Poi però quest'uomo, uguale a piante ed animali, diviene improvvisamente un essere capace di cose straordinarie, grazie alla potenza della tecnologia: "Basta intervenire sul Dna prima dell'impianto nell'utero, inserire o togliere un gene, e possiamo creare un bambino che vivrà centovent'anni. Questo potrebbe avvenire domani mattina, possiamo farlo" (p. 49). E proseguiva: "Pensi che, se volessimo, in un ovulo fecondato in vitro potremo inserire nel Dna il gene dell'ormone della crescita di un elefante e ottenere dei bambini alti quattro metri" (p. 50). Così lo scienziato che cerca di abbassarci un po' l'orgoglio di creature spirituali ci dice poi che possiamo fare tutto, proprio tutto, come dei novelli demiurghi. Nell'ultimo libro, già citato, riprende il concetto: "Teoricamente la stessa cosa si può fare anche con l'uomo: per esempio inserendo nel suo codice genetico il gene dell'ormone della crescita di un elefante"; oppure si potrebbe eliminare il gene P66: "Se lo si elimina quando un uomo è ancora embrione quella persona potrebbe vivere sino a 120 anni" (pp. 74-75). Dopo aver ipotizzato la vita sino a 120 anni, non solo a parole, ma anche investendo nella ricerca, che ritiene assai redditizia, sul gene P66, Veronesi arriva immancabilmente all'eutanasia (e talora può tornare l'amato elefante): "E' un dovere affrontare la morte serenamente, come gli elefanti, che si ritirano per morire, o gli alberi che cadono perché hanno concluso il loro ciclo vitale" (p. 73 di ‘Scienza e futuro dell'uomo')". Poco dissimile il ragionamento nel suo precedente "L'ombra e la luce" (Biblioteca di Repubblica, 2005): "Considero la morte nient'altro che un evento biologico. E' la rigenerazione, il lasciare spazio agli altri, come fanno quegli animali che da vecchi, si staccano dal branco per andare a morire soli" (p. 30). Sempre in questo libro, a pagina 46, scriveva: "Questo significa che se la scienza manipolasse il Dna, e in teoria può farlo, potrebbe determinare in laboratorio la lunghezza della vita. Se si togliesse il gene P66 a un uovo umano fecondato, si creerebbe una nuova specie umana in grado di vivere tranquillamente fino a cent'anni e oltre".
Nel suo "Il diritto di morire" (Mondadori, 2005), l'ossessione di Veronesi vitaprolungatainlaboratorio-mortedeterminatainlaboratorio si esprimeva con afflati misticheggianti: "E il motore di questa rigenerazione è il Dna umano che, riproducendosi, in ciascun uomo, propaga incessantemente la vita... potremmo quasi dire che la trasmissione del nostro Dna alle generazioni successive potrebbe essere letta come la versione moderna dell'immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale. Inoltre, trasferendosi da un corpo all'altro (?), riassume anche il concetto antico di reincarnazione" (p. 12). Infine, nel suo penultimo libro, "La libertà della vita" (Raffaello Cortina, 2007), completamente-calato nella mistica scientista, Veronesi auspica un mondo in cui gli anziani, a cinquanta o sessant'anni spariscano (p. 39) e in cui i giovani si riproducano per clonazione riproduttiva, senza bisogno di entrambi i genitori, come ai tempi dell'androginoermafrodita originario (pp. 85-100; è una scoperta scientifica di Veronesi, l'ermafrodita originario, o un ennesimo abbaglio filosofico-esoterico?). Studiare il Veronesi-pensiero, insomma, è facile e difficile allo stesso tempo: l'uomo un po' si ripete, un po' si contraddice, un po' filosofeggia, un po', però, pensa anche al concreto. Veronesi infatti non è solo prolificissimo scrittore, ma è anche azionista di una azienda di biotecnologie di nome Genextra, che avrebbe guadagnato lauti compensi dalla possibilità di sperimentazione occisiva sugli embrioni, vietata, almeno a parole, dalla legge 40; nello stesso tempo confida in un progetto di ricerca sulla longevità umana, convinto di poterla portare appunto ai 120 anni; in simultanea si batte per il testamento biologico. L'ultimo libro sull'argomento, "Nessuno deve scegliere per noi" (Sperling&Kupfer, 2007), è coordinato dall'avvocato napoletano Maurizio De Tilla. Scrive La voce della Campania del febbraio 2007 al riguardo: Maurizio De Tilla figurava nel 1992 tra le migliaia "di iscritti alla massoneria, Grande Oriente d'Italia, all'ombra del Vesuvio. Oggi De Tilla è coordinatore del, comitato Scienza e diritto della Fondazione Veronesi, nonché presidente nazionale della Cassa Forense. Quest'ultimo organismo ha recentemente espresso parere favorevole alla redazione del testamento biologico in forma di scrittura privata raccolta, a titolo gratuito, dall'avvocato, dal medico, o dal mandatario, anziché effettuata per atto di notaio" (forse un po' costoso). Sempre La voce della Campania mette in luce alcuni meccanismi coi quali Veronesi sta diventando ogni giorno che passa una voce martellante, sempre ascoltata e propagandata. Oltre a consigliare testamento biologico ed eutanasia, infatti, la sua fondazione, invita a firmare anche "un lascito testamentario, piccolo o grande che sia... per tramandare i valori in cui crediamo e testimoniare i sentimenti, che ci sono stati cari nella vita". "Ognuno di noi - aggiungono gli esperti contabili della struttura di Veronesi - può scegliere di legare tutti o parte dei propri beni allo sviluppo dei progetti della fondazione". Si possono lasciare soldi, ma anche "un bene mobile, un bene immobile, un appartamento, una casa, un terreno, che la Fondazione possa vendere o affittare per ricavare risorse per portare avanti i suoi progetti". Servono soldi per mantenere riviste, pubblicizzare libri, sostenere fondazioni, organizzare conferenze internazionali sul darwinismo, promuovere il testamento biologico pro eutanasia, finanziare le ricerche sul gene P66 per la longevità...
