domenica 18 ottobre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 18/10/2009 12.18.01 – Radio Vaticana - Il Papa all’Angelus nella Giornata Missionaria Mondiale: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo all’umanità. E ricorda don Ruvoletto, ucciso in Brasile, e padre Sinnot, rapito nelle Filippine
2) L’AIFA E L’ABORTO CHIMICO TRAMITE R U 486 - La morte a domicilio non è una scelta «tecnica» - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 18 luglio 2009
3) Pillola Ru486 «No all’aborto a domicilio» - Il ministro Sacconi: da verificare la compatibilità con la legge 194 - DA M ILANO - E NRICO N EGROTTI – Avvenire, 18 ottobre 2009
4) Crocifissi in Sudan «Fermate i massacri» - L’appello al mondo del vescovo Kussala: saliti a 13 i giovani orrendamente uccisi - DA ROMA SALVATORE MAZZA –Avvenire, 18 ottobre 2009
5) Crocifissi due volte - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 17 ottobre 2009
6) S.E. Card. Carlo Caffarra - Intervento di apertura al Congresso Internazionale - "Verso Cristo". A 30 anni dalla Redemptor Hominis. Attualità di una via all’uomo - Roma, Pontificia Università Lateranense, 16 ottobre 2009
7) Realtà storica e pregiudizio ideologico secondo Manzoni - La peste a Milano dal disastro al delirio - di Franco Camisasca - L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
8) Da Ratisbona al Collège des Bernardins il rapporto tra fede e ragione (guardando a Oriente) - La verità non è mai solo teorica - Si chiude domenica 18 nella Villa Ambiveri a Seriate (Bergamo), il convegno internazionale "Cercatori dell'eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente", organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana. Pubblichiamo un ampio estratto di una delle relazioni. - di Adriano Dell'Asta - L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009
9) CHE COSA CI DICONO LE SORELLE DEI MONASTERI D ’A BRUZZO - Attraverso le ferite fin dentro i cuori - M ARINA C ORRADI – Avvenire, 18 ottobre 2009
10) Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu – Avvenire, 18 ottobre 2009


18/10/2009 12.18.01 – Radio Vaticana - Il Papa all’Angelus nella Giornata Missionaria Mondiale: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo all’umanità. E ricorda don Ruvoletto, ucciso in Brasile, e padre Sinnot, rapito nelle Filippine

La Chiesa è chiamata ad annunciare la speranza evangelica a tutta l’umanità: all’Angelus in Piazza San Pietro, nella Giornata Missionaria Mondiale, Benedetto XVI ricorda che ciascun cristiano è impegnato a testimoniare il Vangelo a tutti, “in particolare a quanti ancora non lo conoscono”. Il Papa non ha poi mancato di rivolgere il pensiero ai missionari che operano in situazioni di grave disagio. Ed ha ricordato, in particolare, don Ruggero Ruvoletto, ucciso in Brasile, e padre Michael Sinnot, sequestrato nelle Filippine. Il servizio di Alessandro Gisotti:


Benedetto XVI ha ricordato il tema scelto per la Giornata Missionaria Mondiale, tratto dal Libro dell’Apocalisse: “Le nazioni cammineranno alla sua luce”. Questa luce, ha sottolineato, è “quella di Dio, rivelata dal Messia e riflessa sul volto della Chiesa”:

“E’ la luce del Vangelo, che orienta il cammino dei popoli e li guida verso la realizzazione di una grande famiglia, nella giustizia e nella pace, sotto la paternità dell’unico Dio buono e misericordioso. La Chiesa esiste per annunciare questo messaggio di speranza all’intera umanità, che nel nostro tempo “conosce stupende conquiste, ma sembra aver smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza” (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2)”.
Il Papa ha così voluto ricordare i missionari e le missionarie, sacerdoti, religiosi, religiose e laici volontari, “che consacrano la loro esistenza a portare il Vangelo nel mondo, affrontando anche disagi e difficoltà e talvolta persino vere e proprie persecuzioni”.

“Penso, tra gli altri, a don Ruggero Ruvoletto, sacerdote fidei donum, recentemente ucciso in Brasile, al Padre Michael Sinnot, religioso, sequestrato pochi giorni fa nelle Filippine. E come non pensare a quanto sta emergendo dal Sinodo dei Vescovi per l’Africa in termini di estremo sacrificio e di amore a Cristo e alla sua Chiesa? Ringrazio le Pontificie Opere Missionarie, per il prezioso servizio che rendono all’animazione e alla formazione missionaria”.

Di qui l’invito a tutti i cristiani a un “gesto di condivisione materiale e spirituale per aiutare le giovani Chiese dei Paesi più poveri”. Guidata dallo Spirito Santo, ha detto ancora il Pontefice, la Chiesa “sa di essere chiamata a proseguire l’opera di Gesù stesso annunciando il Vangelo del Regno di Dio”:

“Questo Regno è già presente nel mondo come forza di amore, di libertà, di solidarietà, di rispetto della dignità di ogni uomo, e la Comunità ecclesiale sente premere nel cuore l’urgenza di lavorare, affinché la sovranità di Cristo si realizzi pienamente. Tutte le sue membra ed articolazioni cooperano a tale progetto, secondo i diversi stati di vita e i carismi”.

La Giornata Missionaria Mondiale, ha affermato, rappresenta “un forte richiamo all’impegno di annunciare e testimoniare il Vangelo a tutti, in particolare a quanti ancora non lo conoscono”. Il Papa ha poi ricordato che si celebra oggi la festa di San Luca evangelista, che, oltre al Vangelo ha scritto gli Atti degli Apostoli, per narrare l’espandersi del messaggio cristiano fino ai confini del mondo allora conosciuto”:

“Invochiamo la sua intercessione, insieme con quella di san Francesco Saverio e di santa Teresa di Gesù Bambino, patroni delle missioni, e della Vergine Maria, affinché la Chiesa possa continuare a diffondere la luce di Cristo tra tutti i popoli. Vi chiedo, inoltre, di pregare per l’Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, che in queste settimane si sta svolgendo qui, in Vaticano”.

Al momento dei saluti ai pellegrini, parlando ai fedeli di lingua italiana, il Papa ha rivolto un pensiero particolare ai Chierici Regolari della Madre di Dio, che hanno celebrato il IV centenario della morte del loro fondatore, San Giovanni Leonardi. Con loro, ha salutato gli alunni di tutti i Collegi di Propaganda Fide, accompagnati dal cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, come pure i rappresentanti dei Farmacisti, dei quali san Giovanni Leonardi è Patrono. Il Papa li ha esortati “a seguirlo sulla via della santità e ad imitare il suo zelo missionario”. Ha inoltre salutato la “Comunità Cenacolo”, che da tanti anni aiuta i giovani, “caduti nel baratro delle droghe, a ritrovare la via della vita incontrando Gesù Cristo”. Infine, il saluto del Papa ai partecipanti al convegno sul Motu proprio "Summorum Pontificum", svoltosi in questi giorni a Roma.


L’AIFA E L’ABORTO CHIMICO TRAMITE R U 486 - La morte a domicilio non è una scelta «tecnica» - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 18 luglio 2009
L’ abbiamo detto sin da quan­do – nell’indiffe­renza pressoché generale dei media italiani – iniziammo a dar conto quattro anni fa di una lunga scia di lutti e di gravi problemi etici, scientifici e clinici generati dal suo uso: chi introdurrà in Italia la pillola abortiva dovrà accettare di assumersi l’intero onere di un atto oggettivamente grave per gli effetti (diretti e collaterali) generati da un farmaco che uccide e non cura. Non abbiamo certo cambiato idea. Anche perché nel frattempo la 'fedina penale' della Ru486 s’è allungata fino a duplicare le morti di donne, accertati e ammessi dalla stessa casa farmaceutica produttrice. Il dibattito suscitato nel Paese grazie all’impegno di chi non s’è rassegnato allo sbarco dell’aborto «dolce» anche in casa nostra ha aperto gli occhi a molti (a tante donne, soprattutto) sull’insensatezza del recludere l’aborto nella solitudine: una pasticca ingoiata in ospedale, e subito a casa, a veder uscire il feto nel bagno, tra dolori ed emorragie, da sole, in silenzio. Un bel successo, anche per certo femminismo che tifa stolidamente per quello che è un passo indietro assai inquietante nella tutela della donna, della sua salute, della sua dignità già ferita da una scelta così tragica. Ora che il Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa) è atteso nella seduta di domani da scelte dirimenti, va ribadito con energia che ogni decisione riguardante l’aborto chimico porterà inciso lo stigma di una precisa responsabilità, una firma con nome e cognome. Al presidente Sergio Pecorelli e al direttore generale Guido Rasi è affidato, in primis, il compito di redigere l’indispensabile delibera applicativa (cui seguirà una conseguente 'determina' tecnica) per dare seguito alla decisione assunta a fine luglio di introdurre ufficialmente la Ru486 negli ospedali italiani. Una decisione non ancora operativa proprio perché manca la delibera, dalla quale ci si attendono regole precise, stringenti, garantiste.
In gioco c’è anche il rispetto della legge. Quella legge 194 che nel 1978 depenalizzò l’aborto, e alla quale il legislatore affidò il compito di porre la donna che decide di interrompere la gravidanza sotto la protezione dello Stato. Si dispose così che la procedura abortiva dovesse almeno compiersi interamente dentro un ospedale. Oggi – dopo anni di retorica all’insegna del 'la 194 non si tocca' ogni qual volta è stato posto il problema di rafforzare la prevenzione dell’aborto – tra gli stessi fautori di quella legge si manovra (senza dirlo, ovviamente) per svellerne le garanzie, ricacciando l’aborto in una clandestinità di fatto.
Diciamolo chiaramente: se domani il Cda dell’Aifa non dovesse scrivere chiaro e tondo nella sua delibera che l’aborto chimico è soggetto al regime del ricovero ordinario (e non di un generico ricovero senza alcuna specifica, escamotage per dare il via libera a una domiciliazione incontrollata), allora l’Italia senza nemmeno accorgersene aprirebbe la porta all’aborto casalingo. Quello che vogliono i radicali, una grande parte della sinistra e certi manipoli di destra, i media 'illuminati' e quelli 'di battaglia', i soloni del 'progresso' e i cinici di ogni schieramento che alla vita umana guardano come a un bene strumentale. I signori dell’Aifa vogliono rendersi complici di un simile scempio? Intendono dare il via libera di fatto alla banalizzazione dell’aborto e creare le premesse per un’esplosione, senza alcuna possibilità di controllo, di questo dramma nel nostro Paese? Pensano davvero di potersi assumere, nella sede di un organismo tecnico come quello che guidano, la responsabilità ultima di trasformare definitivamente l’aborto, grazie a una semplice pillola, in estremo metodo anticoncezionale? Ritengono di ergersi a titolari di un potere tecnocratico indifferente a ogni considerazione etica? Davvero poco importa che «in tutta Europa», come si usa dire, già si adotti la Ru486. In Italia vige una legge, per quanto discutibile essa sia. E questa legge parla chiaro, come ha ribadito a più riprese il Consiglio superiore di sanità chiamato a una consulenza autorevole sull’adozione del farmaco: l’aborto deve realizzarsi per intero in ospedale, senza dimissioni per quanto 'volontarie' (in realtà indotte dai ginecologi) tra la pillola abortiva vera e propria e la prostaglandina che causa l’espulsione del feto morto.
L’Aifa, i suoi vertici, non possono e non devono mettere la loro firma sotto la liberalizzazione della morte a domicilio.


