domenica 30 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 30/11/2008 12:31 – VATICANO - Papa: Dio tocchi i cuori di chi crede che la violenza può risolvere i problemi - All’Angelus Benedetto XVI parla delle vittime delle violenze in India e Nigeria. L’inizio dell’Avvento, che celebra la venuta di Cristo “nei suoi due momenti”. Un ricordo di Pio XII dirante la visita alla basilica di San Lorenzo.
2) India. I cristiani tra due fuochi - Sono i soli a rifiutare il ricorso alla violenza, in un paese insanguinato da un doppio fondamentalismo in armi, musulmano e indù. Da Mumbai all'Orissa, l'analisi di conflitti interreligiosi che non sembrano aver fine, di Sandro Magister
3) Magdi Cristiano Allam torna a parlare della sua conversione - Il vicedirettore del "Corriere della Sera" ha incontrato gli universitari romani - di Luca Marcolivio
4) 29/11/2008 12:40 – VIETNAM - La linea politica di Hanoi è quella di eliminare i cattolici - di Thanh Thuy - C’è una incomprensione di fondo delle autorità verso il concetto stesso di religione dietro alle scelte di oppressione e discriminazione che si evidenziano nel processo contro I parrocchiani di Thai Ha.
5) L'artigianato è una risposta alla crisi, non va "ridotto" o sopportato: è una risorsa - Giorgio Vittadini - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) SCUOLA/ I bambini soldato entrano in classe - Redazione - domenica 30 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ISTRUZIONE/ Sui fondi alle scuole paritarie il governo tentenna. Dovrebbe imparare dal Tribunale di Roma… - Vincenzo Silvano - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) Apertura e ragione – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
9) Le religioni e il destino del mondo - di Khaled Fouad Allam - Università di Trieste e di Stanford – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
10) ANTICHE E NUOVE CONDANNE CONTRO TUTTI I PATIBOLI. MA PROPRIO TUTTI - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 novembre 2008
11) «Noi oppositori torturati e uccisi» - DI LUCIA CAPUZZI – Avvenire, 30 novembre 2008
12) La rivoluzione della carità nel sacchetto della spesa - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 30 novembre 2008
13) L’OMAGGIO DEL TENORE Domingo: «È stato un uomo di fede straordinario Per onorarlo ho inciso un cd e farò concerti con brani ispirati ai suoi testi» «Canterò nel mondo le poesie di Wojtyla» - Avvenire, 30 novembre 2008


30/11/2008 12:31 – VATICANO - Papa: Dio tocchi i cuori di chi crede che la violenza può risolvere i problemi - All’Angelus Benedetto XVI parla delle vittime delle violenze in India e Nigeria. L’inizio dell’Avvento, che celebra la venuta di Cristo “nei suoi due momenti”. Un ricordo di Pio XII dirante la visita alla basilica di San Lorenzo.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Dio tocchi i cuori di chi crede che la violena può risolvere i problemi degli uomini. Le vittime di Mumbai e di Jos hanno dato occasione oggi a Benedetto XVI di rinnovare “l’orrore e la deplorazione” per il terrorismo e di pregare “il Signore di toccare il cuore” dei violenti. La preghiera del Papa ha segnato una domenica nella quale Benedetto XVI ha sottolineato l’inizio del tempo liturgico dell’Avvento, ha avuto un ricordo di Pio XII ed ha rivolto un augurio ai fedeli ortodossi del Patriarcato ecumenico. Momenti che hanno scandito la domenica di Benedetto XVI che prima si è recato in visita nella basilica romana di San Lorenzo (nella foto) e poi ha recitato, in piazza San Pietro, l’Angelus, alla presenza di circa 15mila persone.
“Il tempo liturgico dell’Avvento – ha detto al’Angelus - celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: ‘Vegliate!’ (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche ‘a tutti’, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso”.
Dopo la recita della preghiera mariana, il Papa ha invitato i fedeli alla preghiera “per le numerose vittime sia dei brutali attacchi terroristici di Mumbai, in India, sia degli scontri scoppiati a Jos, in Nigeria, come pure per i feriti e quanti, in qualsiasi modo, sono stati colpiti. Diverse sono le cause e le circostanze di quei tragici avvenimenti, ma comuni devono essere l’orrore e la deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza. Chiediamo al Signore di toccare il cuore di coloro che si illudono che questa sia la via per risolvere i problemi locali o internazionali e sentiamoci tutti spronati a dare esempio di mitezza e di amore per costruire una società degna di Dio e dell’uomo”.
Oggi, inoltre, “ricorre la festa dell’Apostolo sant’Andrea, fratello di Simon Pietro”. “Sant’Andrea – ha ricordato il Papa - è patrono del Patriarcato di Costantinopoli, così che la Chiesa di Roma si sente legata a quella costantinopolitana da un vincolo di speciale fraternità. Perciò, secondo la tradizione, in questa felice circostanza una delegazione della Santa Sede, guidata dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, si è recata in visita al Patriarca ecumenico Bartolomeo I. Di tutto cuore rivolgo il mio saluto e il mio augurio a lui e ai fedeli del Patriarcato, invocando su tutti l’abbondanza delle celesti benedizioni”.
Dell’Avvento, Benedetto XVI aveva parlato anche questa mattina, recandosi in visita all’antica basilica romana di San Lorenzo, per la conclusione dell’Anno lauretano, per i 1750 anni dalla morte del santo.
La visita ha dato occasione a Benedetto XVI di evocare alcuni degli eventi più recenti legati alla storia della chiesa, costruita sotto l’imperatore Costantino. “Cade quest’anno – ha ricordato - il 50° anniversario della morte del Servo di Dio, Papa Pio XII, e questo ci richiama alla memoria un evento particolarmente drammatico nella storia plurisecolare della vostra Basilica, verificatosi durante il secondo conflitto mondiale, quando, esattamente il 19 luglio 1943, un violento bombardamento inflisse danni gravissimi all’edificio e a tutto il quartiere, seminando morte e distruzione. Non potrà mai essere cancellato dalla memoria della storia – ha proseguito - il gesto generoso compiuto in quella occasione da quel mio venerato Predecessore, che corse immediatamente a soccorrere e consolare la popolazione duramente colpita, tra le macerie ancora fumanti. Non dimentico inoltre – ha detto ancora - che questa stessa Basilica accoglie le urne di due altre grandi personalità: nell’ipogeo infatti sono poste alla venerazione dei fedeli le spoglie mortali del beato Pio IX (ultimo papa non sepolto in Vaticano, ndr) mentre, nell’atrio, è collocata la tomba di Alcide De Gasperi, guida saggia ed equilibrata per l’Italia nei difficili anni della ricostruzione post-bellica e, al tempo stesso, insigne statista capace di guardare all’Europa con un’ampia visione cristiana”.
Non ricordato da Benedetto XVI, San Lorenzo è legata ad un altro evento del nostro tempo: i funerali che Paolo VI vi celebrò il 13 maggio 1978 per Aldo Moro, lo statista ucciso dalle Brigate Rosse.


India. I cristiani tra due fuochi - Sono i soli a rifiutare il ricorso alla violenza, in un paese insanguinato da un doppio fondamentalismo in armi, musulmano e indù. Da Mumbai all'Orissa, l'analisi di conflitti interreligiosi che non sembrano aver fine, di Sandro Magister
ROMA, 29 novembre 2008 – L'attacco terrorista islamico a Mumbai è scattato mentre ancora i cristiani dell'India sono sotto i colpi delle violenze indù in Orissa e in altre regioni. I crudi bilanci delle due offensive sono simili. Più di 190 gli uccisi in un sol giorno nella capitale economica dell'India. Almeno 118 quelli certificati in Orissa in tre mesi, ma alcune fonti spingono la cifra fino a 500. E poi le centinaia di feriti, le chiese distrutte, le migliaia di case bruciate, le decine di migliaia di fuggiaschi.

Stretto tra i due fondamentalismi aggressivi musulmano e induista, il "piccolo gregge" cristiano dell'India si distingue per il rifiuto di ricorrere alla violenza. L'uso della forza lo reclama dall'autorità costituita, che però manca al suo dovere di esercitarlo. Dalla comunità internazionale arriva un conforto anch'esso debole, distratto. Nemmeno tra i cristiani di tutto il mondo si attiva una forte solidarietà a favore delle vittime appartenenti alla propria stessa fede, siano esse in India o in altre regioni del globo. Giovedì 27 novembre, nelle stesse ore in cui Mumbai era sotto attacco, Benedetto XVI ha lanciato un nuovo appello per la liberazione di due suore missionarie rapite due settimane prima da bande musulmane tra il Kenya e la Somalia. Sempre nelle stesse ore, al Cairo, diecimila musulmani hanno assalito impunemente una chiesa gremita di cristiani copti in preghiera, la cui colpa era di aver aperto un nuovo luogo di culto.

Colpendo al cuore Mumbai, i suoi hotel di lusso, la sua clientela occidentale, l'attacco musulmano ha ottenuto una grandissima visibilità sui media di tutto il mondo. Le vittime designate erano americani, inglesi ed ebrei. Ed è bastato questo a dare una scossa alla geopolitica mondiale. Ma ciò non giustifica che si trascurino le quotidiane violenze interreligiose che insanguinano il continente indiano, e che probabilmente avranno una recrudescenza nel futuro prossimo, con nuovi scontri tra musulmani e indù.

La persecuzione che colpisce i cristiani in India non è un fenomeno soltanto locale. Alcuni dei moventi che la generano sono esclusivi di una società divisa per caste. Ma il caso dell'India è specchio di fratture molto più generali, che dividono il mondo intero lungo crinali che sono anche religiosi.

Basti pensare a quanto diversa e confliggente può essere l'idea di martirio: puro dono della vita per gli uni, arma d'uccisione efferata per altri. In questo tormentato paesaggio globale, i cristiani sono in India vittime pacifiche e maltrattate. Sono in Iraq l'unico gruppo religioso non armato e anche per questo il più perseguitato. Sono negli angoli più disastrati e ostili del mondo – la Somalia, ma non solo – quelli che restano accanto agli "ultimi" mentre tutti gli altri sono fuggiti via.

Di ogni situazione di conflitto interreligioso vanno analizzati a fondo sia i connotati generali, sia quelli particolari. Ed è quanto fa qui di seguito, per il caso dell'India, il teologo e gesuita indiano Michael Amaladoss, che opera tra Delhi, Bangalore e Chennai, autore di libri importanti tradotti in più lingue.

La sua analisi – scritta prima dell'attacco terroristico di Mumbai, ma quasi presagendolo – è apparsa sull'ultimo numero della rivista "Il Regno", pubblicata a Bologna dai religiosi dehoniani:


I recenti conflitti tra indù e cristiani in India di Michael Amaladoss
I conflitti tra indù e musulmani sono stati un fenomeno endemico in India per circa un secolo. Sono stati una caratteristica specifica dei periodi delle feste religiose, quando ogni comunità cerca di manifestare pubblicamente la propria esistenza. Il bersaglio di tali conflitti era costituito solitamente dai musulmani, poiché per la gran parte la polizia e la burocrazia erano favorevoli agli indù. Oggi la situazione sta peggiorando, dal momento che i musulmani preferiscono reagire con attacchi terroristici. Gli indiani di solito incolpavano di tale terrorismo i pakistani. Quest’anno si sono resi conto che i terroristi sono nati e cresciuti in casa propria, anche se possono aver ricevuto un qualche addestramento all’estero.

I conflitti tra indù e cristiani nel passato erano sporadici. Ce n’è stato uno nell’India del Sud circa vent’anni fa. In anni più recenti alcuni cristiani sono stati aggrediti e i loro edifici di culto dati alle fiamme nelle aree tribali del Gujarat. Gli assalti che si sono verificati da agosto nello stato dell’Orissa e in altre regioni sono stati fino ad ora i più gravi, prolungati ed estesi. Il 24 agosto 2008 un sannyasi (dal sanscrito "rinuncia", "abbandono"; è colui che ha raggiunto il culmine del cammino ascetico) indù, lo Swami Laxmananda Saraswati, e quattro dei suoi seguaci sono stati uccisi nel distretto di Kandhamal, nelle regioni montagnose dello stato dell’Orissa. Il corteo funebre per la cremazione della sua salma è stato fatto passare attraverso molti villaggi. Alle popolazioni indù è stato detto che dietro all’uccisione dello Swami c’erano i cristiani. Questo ha spinto le folle indù ad aggredire i cristiani, ad assaltare le loro case, i loro istituti e le loro chiese in tutto il distretto. Molti cristiani per salvarsi sono fuggiti nella giungla. Le loro case sono state saccheggiate e distrutte.

Ecco le cifre della distruzione nell’Orissa tra il 24 agosto e il 4 ottobre 2008: persone uccise 59, chiese o edifici di culto distrutti 151, scuole e orfanotrofi assaltati 13, case date alle fiamme 4.400, villaggi cristiani distrutti 300, feriti 15.000, senzatetto rifugiati in campi profughi 50.000. Una suora è stata picchiata e stuprata. Verso la metà di settembre il conflitto si è esteso allo stato del Karnataka, nel Sud, lungo la costa occidentale: chiese assaltate 22, feriti 20. Sono state attaccate anche 4 chiese nel Madhya Pradesh, 3 nel Kerala, 1 nel Tamil Nadu e 1 a Nuova Delhi.

Un gruppo maoista ha rivendicato la responsabilità dell’uccisione dello Swami e dei suoi compagni, affermando di averlo fatto perché le vittime stavano promuovendo divisioni tra il popolo in nome della religione. Ma gli indù hanno preferito accusare i cristiani di essere i mandanti degli omicidi. Il governo locale ha nominato una commissione giudiziaria per scoprire la "verità", ma ciò richiede solitamente un paio d’anni prima di giungere a una qualche conclusione e questo sistema è un modo per eludere la responsabilità immediata.


Il movimento Hindutva
Il gruppo che sta dietro la violenza è il movimento Hindutva, ossia della identità indù. Si tratta di un movimento identitario che sfrutta il sentimento religioso per scopi politici. Non sono veramente dei fondamentalisti dal punto di vista religioso, in quanto la religione è soltanto uno strumento politico. Questo movimento ha circa novant’anni di vita e numerose ramificazioni. Alla base vi è un gruppo chiamato Rashtriya Swayamsevak Sangh, RSS, "Organizzazione nazionale di volontari", che raccoglie gli indù e dà loro un addestramento paramilitare, instillando un forte senso dell’identità e una ferrea disciplina personale.

L’ala politica è il Bharatiya Janata Party, BJP, Partito popolare indiano. Questo partito è stato al potere nel governo centrale prima dell’attuale coalizione di governo, e attualmente è al comando in tre stati: Gujarat, Madhya Pradesh e Rajasthan. Nell’Orissa e nel Bihar fa parte di coalizioni di governo guidate da altri partiti locali. L’ala culturale è il Vishwa Hindu Parishad, VHP, Consiglio mondiale indù. La truppa è il Bajrang Dal, Brigata di Hanuman, ossia del dio-scimmia che stava a capo dell’esercito di Rama, un avatar divino, incarnazione di un essere celeste. Vi sono altre organizzazioni per studenti, lavoratori, sannyasi ecc. Il gruppo nel suo complesso è chiamato Hindu Sangh Parivar, Gruppo della famiglia indù.

L’ideologia dell’Hindutva si autoqualifica come nazionalismo culturale. Ritiene l’induismo una cultura più che una religione, che determina l’identità nazionale indiana. Afferma che le altre religioni indiane come il buddhismo, il giainismo e il sikhismo appartengono al più ampio ceppo indù. Per un indù l’India non è solo la madrepatria, ma anche una terra santa. L’islam e il cristianesimo sono considerati religioni straniere dal momento che le loro terre sante sono al di fuori dell’India. L’India deve diventare una nazione indù. Le religioni straniere saranno tollerate. Sebbene questa ideologia sia nata nel 1920 dal libro intitolato "Hindutva" di Vinayak Damodar Savarkar, il desiderio della libertà indù dalla dominazione musulmana e poi cristiana britannica, che aveva imperato per quasi mille anni, era già presente e vivo nella seconda metà del XIX secolo.