Continua La voce della Campania: "E sì che di denaro, appartamenti, gioielli o auto di lusso, proprio la Fondazione Veronesi potrebbe farne tranquillamente a meno. Basta scorrere l'altisonante parterre del comitato di sostegno: si va dalla regina delle multinazionali del farmaco Diana Bracco al banchiere prodiano Giovanni Bazoli; dal vertice Mediaset Fedele Confalonieri al presidente di Confindustria e numero uno Fiat Luca Cordero di Montezemolo; dalla Rcs di Cesare Romiti alla Todd's di Diego Della Valle; dal signor Telecom Marco Tronchetti Provera al potente banchiere torinese Maurizio Sella, fino al finanziere Francesco Micheli, a Gabriele Galateri di Genola in diretta da Mediobanca, o l'ex presidente del Banco di Sicilia Alfio Noto. Sicuramente non mancheranno di far sentire la loro generosità ad Umberto Veronesi; magari con lasciti testamentari anticipati a suo favore. Per la Fondazione, naturalmente. Così come non mancano di fargli sentire il loro sostegno emotivo intellettuali del calibro di Umberto Eco e Fernanda Pivano, Claudio Magris e Renzo Piano, senza contare la presenza - sempre nello stesso comitato ‘de roi' - del filosofo e sindaco di Venezia Massimo Cacciari, dell'ex presidente del Senato Marcello Pera e dell'editorialista Sergio Romano. Un partito trasversale del lascito. Tutti premi Nobel o quasi, ovviamente, i componenti del comitato scientifico: Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini, Paul Nurse, Carlo Rubbia, Margherita Hack e Lue Montagnier. ‘Come fare testamento a favore della Fondazione Umberto Veronesi' è poi il link finale, con moduli precompilati ed istruzioni tecniche, per quanti non avessero ancora capito ed apprezzato i benefici della donazione di sè...
Non guarda al colore politico, Veronesi, quando si tratta della salute. E che salute! Il suo Ieo (Istituto europeo di oncologia), altra multinazionale fondata sulla cura del cancro, può contare attualmente come capitale sociale sulla bellezza di quasi 80 milioni di euro. Fra i titolari di tanto ben di dio troviamo nell'azionariato sigle dell'uno e dell'altro schieramento. In area Polo, Mediolanum e la Popolare di Lodi. Sul versante Ulivo Fiat, Telecom, Res, Pirelli e Capitalia. E poi ancora le creature di Salvatore Ligresti Fondiaria e Ras, quindi Banca Intesa, Unicredit (qui il legame è doppio: lo stesso Veronesi è membro del comitato etico della banca), Assicurazioni Generali, l'Italcementi di Giampiero Pesenti, Edison, Banca Popolare di Milano, Mediobanca, oltre al colosso finanziario della ricerca farmaceutica Sorin spa. Quest'ultima rientra nel vasto arcipelago di Genextra, ‘una holding che conduce attività di ricerca sulle patologie dell'invecchiamento, oncologiche, neurologiche e degenerative', come si autodefinisce la società. Costituita nel 2003 su iniziativa di Francesco Micheli e della Fondazione Umberto Veronesi, a settembre 2005 Genextra entra nel campo delle nanotecnologie e acquisisce il controllo di Tethis, leader mondiale del settore. L'operazione è stata realizzata attraverso un aumento di capitale di circa un milione e mezzo di euro, ‘ma - precisa il comunicato stampa diramato dall'azienda - Genextra si è impegnata a sottoscrivere due ulteriori aumenti di capitale per complessivi euro 1,8 milioni da eseguirsi nel corso del 2006 e del 2007'. Ce la faranno? Inutile stare col fiato sospeso, anche perché timoniere di Genextra è ancora oggi il supercollaudato Micheli. ‘Negli anni Settanta - recita la sua biografia - era stato uno degli assistenti dell'allora presidente di Montedison Eugenio Cefis. In seguito fu al centro dell'avventura finanziaria che nel luglio del 1985 consentì a Mario Schimberni di impossessarsi di Foro Buonaparte'.
Veronesi, insomma, gli, amici se li sa scegliere. Come ha fatto proprio per l'organigramma dell'Istituto oncologico europeo che ai suoi vertici amministrativi vede big come la figlia di Salvatore Ligresti, Giulia, l'amministratore delegato di Telecom, Carlo Buora (balzato alle cronache per l'inchiesta sulle schedature illegali che ha travolto Giuliano Tavaroli), e poi il presidente della Popolare di Milano Roberto Mazzotta, i big della finanza nazionale Paolo Maria Grandi, Carlo Puri Negri, Matteo Arpe... Insomma, quando c'è la salute c'è tutto. E più che in salute è proprio l'Ieo: la creatura targata Veronesi di via Filodrammatici, a Milano, nel 2005 dichiara a bilancio un bel +117 milioni e mezzo di euro come ‘ricavi da vendite e da prestazioni', un attivo circolante pari a 63.560.169 euro e partecipazioni per 27.064.602. Piccolo particolare: nell'oggetto sociale la cura degli ammalati risulta fanalino di coda. Si legge infatti chiaramente: ‘Costruzione d'immobili per abitazione ed altri usi. Costruzione fabbricati ad uso abitazione, per fini agricoli, industriali, commerciali, etc. Ospedali e case di cura generali'. Pazienza" (http://www.lavocedellacampania.it/).
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Negli attuali dibattiti in campo bioetico ci sembra di notare una cosa piuttosto curiosa: invece di fare appello alle ragioni della scienza, invece di fornire prove, argomenti, cifre, conoscenze reali e documentate, a sostegno delle proprie posizioni, i fautori della clonazione, della manipolazione genetica, dell'eutanasia, dell'aborto, e quant'altro, si rifugiano nel campo filosofico, nell'affermazione di pseudo-principi, di concetti astratti, di slogan accattivanti e demagogici. Il confronto sui fatti e le cose, per questo motivo, risulta assai difficile: è lo stesso paradosso per cui l'adorazione della scienza, divenendo scientismo, finisce per abiurare la scientificità, la concretezza, l'esperienza, per divenire ideologia astratta, sganciata da ogni realtà. Il discorso vale anche per la battaglia ad ampio spettro promossa da Veronesi su tutto l'arco delle tematiche della vita. Non per la vita, intendo, ma per limitare, come direbbe lui, il dolore, le ingiustizie, gli "orrori" della vita e della natura, limitando la vita stessa (aborto eugenetico, sperimentazione occisiva sugli embrioni, eutanasia e liberalizzazione delle droghe "leggere").
Il suo intento si inserisce all'interno di quella visione utilitarista della vita che, nel luglio del 1974, condusse i firmatari del primo Manifesto sull'eutanasia (pubblicato all'interno del The Humanist) ad affermare: "E' immorale tollerare, accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e nella dignità dell'individuo; ciò implica che lo si tratti con rispetto e lo si lasci libero di decidere ragionevolmente della propria sorte [...]. In altri termini bisogna fornire il mezzo per morire ‘dolcemente, facilmente' a quanti sono afflitti da un male incurabile o da lesioni irrimediabili, giunti all'ultimo stadio. Non può esservi eutanasia umanitaria all'infuori di quella che provoca una morte rapida e indolore ed è considerata come un beneficio dell'interessato. E' crudele e barbaro esigere che una persona sia mantenuta in vita contro il suo volere e che le si rifiuti l'auspicata liberazione quando ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate [...].Ogni individuo ha il diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità".
