domenica 29 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Tre mesi dopo la conversione, percepisco il cristianesimo il punto di approdo della fede nella verità, vita, amore e libertà, di Magdi Cristiano Allam
2) Saulo di Tarso: Marta Sordi spiega la nuova cronologia della vita di Paolo e conferma l’autenticità del suo carteggio con Seneca
3) "Il papa non veste Prada ma Cristo"
4) Dono trinitario: incarnazione, mistero pasquale ed Eucaristia, intervento Card. Angelo Scola
5) Fede e scienza in dialogo


Tre mesi dopo la conversione, percepisco il cristianesimo il punto di approdo della fede nella verità, vita, amore e libertà
Sento dentro di me la necessità di una perenne riconversione interiore per essere sempre più aderente al messaggio d’amore e di vita di Gesù, coniugandolo in modo armonico con il bene della libertà e con il valore della verità che hanno illuminato il mio lento, tranquillo e convinto percorso interiore
autore: Magdi Cristiano Allam(Corriere Fiorentino,29.6.08)
Cari amici
In occasione dei miei due incontri toscani, oggi domenica 29 giugno a Montecatini e domani lunedì 30 giugno a Badia Settimo Fiorentino, l'amico Paolo Ermini, direttore del "Corriere fiorentino", l'inserto locale del Corriere della Sera, mi ha chiesto una riflessione su come vivo il mio essere cristiano a tre mesi dalla conversione. Il mio commento è stato pubblicato oggi.
A poco più di tre mesi dalla mia conversione dall’islam al cattolicesimo, resta indelebile nel mio animo la gioia immensa per la straordinaria notte della Veglia Pasquale, lo scorso 22 marzo, nel corso della quale il papa Benedetto XVI celebrò il mio Battesimo, Cresima ed Eucaristia nella Basilica di San Pietro. Si tratta del fatto centrale della mia vita che mi ha visto rinascere nella fede in Gesù dopo 56 anni vissuti da musulmano.
E’ veramente cambiato qualcosa di profondo nel mio vissuto quotidiano e nella concezione globale della vita terrena e di quella eterna? E’ la domanda che mi pongo giorno dopo giorno, a cui cerco di dare delle risposte che siano il più possibile corrette e oneste in primo luogo a me stesso prima ancora che agli altri i quali, comprensibilmente, desiderano anche loro sapere che cosa è effettivamente accaduto nel cuore e nella mente di un musulmano laico e liberale che per ragioni professionali, valoriali e ideali aveva acquisito una significativa visibilità mediatica e che, dopo un lungo percorso spirituale, ha abbracciato la religione cattolica.
Ebbene oggi questo percorso spirituale tendo a raffigurarlo come il lento fluire di tre affluenti principali che, pur nascendo da fonti diverse, sfociano ed alimentano l’unico fiume dell’io che racchiude e fa interagire l’insieme dei processi interiori. Il principale di questi affluenti è quello che mi ha portato ad aderire convintamente e pienamente al cristianesimo, grazie all’incontro con tanti straordinari testimoni di fede, a cominciare dalle suore comboniane e dai sacerdoti salesiani presso cui ho studiato e in mezzo a cui ho vissuto per 14 anni, che mi hanno trasmesso l’autentico messaggio di Gesù tramite delle opere buone volte alla realizzazione del bene comune.
Il secondo affluente è quello che ha fatto maturare in me il convincimento dell’incompatibilità dell’islam con quei valori che sono inalienabili e inviolabili, in quanto sostanziano l’essenza della nostra umanità, in cui ho sempre creduto e per i quali mi sono sempre battuto, fino a farmi comprendere che si può essere dei musulmani moderati e che con questi musulmani moderati si può e si deve dialogare, ma che non c’è un islam moderato perché è nel Corano stesso e nella vita stessa di Maometto che sussistono delle prescrizioni e degli esempi legittimanti l’ideologia dell’odio, della violenza e della morte che infiamma l’estremismo e il terrorismo islamico.
Il terzo affluente è la presa d’atto della centralità della fede e della cultura giudaico-cristiana nella storia della formazione civile e ideale dell’Europa e dell’Occidente libero, democratico e moderno, e l’assunzione della consapevolezza che solo il recupero dei valori e il riscatto dell’identità giudaico-cristiana permetteranno il riscatto etico e civile dell’Occidente materialista, laicista e multiculturalista dal baratro del relativismo e del politicamente corretto.
La fede in Gesù, che ho scoperto essere il vero e unico Dio della Verità, della Vita, dell’Amore e della Libertà, oggi la percepisco come il punto di approdo di un’esistenza vissuta da spirito libero che ha creduto nella libertà e ha perseguito la verità. Oggi questi valori coesistono armoniosamente con il cristianesimo, dopo essere stati al centro di un rapporto problematico con l’islam, diventato sempre più conflittuale man mano che sono stato additato, proprio io che mi ero sinceramente e intensamente impegnato per promuovere un islam della fede e della ragione, quale principale bersaglio dell’estremismo e del terrorismo islamico in Italia.
Ebbene tre mesi dopo aver ricevuto il dono della fede cristiana per mano del Santo Padre, sento dentro di me la necessità di una perenne riconversione interiore per essere sempre più aderente al messaggio d’amore e di vita di Gesù, coniugandolo in modo armonico con il bene della libertà e con il valore della verità che hanno illuminato il mio lento, tranquillo e convinto percorso interiore che, seppur inconsapevolmente, ha radicato in me uno strato sempre più consistente e solido di spiritualità cristiana all’insegna del legame indissolubile tra fede e ragione.
Magdi Cristiano Allam