Pillola Ru486 «No all’aborto a domicilio» - Il ministro Sacconi: da verificare la compatibilità con la legge 194 - Gli esperti d’accordo: l’aborto chimico non è meno pesante di quello chirurgico. Quei farmaci non sono sicuri - DA M ILANO - E NRICO N EGROTTI – Avvenire, 18 ottobre 2009
Ora l’ostacolo mag­giore per l’introdu­zione della pillola abortiva nel nostro Paese sembra proprio la legge che ha permesso l’inter­ruzione volontaria di gra­vidanza. È infatti sulle pro­cedure di applicazione della Ru486, che appaiono di difficile compatibilità con la legge 194/ 78, che si incentrerà il lavoro del­l’indagine parlamentare decisa dalla Commissione Sanità del Senato. E ieri il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche so­ciali Maurizio Sacconi ha ribadito che i lavori saran­no comunque conclusi prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento dell’Agen­zia italiana del farmaco (Aifa) di autorizzazione al­l’uso del mifepristone ( la Ru486) in ospedale, e che potrebbe essere definiti­vamente licenziato nella riunione di domani del consiglio di amministra­zione. « Siamo in attesa delle indicazioni che darà il Parlamento – ha detto il ministro –. Io stesso sarò audito questa settimana. Dobbiamo verificare la compatibilità della pillola abortiva con la legge 194 che regola l’interruzione volontaria della gravidan­za. Quindi verificare se è compatibile con quella legge l’aborto farmacolo­gico, che peraltro non è fatto solo con la Ru486 » .
Si tratta di una conviven­za, quella tra legge 194 e a­borto chimico, che gli ad­detti ai lavori vedono dif­ficile. A partire dal gineco­logo Filippo Boscia, diret­tore del Dipartimento ma­terno- infantile della Asl Provincia di Bari e presi­dente della Società italia­na di bioetica e comitati e­tici ( Sibce): « Sono già ri­masto stupito per la “pro­porzionalità traumatica” che sembra essere alla ba­se del ragionamento di chi ritiene l’aborto chimico meno pesante di quello chirurgico, come se l’anti­cipazione temporale del­l’intervento potesse ridur­re la sofferenza. In realtà il dolore per la perdita di un figlio non è proporzionale al suo peso in grammi o al­la sua lunghezza in centi­metri. Ci sono studi psico­logici, e ho avuto espe­rienze professionali che lo comprovano, che mostra­no come la situazione do­po un aborto chimico sia devastante: la donna viene lasciata in una situazione di solitudine, oltre al dolo­re della perdita le resta il senso di responsabilità dell’autosomministrazio­ne del farmaco letale. E in questa condizione vive per tre- quattro giorni assi­stendo in piena coscienza al proprio aborto » .
È certo che nei fatti la leg­ge 194 verrà aggirata an­che Lucio Romano, gine­cologo dell’Università Fe­derico II di Napoli e co­presidente di Scienza& Vi­ta: « Tutti sanno che la donna non resterà ricove­rata per tutto il tempo ne­cessario a completare l’a­borto: firmerà e si assu­merà la responsabilità di andare a casa. Come del resto è avvenuto nella stra­grande maggioranza dei casi di uso della Ru486 già avvenuti nel nostro Pae­se » . Anzi, aggiunge Roma­no, « pare proprio che la procedura sia un modo per modificare di fatto la 194, rendendo difficili sia l’assistenza sia la preven­zione ». Quanto ai profili di sicurezza del farmaco, so­no tutt’altro che assodati: « Gli studi negli ultimi anni hanno messo in e­videnza che la Ru486 riduce le di­fese immunitarie e c’è il sospetto che questa sia una concausa delle morti per l’infezione bat­terica registrate; inoltre la pillola, attraverso un com­plesso meccanismo bio­chimico, favorisce le e­morragie » .
Anche Luciano Bovicelli, docente di Clinica Gine­cologica e ostetrica all’U­niversità di Bologna, da non obiettore è del tutto contrario alla Ru486: « Di “dolce” nell’aborto chimi­co non c’è proprio nulla. Nessuno sa dire quando avverrà l’espulsione del fe­to dopo l’assunzione del secondo farmaco, la pro­staglandina che favorisce la contrazione dell’utero. Proprio per questo è diffi­cile che il tutto avvenga in ospedale, come peraltro la legge 194 richiede » . « Una delle ragioni – aggiunge Bovicelli – per cui era na­ta la legge era dare garan­zie di sicurezza alla pa­ziente: a questo scopo la procedura doveva essere svolta in ambiente ospe­daliero. È paradossale che ora si creino i presupposti per tornare all’antico, quando tutti i prezzi erano pagati dalla donna. È un passo indietro » .
Anche Mario Eandi, do­cente di Farmacologia cli­nica all’Università di Tori­no, unico componente della Commissione tecni­co scientifica dell’Aifa a dare parere negativo alla Ru486, sottolinea: « Il pro­blema della sicurezza del farmaco va visto all’inter­no della 194: i rischi na­scono proprio dall’aborto a casa, che la legge non prevede. Siamo in presen­za di una tecnica lunga, con efficacia non elevata, che richiede due farmaci: cosa significa in questa condizione fare una valu­tazione di rischio- benefi­cio? Questo era uno dei motivi del mio no alla pil­lola » .