A chi legga i libri di Veronesi, o i suoi articoli, non può non balzare agli occhi questa semplice verità: il suo argomentare è essenzialmente filosofico, teologico, e assai poco medico. Cita il suo amico Massimo Cacciari, l'Ecclesiaste, il limbo e la sofferenza di Giobbe, Eraclito, gli stoici; sant'Agostino, san Tommaso, alcuni teologi protestanti, Diderot e D'Alambert. Lo fa, anzi, con una facilità, apparente, che potrebbe far invidia anche ad un professore di filosofia. Così, di fronte ad una tale abbondanza di argomentazioni filosofiche, a qualcuno potrebbe sorgere un dubbio: che abbia sbagliato mestiere, o che abbia intrapreso gli studi medici, per errore?
Scherziamo, naturalmente, e non oseremmo mai disconoscere la sua abilità e competenza di medico, benché siamo molto più perplessi sulle sue doti di filantropo, cui pure tiene moltissimo. Anzi, proprio questo tenerci, questo servirsi in molte occasioni della sua qualifica di "amico dei malati", sa un po' di ideologico, di demagogico, di non gratuito, specie se poi si scopre che va di pari passo con attività troppo imprenditoriali, come ad esempio le ricerche sul gene P66, dal quale ci si attendono non solo passi avanti per la longevità umana, ma anche, senza remora alcuna, lautissimi guadagni economici (vedi Affari e Finanza del 3 novembre 2005). Tornando alla filosofia, le parole che più ricorrono, nel gergo di Veronesi, sono libertà, casualità, legge del più forte, e, soprattutto, male, dolore, sofferenza. Il vero scandalo, ai suoi occhi, è lo scandalo del male: "Il mondo è pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli, dove tutti sono contro tutti". La cosa del resto è assai comprensibile, umanamente parlando: anche Cristo è stato scandalo; nella sua sofferenza ed umanità, per i suoi stessi apostoli. Per stare un po' bene al mondo, però, come diceva Chesterton, "abbiamo bisogno, guardando ciò che ci circonda, di avere insieme la sensazione della sorpresa e la sensazione dell'accoglienza". Abbiamo bisogno cioè di scorgere quello che c'è, o che ci può essere, o che, si può costruire, e non solo quello che manca, come se fosse condannato a mancare per sempre. "La mia accettazione dell'universo - continuava il grande scrittore inglese - non è ottimismo; è piuttosto qualche cosa di simile al patriottismo. Si tratta di lealtà elementare [...]. La questione non è di sapere se il mondo è troppo triste per essere amato o troppo lieto per non essere; la questione è che quando sii ama una cosa, la sua letizia è una ragione per amarla e la sua tristezza una ragione per amarla di più". Sono paradossi, è vero, ma nulla rispetto al paradosso per eccellenza, e cioè all'incredibile parentela che esiste, al mondo, tra amore e dolore! Questa parentela, che il cristianesimo ha colto, e che la vita mostra sin dal suo comparire, allorché mescola il dolore del parto con la gioia della nascita, a Veronesi sfugge totalmente: per questo, dopo aver accusato più volte il cattolicesimo di pessimismo, naufraga, paradossalmente, nel pessimismo più radicale e totalitario, che abbassa l'uomo a bestia, la vita a dolore, la natura a foresta di belve, la morte a cessazione di tutto, il tutto a nulla. Espropriato Dio della bellezza della creazione, e l'uomo della speranza teologale, Veronesi apre una sola finestra, quella dell'orgoglio luciferino, dell'uomo che si fa Dio di se stesso, e che ricrea, o distrugge, a suo piacere, la natura "mostruosa": l'uomo che "determina la lunghezza della vita in laboratorio"; l'uomo che urla la sua rabbia attuando un "dominio sul proprio Dna, o sul Dna di altri esseri viventi" ("L'ombra e la luce"). Dominio effimero e fasullo: triste illusione di chi ha l'animo sconvolto dalla ribellione, di chi invoca il peccato, la disobbedienza di Adamo come "il primo atto di coraggio osato dall'uomo".
Vengono in mente, a tale riguardo, la posizione di Alain Delon ("Non lascerò che sia Dio a stabilire l'ora della mia morte"), o quella antitetica, di un uomo similmente dissoluto e ribelle, ma profondo, come il grande scrittore Oscar Wilde. Dopo una vita di orgoglio, di peccato celebrato e di presunzione, una volta sperimentato il dolore della prigionia scriverà, prima di convertirsi, di aver capito che il male nel mondo non è la negazione nè la dimostrazione della non esistenza di Dio: "Ora mi pare che l'amore di qualche specie è l'unica spiegazione possibile alla straordinaria quantità di dolore che c'è nel mondo. Non posso concepire nessun'altra spiegazione. Sono convinto che non ne esistono altre, e che se il mondo fu proprio costruito col dolore, fu costruito dalle mani dell'amore, perché in nessun altro modo l'anima dell'uomo, per cui il mondo è stato fatto, potrebbe raggiungere l'intera misura della sua perfezione". E concludeva però affermando che "lo stato di ribellione chiude le vie dell'anima, escludendo le aure del cielo". Una ribellione contro Dio che lui stesso aveva sperimentato, e rinnegato, e che rimane presente, invece, nelle tante considerazioni filosofiche e teologiche che Veronesi mescola alle sue posizioni bioetiche; e che deriva forse che dall'aver visto troppa gente morire, di cancro, sola, senza Dio e senza il prossimo. Perché nell'era dell'uomo che si fa Dio, che eleva la ribellione al di sopra della fiducia e dell'abbandono, il dolore perde veramente il suo significato, e lascia a molti, come unica via d'uscita, solo un estremo atto di sfida, di disperazione e di solitudine, come l'eutanasia. Ad essa si riferisce Veronesi, ancora una volta, nel suo pubblicizzatissimo "Il diritto di morire", in cui non fa che ricollegarla al concetto di libertà, al principio di autodeterminazione: l'eutanasia non sarebbe altro, in fondo, che un modo come un altro per essere veramente se stessi, consapevoli che alla fine, per affrontare la morte "con maggior serenità", basta non credere nell'aldilà, ma soltanto nel perpetuarsi del patrimonio genetico e cioè del Dna, che "riproducendosi in ciascun uomo propaga incessantemente la vita" (mentre Veronesi propaganda la "dolce morte"), e realizza una "versione moderna dell'immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale"! Amenità e filosofemi a parte, il resto dell'argomentazione pro eutanasia si riduce ad un falso pietismo a buon mercato, in cui appunto la parola pietà viene di continuo profanata, scimmiottata, invertita, proprio come ai tempi di Adolf Hitler "Si garantisca - scriveva il dittatore al dottor Karl Brandt, decretando l'eliminazione di migliaia e migliaia di giovani e anziani malati - la morte pietosa ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano".