Saulo di Tarso
Marta Sordi spiega la nuova cronologia della vita di Paolo e conferma l’autenticità del suo carteggio con Seneca
di Roberto Persico - Tempi.it, 19 Maggio 2008
Il 28 giugno il Papa inaugurerà solennemente un altro giubileo: la Chiesa festeggia due millenni dalla nascita di Saulo di Tarso detto Paolo, l’“Apostolo delle genti”, l’uomo che più di ogni altro ha diffuso il cristianesimo tra i popoli che abitavano le sponde del Mediterraneo; secondo i critici avversi, l’uomo che avrebbe “inventato” il cristianesimo, che senza di lui sarebbe rimasto un’oscura setta marginale del mondo ebraico. Un’occasione straordinaria per la Chiesa per riflettere sul proprio compito, sulla missione “ad gentes”, sul rapporto fra il suo annuncio e le culture dei popoli che incontra, questioni tutte che si pongono in maniera drammatica e affascinante in questo terzo millennio che si è appena aperto.
Un tema che affascina e riguarda da vicino Marta Sordi, professoressa emerita di Storia antica dell’Università Cattolica di Milano, che all’opera di Paolo ha dedicato una vita di studi, «dal punto di vista della storia romana – tiene a precisare – dello studio delle fonti, proiettando le notizie dei testi cristiani su quel che ci è noto dalla documentazione romana». Una conoscenza approfondita che presenterà e dibatterà nell’incontro del ciclo sul giubileo paolino promosso dal Centro culturale di Milano (vedi box nella pagina seguente) e che illustra con limpida chiarezza a Tempi.
Professoressa Sordi, ancora oggi qualcuno sostiene che il cristianesimo sarebbe un’invenzione di san Paolo, lui avrebbe trasformato il culto di un’innocua setta ebraica in una religione universale.
È del tutto falso. Tanto per cominciare, il primo ad aprire ai non ebrei non è Paolo, è Pietro. Gli Atti degli apostoli, capitolo 10, raccontano chiaramente la storia del centurione Cornelio, romano, battezzato senza essere circonciso; è Pietro che prende la decisione, che entra nella casa di un pagano sfidando le critiche degli altri apostoli, che nel primo concilio che si svolge a Gerusalemme si pronuncia contro l’obbligo della circoncisione: l’annuncio cristiano è per tutti, non solo per gli ebrei.
Sì, ma Paolo non aveva conosciuto direttamente Gesù, gli apostoli raccontavano dei fatti, lui invece ha elaborato una teologia.
Sempre in completa sintonia con la comunità degli apostoli. Come scrive nella lettera ai Galati, e come è riportato anche negli Atti, è andato due volte a Gerusalemme, la prima poco dopo la conversione, la seconda quattordici anni dopo, quando in tutte le chiese dell’Asia minore godeva già di grandissima autorità: e sempre per sottomettersi al giudizio di Pietro e di quelli che con lui – P aolo non fa nomi, ma verosimilmente dovevano essere Giacomo e Giovanni – erano le guide riconosciute da tutti. «Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani – scrive – per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano». Per non aver corso invano, capisce? Paolo sa benissimo che se predicasse qualcosa di diverso dalla fede degli apostoli la sua opera sarebbe vana.
Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di quest’opera?
Direi la presa di coscienza del “mistero nascosto nei secoli” della chiamata dei pagani, che nasce in lui durante la missione in Asia minore, e la capacità di rivolgersi a tutti, non escluse le autorità, i potenti, secondo il linguaggio e le forme più adatte a ciascuno. Due caratteristiche che si colgono fin dall’inizio. La missione di Paolo comincia infatti con il viaggio a Cipro. Qui lui predica, come sempre farà, in primo luogo alla comunità ebraica. Ma poi viene chiamato dal governatore romano dell’isola, Sergio Paolo, il quale, dicono gli Atti, «credette»; ed è proprio da qui in avanti che Paolo cambia il suo nome ebraico, Saul, prendendo non a caso il nome di quello che potremmo definire il suo primo convertito illustre. Il quale diventerà suo protettore, tanto che quando poi sbarca in Asia minore Paolo non si dirige nelle zone grecizzate della costa, ma in quelle più rozze dell’interno, dove la potente famiglia dei Sergi Paoli aveva terre e influenza. È qui, io credo, che Paolo acquisisce la consapevolezza che l’annuncio di Cristo è destinato, attraverso di lui, a tutte le genti; perché sempre rivolge il suo annuncio prima alla sinagoga, ma gli ebrei rispondono tiepidamente, quando addirittura non reagiscono duramente e cercano di trascinarlo davanti ai tribunali romani, mentre raccoglie seguito fra i gentili. Così a Corinto gli ebrei lo accuseranno davanti al proconsole di Acaia, Gallione, fratello di Seneca; il quale peraltro nemmeno prenderà in considerazione le accuse, perché gli paiono irrilevanti. A Efeso invece viene accusato dagli argentieri che prosperavano vendendo statuette di Diana Efesia e vedevano la propria attività rovinata dalla nuova religione; ma gli asiarchi intervengono a risolvere la situazione: in entrambi i casi vediamo come le massime autorità romane lo giudichino con benevolenza, segno evidente del fatto che sapeva come rapportarsi con loro.
Poi viene il celebre sogno del macedone che lo implora di “passare il mare” e di portare anche in Europa l’annuncio di Cristo.
Sì, anche se il desiderio di andare a Roma è presente da molto: è già formulato, secondo gli Atti, quando Paolo si trova a Efeso, ed è espresso anche nella Lettera ai Romani, che secondo la cronologia che io ho ricostruito risale al 53-54, non al 57 come generalmente si ritiene. Infatti tra le personalità romane che nomina ci sono Narciso, un liberto di Claudio morto nel 54, e Aristobulo, che nel medesimo anno venne mandato a governare la Piccola Armenia.