Crocifissi in Sudan «Fermate i massacri» - L’appello al mondo del vescovo Kussala: saliti a 13 i giovani orrendamente uccisi - Il pastore in questi giorni ha nuovamente denunciato al Sinodo africano la tragedia che dura da 4 anni «Grato per gli aiuti giunti dalla Conferenza episcopale italiana» - DA ROMA SALVATORE MAZZA –Avvenire, 18 ottobre 2009
Sette il 13 agosto. Sei il 16. Cri­stiani crocifissi nei più efferati degli attacchi sistematicamen­te portati dai ribelli che impestano il Sud Sudan. Tragedia nella tragedia di cui, al Sinodo dei vescovi sull’Africa, s’è fatto voce monsignor Edward Hii­boro Kussala, vescovo di Tombura­Yambio, chiedendo, come ribadisce in questa intervista ad Avvenire, che l’Europa e tutta la Comunità inter­nazionale «torni a guardare al nostro Paese, intervenga per porre fine a u­na situazione che non si può più so­stenere ».
Lei ha denunciato l’«insopportabile livello di violenza» che colpisce il Sud Sudan attraverso il Lord’s Resistan­ce Army. Di che cosa stiamo parlan­do?
Tra i molti problemi che abbiamo, c’è questo molto grande dei ribelli che provengono dal Nord Uganda, e che si trovano al confine con Sudan, Re­pubblica centroafricana e Repubbli­ca democratica del Congo. Stanno nelle foreste di questa zona da quat­tro anni; attaccano i villaggi, uccido­no sul posto quelli che fanno resi­stenza, uccidono gli anziani o li bru­ciano nella loro case, e prendono le persone più giovani, i bambini, ra­gazzi e ragazze, per indottrinarli, cambiare il loro modo di pensare. U­na tragedia che dura, come ho detto, da quattro anni, e della quale come Chiesa abbiamo parlato molte volte, chiedendo interventi per arrivare al­la pace.
Violenza che colpisce anche i cri­stiani.
Certo. Il 13 agosto è avvenuto l’epi­sodio più grave: i ribelli hanno attac­cato una mia parrocchia, dove si sta­vano preparando per la festa dell’As­sunzione. Hanno preso diciassette persone e ne hanno crocifisse sette, mentre dieci le hanno rapite. Il gior­no successivo quelli che hanno sco­perto cosa fosse accaduto si sono tro­vati di fronte uno spettacolo terribi­le. Tre giorni, dopo nella parrocchia di Nzara, è accaduta la stessa cosa: hanno preso dodici persone, e sei so­no state crocifisse. Noi per primi ci domandiamo: perché questa cosa? Perché questo attacco alle chiese? Le incendiano, le colpiscono in tutti i modi. Io non so la risposta. Ma le do­mande sono tante. E poi chi li aiuta? E perché? Hanno armi nuove, vestiti nuovi, e sono ben organizzati...
Che origine hanno questi gruppi?
Questo è un qualcosa difficile da de­finire, anche perché negli anni qual­cosa è cambiato. In origine erano u­gandesi, però in questi anni hanno preso gente dal Sudan, dal Congo, dalla Repubblica Centroafricana. Il loro “leader” era un cristiano, e così i suoi comandanti, alcuni dei quali si dice abbiano avuto una formazione militare in Afghanistan. Se abbiano ancora contatti laggiù, o legami con al-Qaeda, non si sa; c’è forse un qual­che legame con l’islam. Si può dire che credono in un “qualcosa”, che però non si capisce. All’inizio dice­vano «vogliamo educare l’Uganda ai dieci comandamenti di Dio», ma quello che fanno non ha niente a che fare coi comandamenti.
Un gruppo non definibile, insomma, neppure nei suoi obiettivi
È così. E, soprattutto, perché fanno quel che fanno? Non lo capiamo. C’è però da dire che, dopo che nel 2005 fu firmata la pace, l’Europa e la Co­munità internazionale avrebbero do­vuto seguire questo processo. Invece si sono rivolti verso altre situazioni, e ci hanno lasciato soli nel momen­to più delicato. Abbiamo ricevuti aiu­ti dalla Conferenza episcopale italia­na, che ha costruito due scuole, e al­la fine dello scorso anno ci ha invia­to sostegni alimentari per tre villag­gi; e poi qualcosa è arrivato dall’ Aiu­to alla Chiesa che soffre. Ma per il re­sto siamo soli.


Crocifissi due volte - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 17 ottobre 2009
Ho appreso la terribile notizia della crocifissione di sette cristiani sudanesi e ho trovato sul sito degli Atei, Agnostici, ecc… questo commento: «korova scrive: 17 Ottobre 2009 alle 9:08 “crocifissi sette cristiani”??? ERA ANCHE ORA!!!! have a anice (sic!) day!!!», ancora non ripreso da alcuno, e mi sembra gravissimo: i visitatori commentano ogni cosa, attaccano con parole volgari chi crede, si dicono difensori del libero pensiero, ma mi pare che qui la libertà sia solo quella del disprezzo, rivestito da uno sciocco e presuntuoso senso di superiorità. [Per la cronaca, questa notizia è stata postata il 16 Ottobre 2009 alle 16:29, e l’ultimo commento, ora che scrivo, è del 17 Ottobre 2009 alle 10:49].
Ho sempre pensato alla laicità come vera umiltà, senso del proprio limite e di rispetto per gli altri. E questo l’ho imparato da mio papà, presidente diocesano di Azione Cattolica, che mi ha dato da leggere, già da piccolo, il «Dialogo sopra i massimi sistemi» di Galileo, che lui possedeva da quando aveva 26 anni. Brutti tempi questi in cui, per odio e livore ideologico, non si riesce a solidarizzare, a indignarsi, per chi è ingiustamente offeso, maltrattato, ucciso! Credo che se vogliamo che l’uomo viva nella libertà e nel rispetto, dentro un mondo dove tutti possano vivere e cercare ciò che rende bella la vita, sarebbe anche ora di guardare avanti, e di smettere di recriminare sul passato degli altri (perché sempre di questo si tratta, mai del proprio – noi per definizione siamo innocenti). Solo la Chiesa ha saputo, con il grande Giovanni Paolo II, chiedere perdono, e questo gesto è stato forse uno dei più grandi del suo grandissimo pontificato. Che cosa aspettiamo per imparare? Sempre in quel sito si diceva di non dimenticarsi della sfida che l’Islam rappresenta. Ma è una sfida che non va superata ripetendo le solite frasi sulla religione e sulle religioni come fonte di discriminazione, violenza, ecc. Gli scheletri negli armadi ce li hanno in tanti, anche se non si vuole vedere, si fa finta di niente, si accusa l’altro per allontanare lo sguardo da sé.
Credo sia giunto il momento di raccogliere l’invito ad un cammino che sia, per tutti, carico di verità e di amore: non sottovalutiamo l’enciclica che già nel titolo apre la prospettiva di straordinaria bellezza: «Caritas in veritate». La verità che tutti aspettiamo è quella sull’uomo, sulla sua dignità e sul suo destino, sulla sua libertà, che non può essere quella di negare la vita, propria o altrui. Per questo siamo grati a chi, per difendere la libertà e la dignità – propria e altrui –, ha saputo dare la vita. Sono semi di speranza!
Navigando in Internet, per capire quello che viene detto su questo fatto, mi sono imbattuto in testi, commenti, riflessioni che mi fanno pensare che siamo ben lontani da quella «civiltà della verità e dell’amore» tanto auspicata dalla Chiesa. Forse è giunto il momento di riprendere l’insegnamento della lettera a Diogneto: «A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare».

P.S.: Era già partita la newsletter, quando ho visto sul sito indicato questo commento: «roberta scrive: 17 Ottobre 2009 alle 13:59
@ korova
permettimi di dissentire… sono prima di tutto sette esseri umani uccisi in modo spietato e noi dovremmo essere indignati per questo…
io lo sono».
Speriamo che in tanti altri lo siano, anche davanti a queste frasi: «strozzapreti scrive: 16 Ottobre 2009 alle 19:29
Se avessero le palle questi ribelli, dovrebbero farlo in Vaticano quello che hanno fatto laggiù, se la prendono sempre coi più deboli, mai una volta a chi penso io.»


S.E. Card. Carlo Caffarra - Intervento di apertura al Congresso Internazionale - "Verso Cristo". A 30 anni dalla Redemptor Hominis. Attualità di una via all’uomo - Roma, Pontificia Università Lateranense, 16 ottobre 2009
Il tema del nostro Congresso parla di una "via all’uomo". La formulazione ci introduce immediatamente nel nodo centrale dell’attuale questione antropologica: l’uomo ha smarrito la via che lo conduce a se stesso? Come può ritrovare la via verso se stesso?

Volendo cominciare a scendere in profondità viene da chiedersi se è questa una condizione strutturale della persona; una condizione che comunque accompagna l’uomo. Come scriveva K. Wojtyla: "L’uomo, scopritore di tanti misteri della natura, deve essere incessantemente riscoperto. Rimanendo sempre in qualche modo un essere sconosciuto, egli esige continuamente una nuova e sempre più matura espressione della sua natura". [Persona e atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pag. 77].

Oppure se questa condizione strutturale dell’uomo oggi abbia assunto una drammaticità tale da renderla unica ed incomparabile con ciò che l’uomo ha vissuto quando si è posto alla scoperta di se stesso. Vorrei innanzi tutto riflettere, nel primo punto, su questa congiuntura.

1. L’uomo "sviato"

La conoscenza che l’uomo oggi ha di se stesso ha indubbiamente in possesso una quantità di dati ben superiore che nel passato. Si pensi solo alla neurologia e alla psicologia clinica. Dunque, l’uomo sta adempiendo ottimamente al dovere di riscoprire sempre più se stesso.

In realtà questo complesso e vasto patrimonio di conoscenza antropologica è stato accompagnato da alcuni eventi culturali che posso solo accennare in questo contesto.

B. Lonergan parla di un "oscurantismo radicale", di uno "scotoma" che ha colpito nell’uomo l’uso della ragione [si vedano i riferimenti bibliografici in F.G. Lawrence – N.A. Spaccapelo – M. Tomasi, Il teologo e l’economia. L’orizzonte economico di B. Lonergan, Armando Ed., Roma 2009, pag. 38. n.19]. E’ come se si fosse sigillata la sorgente di quel domandare originale ed universale in cui Tommaso aveva intravisto il desiderio naturale di vedere Dio, ed Aristotele la forza propulsiva di ogni sapere.

Chi è colpito da questo "scotoma" blocca al loro sorgere alcune – molte domande, ritenendole senza possibilità assoluta di risposta, perché prive di senso. È come se uno chiedesse quanti chilogrammi pesa una sinfonia di Mozart. Ma in base a che cosa sono separate le domande sensate dalle domande insensate? La risposta consiste in un secondo non meno grave evento culturale, a cui accenno sempre brevemente.