A tale proposito lo psichiatra americano Leo Alexander, a cui fu commissionato uno studio sui piani eutanasici del nazismo, scriveva: "Qualunque proporzione abbiano assunto alla fine i crimini nazisti, a chi li ha studiati appare ormai chiaro che iniziarono a piccoli passi. All'inizio si trattò solo di un piccolo spostamento nell'atteggiamento di fondo dei medici. Il primo passo fu l'accettazione dell'idea, fondamentale nel movimento pro eutanasia, che può esistere una vita non degna di essere vissuta. Questo atteggiamento, all'inizio, riguardava esclusivamente i malati molto gravi e cronici. Gradualmente la sfera di chi poteva essere incluso nella categoria si andò allargando fino a comprendere gli individui socialmente improduttivi, quelli ideologicamente indesiderabili...". E' del tutto evidente, pertanto, che se l'umanità perde il concetto di sacralità della vita, e si allontana dall'ambito del sacro e dalla fede, anche il culmine dell'esistenza (cioè la morte) perde il suo profondo valore. Il tempo del morire acquisisce significato solo se apre ad una trascendenza, verso una pienezza di vita. Nell'era della tecnologia e del progresso illimitato, però, la ricerca dell'utilità determina il sorgere dell'etica edonistica, per la quale l'evento della morte è nient'altro che un semplice incidente di percorso.
A tal proposito vale la pena di ricordare la splendida riflessione di Philippe Ariès, il quale nell'affrontare il tema della mutazione della percezione della morte in occidente, scrisse: "La morte è divenuta tabù, una cosa innominabile [...]. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente [...] oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell'amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori". Ecco, di fronte a tutto questo, alle nuove e ridicole divinità, come ad una concezione inumana del dolore, non si può solo ridere, con volgare fragore, come si sarebbe tentati di fare. Al contrario, i cattolici, come si sono adoperati con i Centri di aiuto alla vita per rendere meno sole le mamme e le famiglie, di fronte ad una nascita, si riorganizzano e si riorganizzino oggi come i volontari della Associazione Gigi Ghirotti di Genova, nata per assistere in casa, ogni anno, circa mille malati di cancro, sia attraverso una presenza umana ed amichevole sia cercando di "lenire il dolore nella sua dimensione fisica per mezzo dei farmaci e di tecniche antalgiche diverse". Altrimenti è inevitabile che si finisca come nell'Oregon, dove l'eutanasia, che è spesso considerata come la soluzione finale al dolore solitario, avviene nella solitudine più nera: "la legge dell'Oregon infatti impone al medico di incontrare il paziente una sola volta per determinare se è in fase terminale, di rinviarlo ad un altro medico per conferma, di aspettare due settimane e di vedere se riceve una seconda richiesta di morte. Dopodiché la prescrizione può essere eseguita e il medico può rimanere fuori dal resto della vicenda", di modo che in molti casi "colui che ha eseguito la prescrizione ha conosciuto il paziente soltanto poche settimane prima della (sua) morte".
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Ma veniamo al neodarwinismo di Veronesi. Quale può essere il collegamento tra le grandi discussioni odierne sulla moralità di certe manipolazioni della vita, e la teoria darwinista, nella sua parte relativa all'origine dell'uomo da antenati scimmieschi? Ce lo spiegava; indirettamente, già molti anni fa un filosofo inglese, Bertrand Russell, assai distante da posizioni cattoliche: "Un seguace dell'evoluzione sosterrebbe che non solo la dottrina dell'uguaglianza di tutti gli uomini, ma anche quella dei diritti dell'uomo, deve essere condannata come antibiologica, poiché fa una distinzione troppo netta tra gli uomini e gli animali" ("Storia della filosofia occidentale"). Il discorso è semplice: se l'uomo è solo animale, i suoi diritti, ed in particolare quello alla vita, non sono diritti intangibili, inalienabili! Se è solo animale, e cioè materia in evoluzione, inoltre, vi sono stadi più o meno avanzati: uomini, o "razze", o classi sociali, che "valgono" di più o di meno!
Ma andiamo con ordine. Bisogna anzitutto ricordare di nuovo che l'evoluzione in sé è perfettamente compatibile con il pensiero cristiano e con il concetto di creazione, al punto che fu in qualche modo intuita già da san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant'Agostino d'Ippona e tanti altri, i quali ritenevano che Dio, nel creare la materia, avesse immesso in essa le capacità, o rationes seminales, per generare nel tempo le varie creature. Ma non è altresì compatibile con l'antropologia cattolica l'idea darwinista, per nulla scientifica, che tutto sia dovuto al caso, e che l'anima non sia in fondo che materia evolutasi attraverso imprecisate ed inspiegabili modalità. Non è, cioè, compatibile con la nostra fede né con l'intelligenza ritenere, come facevano già nell'Ottocento pensatori darwinisti, che il cervello sia solo una macchina a vapore, e che il pensiero venga da esso prodotto analogamente a come l'urina o i succhi gastrici vengono secreti da altri organi. Se infatti così fosse, crollerebbero i fondamenti per affermare la libertà dell'uomo, la sua coscienza, la morale, l'immortalità dell'anima, le sue aspirazioni e tutto ciò che fa di noi degli "animali" razionali, sociali, capaci di scegliere tra il bene e il male. Ne è consapevole lo stesso Darwin, allorché sostiene che il senso di giustizia dipende dall'abitudine, e non riguarda qualcosa di metafisicamente Vero: "Se ad esempio gli uomini fossero allevati nelle stesse condizioni precise delle api, possiamo supporre che, come le api operaie, le nostre femmine non sposate riterrebbero un sacro dovere uccidere i loro fratelli, le madri cercherebbero di uccidere le loro figlie fertili, e nessuno penserebbe di intervenire" ("L'origine dell'uomo", Newton, 1994, p. 603). Così, se l'uomo fosse veramente, solamente, un'altra forma di scimmia, verrebbe meno l'idea, come scriveva Russell, che possano esistere dei "diritti umani" sacri ed inviolabili, superiori a quelli delle altre creature. Infatti, a ben vedere, dovrebbe valere, per le bestie come per noi, la stessa legge: quella del più forte, la legge della selezione naturale. Legge, questa, che piaceva indifferentemente a Marx ed Engels, che la considerava l'altra faccia della medaglia della lotta di classe, e agli economisti liberisti, di cui Darwin era un accanito lettore, ritenendo che "la forza motrice dell'evoluzione" fosse "una specie di economia biologica in un mondo di libera concorrenza" (Russell, op. cit.).