Quando l’India nel 1947 divenne indipendente, la leadership di Gandhi e di Nehru optò per uno stato "laico" che rispettasse equamente tutte le religioni. Tuttavia un certo orgoglio indù e una discreta antipatia verso i musulmani per il loro fondamentalismo e verso i cristiani per il loro proselitismo oggi sono diffusi tra gli indù a tutti i livelli, anche se non la manifestano secondo modalità violente.

Una strategia che il movimento Hindutva segue per affermarsi è alimentare tra gli indù la paura di essere una minoranza. Sebbene gli indù siano in India l’80 per cento della popolazione, viene detto loro che a livello mondiale sono una minoranza rispetto ai più potenti cristiani in Europa e nelle Americhe e ai musulmani in Medio Oriente, Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Malaysia ecc. Inoltre la presenza cristiana viene presentata come una continuazione del colonialismo. In una democrazia i numeri contano, ed esponenti dell’Hindutva hanno accusato musulmani e cristiani d’incrementare i loro adepti, i primi mediante il loro più alto tasso di natalità, i secondi mediante le conversioni. Anche le conversioni sono viste come un oltraggio alla loro religione.


Il problema delle conversioni
Convertirsi non è semplicemente cambiare religione, ma ha conseguenze sociali e politiche. Ovviamente musulmani e cristiani non votano per il partito indù. Le poche conversioni al cristianesimo riguardano soprattutto i dalit – gli "intoccabili" che stanno nel gradino più basso della gerarchia delle caste – o i tribali, poveri e sottosviluppati, ma sfruttati e dominati dai più ricchi indù. I tribali seguono anche religioni naturali diverse dall’induismo, tuttavia viene fatto ogni sforzo per integrarli nel ceppo indù. I poveri che si convertono al cristianesimo ricevono un’istruzione migliore e una migliore assistenza sanitaria grazie alle istituzioni cristiane. Diventano consapevoli dei propri diritti e cominciano a richiederne il riconoscimento. In quanto cristiani non appartengono, almeno in senso tecnico, al sistema sociale gerarchico indù. La conversione, di conseguenza, affranca i dalit e i tribali e questo non viene certo apprezzato dagli indù economicamente e socialmente dominanti che li hanno sfruttati fino a oggi. Questo è causa di frizioni e di conflitto.

Sebbene la costituzione indiana garantisca a tutti i cittadini il diritto di praticare e di propagare qualsiasi religione, alcuni stati tra cui il Gujarat, l’Orissa, il Madhya Pradesh e il Rajasthan hanno approvato leggi che proibiscono la conversione sia mediante la forza sia mediante la persuasione. Le persone che vogliono convertirsi devono informare il funzionario del governo locale. Questa legge può essere usata per perseguitare missionari e nuovi convertiti, anche se questo non si è mai verificato su vasta scala. In alcune aree vi è un piano per riconvertire la popolazione all’induismo.

Il BJP non è in grado di raccogliere da solo più del 20-25 per cento dei voti nelle elezioni nazionali, ossia, senza coalizzarsi con partiti regionali. Tuttavia esso per affermarsi segue la strategia di dividere gli indù dagli altri gruppi mediante un’azione di falsa propaganda contro musulmani e cristiani. Essi arrivano a fare uso della violenza contro le minoranze solamente negli stati in cui il partito indù è al potere.

Il governo, che punta al sostegno politico, finge di non vedere le attività di questi indù. La polizia, la cui maggioranza è indù, tende a simpatizzare con loro e a non imporre il rispetto della legge, a meno che non vi sia una energica direttiva da parte del governo. In caso di manifestazioni, la polizia è spesso numericamente molto inferiore e impotente. Essa non intraprende alcuna azione di forza se non quando viene attaccata. Per questo motivo, a volte il governo per imporre la legge e riportare l’ordine deve far arrivare rinforzi da fuori del proprio stato, inviati dal governo centrale.

Il caso dell'Orissa
Questo è lo sfondo di ciò che è accaduto in Orissa. Qui la maggior parte delle violenze ha avuto luogo nel distretto di Kandhamal. La maggioranza della popolazione (650.000) è qui costituita da poveri: tribali (52 per cento) e dalit (18 per cento). I cristiani sono circa il 16 per cento, mentre nell'intero stato sono solo il 2,4 per cento. Il 60 per cento dei cristiani appartiene al gruppo di dalit chiamati panas. L’area è principalmente agricola e sottosviluppata. Si estende all’interno dello stato ed è di difficile accesso. Fra i tribali e i dalit vi è sempre stata tensione sia sul versante economico sia su quello sociale. Economicamente i dalit sembrano stare un po’ meglio. Facendo da intermediari in operazioni di prestiti di denaro da parte ricchi mercanti venuto da fuori hanno approfittato di questo ruolo per impadronirsi di terre appartenenti ai tribali. I tribali ovviamente non lo sopportano e vi si oppongono.

La costituzione prevede programmi di lotta alle discriminazioni delle minoranze, assegnando sia ai tribali sia ai dalit posti riservati negli istituti scolastici e posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Ma i dalit che diventano cristiani non sono classificati più come dalit dal governo, dal momento che il sistema delle caste è considerato un fenomeno essenzialmente indù. I dalit allora si sono mobilitati per essere riconosciuti come tribali, categoria alla quale essi rivendicano di aver appartenuto in origine. Ai dalit indù essere classificati come tribali faciliterebbe il possesso e il controllo delle terre, dal momento che vi sono leggi che cercano di tutelare la proprietà terriera. Ai dalit cristiani permetterebbe di avere accesso ai programmi contro la discriminazione delle minoranze, dal momento che i tribali, a differenza dei dalit, sono riconosciuti come tribali anche quando diventano cristiani. Questo implicherebbe anche un qualche tipo di avanzamento sociale per i dalit perché così non farebbero più parte del sistema castale indù.

Ma i tribali si sono opposti perché ciò significherebbe un dominio nei loro confronti da parte dei dalit, che godono di un maggior livello d’istruzione e di un maggior benessere economico, poiché occuperebbero i posti riservati nelle strutture scolastiche e nel mercato del lavoro nella pubblica amministrazione. Vi sono stati scontri occasionali tra i due gruppi da alcuni anni a questa parte. La novità degli ultimi anni è che i gruppi dell’Hindutva hanno aggiunto una dimensione religiosa a questo conflitto socio-economico, organizzando i tribali come un gruppo indù avversario dei dalit in gran parte cristiani.

Il sannyasi che è stato ucciso era attivamente impegnato nell’organizzazione politica dei tribali come gruppo indù militante. Quando è stato ucciso, i gruppi dell’Hindutva hanno approfittato dell’occasione per incolpare i dalit cristiani di aver architettato il suo assassinio e hanno spinto i tribali indù a rivoltarsi contro di loro. Tra persone povere, oppresse, in gran parte disoccupate è facile trovare giovani pronti a usare la violenza come mezzo per dare sfogo alle proprie frustrazioni, specialmente se c’è la possibilità di saccheggiare le case dei cristiani.

Dal momento che la regione è piuttosto isolata rispetto alle normali vie di comunicazione e la presenza della polizia è sporadica, è facile per gruppi di predatori distruggere con armi improvvisate e benzina tutto ciò che si para loro davanti. L’unica cosa che i cristiani indifesi possono fare è fuggire nella foresta per salvarsi la vita. Quando vi è soltanto un’unica strada stretta per raggiungere un luogo è facile rallentare l’avvicinamento delle auto della polizia, abbattendo un albero e gettandolo di traverso nella strada.

Anche se la polizia fosse stata presente, sarebbe stata comunque di forze troppo esigue per fronteggiare una sollevazione armata. Il governo dell'Orissa è alleato del BJP e non è stato né pronto, né disponibile, né sollecito né zelante nel tenere a freno la violenza. La legge e l’ordine sono responsabilità di ogni singolo stato stato, per cui il governo centrale non può intervenire in maniera diretta, a meno che questo non sia richiesto dallo stato locale. Anche quando il governo centrale invia alcune forze paramilitari, lo stato deve farne un uso effettivo.

Vi è anche il sospetto che, dal momento che le elezioni per il parlamento nazionale si terranno tra pochi mesi, le forze dell’Hindutva stiano usando tali conflitti come un mezzo per mobilitare il voto indù diffondendo paura e agitazione. Il governo centrale sta più che mai attento a non prestarsi al loro calcolo elettorale, benché abbia fornito consigli e chiesto che il governo locale gli inviasse rapporti sulla situazione, come da norma costituzionale.

Se la situazione dovesse portare a un collasso totale della legge e dell’ordine, il governo centrale potrebbe destituire il governo locale. Ma si tratta di un atto politico e il BJP ha già messo in guardia il governo centrale dall’intraprendere questa strada. Con il pretesto che è un’area turbolenta, diversi organismi ecclesiali e altre ONG indipendenti non sono stati autorizzati a entrare nella regione per portare aiuto alla gente che si trova ancora nei campi profughi. Vi sono leader ecclesiali che vivono sotto minaccia. Il movimento Hindutva sta costringendo i cristiani a riconvertirsi all’induismo se desiderano fare ritorno ai loro villaggi e alle loro case ormai distrutte.


La reazione dei cristiani
Sebbene vi siano state provocazioni anche in precedenza, i cristiani non erano mai andati oltre a delle blande proteste. Mentre la Chiesa cattolica e le principali Chiese protestanti non sono troppo attive nel fare conversioni, le Chiese pentecostali sono molto attive e addirittura aggressive, condannando le altre religioni come diaboliche. Ma gli indù non fanno distinzioni nei loro attacchi. Ora, per la prima volta, tutti i cristiani si sono uniti in un’azione comune di autodifesa.

Tutte le istituzioni cristiane in tutta l’India, in settembre, sono rimaste chiuse per una giornata in segno di protesta, e hanno fatto pressione in vari modi sul governo centrale perché prendesse provvedimenti adeguati. A Delhi i cristiani hanno fatto un pubblico sit-in di protesta per un’intera settimana e l’hanno poi concluso con un corteo alla tomba del Mahatma Gandhi, pregando per l’armonia nella comunità. Questa dimostrazione di protesta è stata condivisa da molti leader di altri gruppi religiosi.

Un altro sviluppo positivo è stato il fatto che i cristiani hanno spostato la questione del conflitto dal piano religioso a quello dei diritti umani e della società civile: il diritto e la libertà di ogni indiano di praticare la propria religione. Grazie a questo, persone di tutte le religioni e ideologie si sono unite alla protesta dei cristiani. Sono state contattate le commissioni per i diritti umani dell'India e delle Nazioni Unite.


Un gruppo di sfollati ha fatto appello alla commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati perché li riconosca come rifugiati. Una parte dei media e della magistratura ha dato ampio sostegno. La commissione nazionale per le minoranze ha visitato l’area, ha condannato l’inazione del governo locale e ha chiesto un intervento del governo centrale. Sono state avanzate richieste di vietare alcune delle organizzazioni più attive dell’Hindutva, come il Vishwa Hindu Parishad e la Bajrang Dal. In tal modo la Chiesa sta percorrendo una via non violenta, ma politica, per fare pressione e cercare giustizia. Come potenza mondiale emergente, gli indiani devono essere attenti anche all’opinione della comunità internazionale.

Penso che, se nel paese vi saranno maggiore sviluppo economico, più giustizia, più uguaglianza e meno povertà, vi sarà anche meno violenza perché vi saranno meno soldati impegnati in battaglie per conto di altri. Fino ad allora i politici continueranno a usare temi come la casta, l’appartenenza etnica e la religione per provocare conflitti.

A Mumbai un gruppo si è mobilitato contro immigrati da altre zone dell'India, giunti in città in cerca di lavoro. All’inizio di ottobre sono scoppiati scontri nel Nordest fra tribali del luogo e immigrati musulmani provenienti dal Bangladesh. Un paio di mesi fa nel Kashmir vi è stata una mobilitazione di musulmani, durata un mese, contro il governo perché quest’ultimo aveva concesso in affitto un terreno a un ente pubblico indù per facilitare la sistemazione di grossi gruppi di pellegrini.

Il conflitto tra indù e musulmani sta peggiorando e sta assumendo connotazioni terroristiche. E così questa storia andrà avanti ancora. Che cosa significa "dialogo interreligioso" in una situazione del genere? Non possiamo dialogare con fondamentalisti e identitari. Il dialogo dovrà cominciare dalla risoluzione dei conflitti per poi spostarsi al livello della collaborazione per il rispetto dei diritti umani nella società civile, prima di raggiungere il livello religioso.


Magdi Cristiano Allam torna a parlare della sua conversione - Il vicedirettore del "Corriere della Sera" ha incontrato gli universitari romani - di Luca Marcolivio
ROMA, venerdì, 28 novembre 2008 (ZENIT.org) – Su invito della Pastorale Universitaria, Magdi Cristiano Allam è tornato a parlare della sua conversione al cattolicesimo. Nella cornice del Teatro Argentina, il vicedirettore del Corriere della Sera ha incontrato gli studenti degli atenei romani, ripercorrendo le tappe della sua vicenda umana e spirituale.
Partendo dalla notte di Pasqua 2008 (“il giorno più bello della mia vita”), durante la quale Allam ricevette il battesimo in San Pietro, dalle mani di Papa Benedetto XVI, il giornalista italo-egiziano, ha raccontato gli episodi della propria vita e le riflessioni che lo hanno indotto ad abbracciare “una nuova vita in Cristo ed un nuovo percorso di spiritualità”.
“Questo cammino – ha raccontato Allam – è iniziato in modo apparentemente fortuito, in realtà provvidenziale. Dall’età di quattro anni ebbi l’opportunità di frequentare, in Egitto, scuole italiane cattoliche: fui allievo, prima, delle suore comboniane, poi, dalla quinta elementare, dei salesiani”.
“Ricevetti così un’educazione che mi ha trasmesso valori sani e apprezzai la bellezza, la verità, la bontà e la ragionevolezza della fede cristiana”, dove “la persona non è un mezzo ma un punto di partenza e di arrivo”, ha proseguito Allam.
“Grazie al cristianesimo – ha detto ancora – ho compreso che la verità è l’altra faccia della libertà: esse sono un binomio indissolubile. La frase ‘La verità farà liberi’ è un principio che voi giovani dovreste tenere sempre in mente, specie oggi che, disprezzando la verità, si abdica alla libertà”.
“La mia conversione – ha aggiunto – è stata possibile grazie alla presenza di grandi testimoni della fede, primo fra tutti, Sua Santità Benedetto XVI. Chi non è convinto della propria fede, spesso, è perché non trovato nella propria testimoni credibili di questo grande dono”.
“Il secondo binomio indissolubile nel cristianesimo – ha proseguito il giornalista – è senz’altro quello tra fede e ragione. Quest’ultima è in grado di sostanziare la nostra umanità, la sacralità della vita, il rispetto della dignità umana e della libertà di scelta religiosa”.
“Un evento, prima della conversione, mi fece riflettere più degli altri – ha rivelato –: il discorso del Papa a Ratisbona (12 settembre 2006). In quell’occasione il Pontefice, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, affermò ciò che i musulmani stessi non hanno mai rinnegato, ovvero che l’Islam diffonde il proprio credo, soprattutto con la spada”.
“C’è un pericolo più subdolo e più grosso di quello del terrorismo dei tagliagole – ha aggiunto Allam –; è il terrorismo dei taglialingue, ovvero quella paura di affermare e divulgare la nostra fede e la nostra civiltà e ci porta ad autocensurarci e a negare i nostri valori, mettendo sullo stesso piano tutto e il contrario di tutto: si pensi alla sharia applicata anche in Inghilterra”.
“Il cosidetto ‘buonismo’ – ha continuato –, ovvero concedere sempre all’altro ciò che lui vuole, è l’esatto contrario del bene comune, perfettamente indicato da Gesù: ‘ama il prossimo tuo come te stesso’ (Mt 19/16-19). Tale precetto evangelico ci conferma che non possiamo voler bene agli altri se prima non amiamo noi stessi. Lo stesso vale per la nostra civiltà”.
“Contrari a tale principio – ha detto ancora Allam – sono l’indifferentismo e il multiculturalismo che, senza alcun collante identitario, pretendono di concedere a piene mani diritti di ogni tipo a tutti. Risultato del multiculturalismo è stata l’implosione della solidità sociale e lo sviluppo di ghetti e gruppi etnici in perenne conflitto con la popolazione autoctona”.
“Ciò mi porta a considerare il terzo grande binomio della civiltà cristiana, quello relativo a regole e valori, volano di un possibile riscatto etico per l’Europa attuale – ha proseguito –. Il vecchio continente, però, è un colosso di materialità dai piedi d’argilla. Il materialismo, infatti, è un fenomeno globalizzato, a differenza della fede che non lo è”.
Rispondendo a una domanda sulla possibile compatibilità tra fede e ragione nell’Islam, l’ex musulmano Allam ha risposto che “a differenza del Cristianesimo, religione del Dio incarnato nell’uomo”, l’Islam si concretizza in un testo sacro ed “essendo tutt’uno con Dio, non è interpretabile”.
“Le stesse gesta di Maometto – ha aggiunto – documentate dalla storia e mai rinnegate dagli stessi fedeli musulmani, testimoniano di massacri ed eccidi perpetrati dal profeta. Quindi, il Corano è incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo e i valori non negoziabili. In passato cercai di farmi portavoce di un Islam moderato ma fui fortemente ostacolato. Possono esistere musulmani moderati, ma non un Islam moderato in sé”.
Quanto al dialogo tra Islam e cristianesimo, il vicedirettore del Corriere della Sera ha affermato che esso è possibile, solo ed esclusivamente “se saremo autenticamente cristiani nell’amore, anche verso i musulmani. Se relativizziamo il dialogo, incentiveremo i nostri interlocutori a guardarci come infedeli, quindi terreno di conquista”.
Rivolto agli studenti presenti in sala, Magdi Allam ha sottolineato l’importanza di un’educazione che ritorni a trasmettere “una concezione etica della vita, con valori e regole al centro di tutto”. Negazione di tali principi è, ad avviso di Allam “il capitalismo selvaggio che, paradossalmente, ha il suo massimo sviluppo, nella Cina comunista”.
“Non possiamo concepire la persona in termini ‘aziendalisti’ e dobbiamo trovare regole di convivenza che non siano fondate sul materialismo. Dobbiamo ridefinire la nostra società sull’essere e non più sull’avere”, ha poi concluso Allam.