Esso consiste essenzialmente nel fatto che solo la conoscenza scientifica è conoscenza verificabile / falsificabile, e quindi in grado di rispondere alla domanda: "è vero/è falso dire che …". Si noti – la cosa è di decisiva importanza – che la scienza è dato per scontato essere quella meccanicistico empiristica del modello newtoniano.

Uno dei precetti fondamentali del metodo, della via da seguire per giungere alla conoscenza, è di "oggettivare" ciò che si intende conoscere. Il soggetto che conosce non deve interferire colla sua propria soggettività nel processo conoscitivo. Oggettività significa ripetitibilità della verifica sperimentale mediante una indefinita interscambiabilità e sostituibilità di ciascun conoscente.

Una tale "via all’uomo" non conduce, non può condurre a conoscere ciò che è propriamente umano.

Comincia a definirsi il senso esatto di ciò che ho chiamato l’uomo "sviato"; di ciò che intendo dire quando dico che l’uomo oggi è stato "sviato". E’ stato messo su una strada, e gli è stata indicata una via a se stesso che non è in grado di portarlo alla meta.

Molti sono i sintomi di questo vagabondaggio. Mi limito a riflettere sul sintomo più evidente di questo "uomo sviato". E’ ciò che l’Enc. Caritas in veritate definisce l’assolutismo della tecnicità [74,1; ma tutto il capitolo sesto è dedicato a questo tema].

Per "assolutismo della tecnicità" intendo la riduzione della intenzionalità umana, cioè del rapporto colla realtà, alla determinazione e costruzione della medesima secondo i nostri progetti. Usando la formulazione tomistica, direi che si riduce l’intelletto alla sua capacità di "misurare le cose" [Qq. Dd. de veritate q.1, a. 2c.]: cioè di progettarle e costruirle, fabbricarle e dominarle. Come dice la Caritas in veritate si afferma la coincidenza del vero col fattibile [70]. Di fronte ad un possibile corso di azione la ragione di attuarlo è "così agisco, perché è tecnicamente possibile", e non "così agisco perché è bene agire in questo modo".

Se elimino dalla coscienza dell’uomo la verità del bene moralmente inteso, non resta come forza motivante della volontà che il bene utile e/o piacevole. Forse ciò che ha introdotto l’uomo occidentale nel regno della tecnica è stato la concezione dell’uomo come soggetto utilitario. [Ho riflettuto a lungo sul rapporto fra tecnocrazia e soggetto utilitario nella Lectio magistralis tenuta alla Società di medicina–chirurgia di Bologna il 12 settembre u.s.; cf. www.caffarra.it, oppure www.bologna.chiesacattolica.it]

Sempre l’Enc. Caritas in veritate parla del rischio dell’umanità "di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità" [ibid.]. L’affermazione è teoreticamente forte. Essa dice che si costituirebbe un "forma" che configura ogni approccio dell’uomo alla realtà. Colla conseguenza che "noi tutti conosceremmo, valuteremmo, e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto".

E questa è la definizione congruente dell’ospite più inquietante che è venuto a dimorare nella nostra esistenza: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione che si dia – si doni un senso, poiché non esiste senso che non sia da noi prodotto.

Che ne è dell’uomo dentro all’orizzonte culturale tecnocratico? Molto semplicemente: niente; dell’essere dell’uomo non ne è più niente, poiché l’essere dell’uomo è una produzione dell’uomo stesso.

Lo "sviamento" dell’uomo sembra andare quindi verso una condizione di non ritorno. Sembra essere un "destino", un "a priori" appunto "dal quale non potrebbe uscire". Non esiste una via alla riscoperta del "se stesso" poiché il "se stesso" non può più rendersi presente nelle grandi esperienze della vita. Non può essere cercato poiché esso consiste precisamente nella stessa ricerca, ridefinizione, produzione.

2. Redemptor hominis: proposta di una "via all’uomo"

La vera posta in gioco è se l’uomo – "non si tratta dell’uomo astratto, ma reale, dell’uomo concreto, storico" [Lett. Enc. Redemptor hominis 13,3; EE 8/42; d’ora in poi RH] – sia consegnato intrascendibilmente a questo destino. Sia consegnato a questa "libertà immaginaria" [M. Malaguti]; a questa, direbbe Kierkegaard, disperazione della pura possibilità oppure se esiste una verità dell’uomo ed una via per appropiarsene liberamente, e quindi anche col rischio di non incontrarla, perderla e, quindi perdersi? A me sembra che questa sia sostanzialmente la modalità con cui RH pone la domanda antropologica: la domanda come continua a porsi anche oggi, sia pure con maggiore radicalità.

Alla domanda RH risponde che Cristo redentore è la possibilità dell’impossibile [uscita dall’apriori tecnologico], poiché nell’atto redentivo di Cristo "l’uomo diviene nuovamente "espresso"" [10,1; 28]. Nell’atto redentivo di Cristo l’uomo vede svelata la verità circa se stesso.

La via che l’atto redentivo di Cristo apre all’uomo per la ricerca [della verità] di se steso non passa accanto alla nostra vicenda umana, al nostro desiderio: è già, questa via, invocata dall’esperienza umana medesima.

Il rapporto fra atto redentivo di Dio e possibilità reale dell’uomo di scoprire se stesso è istituito nel modo seguente: "L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile. La sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo redentore – come è già stato detto – rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso" [RH 10,1].

Come si legge, RH afferma che l’uomo non scopre veramente se stesso fino a quando non scopre l’amore; che quindi la via all’uomo è la via dell’amore. L’atto redentivo di Cristo scopre all’uomo l’uomo stesso perché gli rivela l’amore; la via percorrendo la quale l’uomo giunge a se stesso è l’appropriazione dell’atto redentivo di Cristo.

E’ questa una dottrina che si radica nel Magistero del Vaticano II che insegna che l’uomo "non può ritrovare pienamente se stesso se non attraverso un dono sincero di sé" [Cost. past. 24,3; EV 1/1395]. L’attualizzazione suprema della capacità di amare, il dono di sé, fa ritrovare pienamente all’uomo se stesso. Appropriandosi dell’atto redentivo di Cristo redentore, l’uomo non solo ritrova se stesso a livello conoscitivo: conosce la verità di se stesso. Ritrova se stesso nel senso che realizza pienamente il suo desiderio di beatitudine, cioè di pienezza di essere: "solo nell’amore egli [= l’uomo] attualizza la reale pienezza della sua essenza" [D. von Hildebrand. cit. da Essenza dell’amore, Bompiani ed., Milano 2003, pag. 5].

Si potrebbe ora chiedere: perché l’atto redentivo di Cristo è la via dell’uomo all’uomo? La risposta è nel testo paolino: "mi ha amato e ha dato se stesso per me" [Gal 2,20]. L’amore di Dio per l’uomo rivela all’uomo il "prezzo" e quindi il "valore" dell’uomo. L’uomo scopre se stesso, misura veramente se stesso, quando si pone nella luce della Croce di Cristo. Non possiamo ora per ragioni di tempo mostrare come e perché è questa luce che svela l’uomo pienamente a se stesso; come e perché il mistero della Redenzione sia quindi la via percorrendo la quale l’uomo trova se stesso.

Mi preme, e vado verso la fine, mostrare, come mi è stato chiesto, l’attualità di questa "via all’uomo".

Riprendo una pagina dell’Enc. Caritas in veritate [Cf. n.74]. In essa Benedetto XVI parla di un aut-aut decisivo fra una ragione aperta alla trascendenza o una ragione chiusa nell’immanenza. Parla del fatto che ora "emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio". La via indicata dalla RH è l’unica via che ci fa uscire da quel aut-aut: la testimonianza dell’amore. È qui presupposta ed implicata una teoria della conoscenza, che mi limito a richiamare.

- Il bambino impara a parlare, a dialogare, perché sua madre gli parla. Egli sembra all’inizio ripetere solo dei suoni. In realtà è svegliato alla parola, e quindi al rapporto interpersonale. Il bambino impara a parlare solo ascoltando [chi nasce sordo, resta muto]: solo cioè corrispondendo a ciò che sua madre gli dice, alla parola materna che lo interpella e lo anticipa. Ma nello stesso tempo solo quando il bambino ha imparato a rispondere la madre può parlare al bambino; è nella parola – risposta del bambino (ant - wort) che la parola (wort) della madre diventa ciò che è, una parola che è rivolta a qualcuno.

- La conoscenza dell’uomo nella sua natura più profonda accade secondo questo modello come già Aristotele aveva visto. Il primo "impatto" colla realtà è un essere "colpiti" e come "toccati" da ciò che si fa presente. Ne deriva che "l’originaria attività mia è incassare il colpo del suo irrompere … l’io non fornisce il senso, ma lo riceve; si sperimenta costituito dal fenomeno, invece che costituirlo, chiamato a lasciar essere la sua automanifestazione, non a produrla" [C. Di Martino, La conoscenza è sempre un avvenimento (relazione tenuta al Meeting dei popoli a Rimini 2009]. Siamo agli antipodi della razionalità tecnica. Questa infatti, come ho accennato nella prima parte di questo mio intervento, è figlia primogenita di quella riduzione della ragione alla pratica delle scienze esatte, che è stata la causa principale per cui l’uomo ha smarrito la via a se stesso.