Legge, ancora, che affascinò anche due grandi ammiratori di Darwin, Hitler e Stalin, suoi appassionati lettori, oltre che i primi ad applicare politicamente concetti quali l'eugenetica, la negazione dell'individuo in nome della specie (vedi statalismo e nazionalismo), la selezione artificiale delle razze o delle classi sociali. Le conseguenze pratiche del cieco materialismo evoluzionista sono infatti devastanti. Ne esplica alcune lo stesso Darwin, quando nel suo "L'origine dell'uomo", dopo aver proclamato l'inferiorità mentale e fisica della donna rispetto all'uomo, dopo aver parlato degli "idioti" come esseri "molto pelosi che tendono a esibire caratteri di un tipo di animale inferiore", e dopo aver citato suo cugino, Francis Galton, padre dell'eugenetica moderna, propone che la generazione tra uomini avvenga nello stesso modo di quella tra bestie di un buon allevamento: "Noi uomini civilizzati, d'altra parte, facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità per salvare la vita di chiunque, fino all'ultimo momento. Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all'allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana. E' sorprendente quanto presto la mancanza di cure, o cure non appropriate, porti alla degenerazione di una razza domestica, ma eccettuando il caso dell'uomo, è raro che qualcuno sia così ignorante da permettere che i propri peggiori animali si riproducano" (op. cit., p. 628). Riproporre oggi, dopo che, anche la scienza ammette l'impossibilità di penetrare realmente nel regno della psiche (dimostrando così la sua assoluta alterità rispetto alla materia), l'idea che Darwin ha dell'uomo, non è allora altro che il tentativo di fondare filosoficamente un terribile tentativo in atto: quello di cancellare il concetto di diritti umani, abbassandoli al livello dei diritti animali; quello di eliminare la concezione cristiana che vincola la dignità umana all'anima immortale, e non alla "composizione materiale", alla salute fisica, alla povertà o alla ricchezza; quello, in sintesi, come si è già detto, di trasformare i medici in veterinari. Ecco spiegato il celebre discorso di Veronesi (Corriere della Sera, 15 maggio 2005) sul suo essere "animalista e vegetariano", e nel contempo sull'uomo che equivale geneticamente allo scimpanzé, per poi legittimare la sperimentazione occisiva sugli embrioni umani! Quello che importa è infatti abbassare l'uomo al livello di animale, per giustificare così, filosoficamente, l'aborto selettivo dei feti malati, o semplicemente imperfetti; le diagnosi prenatali con scopo eugenetico, sino alla proclamazione, come ha fatto Franco Chiarenza, vicepresidente della Fondazione Einaudi, del "dovere" per i genitori di eliminare i figli con handicap; la selezione eugenetica degli embrioni, e mille altre mostruosità, sino alla stessa eutanasia. Proprio riguardo a quest'ultima, infatti, in un libro in cui ne propone la liceità, Veronesi scrive: "Considero la morte nient'altro che un evento biologico. E' la rigenerazione, il lasciare spazio agli altri, come fanno gli animali che da vecchi si staccano dal branco per andare a morire da soli. Credo che una vita basti e avanzi. Ho visto morire meglio i pazienti senza fede" ("L'ombra e la luce") Non siamo noi uomini, dunque, "bruchi nati a formare l'angelica farfalla", come secoli di fede, cultura, arte e filosofia ci hanno insegnato; non "animali razionali" capaci di pensiero e di amore, ma solo bestie di un branco, che devono via via fare spazio ad altre: masse animali, senza volto e senz'anima, senza individualità e senza valore, se non quello generico della specie. "Siamo - scrive ancora Veronesi - parte di un grande disegno biologico che prevede quattro tappe. Nascere, procreare, allevare i figli, morire" (op. cit.). Nient'altro: il resto, per lui, come per gli altri darwinisti, sono favole e sentimentalismi da cattolici! Ecco perché, per concludere, l'intreccio tra darvinismo e disprezzo dei "diritti umani", evidente sul piano filosofico, è perfettamente dimostrabile anche sul terreno storico: fondatori dell'eugenetica sono il figlio di Darwin, Leopold, e, soprattutto, suo cugino, Francis Galton; apologeti e apostoli dell'eutanasia, dell'aborto, della fecondazione artificiale, e financo della liberalizzazione delle droghe, sono l'amico e discepolo di Darwin, Thomas Huxley, e i suoi figli Aldous e Julian. A quest'ultimo, in particolare, si deve non solo l'aver contribuito alla formulazione del neodarwinismo, ma anche la fondazione della American Eugenics Society, della British Eugenics Society e della Euthanasia Society.
* * *
Il buon Umberto Veronesi non conosce riposo, non vuole permettere che fondamentalisti, assolutisti, dogmatici di ogni genere, come ama definirli, infettino il mondo con la loro ignorante superstizione. Per questo li combatte, producendo a ritmo continuo libri-interviste, in cui cambiano i partner e gli editori, ma rimangono i concetti fondamentali di sempre: difesa dell'aborto, della fecondazione artificiale, della manipolazione genetica e della clonazione. Una delle ultime fatiche di Veronesi, "La libertà della vita", è un dialogo con un altro pontefice del libero pensiero, Giulio Giorello. Due giganti a confronto, sui grandi temi della vita, della scienza, dell'amore. La presenza di Giorello garantisce una cosa: l'assenza di quegli errori marchiani, di quelle date sbagliate, di quei riferimenti storici inopportuni che solitamente impreziosiscono gli interventi di Veronesi (tipo l'Impero romano che era "in decadenza" nel VII secolo). Ma veniamo al sodo. Per iniziare, secondo una strategia propagandistica affinata, occorrono alcune boutade, come l'affermazione secondo cui la chiesa sarebbe sempre e comunque per il dolore, fino se possibile a contrastare le cure palliative e l'utilizzo di farmaci antidolorifici, o come la storiella dei medievali che in nome di Dio si opponevano all'invenzione degli occhiali peri miopi. Si crea così lo sfondo grottesco su cui innestare l'idea fondamentale: sappia il lettore che i due protagonisti del dialogo sono in lotta permanente contro entità spaventose, di una ignoranza e di una rozzezza senza pari.