Lei attribuisce grande importanza a questa revisione della cronologia tradizionalmente accertata. Perché?
Perché con la cronologia tradizionale un sacco di questioni rimangono incomprensibili. Mentre con quella che propongo io – che si accorda con tutti i dati a nostra disposizione – ogni problema si chiarisce. Tutto dipende da un passo degli Atti (24,27), in cui si dice che «trascorsi due anni, Felice [il governatore romano della Giudea] ebbe come successore Porcio Festo; ma Felice lasciò Paolo in prigione»: generalmente, i due anni vengono riferiti alla prigionia di Paolo, mentre si tratta semplicemente della durata in carica di Felice, che fu governatore, secondo le fonti romane, nel 53-54. Dunque Paolo fu processato sotto il successore Porcio Festo nella prima metà del 55, in forza del suo status di cittadino romano si appellò a Cesare e fu quindi trasferito a Roma, dove giunse agli inizi del 56, e non dopo il 60, come generalmente si ritiene. Nel 56 era prefetto del pretorio Afranio Burro, amico di Seneca, uomo saggio e tollerante, e questo spiega le condizioni della prigionia di Paolo, una sorta di arresti domiciliari molto blandi, in cui era sorvegliato da un pretoriano ma poteva ricevere liberamente chi voleva. Poi venne assolto, verosimilmente da Burro, nella primavera del 58, e qui ha inizio il celebre epistolario con Seneca.
Generalmente ritenuto un falso costruito nei secoli seguenti.
Anch’io all’inizio ero convinta che fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire trascinato con sé il giudizio sull’intera opera. Ma se eliminiamo queste due il resto io credo sia autentico. Si tratta di una corrispondenza amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane, a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi, non le pare? Poi c’è la questione dello stile: è un cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come migliorarlo. Ci sono poi un riferimento alla “lunga lontananza” di Paolo e una cono-scenza diciamo dall’interno della situazione politica, e una circospezione nel trattarla, che non potevano essere opera di un eventuale falsario.
Vuole chiarire questi ultimi punti?
Secondo la mia ricostruzione, Paolo rimase agli arresti domiciliari tra il 56 e il 58, venne quindi assolto, e qui si collocano le prime lettere con Seneca. Quindi, dal 59 al 62, c’è un vuoto, durante il quale Paolo si recò in Spagna. Tornò giusto in tempo per subire gli effetti nella svolta di Nerone: proprio in quell’anno morì Burro e Seneca perse il suo ascendente sull’imperatore, sostituito da quello della nuova moglie di lui, Poppea. E in una lettera di Seneca di questo periodo si fa cenno all’ostilità della «domina» nei confronti di Paolo, perché ha «abbandonato la religione dei padri». È un dettaglio fondamentale, perché Poppea effettivamente era giudaizzante, e quindi non guardava di buon occhio i cristiani, ma questo lo sappiamo da Flavio Giuseppe e da Tacito, i cristiani del secondo e del terzo secolo non lo sapevano. Inoltre tutto quel che riguarda gli ambienti di corte viene accennato con grande circospezione, come se i corrispondenti temessero che le loro lettere potessero cadere in mani sbagliate. Un falsario non avrebbe mai potuto avere questi riguardi.
Paolo tornò anche giusto in tempo per essere di nuovo in disaccordo con Pietro prima che entrambi venissero condannati a morte.
Guardi, tra Pietro e Paolo non ci sono mai, sottolineo mai, contrasti dottrinali. Potremmo dire che hanno due “stili pastorali” diversi: Pietro è più discreto nei confronti degli ebrei, tende a evitare contrasti; Paolo invece predica sempre in primo luogo ai connazionali, e solo in un secondo momento si rivolge ai gentili. Ma sono differenze di metodo e di temperamento, mai di dottrina. Da questo punto di vista anzi l’unità fra i due è uno dei fondamenti stessi della Chiesa di Roma. Una delle testimonianze più commoventi è un’iscrizione ritrovata a Ostia e databile agli inizi del II secolo o addirittura alla fine del I, riferita a un “Marco Anneo Petro Paolo”: Petro Paolo, capisce, è un cristiano che ha preso come cognome il nome di entrambi gli apostoli, indissolubilmente uniti. Pietro e Paolo: su questo binomio si fonda la Chiesa.