- L’amore, più concretamente l’esperienza di "essere amati", è ciò che fa emergere pienamente alla coscienza il proprio io. Sapendosi amato, vedendosi amato, l’io scopre se stesso e diventa pienamente se stesso nella risposta all’amore. È come una sorta di "urto" di eminente valore conoscitivo. Il primo atto dello spirito è avvertire la presenza della realtà; l’io nasce pienamente quando avverte la presenza di una persona che lo ama; l’io si scopre misurato da una misura infinita quando è "colpito" dall’amore redentivo di Cristo. Solo questa via libera l’uomo dal destino della tecnocrazia, perché lo fa essere soggetto nel senso più forte del termine.

Concludo. In sostanza, ho cercato di mostrare che se vogliamo fare ritrovare all’uomo la via all’uomo, non c’è che un modo: la testimonianza dell’amore.

Nelle parole che Benedetto XVI all’Angelus dell’8 agosto scorso trovo una sintesi profonda.

In esse affronta il tema inquietante del nichilismo alla luce del martirio di Edith Stein e Massimiliano Kolbe. Il campo di concentramento e il gulag sono l’esito di infernale insignificanza cui può portare la ragione che si autopone come suprema misura misurante della realtà. Col loro atto di amore fino alla morte, i due martiri hanno reso testimonianza ad una misura "che supera ogni misura": l’incommensurabile misura del dono di sé. Hanno custodito l’uomo nella sua verità e nella sua bontà originaria.


Da Ratisbona al Collège des Bernardins il rapporto tra fede e ragione (guardando a Oriente) - La verità non è mai solo teorica - Si chiude domenica 18 nella Villa Ambiveri a Seriate (Bergamo), il convegno internazionale "Cercatori dell'eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente", organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana. Pubblichiamo un ampio estratto di una delle relazioni. - di Adriano Dell'Asta - L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009
"Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio": è una delle affermazioni più ripetute e appassionate della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, perché dalla separazione tra fede e ragione, come ha dimostrato la storia, nascono le condizioni per la distruzione dell'umano nella sua pienezza. Può essere l'idea di un Dio capace di disfarsi del Lògos e di agire senza o contro il Lògos, idea che ha cominciato a farsi strada addirittura tra i cristiani stessi, in forme di volontarismo poi sfociate in un vero e proprio irrazionalismo; può essere l'idea di un uomo che pretende di chiudersi a qualsiasi questione legata all'eterno e all'universale e di poter separare così la ragione da qualsiasi problematica che non sia nettamente utilitaristica. Quale che sia il polo privilegiato in questa separazione, la fede o la ragione, il suo esito resta sempre lo stesso: la distruzione dell'umano, umiliato nella sua ragione, che per aver voluto emanciparsi da Dio si è autolimitata "a ciò che è verificabile nell'esperimento", e offeso nella sua fede, che per aver voluto preservare la purezza del divino, spingendolo "lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile", ha finito col rendersi da sé estranea all'umano e incapace di dirgli alcunché.
Da quando l'uomo ha proclamato razionalmente insignificanti "gli interrogativi fondamentali della sua ragione", cioè le domande sulla verità e sul senso, l'esito inevitabile di questa avversione è stata la dissoluzione dell'immagine dell'uomo; e questo rischio è presente anche oggi, quando l'uomo, dopo la fine dei totalitarismi, è attaccato da quelle che Benedetto XVI ha chiamato "le patologie minacciose della religione e della ragione", la violenza fondamentalista e il nichilismo ateo.
Non si può non essere colpiti dalle somiglianze che avvicinano questo quadro a quello tracciato da Solov'ëv nella sua Crisi della filosofia occidentale; pur in un contesto completamente diverso, senza avere alle spalle un'esperienza tragica come quella del XX secolo, anche il grande filosofo russo constata che il principio razionale e quello materiale, quando pretendono di emanciparsi da Dio e di potersi affermare in solitudine, l'uno contro l'altro, finiscono di fatto per autonegarsi, abbandonando l'uomo e il mondo all'insensatezza, con una ragione, quella idealista, che finisce per diventare un principio materiale quando attribuisce un'esistenza reale ai concetti, e una realtà, quella materialista, che finisce per diventare un principio logico quando per dare alla materia un valore assoluto la si trasforma nell'idea di materia.
Ancora va notato come questa argomentazione in Solov'ëv non sia affatto antimoderna, essendo anzi caratterizzata da un grande rispetto per la filosofia e la scienza occidentali. In questo senso, invece di contrapporsi, ragione e fede trovano proprio nel cristianesimo, e più precisamente in Cristo, la loro autentica verità e, addirittura, cercando di spiegare il proprio ritorno alla fede, Solov'ëv lo motiva proprio in nome delle esigenze della ragione. Se si respinge la pretesa della ragione di potersi disfare della fede non è per difendere la fede ma anzi proprio per salvare la ragione e renderla conforme alla sua vocazione; non diverso è il desiderio che manifesta Benedetto XVI quando ricorda che lo scopo cui mira la sua ricostruzione del rapporto tra ragione e fede non è certo una negazione della ragione moderna ma piuttosto "un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa".
Un altro elemento dal quale non si può non essere colpiti è allora il fatto che questo discorso, oltre a non essere antimoderno, è pronunciato da cristiani che non giudicano e non condannano, ma che si fanno corresponsabili di quello che può succedere quando la grandezza dell'uomo non viene educata a cogliere la propria origine e l'uomo stesso si crede padrone della verità. Non deve passare inosservato a questo proposito che Benedetto XVI inizia la sua critica della ragione moderna denunciando "il volontarismo puro e impenetrabile" che era nato nell'ambito della teologia cristiana del tardo medioevo e che aveva fatto dell'uomo e della sua ragione un gioco da nulla a cospetto della volontà di Dio e dell'arbitrio dei suoi interpreti; quando questa presunzione ha la meglio, la Chiesa diventa una torre d'avorio, anch'essa "pura e impenetrabile", che non solo non ha più niente da dire al mondo, ma lo condanna alla perdizione. "L'ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo", aveva detto Berdjaev in un testo scritto subito dopo la rivoluzione del 1917 e di questo nichilismo erano certo colpevoli i rivoluzionari, ma non erano innocenti neppure tutti coloro che avevano voluto preservare la purezza divina dalle miserie terrene, e così non avevano saputo educare quella sete di assoluto e di giustizia che essendo rimasta senza risposta aveva poi portato alla rivoluzione o non aveva saputo farvi fronte.
Il dovere del pentimento che a questo punto interpella tutti non significa certo un appiattimento e un'equiparazione delle colpe e delle responsabilità, e non implica neppure la rinuncia a dire la verità e a dare un giudizio preciso sui diversi livelli di responsabilità: semplicemente la verità non è più un discorso astratto di cui si possa essere creatori e padroni, ma qualcosa cui si deve rispondere, di cui si è responsabili e custodi.
Il tema della custodia della verità è esattamente quello col quale si apre il discorso di Benedetto XVI alla Sapienza, là dove egli si presenta in maniera sofferta come il pastore, "l'uomo che si prende cura" della comunità, "del giusto cammino e della coesione dell'insieme", conservando "unita" la comunità umana e "mantenendola sulla via verso Dio".
Innanzitutto va notato che la verità di cui Benedetto XVI si presenta custode non è il prodotto di un'elaborazione teorica; più precisamente, dice il Papa, "la verità non è mai soltanto teorica", ma un'esperienza. Il Papa, infatti, "parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanità". Questa esperienza è appunto l'esperienza di un cammino, ma di un cammino del tutto particolare, perché la via sulla quale l'uomo cammina è nello stesso tempo Colui verso il quale si cammina. Questa verità è allora l'esperienza della vita con Colui verso il quale si cammina e in Colui nel quale si cammina: vita con Cristo e in Cristo, comunione con una Verità che, essendosi fatta "amica degli uomini", è Buona.
Centrale in questo discorso sull'esperienza della verità è la continua articolazione tra la certezza della verità di cui ci si sente addirittura custodi e l'esigenza di un'inesausta ricerca di questa stessa verità, che nessuna risposta singola può mai soddisfare: l'uomo è in un cammino che non ha mai fine, ma come Benedetto XVI dirà al Collège des Bernardins, per il cristiano questa ricerca non è mai "una spedizione in un deserto senza strade". Ciò che permette di superare la contraddizione apparentemente insormontabile tra la ricerca e l'esperienza della verità è appunto questo Cristo che si fa compagnia e via per gli uomini.
Nella nostra ricerca di contatti con l'esperienza russa, a questo punto dobbiamo ancora una volta richiamare la figura di Solov'ëv che in una delle sue primissime opere presenta proprio questa formula calcedoniana del "senza confusione e senza separazione" come lo strumento capace di far superare i vicoli ciechi del pensiero (in questo caso particolare parla dell'opposizione kantiana tra fenomeno e cosa in sé). Al di là della coincidenza immediata, v'è un'altra cosa da segnalare ed è che Solov'ëv definisce questa soluzione la "via regale" della conoscenza. "Via regale" è un'espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell'iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il vangelo, l'eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che "via regale" è un'espressione entrata nella tradizione cristiana per definire propriamente la vita monastica e la sua caratteristica precipua, che è quella di portare la ricerca dell'uomo a superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo. È dunque evidente che utilizzando questo termine Solov'ëv esprime l'idea molto precisa secondo cui l'uomo che vuole conoscere la realtà in tutte le sue sfaccettature ma senza dissipazioni, vizi, eccessi, fantasie o vani pensieri - in una parola, con una continua ricerca che però ha una meta precisa e sicura - deve seguire non la via privata, tortuosa e pericolosa delle proprie opinioni, ma quella già tracciata che porta direttamente al Signore della realtà e che nella sua signoria ritrova tutto. Al di là di una contrapposizione senza pace abbiamo così l'esperienza di un'unità nella quale nulla va perduto: un'unità che parte da quella di fede e ragione per estendersi a tutte le sfere dell'essere.
La suggestione della via regale di Solov'ëv ci spinge a sua volta verso il terzo discorso di Benedetto XVI; la conoscenza integrale richiama infatti in russo la celomudrie, termine che letteralmente equivale a "sapienza integrale" ma che significa "verginità" e che dunque, normalmente, indica proprio una delle caratteristiche principali di quella vita monastica cui è dedicato il terzo discorso del Papa.
Il discorso si apre sottolineando che se i monaci seppero salvare la cultura antica e crearne una nuova non era però questo il loro scopo; non meno sottolineata è l'affermazione secondo cui il cristianesimo non è "una religione del libro". A questa duplice insistenza sulla posizione subalterna della cultura pare contrapporsi un'altra serie di affermazioni altrettanto reiterate circa il valore della "formazione della ragione", dell'"erudizione" e persino della "grammatica" come strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile "percepire, in mezzo alle parole, la Parola". Allo stesso modo si insiste sul valore dell'interpretazione. Littera gesta docet, quid credas allegoria, si dice citando un vecchio adagio ("la lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l'allegoria"). Abbiamo così l'apparente paradosso di una ragione che, mentre viene subordinata alla fede, viene anche immediatamente mostrata come indispensabile per la piena comprensione dei contenuti dell'esperienza di fede. Ovviamente tutto questo può sembrare paradossale solo se non si è seguito sin qui il percorso di Benedetto XVI che ha mostrato come l'opposizione di fede e ragione sia esiziale per l'uomo e come questa opposizione sia possibile solo là dove si ha a che fare con una fede o una ragione snaturate, cioè solo là dove si parla di una fede la cui verità viene intesa come una violenta imposizione che nega la ragione, e solo là dove si parla di una ragione la cui libertà viene intesa come l'arbitrio della soggettività.
Completamente diversa è la prospettiva aperta da Benedetto XVI quando spiega che, se "la lettera uccide" e v'è quindi bisogno dello Spirito, questo Spirito è propriamente "lo Spirito del Signore", cioè Cristo, così che la vera interpretazione, lungi dall'essere arbitraria, è quella caratterizzata da "un legame superiore a quello della lettera: il legame dell'intelletto e dell'amore": la vera interpretazione, così come si era detto per l'esperienza della verità, è quella che si ha stando con Cristo e camminando sulla strada che Lui stesso è: l'eterno che è entrato nel tempo, il mistero indicibile che si è fatto carne visibile, dicibile, ragionevole, il Verbo fatto carne. È solo un simile Dio che merita di essere annunciato, perché, precisa Benedetto XVI, "un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio", mentre "la novità dell'annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos". Il fatto è ragionevole, ma la ragione deve avere l'umiltà di accoglierlo e non pretendere di esserne la creatrice e padrona: così si apre uno spazio di libertà che non è quello dell'arbitrio e della mancanza di legami, ma, come si è visto, quello dell'amore.
Anche questo tema dell'annuncio, della sua credibilità e, ancor più della sua possibilità (come in fondo della possibilità di ogni comunicazione), può ricevere una particolare luce dall'esperienza della Russia del XX secolo. Il trionfo della verità ideologica e i milioni di morti che questa verità ha prodotto nelle due esperienze totalitarie sembrano aver reso impossibile e persino inaccettabile non solo qualsiasi annuncio della verità, ma anche qualsiasi discorso sulla verità, alla quale viene rimproverata appunto una pretesa di dominio sulla realtà che è diventata poi nei regimi totalitari la distruzione della realtà stessa.
Questa pretesa di dominio è stata così totalizzante e distruttiva che il male derivatone sembra non avere altra alternativa se non quella della rinuncia altrettanto totale a qualsiasi verità. Quando Adorno pronuncia il suo famoso aforisma sull'impossibilità di scrivere ancora poesia dopo Auschwitz è condizionato appunto dall'apparente insuperabilità di questa alternativa: di fronte alle esperienze estreme del XX secolo, di fronte al dolore e alla "morte atroce", qualsiasi forma (estetica o altro non fa differenza) pare un oltraggio alla sofferenza, come una sorta di pretesa di togliere lo scandalo dell'indicibile dicendolo e mettendolo così a nostra disposizione. Dietro questa paura si cela in realtà una nuova forma di iconoclastia in quanto si finisce ancora una volta col negare che attraverso il finito possa mostrarsi l'infinito.
A questa contestazione della possibilità di dire la verità, mai così radicale dai tempi appunto dell'iconoclastia, l'esperienza dei campi di concentramento, per come è stata narrata dalla grande letteratura russa ha dato una risposta altrettanto radicale: il secolo lupo ha detto che gli uomini potevano restare uomini; è stato detto l'indicibile, cioè che l'uomo ha dentro di sé qualcosa di infinito e irriducibile, persino là dove tutto sembrava dovesse finire e dove sembrava che si fosse realizzata la riduzione più totale dell'uomo stesso. Ma l'indicibile che è stato detto non è stato creato dall'uomo, in una nuova forma di dominio ideologico, come teme Adorno che non sa concepire un'interpretazione libera ma non arbitraria o una verità incontrovertibile ma non totalitaria: questo indicibile, che definisce l'uomo in ciò che gli è maggiormente proprio, è qualcosa che l'uomo non poteva neppure immaginare. Come l'interpretazione autentica è possibile non sostituendo o annullando il mistero ma affidandosi a esso, così l'arte è questo dare spazio all'infinito e al mistero che rende le cose degne di essere guardate; l'arte è "l'immortalità della vita", diceva Salamov.
(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)