Fatta la premessa, lo scienziato Veronesi può sbizzarrirsi a sostenere, anzitutto, che il compito affidato dall'evoluzione all'uomo (animale senz'anima) è solo quello di fare figli: "Dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il suo compito è finito, occupa spazio destinato ad altri", per cui bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant'anni sparissero" (p. 39). Si passa poi a Dio, che Veronesi liquida in poche righe, come una invenzione dell'uomo, di cui nella Russia comunista nessuno in fondo sentiva il bisogno. Del resto "anche gli elefanti pregano" (p. 47), e la fede degli uomini nasce di fronte ai temporali, ai lampi e ai tuoni, per paura... (evidentemente permane, purtroppo, anche nell'era del parafulmine, ma solo come residuo primordiale). Ciò non toglie, riprende Veronesi, che si debba dialogare anche con i credenti: pensierino ipocrita di cui ogni buon laicista ama fregiarsi, dopo varie manifestazioni di alterigia e disprezzo. Il culmine del grottesco, in un libro che è veramente piccino in tutti i sensi, viene raggiunto nell'ultimo capitoletto, dove si parla di clonazione, terapeutica e riproduttiva. "E perché non provare a immaginare per i tempi futuri piccoli gruppi che si riproducono e si, diffondono per clonazione?" (p. 83). A questo punto Veronesi immagina il caso di una donna bella e intelligente che voglia un figlio, senza uomini, perché li odia, e ricorra quindi alla clonazione. Come e perché impedirglielo, chiede Giorello, secondo cui tutto ciò che uno desidera può automaticamente farlo (senza rispetto alcuno per l'innocente il debole che vi è coinvolto): "A chi fa male la scelta della nostra ipotetica donna che odia l'intero genere maschile?". E Veronesi risponde: "Non credo che di per sé la mancanza dell'eventuale padre possa costituire da sola una ragione contro quel tipo di clonazione" (p. 89). E prosegue: "Ha senso, e se sì dove è il senso, che per avere un figlio ci vogliano sempre comunque un maschio e una femmina?... Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Certo per le specie evolute la dualità maschio femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il Dna e di clonare? Perché tanta paura della clonazione se l'abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo ad un parto gemellare? Come tu dicevi: perché mai dovremmo per principio vietare alle donne di donare se stesse?" (p. 91). Detto questo, Veronesi conclude addirittura dicendo che la clonazione è in realtà il metodo migliore di riproduzione della specie umana perché "il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione" e nessuno "sarebbe più ossessionato dalla ricerca del partner". Nascerebbe così una società "quasi felice", in cui ognuno vivrebbe "quell'ansia di bisessualità che è profondamente radicata in noi", e "avremmo davanti a noi il Paradiso terrestre". Finisce così, con questa splendida promessa l'ennesima filippica dello "scienziato" laico, che vuole per tutti, in nome della libertà e della scienza, figli in provetta, figli clonati, uomini ermafroditi, e una società senza l'amore tra uomini e donne. E poi dicono che la chiesa è sessuofobica...
Fonte: Il Foglio 27 febbraio 2008


Padre Pio, difesa delle stimmate

Per rispondere ai sospetti dello storico Luzzatto, i due giornalisti Tornielli e Gaeta riesaminano tutta la documentazione raccolta sulle piaghe del cappuccino di Pietrelcina. Il verdetto: si tratta di accuse vecchie, già risolte e basate su fonti parziali. Leggendo le quattro pagine della PREMESSA scritta dagli autori, si può già comprendere l’importanza del libro…



Un libro per rispondere a un libro. Scomodando Jean Guitton «se la critica può mettere in crisi il credente, la critica della critica può ristabilire la verità». Spentesi le polemiche che a fine ottobre riempirono giornali, talk show e blog, con il volume di Sergio Luzzatto su Padre Pio, ecco un nuovo volume con il proposito «di ristabilire la verità dei fatti», dopo aver riscontrato «affermazioni apodittiche», «omissioni», «approssimazione». Al contrattacco, tra rilievi e contestazioni, riletture di documenti e nuove testimonianze, vanno Saverio Gaeta ed Andrea Tornielli da oggi in libreria con Padre Pio. L’ultimo sospetto (Piemme, pp. 240, 14,90). Convinti che il libro di Luzzatto «rappresenta di fatto un atto d’accusa contro P. Pio sulla base di vecchi e superati sospetti», meno convinti dal suo modo di snobbare le fonti agiografiche («salvo poi riferirsi ad esse... quando può far comodo»), ma, soprattutto, nella certezza che le stimmate per mezzo secolo sul frate di Pietrelcina «non sono sovrastrutture o semplici proiezioni mentali », i due hanno rivisto negli archivi della Congregazione per la Dottrina della fede e in quella delle Cause dei santi, i documenti sul caso e la Positio.
Obiettivo, dimostrare «come i vecchi sospetti, messi in pagina da Luzzatto siano stati abbondantemente superati e risolti». La controinchiesta verte per larga parte proprio sul tema delle stimmate (la miccia – si ricorderà – che accese il dibattito, a partire da sospette richieste da parte del cappuccino di acido fenico e veratrina). Gli autori passano al vaglio ogni fonte coeva circa la scoperta delle piaghe da parte del frate sul suo corpo, sia i successivi racconti da lui fatti a direttori spirituali e confratelli (nel 1911 a padre Benedetto Nardella, nel 1912 a padre Agostino Daniele, nel 1918 ancora a padre Benedetto…), sia altre testimonianze contemporanee (padre Emilio da Matrice, padre Paolino da Casacalenda, la figlia spirituale Nina Campanile, padre Pietro da Ischitella, i vescovi Alberto Costa e Anselm Edward Kenealy) sino a quella di padre Placido da S. Marco in Lamis. Fu quest’ultimo, nel 1919, a realizzare la prima fotografia delle stimmate. Un’immagine – si legge nella Positio – scattata contro la volontà di Padre Pio, che si sentì dire dal fotografo: «Sono venuto con l’ordine del Provinciale e devi obbedire. Se non obbedisci, offendi Dio»; «A tale intimazione Padre Pio, con l’amarezza nell’animo, chinò il capo». Quanto basta per rinfacciare a Luzzatto di aver detto, riguiardo al fatto che Padre Pio si vergognasse delle stimmate: «È vero, nel senso che per cinquant’anni le ha tenute coperte con dei guanti. È falso, perché nella foto che non per caso abbiamo scelto con Einaudi come copertina del mio libro nessuno obbligava Padre Pio». Gaeta e Tornielli rileggono poi le relazioni dei medici coinvolti nell’esame delle stimmate (primo Angelo Maria Merla, suo medico curante, nonché sindaco socialista di San Giovanni Rotondo). Quindi, ripercorrendo la ricostruzione della Congregazione delle Cause dei santi, affiancano i riferimenti di carte e dichiarazioni giurate sui farmaci richiesti dal cappuccino. Evidenziando – circa le quantità – descrizioni spropositate di Luzzatto (ad esempio quando nota che «nel convento... erano indubbiamente circolati bottiglioni e bottigliette di acido fenico o di quant’altra sostanza irritante »), ma soprattutto ribadendo l’uso dell’acido fenico solo per la disinfezione delle siringhe in convento, e quello della veratrina per delle burle. Solo dal fatto di voler – parole di Padre Pio – «offrire ai Confratelli tabacco che con piccola dose di questa polvere diviene tale da eccitare subito a starnutire». Anche le prime accuse di padre Gemelli (che comunque «non vide nemmeno le sue stimmate»), come pure le successive indagini del Sant’Uffizio (in particolare i sei incontri fra l’inquisitore carmelitano Raffaello Carlo Rossi e il frate, con la conclusione: «Le stimmate ci sono: siamo dinanzi a un fatto reale»), sino all’ultima relazione del fondatore dell’Università Cattolica con la sua diagnosi di isterismo, difficile da sostenere scientificamente, occupano più d’un capitolo di questo saggio.