29/11/2008 12:40 – VIETNAM - La linea politica di Hanoi è quella di eliminare i cattolici - di Thanh Thuy - C’è una incomprensione di fondo delle autorità verso il concetto stesso di religione dietro alle scelte di oppressione e discriminazione che si evidenziano nel processo contro I parrocchiani di Thai Ha.
Hanoi (AsiaNews) – C’è l’incomprensione verso l’idea stessa di religione da parte delle autorità politiche vietnamite dietro il continuo tentativo di soffocare cattolicesimo, protestantesimo ed anche altre religioni, che ora si evidenzia col processo che il 5 dicembre sarà celebrato contro otto fedeli della parrocchia di Thai Ha.
Se si visita il Vietnam, su molte parrocchie si possono vedere le scritte “prega per la Chiesa del Vietnam” o “prega per la pace e la giustizia”. Questa è una invocazione sempre presente nella preghiera dei cattolici di questo Paese. Cattolici che il governo comunista ha oppresso in modo sofisticato ed a vari livelli. Ma, in questa occasione le autorità non rispettano il Consiglio dei vescovi vietnamiti. Vogliono chiaramente eliminare i cattolici.
Il governo ha violato la libertà di religione e si prepara a giudicare gli otto fedeli della parrocchia di Thai Ha per motivi ingiusti, accusandoli di aver danneggiato proprietà e disturbato l’ordine sociale”. Processano gli otto fedeli per minacciare gli altri cattolici ed i fedeli di altre religioni ed in genere hanno l’obiettivo di minacciare le persone che vogliono battersi per la giustizia e la libertà di religione.
Ogni cattolico ed ogni parrocchia è stata invitata a pregare per la giustizia, la pace e la libertà religiosa in Vietnam. I fedeli questa volta hanno bisogno della voce dei vescovi per dire la verità, denunciando che il governo si è appropriato dei terreni della Chiesa, ma ha accusato falsamente i cattolici.
All’origine della discriminazione delle autorità verso i credenti, non solo cristiani, spiega ad AsiaNews un professore dell’Università nazionale di Hanoi “c’è un pregiudizio. Si spiegano male il concetto stesso di religione. Non capiscono bene e così guidano male il Paese, portando numerose cose negative, come la corruzione nel governo, il cattivo sistema educativo, l’ingiustizia verso i contadini che lavorano per vivere e mangiare”.
L’idea dei comunisti vietnamiti sulla religione è che essa “è una forma di coscienza sociale. La coscienza rispecchia il mitico, l’illusione della realtà oggettiva. La religione si basa sempre sulla credenza, una credenza del trascendente. La religione non può essere esaminata dalla realtà”.
Così, il governo ha dato istruzione alle autorità di tutti i livelli di “controllare la situazione dele religioni, classificare i fedeli delle religioni per avere soluzioni adatte a convincere le persone a lasciare la loro religione. E la linea politica è di opporsi, escludere e dicriminare i cattolici del Vietnam


L'artigianato è una risposta alla crisi, non va "ridotto" o sopportato: è una risorsa - Giorgio Vittadini - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Gli artigiani sono i protagonisti di un settore che rimane una leva portante del sistema produttivo italiano nei suoi tre comparti, sub-fornitura, produzione e servizi. Accanto alla rilevanza quantitativa, quale è il valore dell’artigianato per l’imprenditoria e, ancora più in generale, per il lavoro nel nostro Paese? Una certa parte della cultura e delle ideologie dominanti concepisce il lavoro come luogo di alienazione e sfruttamento da parte del più forte contro il più debole e perciò ripropone, in forme diverse, una perpetua lotta di classe, una continua rivendicazione dei propri diritti con assenza di responsabilità e ricerca del merito. Altre ideologie à la page riducono l’imprenditore a un animal oeconomicus, le leggi di mercato a una lotta darwinistica per l’eliminazione del più debole, la “risorsa umana” in azienda a una commodity, come fosse il petrolio o altri mezzi di produzione di tipo finanziario o materiale.
Invece l’artigianato si smarca, nella teoria e nella prassi, da queste riduzioni. La sua forza sta tutta nella centralità della persona e delle persone, maestranze e titolari della ditta. In questo settore sono le persone che con la loro creatività e operosità generano innovazione e sviluppo, perché non sono ridotte a una risorsa umana, a un fattore della produzione, ma sono piuttosto una risorsa nella loro integralità, nella loro capacità creativa e generativa.
È questa, in realtà, la caratteristica di ogni lavoro che non venga concepito in modo ridotto, così come afferma don Giussani: «Le cose ci vengono incontro, un’emozione preme il cuore, una fantasia si apre alla nostra mente, una volontà di afferrare queste cose, di collocarle dentro un disegno, di farne materia di una figura nuova, insorge: così avviene che ognuno si trova sulla strada della creatività»[1].
Questa verità, che vale per ogni lavoro, vale in particolare per l’artigianato dove il protagonista esprime un tratto della sua personalità nell’assetto stesso dell’azienda e nel processo produttivo. L’artigianato è la versione più innovativa e riuscita di quel capitalismo familiare che ha così grande parte nella nostra economia: «Il capitalismo familiare è infatti la versione moderna del cosiddetto capitalismo personale, che proprio nel mondo artigianale ha una lunghissima tradizione in Italia ed è costituito da tutte quelle attività imprenditoriali in cui impresa e imprenditore si sovrappongono (per esempio il nome stesso della società è quello dell’imprenditore, oppure il marchio sul prodotto riproduce il cognome dell’imprenditore, ecc.). L’azienda è il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: d’altra parte il vantaggio competitivo dell’azienda è dato soprattutto dalle capacità e dalla reputazione della persona che la guida e che si identifica con essa. […] Dal punto di vista economico, il principale punto di forza della piccola impresa di famiglia è costituito dalla coincidenza che in essa si realizza tra proprietà e gestione: non essendoci bisogno di deleghe, vengono a mancare quelle situazioni di conflitto di interesse tra proprietari e manager, tipiche della grande impresa a proprietà diffusa, assai onerose per l’impresa stessa. Dal punto di vista ideale poi le imprese familiari rappresentano una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in esse trovano concretezza i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa. Quindi, imprenditorialità, libertà e responsabilità: tre termini inscindibili, perché l’imprenditorialità ha bisogno di libertà e d’altronde non c’è vera imprenditorialità senza responsabilità».
Da questo punto di vista, il prodotto artigianale è significativo perché non è omologabile e porta i tratti dell’unicità e irripetibilità della persona umana: «Da questa prospettiva la ricerca della diversità, della non omologazione, della presenza - al contrario - delle tracce di un’umanità (quella dell’artigiano) è quella che contraddistingue qualitativamente la domanda di manufatti artigianali. Non tanto, quindi, un prodotto, una merce, nella quale identificarsi per i suoi significati, più o meno onirici, ma un manufatto nel quale trovare tracce di alterità, di umanità. In fondo tracce della persona. Cioè, in qualche modo, di se stessi».
Perché questo avvenga non si può però vivere di sogni. La creatività, l’immaginazione devono misurarsi con la realtà, così come dice ancora don Giussani: «C’è qualcosa da rispettare, da riconoscere, da abbracciare, da accettare per poter creare. Così entra nella nostra mente e nelle nostre braccia, fin dentro il nostro cuore, un fattore che sembrerebbe ostile: la fatica. (“Con il sudore della tua fronte…”)[2]. C’è un’obbedienza che dal di dentro deve governare l’iniziativa in cui ti lanci, il rischio in cui ti cimenti. Innanzitutto, deve essere obbedienza a fattori che non sono totalmente alla tua mercé, che ti si propongono e che ti si impongono: devi rispettare questi fattori e tutta la fatica, in tal senso, deve essere abbracciata come parte della tua genialità creativa, e perciò del tuo amore e del tuo gusto fattivo»[3].
Anche queste affermazioni valgono per ogni tipo di lavoro, ma assumono un valore paradigmatico nell’artigianato, dove il titolare non si limita a dare ordini da dietro una scrivania, ma si assoggetta a quel lavoro manuale, fisico, in cui la creatività diventa, nella generazione del prodotto, con il sudore della propria fronte, obbedienza a condizioni precise, puntuali, materiali, indispensabili per dar vita a oggetti, oltre che belli, fondamentali per la vita quotidiana: dalle forbici agli infissi, al disegno su vetro, alla produzione di arredo, alla sicurezza, all’illuminazione. Da questa disponibilità ad obbedire al reale nasce un tratto non sempre sottolineato dell’impresa artigiana: la sua grande e umile capacità di cambiamento, la disponibilità maggiore che in altro tipo di imprese ad accettare di modificarsi in funzione delle nuove necessità che nuovi bisogni e mutate condizioni di mercato impongono.
Ciò si traduce, sotto il profilo economico, nel suo carattere fortemente innovativo, spesso sottovalutato a causa di uno stereotipo abusato e stantio che vuole gli artigiani chiusi in botteghe minuscole e polverose, spesso legati a professioni in via di estinzione, come dice ancora Marseguerra: «L’elemento unificante delle storie di artigiani di successo riportate nel volume può forse essere rintracciato nella capacità mostrata da questi imprenditori artigiani di produrre innovazione (di prodotto principalmente, ma anche di organizzazione, di marketing, ecc.). Eppure, il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un modello innovativo spesso chiamato “senza ricerca” per i bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo. Come è stato possibile per un tale sistema produrre innovazione in modo così consistente e per così tanto tempo? Il punto è, in estrema sintesi, che in molti dei settori di specializzazione italiana, la ricerca formalizzata, quella che tende ad essere svolta nei laboratori di ricerca delle imprese, negli istituti di ricerca pubblica e nelle Università (e che è colta dai dati sulla spesa in R&S), costituisce solo una parte della innovazione delle nostre piccole e medie imprese. Nei nostri settori di specializzazione più tradizionali, i fattori d’innovazione tendono ad essere il design, la progettazione, l’organizzazione, l’introduzione di nuovi macchinari, l’imitazione, ecc. Queste attività innovative, peraltro estremamente rilevanti per la competitività delle imprese e del sistema, sono essenzialmente applicative e non formalizzate, e ben difficilmente contabilizzate nei bilanci come spese in R&S».
L’Artigiano in Fiera è anch’essa un’impresa “artigianale”, un esempio di “capitalismo familiare” nato dalla creatività di un gruppo di amici che, come spiega Antonio Intiglietta, suo fondatore, «ci porta a conoscere personalmente ogni singolo artigiano: in questo modo partecipiamo del suo destino e della scommessa che egli fa sul suo lavoro e sul suo possibile successo; analogamente partecipiamo ai suoi momenti di crisi e di fatica».
Una “ storia di storie” che, pur completamente immersa nel nostro tempo, affonda le radici nella nostra più autentica tradizione, in quelle fiere e mercati che per secoli hanno permesso lo sviluppo della nostra economia e di quella europea, attraverso scambi non solo commerciali ma anche, e forse soprattutto, culturali.
Non è quindi un caso che l’Artigiano in Fiera sia nato a Milano e ospitato dalla sua Fiera, erede di quella Fiera Campionaria tanto importante per la nostra ripresa economica nel dopoguerra e che rappresentò una riproposta, in chiave moderna, della fiera come momento di incontro di popolo, oltre che tra produttore e consumatore.
Solo un’ignavia, alimentata da pregiudizi ideologici, può far dimenticare, mentre si parla di economia e nuovo sviluppo, questa affascinante realtà.

[1] Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000, p. 150.
[2] Gen 3,19.
[3] Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000 cit., p.151.


SCUOLA/ I bambini soldato entrano in classe - Redazione - domenica 30 novembre 2008 – IlSussidiario.net
I bambini soldato sono entrati prepotentemente nelle scuole di Abbiategrasso; lo hanno fatto grazie alla mostra di AVSI esposta in questi giorni nei locali dell'Annunciata. Ben 58 classi hanno visitato la mostra che è imperniata sui disegni dei bambini soldato dell'Uganda e dai quali traspare sia la drammaticità del male di cui questi bambini sono stati vittime sia la forza del bene, capace di ricostruire il loro "io" così profondamente lacerato e di rilanciarlo in modo positivo all'attacco della vita.
Aver lasciato entrare dentro la quotidianità della scuola lo sguardo di questi bambini soldato è stata una significativa opportunità educativa, come ho potuto io stesso riscontrare dalla commozione degli studenti di una classe con cui sono andato a visitarla. Io conoscevo la drammatica vicenda degli ex-bambini soldato, sapevo di questo dramma, lo avevo seguito passo dopo passo; ma quanto mi hanno insegnato i "miei" studenti è stato molto di più di quanto in questi anni avevo appreso. Loro, guardando la mostra, mi hanno portato a scoprire la positività che si impone nello sguardo e nei disegni degli ex-bambini soldato, più forte della bruttura e della violenza di cui sono state vittime.
Quanto è stato bello guardando quella mostra essere stato provocato ad andare a cercare l'origine della positività che proprio perché esplode nei bambini soldato, i quali avrebbero tutte le ragioni per essere scettici e disperati, ci appartiene in quanto essere umani ed arriva fino a noi, dentro le nostre famiglie, dentro le nostre scuole, dentro le nostre amicizie.
Per questo sono grato che i bambini soldato siano entrati dentro la scuola, perché l'hanno aperta alle dimensioni del reale, e in questo ancor di più ad alcune studentesse e studenti che, impegnandosi a fare da guida, hanno accompagnato le classi a guardare la mostra. Questi giovani mi hanno commosso per la modalità con cui hanno fatto da guida: mentre parlavano dei bambini soldato, mentre spiegavano il loro dramma, mentre sottolineavano quel disegno o quell'altro, era evidente che si erano immedesimati con la loro umanità nell'esperienza dei bambini soldato e comunicavano la speranza che traspariva dai loro occhi. Così queste ragazze e queste ragazze mi hanno insegnato come si comunica un'esperienza, mettendoci dentro tutto il proprio cuore.
(Gianni Mereghetti)