Realtà storica e pregiudizio ideologico secondo Manzoni - La peste a Milano dal disastro al delirio - di Franco Camisasca - L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
A un lettore attento non può non risultare singolare ciò che il Manzoni si accinge a fare nei capitoli trentuno e trentadue dei Promessi sposi, quando, abbandonate le vesti di colui che sta rifacendo la dicitura di un malandato manoscritto, dice di voler cambiar mestiere e diventare, almeno per un po', storico. Egli ci vuole raccontare in dettaglio come la peste sia entrata nel milanese nel 1630 o probabilmente quale sia la responsabilità degli storici che, in quel caso, sono diventati strumenti inconsapevoli delle ideologie dominanti, cioè della menzogna? Io credo che l'intenzione sia quella di cercare la verità, come sempre nelle pagine del Manzoni.
Lo scrittore vuole raccontare gli avvenimenti della peste in Milano - perché i documenti parlano prevalentemente di essa - con uno scopo: "il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentare lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto".
La storia della peste è solo "famosa", tanti ne hanno parlato, ma pochi l'hanno voluta conoscere veramente; infatti delle relazioni contemporanee nessuna è completa, ci sono omissioni ed errori, confusioni di tempi e di cose; e neppure successivamente qualcuno se ne è occupato. Manzoni vuole distinguere i fatti più importanti da quelli secondari, mettere in sequenza gli avvenimenti, per arrivare a un resoconto "succinto", ma preciso. Gli interessano i "fatti", da cui poi dedurre dei "giudizi".
Di che cosa vuole farci partecipi? Del fatto che la vicenda della peste è diventata un pretesto per sostenere tesi preconcette, per argomentare senza riscontro nella realtà, per costruire discorsi ideologici che hanno nascosto la verità. Un procedimento molto comune nelle forme comunicative del nostro tempo che spesso ingabbiano in schemi ideologici il reale e non permettono la formazione di una mentalità critica.
Così il narratore segue passo passo come è sorta la malattia nel territorio milanese: nell'autunno del 1629 cominciano a morire intere famiglie nel territorio dove era passato l'esercito lanzichenecco; i segni della malattia che porta alla morte sono sconosciuti ai più, tranne ad alcuni che possono ricordare la peste di cinquant'anni prima, quella di san Carlo. Sarebbe un indizio sufficiente per dare l'allarme, che infatti è lanciato dal medico responsabile della sanità a Milano, ma a una verifica sul posto, i commissari si lasciano convincere da un barbiere che le morti sono dovute a "emanazioni autunnali delle paludi", per cui nessun provvedimento viene preso. Successivamente, di fronte al diffondersi della malattia neppure le autorità politiche, informate, si preoccupano. Addirittura il governatore, incurante di qualsiasi pericolo per la popolazione, ordina pubbliche feste per la nascita del figlio del re di Spagna; ma a lui - nota il Manzoni - il popolo non era stato dato "in cura, piuttosto in balia", cioè abbandonato al suo arbitrio.
Ciò che stupisce di più - osserva il narratore - in questa prima fase di diffusione della peste è il comportamento della popolazione: di fronte alle notizie che nei paesi intorno a Milano la malattia si sta diffondendo: "la penuria dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo".
Ecco come nasce una mentalità: di fronte a qualche dubbioso la maggioranza allontana con disprezzo un barlume di verità. E la peste intanto entra in città, i malati vengono portati al lazzaretto, ma i medici stessi sottovalutano il pericolo perché lo scarso numero di casi allontana il sospetto della verità e conferma sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento.
La malattia si diffonde, per cui il tribunale della sanità ordina ricoveri al lazzaretto, brucia gli oggetti toccati dagli ammalati, sequestra le case; tutto ciò invece di convincere la gente, sortisce un terribile effetto, si pensa che alcuni medici siano addirittura pro patriae hostibus, nemici della patria, vengono quindi odiati da tutti perché ritenuti causa di inutili vessazioni nei confronti della popolazione.
Per meglio dimostrare la situazione paradossale che si andava delineando, il Manzoni riferisce la vicenda di Lodovico Settala, il primo medico che aveva segnalato il pericolo; molto famoso come professore e studioso, mentre un giorno percorre la città per visitare gli ammalati, deve ricoverarsi in una casa perché la gente lo assale con grida e maleparole, è lui che "mette in ispaventio la città, il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste". Ma, dal momento che anche lui "partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei", quando a causa di un suo parere contribuisce a far torturare e uccidere una donna come strega, la popolazione di Milano lo riabilita e gli mostra "nuovo titolo di benemerito".
Si adombra qui l'epilogo spaventoso di questa storia, il disastro si sta mutando in qualcosa di ben più tragico.
Aumentando sempre più i casi di malattia e morte, i medici, quelli che si erano sempre opposti alla evidenza del contagio, sono costretti a dare un nome alla malattia e trovano quello "di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto".
La truffa è in atto; per tranquillizzare la gente i medici si inventano nomi falsi, con i quali ancor di più allontanano la possibilità di riconoscere la realtà e nascondono l'altro male, quello del contagio.
Si inserisce così il secondo e, più gravido di conseguenze, fatto: il contagio non attribuito a cause naturali, ma "ad arti venefiche, operazioni diaboliche". Giravano da tempo teorie di questo genere, ma una sera di maggio nel duomo di Milano ad alcuni "era parso di vedere persone andar ungendo un assito; il materiale contaminato la mattina dopo viene bruciato in piazza, così "un oggetto diventa facilmente un argomento"; un fatto inventato, e avvalorato dalle autorità sanitarie solo per "compiacere all'immaginazione altrui" si trasforma in una prova incontrovertibile. Da qui un crescendo di sogni e pazzia: in ogni parte della città si vedono porte e muri delle case intrisi di una sostanza gialla, alcuni pensano a una burla, ma nessuno è capace di sufficiente ragionevolezza per non vedere ciò che di fatto non esiste.
La città è sconvolta, tutti alla ricerca degli autori delle unzioni. Il narratore osserva: "Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari (...) d'un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno potuto entrare nelle menti, e dominarle". Il disastro si trasforma in delirio, in follia, la gente deve trovare un motivo del contagio e lo attribuisce a fantasie collettive; le concezioni errate, gli errori, si diffondono fino al punto di entrare nelle menti e dominarle, vanno a formare la mentalità di tutti. Una volta accettata l'esistenza della peste, un'altra idea si fa avanti, quella "del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro". Le autorità si muovono con provvedimenti inutili o addirittura dannosi. Nessuno è in grado di guardare la realtà dei fatti perché il "povero senno umano cozzava co' fantasmi creati da sé".
Nella città desolata i monatti diventano i padroni, la malvagità e la perversione sono le regole della convivenza e con esse cresce la pazzia: nessuno si fida più dell'altro, si vive di sospetti anche nelle mura di casa, "la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano come agguati, come nascondigli di venefizio". Qualcuno pensa che le unzioni siano frutto di immaginazione, ma non ha il coraggio di andare contro l'opinione dominante, perché nota amaramente il narratore: "il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune".
La grande parentesi storica si conclude con un cenno ai processi agli untori, cosa non nuova nella storia della giurisprudenza di allora, e con l'annuncio di un "nuovo lavoro", non senza un ironico accenno al Verri, uno di quegli storici che ha usato la peste per "un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza". Un indiretto sostegno alla validità della sua puntigliosa ricostruzione, perché è opportuno parlare di cose che si conoscono e non di cose di cui tutti parlano. Non a caso il Manzoni desiderava che la Storia della colonna infame fosse letta come completamento del romanzo e strumento di una sua corretta interpretazione.
(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)