Che però, oltre alla posizione di Luzzatto sulle stimmate rifiuta anche quella circa il Padre Pio «clerico-fascista ». Se nel cappuccino è innegabile l’avversione per le sinistre, «farne il simbolo del clerico-fascismo, come pretende Luzzatto (...), è una riduzione », scrivono Gaeta e Tornielli. Pronti poi a fargli le pulci sulla tesi che farebbe intravedere nel frate «l’ideologo se non addirittura la 'causa' dell’eccidio di San Giovanni Rotondo del 1920», mentre all’origine c’era stata l’uccisione di un carabiniere. Non è finita. Anche sulle contraddizioni di Emanuele Brunatto, benefattore e faccendiere, difensore del cappuccino e spia fascista, ma pure sul reale atteggiamento di Giovanni XXIII verso il frate, sono parecchie le divergenze interpretative. E la querelle tra storici e giornalisti che invertono i ruoli rivendicando patenti e primati?
Qui prende la cifra di uno scontro tra giornalisti magari «devoti» (definizione di Luzzatto), ma che di certo non rinunciano allo scavo sui documenti, e uno storico «agnostico» che non disdegna fogli quotidiani e piccolo schermo. Risparmiamo ai lettori il venenum in cauda del libro, che rilancia sullo storico un «ultimo sospetto» circa il suo ricorso a fonti «inedite », corredato di segnalazioni di sviste, refusi, errori di natura onomastica e... audiatur et altera pars. Chissà cosa direbbe don Giuseppe de Luca. Lui, che ben conosceva il cappuccino, così ne scrisse a un amico il 15 settembre 1934: «Che cosa terribile un santo! (...) Lei sa che ha le stimmate, le vere stimmate innascondibili sono nell’occhio, d’una abbagliante luce, nel suo volto pallido e bruciato da una febbre oltremondana, nella povera persona fiacchissima e percorsa sempre da un brivido terribile, dal pensiero di Dio. In nessuno mai ho visto così presente e 'crudele' Iddio...».
di Marco Roncalli
Avvenire 26 febbraio 2008


Benedetto XVI: “abbiamo bisogno di una conversione permanente”Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Con il suo intervento, a continuazione del ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, ha concluso le riflessioni sulla figura e le opere di Sant’Agostino.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.
Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe – se ne possono distinguere facilmente tre – siano un’unica grande conversione.
Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, "prendi, leggi, prendi, leggi" (VIII, 12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere", egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.
A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile", uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. E’ questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica" (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.
Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna — cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente — era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.
Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes ("revisioni"), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) – che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".
Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati" (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.
In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi amici del Movimento dei Focolari, ed assicuro la mia preghiera affinché il Signore li sostenga nel quotidiano ministero pastorale a servizio del Popolo di Dio. Saluto i rappresentanti della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione "Auxilium" e quelli della Scuola Antonio Rosmini di Roma ringraziando ciascuno perché, con la partecipazione a questo incontro, hanno voluto rinnovare la loro filiale devozione verso il Successore di Pietro. Saluto i partecipanti al convegno promosso dall’Associazione Italiana di Medicina Nucleare ed auguro di portare avanti il loro impegnativo lavoro diagnostico e terapeutico con rinnovati sentimenti di profondo rispetto per la persona umana. Saluto poi gli esponenti della Marina Militare Italiana, i militari del Reggimento Lancieri di Montebello e i rappresentanti della Polizia di Stato di Isernia. Tutti incoraggio a seguire con generosa fedeltà Gesù e il suo Vangelo, per essere cristiani autentici in famiglia, nel lavoro e in ogni altro ambiente.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari fratelli e sorelle, proseguendo l’itinerario quaresimale, la Chiesa ci invita a seguire le orme di Cristo che si dirige verso Gerusalemme, dove darà compimento alla sua missione redentrice. Lasciatevi illuminare dalla sua parola affinché sia nello studio, sia nella malattia, sia nella vita di famiglia possiate sperimentare la sua presenza e percorrere un cammino di autentica conversione in questo sacro tempo di penitenza.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Pio XII e Fatima «Ho rivisto il miracolo»
di Andrea Tornielli
«Ho visto» il miracolo del sole, «questa è la pura verità». Nel 1950, poco prima di proclamare il dogma dell’Assunta, Pio XII mentre passeggiava nei giardini vaticani assistette più volte allo stesso fenomeno verificatosi nel 1917 al termine delle apparizioni di Fatima e lo considerò una conferma celeste di quanto stava per compiere. Una circostanza fino ad oggi nota solo grazie alla testimonianza indiretta del cardinale Federico Tedeschini che ne parlò durante un’omelia. Ora dall’Archivio privato Pacelli, conservato dalla famiglia del Pontefice, riemerge un documento eccezionale e inedito su quella visione: un appunto manoscritto dello stesso Pio XII, vergato a matita sul retro di un foglio nell’ultimo periodo della sua vita, nel quale in prima persona il Papa racconta ciò che gli è accaduto. L’appunto sarà esposto il prossimo novembre nella mostra vaticana dedicata a Papa Pacelli nel cinquantesimo della morte. Il resoconto è asciutto, quasi notarile, senza alcun cedimento al sensazionalismo.
«Era il 30 ottobre 1950», antivigilia del giorno della solenne definizione dell’assunzione, spiega Pio XII. Il Papa stava dunque per proclamare dogma di fede l’assunzione corporea in cielo della Madonna al momento della morte, e lo faceva dopo aver consultato l’episcopato mondiale, unanimemente concorde: soltanto sei risposte su 1.181 manifestavano qualche riserva. Verso le quattro di quel pomeriggio faceva «la consueta passeggiata nei giardini vaticani, leggendo e studiando». Pacelli ricorda che, mentre saliva dal piazzale della Madonna di Lourdes «verso la sommità della collina, nel viale di destra che costeggia il muraglione di cinta», sollevò gli occhi dai fogli. «Fui colpito da un fenomeno, mai fino allora da me veduto. Il sole, che era ancora abbastanza alto, appariva come un globo opaco giallognolo, circondato tutto intorno da un cerchio luminoso», che però non impediva in alcun modo di fissare lo sguardo «senza riceverne la minima molestia. Una leggerissima nuvoletta trovavasi davanti». «Il globo opaco - continua Pio XII nell’appunto inedito - si muoveva all’esterno leggermente, sia girando, sia spostandosi da sinistra a destra e viceversa. Ma nell'interno del globo si vedevano con tutta chiarezza e senza interruzione fortissimi movimenti». Il Papa attesta di aver assistito allo stesso fenomeno il giorno seguente, 31 ottobre, e il 1° novembre, giorno della definizione del dogma dell’Assunta, quindi di nuovo l’8 novembre. Poi non più». Ricorda pure di aver cercato «varie volte» negli altri giorni, alla stessa ora e in condizioni atmosferiche simili, «di guardare il sole per vedere se appariva il medesimo fenomeno, ma invano; non potei fissare nemmeno per un istante, rimaneva subito la vista abbagliata».