ISTRUZIONE/ Sui fondi alle scuole paritarie il governo tentenna. Dovrebbe imparare dal Tribunale di Roma… - Vincenzo Silvano - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, intervenendo al question time alla Camera nel pomeriggio del 26 novembre in risposta alle interrogazioni parlamentari poste da Luisa Santolini dell’Udc, Rosa De Pasquale e Letizia Torre del Pd, ha assicurato l’impegno «formale e sostanziale» del governo per il «ripristino a breve dell’intera somma» dei fondi destinati alla scuola paritaria, per il quale «il Ministero dell’Istruzione è in contatto con il Ministero dell’Economia».
Ne prendiamo atto positivamente, anche se la ricostruzione dei fatti offerta desta qualche perplessità e non scioglie certamente tutti i dubbi.
Nel merito, ricordiamo che anche la recente legge di assestamento del bilancio dello Stato (L.167 del 17 ottobre 2008) ha confermato la cifra di 534 milioni di euro per le scuole paritarie nell’anno 2008. Se anche il Parlamento ha approvato tale previsione -e lo ha fatto poche settimane fa- non si è capito ancora chi si sia arrogato il diritto di decidere che i 140 milioni di euro (corrispondenti ai 4/12 del contributo 2008) fossero “accantonati”, “congelati”, fatti svanire nel nulla! Dobbiamo davvero pensare che ci sia stato un atto di “pirateria burocratica” dentro il Ministero, da parte di qualcuno che non ama la libertà di educazione o non si rende conto di quanto siano gravi le conseguenze di simili scorribande?
Per quanto riguarda la presenza di accantonamenti per100 milioni di euro segnalati dagli uffici scolastici regionali, fondi che il governo intende mettere a disposizione per alleviare nell’immediato lo stato di sofferenza in cui si trovano le scuole paritarie, non vorremmo che diventassero lo strumento per giustificare il mancato reintegro di quanto tagliato, che tra l’altro costituisce una cifra nettamente maggiore.
Se, come ha affermato Vito, «l'Esecutivo è pienamente consapevole che la riduzione dei finanziamenti per le scuole paritarie comporterebbe conseguenze sulle famiglie», tuttavia non viene meno il disagio causato dalla sensazione che la scuola paritaria sia considerata un’appendice del sistema nazionale di istruzione, non sua parte integrante e indispensabile. Possibile che si sia sempre costretti a rincorrere i finanziamenti -tra l’altro già inadeguati e fermi alla cifra di otto anni fa- come se non ci fosse una legge che stabilisce la parità? Davvero non si erano accorti che i cosiddetti tagli lineari avrebbero messo in ginocchio le scuole paritarie, oppure c’è una reale sottostima della loro importanza? Sarebbe necessario giungere, finalmente, ad una piena e stabile parità; queste vicende rivelano invece da parte di chi governa una mancanza di chiarezza e, conseguentemente, una contraddittorietà di azione che non possono che destare preoccupazione.
Un aiuto in tal senso è giunto dal Tribunale Ordinario di Roma, per il quale il docente di sostegno per un bambino con Handicap iscritto alle scuole paritarie «è a carico dello Stato e non della scuola» (sentenza 15389 del 10 giugno 2008, le cui motivazioni sono state recentemente depositate). Si tratta di una sentenza importante perché, tra l’altro, affermando che «il sostegno…è il supporto per rendere l’insegnamento fruibile e tanto costituisce un ulteriore argomento per ritenere che esso debba essere a carico dello Stato, sia nelle scuole pubbliche che in quelle private», riconosce implicitamente la chiara appartenenza delle scuole paritarie sistema nazionale di istruzione. Occorre trarne tutte le conseguenze.
Attendiamo dunque, da un lato, di vedere onorato al Senato l’impegno al reintegro dei 133 ML tagliati nella Finanziaria 2009 licenziata alla Camera, e dall’altro la ricomparsa dei 140 ML relativi al 2008 indebitamente sottratti, sperando che le promesse siano davvero mantenute e che simili situazioni non abbiano più a ripetersi.


Apertura e ragione – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
Gli avvenimenti tragici degli ultimi giorni - che hanno colpito e sconvolto un grande Paese già da mesi teatro di ripetuti episodi di intolleranza e violenza rivolti in particolare contro le minoranze cristiane - confermano una volta di più che il dialogo tra le culture del mondo è l'unica via percorribile per una convivenza umana. Come Benedetto XVI va ripetendo dall'inizio del pontificato e di nuovo ha ora confermato in una lettera al senatore Marcello Pera. Incluso nell'introduzione al libro appena pubblicato dall'esponente politico italiano con il titolo Perché dobbiamo dirci cristiani, il breve testo papale ne sottolinea alcune analisi. Tra queste, l'affermazione "che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà". E urgente appare quel dialogo che - sottolinea con lucidità il Papa - "approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo". In questo modo, ancora una volta Benedetto XVI sottolinea l'importanza del dialogo tra le culture indicando che si tratta di una via più praticabile e suscettibile di conseguenze che vanno esaminate "nel confronto pubblico": proprio qui, infatti, "il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari".
Anche in tempi difficili come quelli presenti viene così confermata la scelta della Chiesa cattolica di aprirsi al dialogo con le culture del mondo. Con la volontà che questo colloquio - un termine caro a Paolo vi, che di questa apertura fece il tema della sua enciclica programmatica - sia autentico e porti frutti. Non solo dunque un dialogo di superficie che affermi sulla carta principi, ma un confronto vero. Innanzi tutto all'interno della stessa Chiesa, che deve approfondire "la coscienza di se stessa" - come afferma appunto la Ecclesiam suam - per poi "con candida fiducia" affacciarsi "sulle vie della storia" e ripetere "agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate".
Le parole di Benedetto XVI sono state comprese e apprezzate anche al di là dei confini cattolici, così come la ribadita volontà di confronto e di amicizia con l'ebraismo e con l'islamismo sta portando frutti. Il Papa continua a fare appello alla ragione di tutti e, senza stancarsi, chiede che questa ragione si apra: al confronto con ogni interlocutore su temi ragionevoli e condivisibili come quelli della dignità di ogni persona umana, creatura e immagine di Dio, e della libertà religiosa. Sono infatti queste alcune delle "conseguenze culturali" su cui è urgente confrontarsi, come per esempio è avvenuto dopo la lezione di Ratisbona. La Chiesa - scriveva ancora Paolo VI - senza promettere la felicità terrena offre però la sua luce e la sua grazia per poterla conseguire. E "parla agli uomini del loro trascendente destino" ragionando anche "di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato".
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)


Le religioni e il destino del mondo - di Khaled Fouad Allam
Università di Trieste e di Stanford – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008

Stiamo da tempo vivendo una crisi globale e proprio per questo la riflessione sul dialogo tra islam e cristianesimo merita di essere riproposta sotto una nuova angolazione. Le relazioni tra queste due grandi religioni sono ovviamente antiche, non solo per la prossimità geografica ma per la storia delle due tradizioni spirituali. Da decenni - per molti aspetti, dal concilio Vaticano ii - i rapporti tra musulmani e cristiani coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado emerge la nostra incapacità a pensare oltre. Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica, vale a dire nella ricerca e nell'analisi di ciò che potrebbe aiutarci a individuare i pericoli della crisi e gli strumenti per superarla. È sempre nell'esperienza del dolore, del male e della sofferenza che gli esseri umani sono chiamati alle proprie responsabilità dinanzi alla storia e all'eternità. Le catastrofi degli ultimi vent'anni, la radicalizzazione delle coscienze, l'attentato alle Twin Towers dell'11 settembre 2001, il ritorno dell'intolleranza nei confronti di alcune fedi sono il segnale di un male che la nostra umanità sta vivendo. Ma è proprio l'esperienza della sofferenza, individuale o collettiva, che rende possibile l'incontro con l'altro, anche se la sofferenza permane comunque intatta e ineludibile. Non è dunque un caso che nella ricerca di un nuovo ordine internazionale e di una convivenza pacifica fra popoli e culture, la nozione stessa di dialogo investa, com'è ovvio, terreni non inclusi in quelli delle tradizionali questioni religiose. Abbiamo difficoltà a entrare nel XXI secolo perché il xx secolo pesa ancora troppo; e se alcuni lo definiscono come il "secolo della storia", è semplicemente perché ha occultato il rapporto complesso fra storia ed eternità. Un inedito conflitto fra il desiderio di eternità e il vivere nella storia ha prodotto l'odierno oblio della sostanza delle cose; l'uso della parola "modernità" è significativo di tutto ciò, perché la modernità ci ha permesso di dimenticare che tutto è provvisorio su questa terra, e che qui siamo ospiti.
Viviamo ancor oggi nell'ambiguità di questo rapporto: i nostri comportamenti ne sono impregnati, al punto che spesso nelle religioni - ad esempio nel caso dell'islam - la storia si impadronisce dell'eternità, ad opera degli uomini meno adatti al dialogo. È ciò che avviene nel radicalismo islamico, che in alcune situazioni cerca di imporre il tragico ordine della tirannia. L'affrontare grandi questioni come la libertà di religione - un problema importante nel mondo islamico - rivisitando il rapporto fra storia ed eternità finirà per incidere sul dialogo tra musulmani e cristiani e sul rapporto tra islam e mondo. Il divorzio fra storia ed eternità si è tradotto nel senso di oblio - oblio dell'eternità, della continuità, della nostra provvisorietà - ed è in tale oblio che si sono fatte le guerre e le rivoluzioni, è in esso che sono nati i totalitarismi. Ma l'oblio ha intaccato anche le grandi questioni relative al destino dell'uomo, alle manipolazioni genetiche e alla bioetica, questioni angoscianti perché interrogano non solo l'individuo ma l'umanità intera.
Come ristabilire questo rapporto, come definire una reale complementarità fra il nostro vivere nella storia e il nostro desiderio di eternità? Ogni rivelazione si definisce come una redenzione, ma ognuna è anche un modello da riformulare volta per volta, perché una reale temporalità, un vero attraversamento del Mar Rosso come fece Mosè con il popolo ebraico, ha senso solo se si congiungono i due punti cardinali, storia ed eternità.
È anche così che si può vedere l'odierna questione del dialogo delle civiltà: un ipotetico nuovo ordine internazionale non può che passare attraverso due paradigmi, che andranno definiti nei contenuti: il primo è la democrazia, il secondo è il dialogo fra popoli, culture e religioni. Le due questioni sono intimamente legate, e il loro sviluppo sarà di primaria importanza per uscire dalle turbolenze di questo nuovo secolo. Mi preme aggiungere che il dialogo non solo è necessario, ha una urgenza sociale e una valenza etica e morale. L'islam non è una categoria astratta, è fatto di persone che hanno speranze e sofferenze, che vivono anche nel cuore delle città d'Europa, che desiderano integrarsi, anch'esse protagoniste di un'Europa che ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti. In un mondo attraversato da frontiere simboliche e culturali, è forse giunto il tempo che l'universalismo rappresenti l'antidoto all'odierna visione pessimistica del mondo, pessimismo che rende l'uomo muto di fronte all'umanità. Ma la geometria variabile del dialogo può assolvere anche un'altra funzione: liberare l'islam dal monopolio della teologia neofondamentalista, che occulta la simmetria del rapporto fra storia ed eternità, che tende a considerare la storia come eternità e l'eternità come storia, con l'effetto che l'islam si svuota della sua dimensione spirituale e impoverisce la sua stessa cultura. Di ciò i musulmani si devono rendere conto. Il dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza", anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio dei nostri giorni.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)


ANTICHE E NUOVE CONDANNE CONTRO TUTTI I PATIBOLI. MA PROPRIO TUTTI - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 novembre 2008
Il Colosseo illuminato ieri notte è stato il simbolo suggestivo della campagna che lega mille città del mondo contro la pena di morte, alla vigilia della votazio­ne all’Onu per una nuova moratoria. Tan­ta gente in piazza – grazie a Dio – in que­sta grande battaglia che accomuna cat­tolici e laici, sinistra e destra. Chissà tut­tavia se, tra tante luci, se ne è accesa una contro la morte sentenziata per Eluana Englaro.
Eppure quella che si vuol infliggere alla Englaro è morte data a una persona vi­va, che autonomamente respira, benché in stato vegetativo. I genitori di Terri Schiavo hanno chiesto che nessun altro muoia mai più come la figlia, nella stes­so stremato abbandono. Ma la morte che pende su Eluana è, nella mente di non pochi italiani, qualcosa che non turba, e certamente non indigna come le sedie e­lettriche e le forche che in tante parti del mondo fanno alacri il loro lugubre me­stiere. Questo benché i giustiziati, alme­no in teoria, siano di qualcosa colpevoli; mentre Terri Schiavo ed Eluana Englaro sono certamente innocenti.
La morte comminata dentro una logica retributiva è – grazie a Dio – sempre me­no accettabile per la coscienza del mon­do. La morte, invece, data 'per pietà' al malato considerato inguaribile, sebbene lunga e straziante come quella per fame e per sete, in Occidente non scuote. È, sostanzialmente, 'buona': misericor­dioso è giudicato, e perfino tra alcu­ni cristiani, inter­rompere vite iner­ti, 'irrecuperabili', quando al di là di ogni ragionevolez­za si ostinino, quelle creature, a respirare.
Uccidere Caino è intollerabile, ucci­dere inermi Abele in stato vegetativo è pietà: «Così smetteranno di soffrire». Un ac­cento, dunque, umanitario in questa pre­tesa.
C’è però un fatto storico che dovrebbe mettere in dubbio questo tipo di umani­tarismo. La filosofa ebrea Hannah Arendt dopo aver seguito a Gerusalemme il pro­cesso al nazista Eichmann spiegò detta­gliatamente ne 'La banalità del male' che le prime camere a gas, costruite in Germania nel ’39, non accolsero subito gli ebrei: il decreto di Hitler del primo set­tembre di quell’anno le prevedeva infat­ti per «concedere alle persone incurabi­li una morte pietosa». I primi 'beneficia­ti' furono infatti cinquantamila tedeschi malati di mente. Solo due anni dopo si passò alla 'soluzione finale'.
La morte 'pietosa' per gli alienati li­nearmente si saldò con l’Olocausto. Un non detto, atroce retropensiero, eviden­temente accettato da molti in Germania, alimentava però già la soppressione dei folli e degli idioti: e cioè che si è uomini solo se coscienti, se lucidi, capaci di in­tendere. Certo, nulla a che fare tra la Wel­tanschauung abietta
del nazismo e quel­la, distratta e buonista, nostra. Noi sia­mo pacifisti, ci sgomentano i boia, ci in­digna ogni crudeltà verso gli animali. So­lo per pietà ammettiamo la morte pro­vocata: del feto deforme, della ragazza da tanti anni addormentata. Perché? Perché in fondo non li consideriamo ancora, op­pure non più, pienamente uomini, giac­ché privi di coscienza. Anche i poveri fol­li del Reich non erano pienamente co­scienti.
Il passo radicale sta nel non riconoscere l’uomo. Che è sempre, sul patibolo, ma anche inerte in un letto, uomo, e dunque qualcosa di molto più grande di ciò che può fare o capire. Per i cristiani, immagi­ne di Dio. Parallelamente all’avanzante collettivo oblio di questo nesso, la mor­te data a un malato incosciente non è più una condanna inammissibile, ma ma­gnanima pietà – la stessa poi, in fondo, che si avrebbe per un cane malato.