CHE COSA CI DICONO LE SORELLE DEI MONASTERI D ’A BRUZZO - Attraverso le ferite fin dentro i cuori - M ARINA C ORRADI – Avvenire, 18 ottobre 2009
N el cuore della zona rossa, a L’Aquila, dove i militari sbarrano con fermezza l’ingresso e i palazzi mostrano crepe nere come ferite, sono rimaste in quattro. Quattro suore di clausura. La anziana badessa del monastero benedettino di san Basilio, suor Margherita, non ha voluto abbandonare la sua casa; con tre sorelle è rimasta, per tetto una capanna di legno alzata dai volontari nel cortile. E un’altra, suor Agnese, è anche più anziana della badessa. E su L’Aquila scende di notte ormai il gran freddo dell’Abruzzo, il freddo duro di quelle montagne aspre attorno.
Ma le quattro benedettine, ostinatamente fedeli alle mura spaccate, al campanile crollato, alla cappella scoperchiata come dalla mano di un furioso nemico, restano. Hanno ripreso a vivere nell’orto, nei pochi metri quadri della baracca di legno. Restaurano i mobili recuperati fra le macerie.
In una stanza al pianterreno del convento pregano e ascoltano la messa; in fondo, appeso al muro, il crocefisso sta a guardarle.
Una delle suore, la più giovane, alla cronista (che ne scrive nelle pagine interne) dice: «Ho riscoperto in questi mesi il senso dell’abito che indosso». Un’altra: «In questa sofferenza che ci circonda vedo ovunque il volto di Cristo». Un’altra ancora, clarissa nel distrutto convento di Paganica, ha fatto in questi giorni la sua professione definitiva. E a chi chiede alle sue consorelle dov’era Dio, quella notte, loro rispondono: «Accanto alla gente.
Con noi, nel dolore».
È una fede ostinata, abbarbicata a queste pietre come certe case del Gran Sasso, aggrappate agli erti pendii, quella che, quasi non vista, riluce fra le macerie del L’Aquila. La tenacia delle benedettine nel non abbandonare il proprio monastero, quel monastero in cui sono entrate fanciulle, sembra la metafora di una promessa nuziale mantenuta. La casa scelta nella giovinezza, che non si abbandona; nemmeno quando un terremoto l’ha squarciata; ci si accampa in un angolo, si strappano ai detriti le povere cose superstiti. Il crocefisso è là, sul suo muro; c’è, dunque, l’essenziale; fedelmente, si resta. Mostrando a chi è giovane, a chi è cresciuto in tempi di brevi promesse e fedeltà precarie, cosa vuol dire, quando dice «per sempre».
E quell’altra sorella, che nelle sue giornate fra la gente del L’Aquila dice di «riconoscere ovunque il volto di Cristo»? A noi abituati a non guardarci se non per i vestiti che indossiamo, a non ascoltarci nel rumore in cui siamo costantemente immersi, a sognare magari una telecamera che ci riprenda, per sentirci 'qualcuno', questa suora dice che ora, nella sofferenza, sa riconoscere in ognuno il volto di Cristo. Che è quello che diceva Madre Teresa, quando ai giornalisti tentava faticosamente di spiegare perché faceva quel che faceva: perché in ogni disgraziato di Calcutta riconosceva, appena dissimulato, il volto di Cristo. (I giornalisti, spesso, non capivano). La fedeltà per sempre, e quello sguardo che attraversa le apparenze e permette di vedere l’altro, davvero. Questo ha lasciato a queste suore abruzzesi il nemico che con un fragore di apocalisse ne ha infranto le chiese, e crepato malignamente i muri dei vecchi conventi, lasciandovi tracce profonde come cicatrici. Ma forse allora è vero, come scrisse Emmanuel Mounier, che «Dio passa attraverso le ferite». Che là dove si spezza la nostra pace, e benessere, e soddisfatto equilibrio, là sta la porta dove l’Altro da noi può passare. Se gli si lascia un varco.
Se non ci si arrocca in difesa, o nella rabbia, Dio può passare. E tutta l’Aquila, e le tendopoli, e anche le case nuove dove però qualcuno manca per sempre, sono una breccia, una grande ferita a cielo aperto. Ma in quei monasteri, e altrove, in tante case di gente di cui non sapremo mai nulla, chissà chi, attraverso quella ferita, è passato.



Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu – Avvenire, 18 ottobre 2009
Sarà per l’aria che lassù si respira, per quel limpido impasto di luce e di cielo che affonda radici in radiose, non misurate lontananze, e in cui la vista, smarrita, a tratti acuisce nel pallido sforzo di intravederne i confini. Sarà per quella fraterna alleanza alle cime, alle vette, ai pinnacoli, sillabati unghia a unghia per grazia di chiodi e piccozza, che ancora una volta la prosa di Erri De Luca, scrittore­scalatore educato da strade in salita a risparmiare sui fiati, fa solchi e allunga ponti là dove più pensavamo aver accumulato il nostro piccolo fardello di sapienza quotidiana. Penultime notizie circa Ieshu/Gesù (Edizioni Messaggero Padova, pagine 96, euro 5) offre a chi lo attraversa il versante opposto d’orizzonte, dilagando con lo sguardo innamorato sopra estesi panorami di parole, rese eterne però dal fitto intrico d’echi e quiete risonanze, o, forse più semplicemente, dal dono azzurro delle nuvole.
Nel libro, dai alcune tornite definizioni dell’amore. Scrivi: «Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima». E all’inizio: «L’amore è questa incomprensibile energia per la quale più se ne spende, più se ne riproduce nelle fibre. Al contrario, chi lo risparmia lo spreca, se lo ritrova inutile e marcito». Tu hai fiducia nell’amore? E che idea ti sei fatto, attraverso lo studio della Bibbia, dell’amore divino?
«Personalmente ho fatto un uso improprio del verbo 'amare'. Ma quando ho trovato queste notizie nella scrittura sacra, ho capito che cos’era quel verbo, e come mai con la forza di quel verbo il monoteismo era riuscito a soppiantare le altre religioni precedenti. E a farlo dentro il Mediterraneo, cioè nel mare più politeista e più abbondante di divinità di tutta la storia dell’umanità. Quel mare veniva rigirato da questa notizia monoteista che si fondava sull’amore. Era una forza di impianto, perché si impiantava su un terreno di idoli che mai avevano chiesto niente di simile ai propri praticanti di culto, ma nello stesso tempo possedeva anche una forza di espianto, capace di sbaragliare, di estirpare dal suolo e dal cuore degli uomini gli idoli precedenti.
Tutto ciò è avvenuto grazie a quella energia superiore fornita dal verbo 'amare'. Ecco, io le notizie sul verbo 'amare' le ho imparate nella scrittura sacra».
Un verbo indispensabile, che nutre e sostenta la pratica della fede: «Voi credete con la sovrabbondanza dell’amore, non con la carestia della sapienza», viene detto a Ioséf/Giuseppe, dopo che gli è stata annunciata la nascita di un figlio non suo. Credere dovrebbe essere, come per Abramo, «scatto di totale» e fiducioso «affidamento», in cui le inquietudini del dubbio non possono né devono avere alcun diritto di cittadinanza?
«La lingua italiana ha un unico verbo per indicare il credere. Sia se crediamo nella divinità o nella buona sorte o nella estrazione dei numeri del lotto, il verbo che usiamo è sempre uguale. In questo, è più preciso l’inglese, che adopera il verbo think per esprimere un’opinione, per dire 'io credo che', e il verbo trust quando vuole indicare 'io ho fede'. Sulle banconote americane c’è pure scritto 'In God we trust', 'Noi crediamo in un Dio'. Ma messa lì, quella frase occupa davvero un posto improprio.
Insomma, noi abbiamo una debolezza di vocabolario: usiamo un solo verbo per le opinioni e per la temperatura della fede. E il credere della scrittura sacra, il credere della fede comporta una elevata temperatura corporea».
In quest’ottica, quindi, l’intelligenza potrebbe essere un ostacolo per vivere con pienezza sia il dono dell’amore sia quello della fede?
«No, non è un ostacolo. Semplicemente non è richiesta. Nella scrittura sacra la divinità chiede di essere amata in tutto il cuore, in tutto il fiato e in tutte le forze. Se voleva metterci anche in tutta l’intelligenza lo poteva fare benissimo, non le mancava l’iniziativa né lo spazio. E invece sono quelle le caratteristiche dell’amore richiesto: il cuore, il fiato, le forze. Per credere non c’è bisogno di essere non dico intelligenti, ma nemmeno istruiti».
Quello di Gesù, pur essendo in sé qualcosa di estremamente nuovo e rivoluzionario, «era un annuncio che riscaldava il cuore senza armarlo d’ira e di rivolta». Tu che vieni anche dai giorni della rabbia e dello scontro, come giudichi il messaggio assolutamente non violento portato in mezzo agli uomini dal Redentore?
«Intanto bisogna immaginarsi il suo tempo, raffigurarselo. Gesù abitava in un paese occupato dalla più forte potenza militare straniera, quella romana. Prima e dopo di lui migliaia di giovani ebrei finivano impalati sulla croce, sullo strumento di tortura e di supplizio inventato ed esportato lì proprio dai Romani. Lui stesso era nato in un momento in cui gli invasori chiedevano un censimento e facevano spostare la popolazione ebraica per poterla meglio contare. E, di conseguenza, meglio spremere. Egli si trova dunque in una situazione di oppressione e di rivolte continue contro l’occupante romano, che, d’altronde, non ha trovato mai così tanta resistenza ostinata come da quelle parti. Questo si spiega col fatto, appunto, che gli abitanti della zona erano titolari del monoteismo, del Dio unico, e si trovavano invece il faccione di Giove Iuppiter piazzato sopra il tempio di Gerusalemme, sopra la casa di quella loro divinità che non voleva nemmeno essere raffigurata. Quindi non solo l’occupazione militare era un’ulcera per l’anima ebraica, ma altrettanto lo era quel politeismo imposto.
In questa situazione, nella Pasqua finale della vita di Gesù a Gerusalemme, quando tutto il popolo va lì e converge e manca quasi niente perché scoppi un’insurrezione contro l’occupante romano, lui non dice parole di pace, ma che smontano in un attimo la tensione e l’ostilità. Già prima però, con la frase: 'Date a Cesare quel che è di Cesare', aveva chiarito che il potere politico, il potere degli uomini sugli uomini è qualcosa di effimero, che sta bene sopra una moneta e che non decide né della libertà né della vita di un uomo. Lì Gesù disinnesca una miccia che contava anche su di lui per innescare la rivolta. A Gerusalemme, infatti, viene accolto in maniera trionfale. Entra come un re, in groppa a quella cavalcatura speciale che era l’asina. Senza dubbio c’è grande attesa nei suoi confronti. E lui disarma quell’attesa, la riporta al suo messaggio di salvezza indipendente dalla scelta delle armi».
Ieshu/Gesù «dimostrava senz’armi il sovvertimento delle gerarchie e delle potenze», attraverso la forza dirompente della sua predicazione. La parola, dunque, è capace, da sola, di modificare la realtà?
«La parola pronunciata da quella voce, e cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, certamente è molto più capace delle armi di fare breccia. Non tutte le parole hanno però un simile potere. Noi siamo adesso in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo».
Pensi che il messaggio di Gesù Cristo possa ancora farsi largo e attecchire nel cuore degli uomini del ventunesimo secolo?
«Evidentemente sì. Le sue parole non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni che le ascoltano e che le leggono. Specialmente il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello che io dico dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui lui fa sapere che gli ultimi sono i primi, beh, quel messaggio è fresco di stampa e di speranza in ogni generazione».
Ma il tempo che noi stiamo vivendo, affermi, è un prolungamento di ciò che in realtà si è compiuto con la morte e la risurrezione di Cristo. Che significato assume questa coda temporale, questo strascico di giorni lungo ormai duemila anni?
«Sì, questi tempi supplementari infiniti tra l’annuncio e la sua manifestazione finale durano da duemila anni. È un po’ quello che, in scala più grande, viene comandato a Noè, quando gli viene commissionata un’arca gigantesca, superiore per dimensioni a un campo di calcio, alta tre piani e piantata in mezzo alle montagne e ai boschi. Insomma, un lavoro enorme, portato poi a termine da solo. Un’opera visionaria, molto più della torre di Babele, che voleva costringere l’umanità sua contemporanea a interrogare Noè su quel manufatto. Serviva a far sapere agli uomini del tempo che c’era una possibilità di ravvedersi e di rendere inutile quell’arca. Tutto il lavoro di costruzione dell’arca è dunque un tempo supplementare concesso all’umanità contemporanea di Noè per ravvedersi. Cosa che però non avviene e allora il diluvio ha inizio – così è scritto nel libro Genesi/ Bereshìt. Ecco, questi tempi supplementari del cristianesimo sono i tempi della costruzione dell’arca di Noè».
In uno degli scritti contenuti nel libro dai nuova collocazione al Paradiso: non più sospeso ad altitudini incommensurabili, bensì ubicato in qualche luogo reale, qui, sulla terra, ripristinando quella che dici essere la sua sede originaria, etimologica, e cioè in un giardino di alberi da frutta.
Ma oggi potrebbe ancora esistere sul pianeta un luogo degno di ospitare il Paradiso?
«Immaginata come una residenza non definitiva ma provvisoria, ci sono tanti piccoli giardini in cui improvvisamente è possibile realizzare quella concordia e quella unità che c’è nel paradiso. Insomma, è continuamente possibile, su piccola scala e in circostanze minime, in brevi momenti, anticipare quel luogo. Oggi lo possiamo trovare dentro a un ospedale di brava gente nostrana in certi posti dell’Africa, o magari nel comportamento eroico di qualche sacerdote in una parrocchia sgangherata».
Lì c’è un frammento di Paradiso…
«Sì, lì c’è la costituzione di un paradiso in terra».
«Noi siamo in un tempo ciarlatano, nel quale i discorsi vengono pronunciati e smentiti il giorno dopo; frasi che contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole ad emetterle...
Invece la parola detta dal Nazareno, cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, è capace di far breccia molto più delle armi.
Le parole di Gesù non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni; in specie il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui fa sapere che gli ultimi sono i primi, è fresco di stampa e di speranza»