Nei giorni seguenti Pio XII riferisce il fatto «a pochi intimi e a un piccolo gruppo di Cardinali (forse quattro o cinque), fra i quali era il Cardinal Tedeschini». Quest’ultimo, nell’ottobre dell’anno seguente, 1951, si deve recare a Fatima per chiudere le celebrazioni dell’Anno Santo. Prima di partire viene ricevuto in udienza e chiede al Papa di poter citare la visione nell’omelia. «Gli risposi: “Lascia stare, non è il caso”. Ma egli insistette - continua Pio XII nel manoscritto - sostenendo l’opportunità di tale annuncio, ed io allora gli spiegai alcuni particolari dell’avvenimento». «Questa è, in brevi e semplici termini - conclude Papa Pacelli - la pura verità». «Pio XII era persuasissimo della realtà del fenomeno straordinario, cui aveva assistito ben quattro volte», ha dichiarato suor Pascalina Lehnert, la religiosa governante dell’appartamento papale.
Il cosiddetto «miracolo del sole» si era già verificato il 13 ottobre 1917 a Fatima, al termine delle apparizioni ai tre pastorelli. Così lo raccontò nella sua cronaca M. Avelino di Almeida, giornalista laico e non credente, inviato del quotidiano O Seculo e testimone oculare: «E si assiste allora ad uno spettacolo unico ed incredibile allo stesso tempo per chi non ne è stato testimone... Si vede l’immensa folla voltarsi verso il sole sgombro di nuvole, in pieno giorno. Il sole ricorda un disco d’argento sbiadito ed è possibile guardarlo in faccia senza subire il minimo disagio. Non scotta, non acceca. Si direbbe un’eclisse». Pio XII era molto legato a Fatima: la prima apparizione ai tre pastorelli era infatti avvenuta il 13 maggio 1917, lo stesso giorno in cui Pacelli veniva consacrato arcivescovo nella cappella Sistina. È attestato che Pio XII e l’unica sopravvissuta dei tre veggenti, suor Lucia Dos Santos, rimarranno sempre in contatto, e il Pontefice, nell’ultimo anno della sua vita, conserverà il testo del Terzo segreto di Fatima nel suo appartamento. «Varie volte - ha dichiarato la marchesa Olga Nicolis di Robilant Alves Pereira de Melo testimoniando al processo di beatificazione di Pacelli, «trasmisi messaggi del Santo Padre per Suor Lucia e di questa per lui, ma siccome promisi di mai rivelare nulla a chicchessia, non mi sento autorizzata a farlo adesso».
Andrea Tornielli


Diritto alla vita, insieme, del feto e della madre
DI CARLO CASINI
Avvenire, 28.2.2008
S ul Corsera del 22 scorso è comparso un fondo che mi ha dato l’illusione di poter contribuire a un dialogo sereno sulla Legge 194. Purtroppo il Corriere ha rifiutato la pubblicazione e mi rivolgo ad Avvenire. Ostellino scrive: «Quello della vita è un diritto naturale soggettivo fondamentale.
Incommensurabile, non negoziabile». Ma l’azione di Ferrara, chiarisce subito il fondo del Corriere, è morale, non politica, perché «anche la libertà, come la vita, è un diritto fondamentale, incommensurabile, non negoziabile». Nella contraddizione eticamente insanabile tra diritto alla vita (del nascituro) e diritto di libertà (delle donne) deve intervenire la legge per distinguere il peccato dal reato. Mi aggrappo al riconoscimento del diritto alla vita del nascituro. Dunque egli è un soggetto.
Un 'altro' rispetto alla madre.
Abbiamo già superato gran parte delle argomentazioni abortiste che qualificano il nuovo essere umano come «un grumo di cellule». Ostellino dice che non è la scienza in grado di definire la persona o la cosa. Ma la scienza fornisce i presupposti perché l’uomo possa dare un nome a ciò che vede. Diversità di opinioni? Ma il principio di precauzione, continuamente utilizzato in materia ecologica, non vale quando si tratta di decidere della vita o della morte di un possibile «individuo vivente appartenente alla specie umana»? Ma la libertà finisce dove inizia la vita di un altro. Chi potrebbe considerare libertà l’uccisione di uno già nato? E allora? Quella dell’aborto come può essere solo questione morale? Il senso nobile della laicità non è forse quello di assicurare la convivenza costruttiva di tutti? Eppure, nonostante l’evidente cogenza di queste domande che portano a negare la possibilità di concepire l’aborto come espressione di un inesistente diritto di autodeterminazione della donna (così Zagrebelsky su La Repubblica del 28 gennaio), io avverto difficoltà a trarne come conseguenza la punizione della donna. La gravidanza è il solo tempo in cui un essere umano vive all’interno di un altro essere umano. È comprensibile che la sua difesa debba svolgersi in modi diversi da quelli usati per proteggere i già nati. Essa passa essenzialmente attraverso la mente e il cuore della madre. Ma questa mente e questo cuore non sono estranei alla società in cui la donna vive. Di fatto ella ha il potere di eliminare suo figlio, potere difficilmente controllabile, anche per ragioni tecniche, dalla società che, invece, può fare molto per restituire alla donna la vera libertà, quella di non abortire. Va aggiunto che una giovane madre in gravidanza suscita tenerezza. All’origine vi è il suo dono, non solo nel gesto sessuale, ma anche nel fatto stesso della gestazione, che è modello di ogni possibile solidarietà per gli oneri e i rischi che comporta.
In questo la donna cammina davanti e indica la strada a tutta l’umanità.
C’è qualcosa che può far pensare al suo potere di vita o di morte sul figlio, non come diritto di libertà, ma come scommessa sul suo innato coraggio di accoglienza, che è potentemente mortificato dalla solitudine («è affar tuo, veditela tu») e, invece, è esaltato dall’affetto, dalle parole, dalla condivisione orientata verso la vita che sente intorno a sé. Il ragionamento può continuare ponendosi la domanda: c’è un modo nuovo, alto, efficace, umano e razionale per conciliare il limpido riconoscimento del diritto alla vita del figlio con la rinuncia alla sanzione contro la madre che abortisce? Credo di sì. Ma non è questa la linea della legge 194, preoccupata essenzialmente soltanto, al di là di qualche parola equivoca, di garantire l’aborto, non di difendere il diritto alla vita, insieme e non contro alla madre.