«Noi oppositori torturati e uccisi» - DI LUCIA CAPUZZI – Avvenire, 30 novembre 2008
« S ono stati i miei aguzzi­ni a dirmi che ero stata condannata a morte, mentre mi frustavano sulle piante dei piedi. Non avevo neppure idea che ci fosse stato il processo». Ma­rina Nemat è stata una delle mi­gliaia di adolescenti iraniane rin­chiusa nel carcere di Evin durante la “rivoluzione culturale islamica”, i­naugurata da Khomeini. Nel 1982, a 16 anni, Marina è stata arrestata per aver criticato, sul giornale del­la scuola, l’opera di indottrina­mento svolta dai suoi insegnanti. «Invece di studiare storia, geogra­fia, letteratura, eravamo costretti ad ascoltare per ore la propaganda go­vernativa. Per me, cristiana ed edu­cata dai miei genitori al rispetto del­la libertà, era intollerabile».
Ventisei anni dopo a Teheran lo sce­nario resta, per molti aspetti, im­mutato. Il dissenso viene represso, le esecuzioni sono quotidiane. Co­me dimostra la condanna alla lapi­dazione per «un’adultera» emessa dalla Corte suprema. O l’agghiac­ciante decisione di accecare un ra­gazzo di 27 anni colpevole di aver sfregiato e fatto perdere la vista al­la moglie.
Signora Nemat, perché dopo l’era riformatrice di Khatami, il regime è tornato alla politica del pugno di ferro?
Il governo degli ayatollah alterna fa­si di feroce repressione a momenti di distensione. Ma si tratta di aper­ture fittizie. Khatami ha concesso alle donne di scoprire un po’ di più i capelli. Non ci sono stati, però, cambiamenti sostanziali. Né si po­tranno avere finché tutto il potere sarà nelle mani di un solo uomo. Che non è di certo Ahmadinejad.
Chi detiene allora la vera autorità nel Paese?
L’ayatollah Khamenei, che ha so­stituito Khomeini. Lui controlla la società e le massime cariche dello Stato, incluso il presidente. Ogni for­ma di opposizione viene stroncata. Ora, come negli anni Ottanta, le car­ceri sono stracolme di prigionieri politici che vengono spesso tortu­rati e in alcuni casi uccisi.
Com’è riuscita a evitare il patibolo?
Uno dei miei carcerieri – A­li – mi ha fatto commutare la sentenza in ergastolo. In cambio, mi ha obbligato a sposarlo e a convertirmi al­l’islam. In realtà, mi consi­derava una schiava. Dopo le nozze sono rimasta nell’inferno di Evin. Dormivamo in 70 in una cella. Per andare in bagno doveva­mo camminare sui corpi tumefatti dalle torture degli altri prigionieri. Quando sono stata rilasciata – do­po due anni, due mesi e 12 giorni – Alì era stato assassinato. Così, sfi­dando il regime, ho sposato in Chie­sa Andre, il mio vecchio amore. Un reato – per gli ayatollah restavo mu­sulmana – punibile con la morte. Ho vissuto nella paura fino al 1990, quando siamo fuggiti in Canada.
Crede che il programma nucleare del presidente Ahmadinejad rap­presenti una minaccia concreta per l’Occidente?
Ahmadinejad è uno “showman”. In­terpreta la parte del duro – e la mi­naccia nucleare è parte di questa strategia – per dimostrare agli ira­niani e al mondo che ha il potere. Mentre è Khamanei, che resta nel­l’ombra, a decidere. Non credo che ci sia un rischio atomico reale. È so­lo propaganda.
Dopo la vittoria in America di O­bama i rapporti tra Usa e Iran po­tranno cambiare?
Lo spero. Gli errori di Bush hanno favorito il regime iraniano. Gli Usa hanno eliminato Saddam, il peggior nemico di Teheran, che ora spera di veder nascere una repubblica scii­ta in Iraq. L’interventismo america­no ha, inoltre, rafforzato i conser­vatori. Perché la gente, vedendosi minacciata dall’esterno, si è stretta intorno al governo. La democrazia non si importa, si costruisce col tempo.
Marina aveva 16 anni nel 1982 quando venne rinchiusa a Evin per aver criticato il regime. Cristiana, fu costretta a convertirsi all’islam.


La rivoluzione della carità nel sacchetto della spesa - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 30 novembre 2008
C’era una volta la quarta settimana, quando lo stipendio bastava per arrivare a fine mese. Poi fu l’epoca della terza, quando i morsi della crisi si facevano sentire in un numero crescente di famiglie. Oggi molti fanno fatica già alla seconda. Ma c’è chi le settimane neppure le conta, perché ogni giorno è uguale, ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza, per pagare l’affitto di casa e le bollette, e perfino per mangiare.
Sono tanti, i poveri, e stanno aumentando.
A loro è dedicata la Giornata nazionale della Colletta alimentare che si tiene oggi davanti a 7.500 supermercati. Ed è per loro che durante tutto l’anno il Banco alimentare raccoglie le eccedenze di viveri prossimi alla scadenza che vengono offerte dalle aziende e finiscono sulle mense dei poveri o nei 'pacchi' portati a casa delle famiglie che non arrivano a fine mese. Sono tanti, i volti del povero: il clochard, l’immigrato, il carcerato uscito di prigione e rimasto ai margini della società, il disoccupato, la moglie piantata dal marito (o viceversa), l’anziano che stenta a campare con la pensione sociale. La durezza del momento colpisce strati crescenti del Paese, la solitudine e la fragilità dei legami familiari e sociali rendono le persone ancora più deboli.
Viviamo tempi difficili. Tempi nei quali l’estraneità e la paura possono facilmente prendere il sopravvento, facendoci dimenticare chi siamo: uomini, creature fatte per con-vivere, non per chiudersi ciascuna nella propria tana come fossimo animali. Quello che ci viene proposto oggi è un gesto semplice: fare la spesa, una piccola spesa, per chi ha meno di noi. Un gesto di condivisione, nato dalla tradizione cristiana che da sempre lo chiama carità e che equivale ad accendere una luce nel buio del presente, a offrire una mano che sostenga la quotidiana fatica del vivere. C’è chi si vergogna ad usare una parola poco trendy
come carità. Eppure, scrive Benedetto XVI nella sua enciclica dedicata all’argomento, «la carità sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» Oggi centomila volontari ci offrono un sacchetto di plastica in cui siamo invitati a mettere una scatola di fagioli, un pacco di pasta, una confezione di zucchero, una bottiglia d’olio. Quei centomila sono l’icona di un’Italia che non si arrende, che non rinuncia a sperare e a far sperare, che non cede alla tentazione di fermarsi al lamento e alla protesta, perché mossa da un’instancabile voglia di costruire, dal desiderio inesausto di affermare la positività dell’esistenza. Gente che vuole condividere i bisogni degli altri per condividere con loro il senso della vita.
Gente che vent’anni fa ha cominciato per un impeto di umanità, e che si è trovata da subito in una situazione tragicomica: il direttore della Fondazione Banco alimentare, Marco Lucchini, ricorda che la prima 'eccedenza alimentare' che venne donata, nel 1989, fu una fornitura di Fernet Branca: non avevano ancora dato da mangiare a un povero e si trovavano a distribuire un digestivo… Va bene lo stesso, si dissero, partiamo da quello che manda la Provvidenza, il resto arriverà. E il resto è arrivato, fino alle novemila tonnellate di generi alimentari raccolte nell’edizione 2007 della Colletta grazie alle offerte di 5 milioni di italiani, destinati a 8.500 enti che ogni giorno assistono un milione e mezzo di poveri. Un piccolo-grande impero della carità, costruito a partire dallo sguardo d’amore che ognuno di noi è capace di dare. Lo stesso sguardo che duemila anni fa Gesù rivolgeva a chiunque lo incontrava. Di quello sguardo, abbiamo tutti bisogno.


L’OMAGGIO DEL TENORE Domingo: «È stato un uomo di fede straordinario Per onorarlo ho inciso un cd e farò concerti con brani ispirati ai suoi testi» «Canterò nel mondo le poesie di Wojtyla» - Avvenire, 30 novembre 2008
DI VIRGILIO CELLETTI
P lacido Domingo non ha dubbi per lui Papa Giovanni Paolo II è già un santo. È così che lo de­finisce affidando a una sola parola ciò che pensa di lui, e cioè che egli sia stato « un uomo di rara grandez­za che scelse di dedicare la sua vita al servizio dell’umanità e di Dio » . Ol­tre a parlare in questo modo « del­l’uomo più grande che io abbia mai conosciuto » , il celebre tenore si e­sprime nel suo linguaggio più usua­le, lasciando al canto il compito di tradurre l’emozione e la venerazio­ne che la figura di Karol Wojtyla gli suggeriscono. Di questo passo, an­che il cd che ha visto la luce ieri si propone come « una delle incisioni più significative della mia vita » . Edi­to dalla Deutsche Grammophon, ha per titolo Amore infinito e compren­de dodici canzoni il cui testo è tratto da alcune tra le poesie scritte dal Pa­pa in vari periodi della sua vita.
A quando risale, maestro, questa sua così singolare iniziativa?
Un anno prima che il Papa morisse, il teatro lirico di Ancona fece esegui­re un Canto della pace. Era una pre­ghiera di Giovanni Paolo II messa in musica da Marco Tutino, e l’inter­pretazione fu affidata a me. Quando il Papa ci invitò in Vaticano per rin­graziarci, gli chiesi di poter fare una serie di canzoni con il testo delle sue poesie. Mi dette subito il suo con­senso, e anche la sua benedizione.
Stiamo parlando di cinque anni fa. Come si è arrivati a questo disco che abbraccia vari momenti dell’attività poetica del Papa?
Dopo Ancona rilessi attentamente tutti i suoi testi. Avevo anche qual­che idea sul tipo di musica, ma im­portante è stato in questo senso l’aiu­to di mio figlio che è un composito­re. In un primo momento volevamo privilegiare le liriche raggruppate nel cosiddetto Trittico romano; ma poi abbiamo pensato che il tema fosse troppo impegnativo e che, musical­mente, richiedesse uno stile classi­co, cioè un linguaggio che un po’ spa­venta il grande pubblico. Così lo ab­biamo per il momento accantonato, scegliendo i testi che esprimessero l’umanità e quasi la popolarità di questo Papa. Temi di significato uni­versale, l’amore di una madre per i suoi bambini, la libertà, i problemi sociali, dei quali il Papa si è fatto in­terprete nel mondo e che l’hanno fat­to amare da tutti, non solo da noi cat­tolici.
Oltre a suo figlio ed a lei, chi sono gli autori delle musiche?
Vari compositori. Maurizio Fabrizio, Antonio Galbiati, Fio Zanotti, Stefa­no Tomaselli, Kaballà. Di persona li ho conosciuti soltanto oggi, ma ave­vo apprezzato subito le loro musiche, scelte per due motivi: perché si a­dattano alla mia vocalità e perché e­sprimono una spiritualità che viene poi esaltata dalla concertazione di Jorge Calandrelli e dalla bravura del­la London Symphony Orchestra.
Anche quella riguardante gli inter­preti che duettano con lei in alcuni dei brani è una sua scelta?
Si, e anche questo mi sembra un ap­porto notevole. Con me cantano ta­lenti come Andrea Bocelli, Jopsh Gro­ban, Katherine Jenkins, e anche mio figlio esegue un brano insieme ai pic­coli cantori del coro di Los Angeles.
Lei si è assunto anche il compito di portare il disco in giro per il mondo nelle prossime settimane con dieci concerti. Andrà anche in Polonia?
Certo. Un mio commosso ricordo è il
Requiem di Verdi che diressi a Varsa­via nel primo anniversario della mor­te di Papa Wojtyla. Stavolta cantere­mo a Cracovia, dinanzi alla chiesa che lui aveva iniziato. Poi dappertut­to. In Germania davanti al duomo di Colonia. E in Messico ci serve anche uno spazio più grande. Forse lo Sta­dio Azteca.


venerdì 28 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
4) 28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
5) 28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
6) Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
7) Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
8) INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) «Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
11) IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
12) Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008


COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Giunta ormai alla dodicesima edizione, la Giornata Nazionale della Colletta alimentare è diventata ormai un appuntamento fisso per molti italiani. Non solo per le migliaia di volontari che ogni anno permettono la realizzazione di questo grande gesto di carità, ma anche per tutti coloro che, facendo la spesa come tutti gli altri giorni, decidono per una volta di comprare qualcosa in più, facendo così la spesa anche per chi non se la può permettere.
Un gesto semplicissimo, dunque, che in questa sua immediatezza è capace però, come nota Antonio Socci, di «comunicare il cuore» di chi ha dato origine alla grande realtà del Banco alimentare.
Socci, la Colletta alimentare è una cosa un po’ diversa rispetto alla normale beneficenza: è un gesto concreto che coinvolge personalmente chi lo fa. Possiamo dire che, in questo rendere tutti partecipi e protagonisti, è anche un gesto con un valore educativo?
C’è in effetti un valore educativo per la persona singola, nonché un valore culturale per la società, per tutta la comunità umana in cui viviamo. Per la singola persona si tratta di un fatto, un’opera che mette in sintonia con il cuore di chi l’ha pensata. Parlo innanzitutto per me: anch’io andrò sabato a fare la colletta, e a sistemare i pacchi insieme ad altre persone, e quando faccio questo penso sempre a come è nato il Banco alimentare, cercando di immedesimarmi con il cuore di don Giussani. Penso al suo sguardo, e mi immagino la sua espressione, il suo sentimento, il modo con cui sapeva empaticamente sentire il bisogno degli altri. Questo è il cuore della grande carità cristiana: una cosa molto grande, molto bella, un fatto che spalanca. E credo che sia una cosa tutta da vivere; direi anzi che, vissuta con questo cuore, la Colletta è in grado di far vivere la vita intera in un altro modo.
Lei accennava al fatto che in questo gesto c’è un valore per la società intera. Un rilievo importante, in un momento in cui la gente vive con paura gli effetti dell’attuale crisi economica.
Per spiegare questo mi rifaccio a un libro estremamente interessante, che ho letto di recente, intitolato “Benedetta economia - San Benedetto e san Francesco nella storia economica europea”: un libro straordinario che permette di capire l’importanza del cristianesimo nello sviluppo dell’Europa, non solo attraverso il monachesimo – cosa già nota – ma anche attraverso il movimento francescano. Una prospettiva che contiene molti insegnamenti anche per l’oggi. In particolare, fra le attualissime conclusioni cui gli autori arrivano, c’è l’indicazione dei due elementi che hanno dato maggiore dinamismo allo sviluppo dell’economia europea: il primo fattore è la gratuità, per cui attraverso il movimento francescano è nato il mercato moderno, nella sua accezione migliore; il secondo è il carisma, vale a dire il fatto che ciò che è nato da grandi personalità come Benedetto o Francesco ha creato un dinamismo e un’intelligenza della realtà comprensiva di tutti i bisogni. Questa è una lettura veramente interessante, molto utile adesso, soprattutto in prossimità di grandi gesti di carità come la Colletta alimentare e poi le Tende di Natale, organizzate da Avsi.
In che senso tale giudizio aiuta a capire il valore di questi gesti di carità?
È un giudizio culturale che ci permette di capire che il cuore cristiano in ogni epoca si esprime con questo sguardo di carità che anche noi viviamo in questi gesti, in cui è evidente sia la gratuità, sia il carisma che li ha generati; ma al tempo stesso manifesta un’intelligenza delle cose e un’intelligenza della realtà che è stato storicamente assai fecondo.
Questo sembra richiamare a quanto dice Benedetto XVI nella “Deus caritas est”: «non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore». La carità è più della giustizia?
La giustizia mette in campo il ruolo dello Stato, che ha una funzione equitativa; mentre la carità dice qualcosa in più, perché parla alla persona. È dunque un elemento più umano e più ragionevole. La società non è una massa amorfa che viene plasmata dallo Stato: quando è così è una società non libera. La società è libera se fatta da uomini liberi, che si muovono con responsabilità e con intelligenza. In questo senso la carità è una dimensione della persona e non può essere una dimensione dello Stato, il quale si occupa della giustizia. La carità è un cuore, e quello che conta è che in una società ci siano persone, volti, carismi che fanno vedere questo cuore in atto, e per cui contagiano.
E come dice il Papa è una cosa di cui ci sarà sempre bisogno.
Sì, altrimenti c’è il grosso rischio che segnalava Eliot: esiste una società buona se gli uomini non sono buoni? È questo il punto: non può essere lo Stato a fare la società buona. Ciò che fa buoni gli uomini non è certo una legge o un sistema, nemmeno il più perfetto.
Lei diceva che questo è un bene che contagia. Lo si vede ogni anno dalla gente che viene coinvolta e che si commuove di fronte al gesto di gratuità della Colletta; si sono commossi anche vari politici alla presentazione fatta quest’anno alla Camera…
Questo non mi sorprende, anche perché troppo spesso in modo manicheo pensiamo ai politici come se fossero i “cattivi”, mentre in realtà sono persone normali. Comunque, la spiegazione di un tale “contagio” di stupore e commozione sta nel fatto che evidentemente una cosa così corrisponde profondamente al cuore di ognuno. L’iniziativa in sé genera corrispondenza, ma è soprattutto il cuore che c’è dentro all’iniziativa che dà questa corrispondenza e quindi questa commozione. Se tutti fossimo educati a un cuore del genere, parafrasando una ben nota frase di don Giussani, staremmo tutti meglio. La Colletta è un gesto umano e ragionevole perché è un gesto da cui traspare quel cuore, quell’intelligenza, quella carità. Questo commuove, e contagia.


COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Una società che non combatte e risolve il problema della povertà è una società dove la fiducia cala, una società che cresce meno, una società che diventa più violenta». A dirlo è Corrado Passera, Ceo di Intesa-San Paolo, uno dei più grandi gruppi bancari europei. «L`impegno per combattere la povertà - continua - è giusto in sé. Ma è anche indispensabile se si vuole tenere insieme la società e non rischiare derive pericolose: non è certo il nostro caso, ma la storia dimostra che quando una parte della società entra in uno stato di stress insopportabile, ne soffre la democrazia, e la tenuta delle istituzioni diventa a rischio».
Sabato prossimo, 29 novembre, c’è la giornata nazionale della Colletta alimentare, la raccolta di alimenti che si svolge in tutta Italia organizzata dal Banco Alimentare. In piena crisi economica, quando verrebbe da pensare che tutti vogliano tenersi stretto quello che hanno, la carità non si ferma e il Banco lavora per venire incontro a chi ha bisogno. «Quella del Banco Alimentare è una formula straordinaria per efficacia. Aiuta concretamente milioni di persone, contribuendo a risolvere la necessità primaria del cibo. Lo fa in maniera continuativa e non estemporanea con una macchina organizzativa molto efficiente e poco costosa. In più coinvolge nel dono milioni di persone, che è un fatto fondamentale. Lo stesso risultato economico raggiunto con un unico assegno avrebbe immensamente meno forza di quello che scatena il Banco Alimentare, grazie alla larghissima partecipazione che sa sviluppare».
Ma non si può parlare di povertà senza scomodare le politiche di welfare. Alle quali la crisi economica manderà, prima o poi, il “conto” dello stato di sofferenza sociale che si verrà a creare nel Paese. «Viviamo comunque - dice Passera - in un continente e in un paese che assicura un livello di welfare che il resto del mondo si sogna. Quando qualcuno disdegna il welfare come conquista della nostra società occorre ricordarlo e non dimenticarsi che il resto del mondo guarda all`Europa, e per certi aspetti all`Italia, con grande invidia. Detto questo, l`attuale welfare, nella sua sostenibilità soprattutto nel campo della sanità, dell`assistenza, della previdenza, sia per l`effetto dell`invecchiamento (che è un`alta conquista dell`umanità) e della natalità, sia per l`effetto dell`immigrazione, è purtroppo a rischio e deve ristrutturarsi per sopravvivere e per continuare a garantire il suo ruolo».
Occorrono quindi altre soluzioni e l’incapacità dello Stato di far fronte al costo sociale della povertà è sempre più evidente. «È chiaro che il “pubblico” - prosegue Passera - non sarà in grado di assicurare da solo il livello di servizi di cui una società in grande trasformazione come la nostra avrà bisogno nei prossimi anni. Questo lascia spazio al ruolo che il non-profit, l`impresa sociale, il volontariato potranno svolgere nel nostro Paese. Con le nostre banche e le fondazioni nostre azioniste, nel rispetto di un`antica tradizione, abbiamo sempre sostenuto la nascita e lo sviluppo di progetti nel terzo settore».
Resta aperto il problema di una politica del credito. Di fronte alla povertà c’è chi non ha mai smesso di invocare un salario minimo per tutti, o forme più calibrate di garanzia come il micro credito. «Dobbiamo ulteriormente facilitare l`accesso al credito a tutti quei settori, come l`impresa sociale, che lo meritano ma che hanno avuto difficoltà in passato a trovare ascolto. Nel Sud del mondo il micro-credito consiste in prestiti di pochi dollari, da noi il micro-credito prende forme diverse. Micro-credito è, per esempio, il “prestito d`onore” agli studenti, micro-credito è finanziare i cassintegrati fino a quando l`Inps interviene con il sussidio, oppure finanziare le famiglie meno abbienti per assumere una badante».
Tra un intervento come questo e il “minimo salariale”, la posizione di Passera è molto elastica. «C`è spazio per tutto - dice -, sia per un terzo settore più forte, sia per ammortizzatori sociali di cui l`Italia oggi manca. Oggi soffriamo di rigidità antistoriche e di una tutela inadeguata contro la disoccupazione, quando dovremmo invece puntare su maggiore flessibilità e adeguati ammortizzatori sociali. Dobbiamo evitare però gli errori fatti in altri paesi, dove un “eccesso” di ammortizzatore sociale disincentiva l`uscita dalla disoccupazione stessa».
Affrontando un tema caldo come quello della povertà, non si può non parlare, come sempre accade nel nostro Paese, di contraddizioni geografiche, crescita, redistribuzione della ricchezza. «Su molti interventi c`è grande consenso, il fatto è che poi non facciamo ciò che diciamo. Un caso emblematico - prosegue Passera - è quello delle infrastrutture e dei decenni necessari a realizzarle. I nostri meccanismi decisionali in tutti i settori delle istituzioni e della Pubblica amministrazione si bloccano con troppa facilità e il costo per il Paese è enorme. Quanto alla redistribuzione della ricchezza, è un tema squisitamente politico. Invece dobbiamo sentirci tutti responsabili di accelerare la crescita economica sostenibile. Se non c`è crescita economica non ci sono risorse da redistribuire, e da troppi anni non cresciamo abbastanza».
Di fronte a chi ha bisogno don Luigi Giussani parlava di semplice atto di carità cristiana. Viene da chiedersi se non sia proprio questo uno dei fattori di coesione, anche sociale, di cui le nostre società vivono più oggi la mancanza. «La carità - conclude Passera - ha un particolare significato per un cristiano e magari per un laico ne ha un altro. Ma il dono e il donarsi è uno dei grandi motori della società. Oggi si tende da parte di troppi a ridurre la società alla sua componente economica, considerando i cittadini solo dei consumatori e in generale le persone solo come portatrici di interessi particolari. In realtà la società si tiene insieme e si evolve grazie a valori che trascendono ciò che è conveniente e ciò che è contingente, grazie proprio a questo darsi senza misura, comunque senza calcolo».


Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
MADRID, giovedì, 27 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Arcivescovo di Siviglia, Carlos Amigo Vallejo, ha affermato questo martedì che eliminare dalle scuole pubbliche il crocifisso, “che è un segno così radicato della nostra cultura, non favorisce assolutamente la convivenza tra le persone”.
Anche l'Arcivescovado di Valladolid ha difeso questa posizione di fronte a una sentenza giudiziaria che obbliga a ritirare i crocifissi da una scuola pubblica della città.
Le dichiarazioni ai media del Cardinale Amigo Vallejo, in un intervallo della XCII Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), in svolgimento a Madrid, arrivano dopo una sentenza del Giudice per i Contenziosi Amministrativi numero 2 di Valladolid, che ordina di ritirare i crocifissi dalla scuola pubblica Macías Picavea della capitale della Castilla-León.
La sentenza afferma che la presenza di simboli religiosi nella scuola mina i diritti fondamentali di uguaglianza, libertà religiosa e aconfessionalità dello Stato raccolti nella Costituzione.
Il Cardinale Amigo si è detto in disaccordo con questa decisione, visto che “la convivenza si costruisce con il rispetto per le persone, non solo sbarazzandosi della ricchezza culturale di un Paese”.
“La cosa importante è che si insegni a questi bambini di Valladolid a rispettare i simboli religiosi di ogni religione”, ha affermato. “Mi sembra positivo che si ascolti” la società, “ma tutti, non solo un settore e a volte minoritario”.
“Abbiamo avuto dei problemi con la questione dei simboli”, ha ricordato. “Ricordiamoci del velo islamico, che ha anche portato a delle leggi in Francia”.
Fernando Pastor, dell'Associazione Culturale Scuola Laica e promotore del reclamo, ha insistito sul ritiro dei crocifissi “perché si applichi la legge e si rispettino i diritti di tutti i cittadini”, e ha riconosciuto che quando si è rivolto ai giudici tre anni fa non ha pensato alle conseguenze che avrebbe potuto avere una decisione favorevole.
La polemica si produce in un momento in cui in Spagna si verificano casi aneddotici di dichiarazioni di apostasia, depositati nei Vescovadi chiedendo che il proprio nome venga cancellato dal registro battesimale, il tutto di fronte alle telecamere e ai microfoni. Alcuni Vescovi hanno rifiutato, perché il battesimo è un fatto storico. Quello che hanno detto di poter fare è aggiungere una nota al margine dell'iscrizione nel libro battesimale, con la dichiarazione di apostasia dell'interessato.
In questi giorni, inoltre, in Spagna si sta verificando un altro fatto insolito: si creano associazioni di atei militanti con una dichiarata intenzione di sradicare tutto ciò che richiama la religione nella nostra società.
Non si tratta di non credere o di agnosticismo, ma di una militanza aggressiva contro i simboli religiosi negli spazi pubblici, una specie di uscita dalla tomba di tutti gli intolleranti che hanno favorito la persecuzione religiosa della II Repubblica spagnola negli anni Trenta del XX secolo.
La Giunta della Castilla y León ha espresso la sua disponibilità a ricorrere contro la sentenza: “Non posso condividere una parte delle argomentazioni della sentenza, secondo la quale la presenza di un simbolo religioso, come il crocifisso, è oggi in Spagna un elemento di aggressione, un elemento di indebolimento di diritti e libertà”, ha dichiarato il presidente Juan Vicente Herrera.
L'Arcivescovado di Valladolid ha chiesto il ricorso perché, in caso contrario, si potrebbe incorrere in un “evidente pregiudizio” per la cittadinanza, secondo il suo portavoce, Jorge Guerra, che ha affermato che la decisione parte da un concetto molto semplice e ridotto: “Il crocifisso, secondo altre decisioni dei tribunali, è qualcosa di più, perché rappresenta la dignità e la tolleranza delle persone”, e la presenza della croce in spazi pubblici “non obbliga le persone a manifestare alcun tipo di credo”.
Da parte sua, la Confederazione delle Federazioni di Associazioni di Genitori di Alunni e di Famiglia dell'Andalusia (CONFAPA) ha reso pubblica questo mercoledì una nota, firmata dal suo presidente Juan Mª del Pino Mata, in cui si dice che “di fronte alla situazione che si sta creando in altre regioni della Spagna riguardo alla presenza di simboli religiosi nelle scuole pubbliche” e “rispettando profondamente l'opinione degli organi giudiziari, non riusciamo a capire quale apporto negativo abbia la presenza di Gesù nella scuola”.
“Difenderemo – aggiunge – l'idea che il ritiro dei crocifissi dipenda dalle decisioni maggioritarie prese dalle associazioni di genitori di ogni centro, e il fatto che senza questo requisito non siano imposte nell'ambito scolastico le valutazioni di minoranze senza peso specifico nella nostra società a maggioranza cristiana”.
La nota conclude sottolineando che “sulla questione stanno intervenendo associazioni molto politicizzate, che non apportano alla vita scolastica nulla per il suo miglioramento e che anziché preoccuparsi della vera qualità dell'insegnamento per tutti portano solo atteggiamenti di radicalità ed esasperazione”.
In questo tempo liturgico che precede l'Avvento, come accade ogni anno, inizieranno a emergere dichiarazioni dei genitori degli alunni nelle scuole pubbliche chiedendo che non si realizzi nulla che abbia a che vedere con il Natale: né presepi, né rappresentazioni, nulla che possa anche lontanamente ricordare che alla fine dell'anno si celebra la nascita di Gesù.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – I leader della protesta anti-governo in Thailandia promettono una occupazione a oltranza dei due aeroporti di Bangkok e ribadiscono di voler “combattere fino alla morte” se la polizia procederà allo sgombero. Il primo ministro Somchai Wongsawat fa un passo indietro e abbassa i toni dello scontro, affermando di voler cercare una mediazione con i manifestanti, basandosi sul principio della “non-violenza”.
Dal 26 novembre migliaia di oppositori hanno bloccato l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi, mentre ieri è stata la volta dello scalo di Don Mueang, usato soprattutto per i voli interni. Il premier aveva dichiarato lo stato di emergenza, accusando i rivoltosi di tenere in ostaggio la nazione.
Un portavoce del governo ha aggiunto che la polizia aveva ricevuto istruzioni per procedere “il prima possibile” allo sgombero, utilizzando però “metodi pacifici”. L’esecutivo ha chiesto alle forze dell’ordine di aprire un tavolo di trattative con i manifestanti; in caso di rifiuto gli agenti avrebbero l’autorizzazione a procedere, mettendo in pratica “tutto il necessario per riaprire gli aeroporti, basandosi sul principio della non-violenza”.
Al contrario, i membri dell’Alleanza popolare per la democrazia (Pad) ribadiscono la linea dura, confermano di essere pronti a “difendersi con ogni mezzo” e di voler restare negli aeroporti "fino alle dimissioni di Somchai”. Al momento sembra regnare una calma apparente; fonti interne affermano che vi sono alcuni funzionari dell’esecutivo impegnati in trattative con i leader della protesta.
Il governo riferisce inoltre che l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi rimarrà chiuso almeno fino al 29 novembre; per favorire il rientro di una parte dei turisti ancora bloccati in Thailandia, l’esecutivo ha predisposto alcuni voli in partenza da una base militare nei pressi della capitale.
Somchai ha deciso di restare “a tempo indefinito” a Chiang Mai, nel nord del Paese, a causa delle “tensioni” fra l’esecutivo e le forze armate. E proprio a Chiang Mai sarebbe in agenda un consiglio dei ministri straordinario per far fronte alla crisi.
Il 27 novembre Anupong Paojinda, comandante dell’esercito thailandese, aveva invitato il premier a rassegnare le dimissioni e allo scioglimento del parlamento. Il capo dell’esercito, molto influente nel Paese, ha però negato l’ipotesi di un colpo di Stato dei militari e ricorda che il governo mantiene ancora la “piena autorità” sul Paese.


28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
Hanoi (AsiaNews) – Si fanno sempre più evidenti i connotati politici del processo che le autorità di Hanoi stanno organizzando contro i cattolici che hanno preso parte alle manifestazioni dei parrocchiani di Thai Ha, che chiedevano la restituzione del terreno della parrocchia, requisito dallo Stato. Non contenti di impedire a due degli imputati di vedere il loro avvocato, le autorità di Hanoi stanno infatti organizzando il processo in modo che sia anche estremamente difficile assistervi.
In primo luogo la data. Da tempo si sa che il 5 dicembre – giorno di inizio del procedimento giudiziario – ci sarà la cerimonia di consacrazione del nuovo vescovo ausiliare della capitale, mons. Chu Van Minh. Il che vuol dire che i sacerdoti saranna impegnati in cattedrale. Per consuetudine poi, i fedeli laici, e soprattutto quelli più impegnati, partecipano in gran numero a tali cerimonie e quindi anche loro saranno occupati e, come i preti, non andrnno in tribunale.
Non basta. La legge vietnamita prevede che i processi siano pubblici, a meno che non mettano a repentaglio la dignità del querelante. E non è questo il caso. Ma l’avvocato degli accusati, Le Tran Luat, ha fatto sapere, come riferisce Eglises d’Asie, che gli imputati sono stati avvertit, a voce, che per assistere a questo processo occorre presentare una domanda scritta. Il che, nota l’avvocato, è in palese contraddizione con il principio del processo pubblico e riflette l’intenzione di limitare il numero dei presenti. L’obbigo della richiesta scritta, inoltre, permette di sapere chi vuole esserci e ha sapore chiaramente intimidatorio.
Non basta ancora. E’ stato annunciato che il procedimento non si svolgerà al tribunale di Hanoi, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato popolare (il municipio), in via Hoàng Cau, all’interno del distretto di Dong Da. E il 15 novembre un delegato del Comitato del popolo andò al convento dei Redentoristi, che hanno la cura della parrocchia di Thai Ha, dicendo di volere un incontro urgente. Una manovra chiaramente diversiva, mentre "centinaia di persone si riunivano per attaccare la cappella".


Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
George Orwell parlava di neo-lingua, cioè del tentativo del potere, nemico dell’uomo, di dare alle parole più vere e più sacre della vita un significato contrario a quello che il cuore dell’uomo ha sempre loro attribuito.
«Condannati a vivere, libertà di morire, pietà per la morte, cinismo di fronte alla strenua difesa della vita»: i mezzi di comunicazione sono ormai stracolmi di simili affermazioni contraddittorie.
Del resto è storia vecchia: più di 4000 anni fa a Babele si architettava la stessa cosa. Ciò nonostante, ogni volta, l’uomo è miope di fronte a certe devianze. Anche per questo la Chiesa, all’inizio di ogni anno liturgico, durante il periodo di avvento, pone ad esempio della vita dei cristiani Giovanni il Battista, il più grande fra i profeti.
Sì, profeta, nel senso greco di pro-fétes, di colui che indica presente ciò che è già nascostamente in atto nella storia. Il Battista ha additato ai suoi contemporanei Colui che veramente compie l’eugenetica dell’umanità. Colui che rende veramente buona ogni nascita, perché certa di un compimento di bene.
Ogni tempo ha i suoi profeti. Abbiamo recentemente visto un documentario sulla vita di uno che fu, davvero, un Battista per la sua generazione. Un vescovo-profeta tanto grande quanto sconosciuto ai più: Clemens August von Galen.
Di fronte all’avvento del Führer, egli fu tra i primi a riconoscerlo come verführer (cioè come seduttore, anticristo. (Nel 1933 in una trasmissione radiofonica Dietrich Bonhoeffer definisce Hitler non un führer (conduttore) ma un verfüher (seduttore). La trasmissione viene subito interrotta).
Prima che un’operazione dispotica di potere dalla connotazione politica, quella di Hitler fu un’operazione culturale tesa a modificare le coscienze.
La eugenetica di stampo hitleriano fece leva sulla conservazione della razza tedesca riconosciuta come ariana, e ideò pertanto un programma di valorizzazione della stessa (decretata come la sola degna dell’appellativo umano). Iniziò così lo sterminio dell’uomo disabile, o diversamente abile, o impotente in qualunque delle sue funzioni. Un’operazione che sollevò l’indignazione della Chiesa e che trovò, appunto, nel vescovo von Galen una delle voci più chiare e autorevoli. Il dramma della shoa, prima che essere un dramma antisemita fu un dramma antiumano. In questo contesto la Chiesa scatenò l’odio di Hitler, proprio per aver saputo smascherare in tempo reale la vera natura del progetto nazista.
Ora, come allora, la funzione profetica della Chiesa infastidisce. Nella predicazione hitleriana risuonavano parole a noi oggi tristemente familiari che, mentre pretendono di stare dalla parte dell’uomo, ne propugnano invece la autodistruzione. Se a quel tempo le idee hitleriane provenivano da un potere dichiaratamente dispotico, oggi queste stesse idee vengono sbandierate come segno di una più grande e più emancipata civiltà.
Dopo una fallace unità europea si vuole ora diffondere una neo-lingua che detti le coordinate valoriali della futura civiltà: un esperanto che odora di morte e di volontà di potere sull’uomo e sul suo mistero.
Le torri di Babele non sono passate di moda. Non interessa più raggiungere il Cielo ma testimoniare che il Cielo ormai è vuoto, occupato com’è dalle grossolane voci di un etere che sparge la sua nuova grammatica: strumentalizzare la morte e la vita, l’uomo e la donna per ridurre tutto a oggetto di consumo.


Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
Pubblichiamo questo articolo tratto dal Corriere della Sera del 26.11.08 dei nostri amici ebrei Guido Guastalla e Giorgio Israel
Molti ebrei italiani, impegnati da tempo nel dialogo con i fratelli cristiani, e cattolici in particolare, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dalla Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimono il loro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura del dialogo ebraico-cristiano e si impegnano a proseguirlo nelle forme e nei modi che riterranno più opportuni, sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, per’altro limitato, circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud ci insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono molto più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e costituiscono la corretta interpretazione di ciò che viene affermato. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate affermazioni ufficiali soprattutto del Papa nella lotta all’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pure legittima, successiva alla reintroduzione nella preghiera in latino delle affermazioni oggetto di controversia.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto attuale di una gravissima crisi planetaria che ha implicazioni morali ed etiche di grande rilevanza e di altrettanto minacciosi pericoli da parte del fondamentalismo e terrorismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o comunque di attenuarli e delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
A cominciare dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno iniziato, in condizioni ben più difficili ed ardue di quelle attuali, a proporre il problema del rapporto e del dialogo fra ebrei e cristiani nell’intento di superare millenni di incomprensioni, persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Scriveva il grande rabbino livornese, kabbalista e filosofo, Elia Benamozegh in Israele e l’umanità : «Allora, la conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli (Ml. 3,24), vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Come l’unità dei due popoli già sussiste nelle mani di Dio, in modo misterioso, noi crediamo che, se lasceremo crescere la loro capacità di ascolto e di amore, i figli di Israele e i figli della Chiesa, potranno giungere dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza tutti gli uomini di buona volontà debbono riconoscere.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura un forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica, obbiettivo questo che è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6) e «…Cessate di operare il male. Imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova» (Isaia, 1, 11-17)”.
Oltretutto ebraismo e cristianesimo hanno un terreno comune che li lega in modo assolutamente speciale, e che proprio per questo ha reso ancor più dolorose le vicende dei secoli passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Vogliamo ricordare un testo dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, pubblicato nella primavera del 2001 come prefazione a “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”. Vi si diceva: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, in questa vigna del Signore come disse il Papa durante il funerale di Giovanni Paolo II, vogliamo percorrere insieme la strada del dialogo e della redenzione e stare amabilmente insieme, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!… Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).

Guido Guastalla
Assessore alla cultura Comunità ebraica Livorno

Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”


INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Ricordava un saggio pubblicato dalla rivista Oasis che nell’atlante mondiale del terrorismo l’India ha conquistato il suo posto di rilievo ormai da parecchio tempo. Sono passati sessanta anni dall’uccisione del padre della patria, il Mahtama Gandhi, per mano di estremisti hindu, 24 da quella di Indira Gandhi ad opera dei sikh e 17 da quella di Rajiv Gandhi causata dai guerriglieri tamil. Nella più grande democrazia del mondo c’è una certa propensione ad ammazzarne i leader. Ma non si tratta solo di omicidi eccellenti, perché in questo non ci sarebbero differenze abissali dagli Stati Uniti degli anni Sessanta o dall’Italia e Germania degli anni di piombo. Le stragi accompagnano l’India moderna, che pure ottenne l’indipendenza grazie alla spettacolare campagna non violenta del Mahatma contro la dominazione inglese. Ma come è accaduto troppo frequentemente (si pensi alla Palestina o a Cipro) i britannici lasciarono dietro le spalle le braci ardenti di incendi che sarebbero ben presto divampati. E così la separazione del Pakistan, concepito come la patria dei musulmani, fu accompagnata da una terrificante violenza i cui echi non si sono mai spenti. E le periodiche insurrezioni delle caste, i conflitti etnico-nazionalisti (nel Punjab dei sikh, nel Tamil Nadu, nell’Assam), la guerra a bassa ma continua intensità con il Pakistan per il Kashmir (ne ha scritto recentemente Arundhati Roy, autrice del magnifico romanzo Il dio delle piccole cose, dedicato al dramma degli intoccabili), gli scontri politici sollevati dalle svariate formazioni comuniste. Il casus belli della recente ondata delle persecuzioni anticristiane dell’Orissa è stato l’assassinio di un leader hindu rivendicato da un gruppo maoista -meccanismi che ricordano i pogrom antiebraici nella Russia di fine Ottocento.
Massacri e attentati più familiari alla nostra immagine di terrorismo (autobombe, agguati, esplosioni nei mercati e nelle stazioni, assalti) sono relativamente più recenti. Dal 1992 fino all’altro ieri vengono enumerati oltre milleduecento civili morti in attentati di ogni genere.
I fatti di Mumbai allungano la catena, ma insieme mostrano qualcosa di diverso (o almeno lo mostrano in modo clamoroso). C’è la mano o l’idea di Al Qaeda, c’è la caccia ad americani e britannici, c’è un gruppo che dichiara il legame con il jihad, la guerra “santa” del musulmano, la cui interpretazione non è affatto univoca. Emerge cioè la natura del terrorismo globalizzato, quello che non ha una radice locale, etnica o nazionalistica, ma che di queste radici può nutrirsi; quello che non ha una origine politica, ma su di essa può prosperare: è Alien, il mostro che il cinema ha immaginato vicino a noi, dentro di noi, e che la realtà ci ha fatto conoscere “grazie” all’11 settembre. Non è circoscrivibile a una ragione ideologica o a una zona geografica, perché supera ogni tipo di barriera. Pensateci. Dall’Afghanistan in Algeria, da Israele al Libano, Somalia, Irak e Indonesia, e poi Madrid, Londra, Mosca. Un serpente nero che corre veloce sulla mappa del mondo. Lo squadrone dei terroristi veniva dal Pakistan, giurano le autorità indiane. E’ lì uno dei buchi neri del pianeta, una delle tane di Alien (come aveva presentito Bernard Henri Levy nello sconvolgente libro inchiesta Chi ha ucciso Daniel Pearl?).


STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il fondatore del PCI si sarebbe convertito in punto di morte. È quanto ha affermato mons. Luigi de Magistris propenitenziere emerito del Vaticano nonché conterraneo del pensatore alerese. Oltre al grande scalpore della notizia, restano molti dubbi. Ma una cosa è certa, Antonio Gramsci da un certo punto della sua vita in poi cambiò radicalmente alcune sue convinzioni politiche e morali. Giancarlo Lehner, storico e giornalista, studioso del comunismo e biografo di Gramsci esprime la propria opinione
È possibile che la prima educazione di stampo cattolico ricevuta da Antonio Gramsci abbia influito nel suo pensiero?
Di primo acchito direi che in questa vicenda la questione dell'educazione ricevuta si pone nettamente in secondo piano. Gramsci frequentò un asilo di suore, ma penso che la cosa non abbia avuto alcun peso nella sua riflessione interiore. Premettendo che quando si parla di “conversione” di Gramsci occorre necessariamente calcare il terreno delle ipotesi, poiché non esistono, o ancora non sono stati ritrovati, documenti scritti, andrei piuttosto a vedere quelli che sono stati i dolori di Antonio Gramsci. Induttivamente infatti si può affermare che le sofferenze subite sia dal carcere fascista sia dalla consapevolezza fortissima del tradimento dei suoi compagni di partito portò Gramsci a rivedere molte delle sue precedenti posizioni.
Quali furono i compagni dai quali si sentì tradito?
In particolar modo fu tradito da Togliatti. Questo è lui stesso ad affermarlo nelle sue lettere. Credo che non ci sia sofferenza più grave che scoprire, o comunque supporre, di essere traditi dai propri amici perché il fatto che gli avversari possano volere il tuo male rientra nella logica, mentre tutte le tue certezze si affidano ai tuoi compagni e se questi vengono meno allora crollano molte convinzioni. Si evince dalle lettere di Gramsci e dall'impianto dei suoi pensieri negli ultimi scritti che egli si allontana via via dal fondamento stesso del comunismo. Fondamento che in un primo momento anch'egli individuava nella lotta, la lotta di classe, l'intolleranza nei confronti dell'avversario politico. Gramsci si avvicinò, e anche questo è comprovato, ai grandi valori cristiani fino a mutare completamente il proprio modo di intendere i rapporti umani.
Può spiegarci in che cosa mutò questo atteggiamento?
Faccio un esempio. Un avversario forte di Antonio Gramsci sul piano politico e delle idee fu senza dubbio Amedeo Bordiga, fondatore del PcdI, il Partito Comunista d'Italia. Fu un personaggio dogmatico e di grande coerenza e fra Bordiga e Gramsci ci fu un asperrimo conflitto ideologico. Ciononostante Gramsci conservò per tutta la vita un rapporto di affettuosa amicizia, di stima e benevolenza nei confronti di Bordiga.
Questa che sembra una banalità è invece un fatto fondamentale perché si parla di un periodo storico in cui l'ideologia comunista sovietica favoriva l'eliminazione fisica dell'avversario senza mezzi termini, quand'anche questi fosse un compagno di partito. Se qualcuno osava uscire dall'ortodossia del comunismo veniva considerato un vero e proprio traditore. Gramsci invece, pur nel dissenso, conservò un rapporto esemplare verso coloro che erano ideologicamente lontani da lui.
Altri significativi cambiamenti di rotta?
C'è un recupero fortissimo del valore della famiglia, tant'è che va a ritirarsi in Sardegna, appena esce di prigione e ne ha l'occasione, invitando i propri cari a seguirlo. A quel punto Gramsci non era nient'altro che un comunista talmente deluso dallo stalinismo che una volta libero non poteva nemmeno pensare di andare in URSS ad unirsi con moglie e figli a Mosca, ma piuttosto di portare i propri cari a vivere nell'Italia fascista. Forse non ce ne rendiamo abbastanza conto, ma è un fatto epocale quello che vede il fondatore del PCI preferire il regime di Mussolini a quello di Stalin.
Tutto quanto lei afferma è davvero sorprendente e, soprattutto, sconosciuto ai più. Ma è tuttavia bastante per confortare la tesi della conversione?
No, non è sufficiente per poter affermare che Gramsci si convertì al cattolicesimo. Infatti ho parlato soltanto del fatto che da un certo punto in poi egli sceglie di seguire dei valori differenti i quali sono in modo generico “cristiani”. Io non dispongo di prove scientifiche per avvalorare quello che ha detto il cardinale De Magistris. Però diciamo pure che non mi meraviglierei, nel caso fosse dimostrata la sua conversione. Ma sia chiaro un concetto: non mi fido molto delle conversioni in punto di morte, non in senso morale, ma storico. Da un punto di vista scientifico una conversione in punto di morte non è quasi mai documentabile. Il fatto che Carducci, anticlericale e autore dell'Inno a Satana si sia convertito poco prima di morire, non cambia l'accezione del suo contributo alla letteratura. Quello che voglio precisare è che in Gramsci, certamente, al di là della conversione c'è un discorso di riavvicinamento a certi valori che sicuramente non sono comunisti.
In quali scritti si trova preponderantemente questo riavvicinamento?
Nelle lettere e in alcuni ragionamenti contenuti nei suoi quaderni. Con un'avvertenza: sia le lettere sia ancor più i quaderni sono scritti spesso in forma criptica. Nel mio libro La famiglia Gramsci in Russia parlo di “lessico dell'acquario”. Gramsci infatti è come un pesce che nuota nell'acquario che è il carcere fascista ed è consapevole che tutto quello che scrive sarà spiato sia dal fascismo che dai comunisti perché le lettere erano indirizzate a Mosca.
Esistono altri testimoni della conversione di Gramsci?
Sì, nel '77 un altro monsignore parlò di un racconto delle suore della clinica Quisisana a Roma. La notizia in effetti non è del tutto nuova. Se poniamo che sia vera dobbiamo porre anche il fatto che probabilissimamente le prove scientifiche siano state “sbianchettate” perché certamente il PC degli anni '50 non poteva tollerare una cosa simile. L'unica speranza è che magari in futuro la Chiesa fornisca una documentazione scientificamente attendibile o quanto meno dei seri indizi.
C'è anche qualche compagno di partito che ha mai accennato a qualche ripensamento di Gramsci in chiave religiosa?
No! Figuriamoci, il fatto più drammatico della vicenda Gramsci è che il PC ci ha descritto un uomo che non è mai esistito. Lo ha sempre presentato come un fervente stalinista mentre il merito più grande di quest'uomo è stato che, trent'anni prima della denuncia dei crimini staliniani fatta da Krusciev pose a Togliatti, nell'ottobre del 1926, il problema dei “metodi” di Stalin. Il che è, secondo me, straordinario.
Questa sua “profezia” in un certo senso l'ha pagata in modo durissimo: non lo doveva dire, lo ha detto e l'ha pagata. Il partito lo ha massacrato diffamandolo, lo ha presentato per anni come un fautore di Stalin. Si aggiunga poi che il PCI ha letteralmente rubato i diritti d'autore alla famiglia Gramsci. Anche questo è ampiamente documentato nel mio libro. Il Partito Comunista italiano È riuscito, sebbene questi fossero alla fame, a rubar loro i diritti fino al 1996.
Qualora si accertasse l'effettiva conversione di Antonio Gramsci, ciò comporterebbe anche un diverso approccio nello studio delle sue opere?
Direi certamente di sì, ovviamente avrebbe conseguenze. Ma devo dire che già chiunque si accinga a scrivere oggi un su Antonio Gramsci deve rendersi conto che certe bugie e falsificazioni non reggono più.


«Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
« S taccare la spina? La spina si può staccare a un elettrodomestico, non a una vita». Amedea Parma va dritta al cuore della questione, senza trop­pi giri di parole. Potrebbe fare altrimenti u­na madre che da 8 anni accudisce il figlio in stato vegetativo? «Sono molto turbata per il caso di Eluana – ammette la signora Parma, 60 anni tra poche settimane, riminese – non voglio giudicare nessuno ma allo stesso tem­po non posso tacere: don Oreste Benzi mi in­citerebbe a far conoscere la mia esperienza. Se mi permetto di prendere la parola è per­ché anche io vivo le stesse sofferenze del pa­dre di Eluana». Duemila, anno del Giubileo. È il giorno della festa del papà: Davide ha 27 anni, all’ora di ce­na il suo posto a tavola è vuoto. Alle 20 suo­nano alla porta ma invece del ragazzo spun­tano le divise dei carabinieri. «Davide è in o­spedale, nel reparto rianimazione, le sue con­dizioni sono gravi, molto gravi». La causa è un’overdose. Ad attendere Amedea e il mari­to, in ospedale, c’è la diagnosi dei medici, che suona come una sentenza senza appello. Da­vide è in pericolo di vita e anche se riuscisse a sopravvivere per lui non ci sarebbe più sta­to niente da fare: lo attendeva lo stato vege­tativo, la stessa diagnosi fatta a Eluana. «Una sentenza terribile, dolorosa, durissima da ac­cettare » ricorda la mamma. Dopo 20 giorni, Davide è inserito in reparto e qui rimane per due mesi dopodiché viene trasferito in una struttura per la riabilitazione. Davide è intu­bato, si nutre attraverso un sondino naso-ga­strico, soffre di gravi broncopolmoniti con febbre altissima. Il quadro clinico è dispera­to; mamma, papà e il fratello lo assistono con­tinuamente: «Gli facevamo sentire la nostra presenza». Dopo quattro mesi è giunto il mo­mento delle dimissioni. La famiglia è indeci­sa sul da farsi, e la soluzione che viene sug­gerita da un esperto è il ricovero in una resi­denza sanitaria assistita. «Con mio marito e mio figlio ci siamo guardati negli occhi – rac­conta Amedea –, il pensiero era lo stesso: por­tiamolo a casa». Davide e la famiglia sono parrocchiani di don Oreste Benzi, «il prete degli ultimi». A casa, alla Grotta Rossa di Rimini, torna un «bimbo» di 27 anni, da gestire come un neonato. Da ac­cudire in continuazione: per questo mamma Amedea vive nella sua camera. C’è da azio­nare l’ossigeno, fare punture, eliminare l’ec­cessivo catarro. «Non sapevo come gestire questa nuova drammatica situazione – am­mette la madre –. I primi due anni sono stati per me una tragedia incondizionata». Davi­de ha lo sguardo nel vuoto, non manifesta reazioni, nonostante gli stimoli che arrivano dai familiari.
Amedea ricorda quei giorni: «Avevo pensato di farla finita, perché venivo già da un altro e­norme dolore: la perdita di un figlio morto a soli 12 anni in seguito a incidente stradale». Con il nuovo dramma ad Amedea crolla il mondo addosso. «Sono stati due lunghi an­ni: per questo capisco la sofferenza del padre di Eluana nell’accettare la condizione del suo stato vegetativo. A un certo punto, però, o­gnuno di noi deve scegliere». Amedea ha scel­to la vita, e si è sposata per la seconda volta, «con la vita. E mio figlio ha percepito il mio, il nostro abbandono, che lo avevamo accet­tato incondizionatamente e ha iniziato a da­re segnali positivi». Davide, questo trentenne dai capelli castano scuro, per i medici resta in stato vegetativo, ma nessuno, incontrandolo in casa, seduto sulla carrozzina, direbbe che è «assente». «Sta bene, sorride, sorride spesso, è presente. Nel suo silenzio, nella sua immobilità, è parte in­tegrante della nostra famiglia». Simone, il fra­tello minore, sposato da un anno, fuga ogni dubbio. «Mamma, sta’ tranquilla: ci pensia­mo noi a Davide, non andrà in istituto». Due anni fa Davide ha subito l’asportazione del re­ne: per complicazioni è andato sotto i ferri per tre volte nell’arco di 15 giorni. «Secondo i medici, non avrebbe retto neppure alla pri­ma operazione – ricorda mamma Amedea –. Invece ce l’ha fatta, oggi sta bene ed è qui con noi». Il vescovo di Rimini, Francesco Lam­biasi, ha fatto visita al ragazzo ed è in contat­to con i familiari. Oggi il pensiero di Amedea va però a Eluana Englaro e piange. «In un mo­mento di tristezza, di sofferenza, di buio, si possono dire tante cose. Ma chi siamo noi per togliere la vita? Non sta a noi decidere. Un sorriso di Davide, un suo sguardo, anche nel vuoto, mi dona serenità e mi riempie di gioia. Come posso staccare la spina a questo figlio?».
«Capisco il dolore del padre di Eluana – dice la madre di un ragazzo in stato vegetativo a Rimini – ma chi siamo noi per togliere la vita? La spina si stacca agli elettrodomestici»

IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
Inquisizione. Basta la parola per evocare qualcosa di sinistro: tribunali spietati, processi sommari, roghi e caccia alle streghe. Una pagina di storia sbandierata spesso dall’orgoglio anticlericale per mettere la Chiesa con le spalle al muro.
Eppure qualche anno fa Giovanni Paolo II si chiedeva: «Nell’opinione pubblica l’immagine dell’Inquisizione rappresenta quasi una forma di antitestimonianza e di scandalo.
In quale misura questa immagine è fedele alla realtà?». In quell’occasione papa Wojtyla manifestava apprezzamento per uno storico Simposio internazionale sull’Inquisizione tenutosi in Vaticano nel 1998.
Dieci anni dopo, sulla scia di quell’evento, si è aperto ieri a Milano, presso la Biblioteca Ambrosiana, un convegno internazionale su «L’Inquisizione romana in età moderna e il caso milanese». Fino a domani tre giornate di riflessione promosse dalla Classe di Studi Borromaici dell’Accademia Ambrosiana. Tra i relatori teologi e storici, laici e credenti, come Franco Buzzi, John Tedeschi, Adriano Prosperi, José Martìnez Millán, Elena Brambilla, Claudia di Filippo, Gianvittorio Signorotto. Ieri prima dell’inizio dei lavori c’è stato il saluto dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi.
Il prefetto dell’Ambrosiana Franco Buzzi è sicuro: «Non bisogna aver paura di trattare un tema così complesso. Bisogna distinguere innanzitutto tra le varie fasi storiche dei processi inquisitoriali: quella di maggiore intensità ci fu nel 1500. Sia sul fronte cattolico, che su quello protestante. Oggi però manca ancora uno studio organico sulla teologia che ha sostenuto l’Inquisizione. Perché non si può ridurla a fenomeno di violenza tout court. Nella mentalità cinquecentesca era importante preservare la dottrina pura per mantenere salda l’intera società.
E anche la teologia ha finito per risentire del contesto storico e dell’ambiente». Ma non è un tentativo di assoluzione: «Si tratta - spiega il teologo - di riconoscere che l’Inquisizione fu una soluzione figlia del suo tempo.
Siamo tra Medioevo ed età moderna: il cristianesimo era la religione della città, non c’era ancora distinzione tra potere spirituale e temporale. Per la concezione politica dell’epoca non era accettabile che venisse turbato l’ordine pubblico da malfattori, ladri o assassini. A maggior ragione non era tollerabile il fatto che ci fossero coloro che procuravano la morte dell’anima: l’eresia era crimine ancor più atroce. Creava una situazione di degrado nella società con conseguenze nell’eternità». Sconcertano comunque i rimedi: «Oggi può apparire imbarazzante - dice Buzzi - quella mancanza di rispetto per la persona che dissentiva. Il diritto naturale dell’uomo alla libertà civile e religiosa non era stato ancora affermato. Ma l’abuso maggiore fu il tentativo di far crollare il segreto della confessione. Tra il XVI e il XVII secolo poi il prete più che rivelare il segreto, ritardava l’assoluzione finché il penitente si andasse ad auto-accusarsi…».
John Tedeschi, storico emerito dell’università del Wisconsin (Usa), rileva come l’opera di censura dell’Inquisizione romana spinse all’estero molti intellettuali italiani che avevano aderito al protestantesimo: «L’Italia soffrì di una grave perdita, però la loro fuga permise il diffondersi della cultura rinascimentale nel nord Europa.
Questi emigrati furono responsabili di una produzione impressionante di traduzioni e scritti originali. Fecero conoscere fuori dai confini italiani letterati come Tasso, la cui prima edizione all’estero della Gerusalemme Liberata uscì a Londra nel 1584. E poi gli esempi migliori del pensiero politico italiano come Guicciardini e Machiavelli, che era uno dei tanti autori proibiti in quel tempo al di qua delle Alpi.
Perfino il De Monarchia di Dante, opera censurata e rimasta manoscritta in Italia per la sua esaltazione dell’autorità imperiale, vide la luce a Basilea nel 1559 grazie all’ex vescovo di Capodistria, passato al luteranesimo, Pier Paolo Vergerio». Tuttavia, fa notare Tedeschi, ci fu anche un’emigrazione di segno opposto: «Ci furono casi di esiliati che furono espulsi dalle città estere per gli scontri con le autorità religiose locali: furono processati per atti di indisciplina e blasfemìa. Sappiamo dalle sentenze inquisitoriali conservate al Trinity College di Dublino, che ci fu un grosso movimento da tutte le parti d’Europa: sociniani dalla Polonia, calvinisti scozzesi, ugonotti dalla Francia, evangelici italiani della seconda generazione dalla Valtellina, si misero tutti in viaggio verso Roma per essere volontariamente riconciliati con la Chiesa.
Divennero così numerosi nel corso del Seicento che nel 1673 fu fondato a Roma un 'Ospizio dei convertendi', per facilitare la loro reintegrazione». Sembra giunto davvero il tempo per mandare al rogo tanti luoghi comuni: «Nella maggior parte dei processi inquisitoriali - precisa Buzzi- non c’era tortura. E poche volte si fece ricorso alla pena estrema. Gli accusati godevano di una certa tutela: non è un caso se potendo scegliere tra tribunale civile o religioso, molti preferivano quest’ultimo perché dava più garanzie. Oggi però per fortuna stanno cadendo le divisioni ideologiche, c’è una nuova storiografia che si preoccupa non tanto di giudicare la storia, ma di ricostruirla e intenderla».
Franco Buzzi, prefetto dell’Ambrosiana: «Manca uno studio organico della teologia che la sostenne. La storia non va giudicata, ma ricostruita» Lo storico John Tedeschi: «L’Italia soffrì di una grave perdita e molti intellettuali fuggirono all’estero. Ma il Rinascimento sbarcò nel Nord Europa»


Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008
L o sfolgorio del presbiterio ricorda che i genovesi lavorano da secoli a quel «corretto rapporto tra la dimensione della fede e la laicità della vita civile» cui il cardinale Angelo Bagnasco esorta gli italiani. L’oro zecchino, le sante figure e le cornici barocche, tutto quel che sovrasta l’altare di San Lorenzo - informa un’iscrizione del 1624 ­viene dalle casse della repubblica di Genova. Questo trionfo di ricchezza laica nel massimo tempio della cattolicità genovese è solo uno dei segni del connubio che sotto la Lanterna è riuscito, tra alti e bassi, a sfidare il tempo e che mercoledì ha richiamato in San Lorenzo la folla delle grandi occasioni. «La nostra cattedrale è aperta a tutti, indistintamente» ha annunciato l’arcivescovo, illustrando il ciclo di conferenze che si terranno fino a febbraio nella chiesa madre. Al suo appello ha risposto lo storico Ernesto Galli della Loggia. «Nel momento in cui si distruggono un mondo morale e un mondo sociale, chi è educato al senso della laicità non credente non può che manifestare una profonda incertezza e questo porta a nuove sintonie» ha detto aprendo la discussione su 'fondamenti della laicità e nuove sfide'. Dall’altra parte del tavolo, il filosofo del diritto Francesco D’Agostino; tra i due, come moderatore, Dino Boffo. Il direttore di
Avvenire ha invitato a utilizzare il registro del Concilio - «credenti e non credenti possono condividere l’impegno alla retta edificazione di questo mondo» - e Galli della Loggia ha riconosciuto che «la laicità si fonda sull’annuncio cristiano e sulla polarità dell’esercizio separato dei due poteri, Stato e Chiesa, che non comporta la separazione delle due sfere: in questa polarità si è formato il destino dell’Occidente come terra della libertà politica, perché su questa base è stato forgiato l’obbligo del potere di non violare il comandamento morale, la soggezione del potere politico al giudizio delle coscienze».
Il cristianesimo, insomma, come culla della libertà politica e della democrazia, ragionamento che può apparire iperbolico in tempi di scontri su presunte 'ingerenze' ecclesiastiche, ma che D’Agostino ha rafforzato dal punto di vista filosofico, sostenendo che «per il concetto cristiano di laicità è fondamentale che esista un mondo uguale per tutti e crea opportunità per tutti. Il cristiano dirà che è buono perché creato da Dio ma anche chi non ha la fede percepirà che esso è per noi, che è offerto alla ragione e alla conoscenza scientifica, perchè il cristiano ha il dovere di conoscere il mondo nella sua oggettività».
Dall’ontologia al caso Englaro il passo è breve: il rapporto tra fede, laicità e scienza è un tasto irresistibile per il filosofo del diritto ma soprattutto per l’ex presidente del Comitato nazionale di bioetica e infatti D’Agostino a Genova ha richiamato il mondo laico a «dar credito all’idea che il mondo esista e che esista un oggettività che concerne le cose del mondo, perché quando si distacca da questa sua matrice cristiana il mondo diventa una favola, alla maniera di Nietzsche, che ognuno può riformulare». Quindi, ha paragonato chi vuole sottrarre la sperimentazione scientifica al controllo etico e rivendica il diritto all’eutanasia a un novello Faust, che parte dal disconoscimento dell’oggettività del male, mentre «il peccato appartiene al mondo e ha una sua verità».
L’interlocutore è parso d’accordo: «Ci sono valori costitutivi del vincolo sociale che sono indisponibili, che non si possono mettere ai voti», ha detto Galli della Loggia, rilevando che i problemi della laicità sono iniziati con il «disancoraggio delle società cristiane dal cristianesimo». Per lo storico è fatale lo spegnimento della soggettività etica, dell’idea che l’individuo e la società si costruiscano intorno ad alcuni valori condivisi e a relazioni impegnative. Con queste conseguenze: «Giuridicizzazione di tutti gli aspetti della vita e trasformazione della scienza in tecnoscienza». E un pendant politico. «Con il tramonto della soggettività etica - ha ammesso lo storico - la laicità tende a diventare la negazione del rilievo storico della religione e la sua delegittimazione». Ha un bel ricordare D’Agostino che «il cristianesimo non tradirà il principio di laicità» perché «tradirebbe se stesso, diventando fondamentalista», in quanto il rischio paventato dal filosofo - «se la laicità non prende sul serio il cristianesimo tradisce se stessa» - per lo storico è già un fatto: «non c’è più un problema di 'confini' tra le due sfere - ha detto Galli della Loggia - ma è in atto il tentativo di espellere la religione dallo spazio pubblico e di espellere la naturalità della vita privata».
Ernesto Galli della Loggia