"Il papa non veste Prada ma Cristo"
Lo scrive "L'Osservatorte Romano", e spiega perché. Il maestro delle cerimonie papali Guido Marini replica alle obiezioni contro le ultime decisioni di Benedetto XVI in materia liturgica, dal motu proprio alla croce al centro dell'altare
di Sandro Magister

ROMA, 28 giugno 2009 – "Il Papa non veste Prada ma Cristo": questa è la perentoria conclusione di un articolo de "L'Osservatore Romano" di due giorni fa, mirato a difendere le scelte di Benedetto XVI in materia di vestiario liturgico e non. Un articolo curiosamente firmato da un quasi omonimo della celebre casa di moda, Juan Manuel de Prada.

Ma sullo stesso numero de "L'Osservatore" c'è di più. C'è un'intervista al maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, il quale –prendendo spunto da una nuova configurazione del pallio indossato dal papa – risponde alle ricorrenti obiezioni contro alcune recenti decisioni di Benedetto XVI in materia liturgica:

– il motu proprio "Summorum Pontificum" che ha liberalizzato il rito antico della messa;

– la croce collocata al centro dell'altare, nelle celebrazioni papali;

– la messa celebrata nella Cappella Sistina sull'antico altare rivolto all'affresco del Giudizio (vedi foto);

– il ritorno all'uso del pastorale a forma di croce;

– la comunione data in bocca ai fedeli inginocchiati.

Circa il motu proprio "Summorum Pontificum", Marini dice di non sapere se Benedetto XVI celebrerà lui stesso in pubblico una messa secondo il rito antico. E così prosegue:

«Quanto al motu proprio citato, considerandolo con serena attenzione e senza visioni ideologiche, insieme alla lettera indirizzata dal papa ai vescovi di tutto il mondo per presentarlo, risalta un duplice preciso intendimento. Anzitutto, quello di agevolare il conseguimento di "una riconciliazione nel seno della Chiesa"; e in questo senso, come è stato detto, il motu proprio è un bellissimo atto di amore verso l'unità della Chiesa. In secondo luogo – e questo è un dato da non dimenticare – il suo scopo è quello di favorire un reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano: in modo tale, per esempio, che nella celebrazione secondo il messale di Paolo VI (che è la forma ordinaria del rito romano) "potrà manifestarsi in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all'antico uso"».

Circa la croce posta al centro dell'altare, Marini dice:

«Essa indica la centralità del Crocifisso nella celebrazione eucaristica e l'orientamento esatto che tutta l'assemblea è chiamata ad avere durante la liturgia eucaristica: non ci si guarda, ma si guarda a Colui che è nato, morto e risorto per noi, il Salvatore. Dal Signore viene la salvezza, Lui è l'Oriente, il Sole che sorge a cui tutti dobbiamo rivolgere lo sguardo, da cui tutti dobbiamo accogliere il dono della grazia. La questione dell'orientamento liturgico nella celebrazione eucaristica, e il modo anche pratico in cui questo prende forma, ha grande importanza, perché con esso viene veicolato un fondamentale dato insieme teologico e antropologico, ecclesiologico e inerente la spiritualità personale».

Circa la celebrazione all'antico altare rivolto verso il Giudizio, nella Cappella Sistina, Marini spiega:

«Nelle circostanze in cui la celebrazione avviene secondo questa modalità, non si tratta tanto di volgere le spalle ai fedeli, quanto piuttosto di orientarsi insieme ai fedeli verso il Signore. Da questo punto di vista "non si chiude la porta all'assemblea", ma "si apre la porta all'assemblea" conducendola al Signore. Si possono verificare particolari circostanze nelle quali, a motivo delle condizioni artistiche del luogo sacro e della sua singolare bellezza e armonia, divenga auspicabile celebrare all'altare antico, dove tra l'altro si conserva l'esatto orientamento della celebrazione liturgica. Non ci si dovrebbe sorprendere: basta andare nella basilica di San Pietro al mattino e vedere quanti sacerdoti celebrano secondo il rito ordinario scaturito dalla riforma liturgica, ma su altari tradizionali e dunque orientati come quello della Cappella Sistina».

Circa il ritorno all'uso del pastorale a forma di croce, Marini dice:

«Il pastorale dorato a forma di croce greca — appartenuto al beato Pio IX e usato per la prima volta da Benedetto XVI nella celebrazione della Domenica delle Palme di quest'anno — è ormai utilizzato costantemente dal pontefice, che ha così ritenuto di sostituire quello argenteo sormontato dal crocifisso, introdotto da Paolo VI e utilizzato anche da Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e da lui stesso. Tale scelta non significa semplicemente un ritorno all'antico, ma testimonia uno sviluppo nella continuità, un radicamento nella tradizione che consente di procedere ordinatamente nel cammino della storia. Questo pastorale, denominato "ferula", risponde infatti in modo più fedele alla forma del pastorale papale tipico della tradizione romana, che è sempre stato a forma di croce e senza crocifisso, perlomeno da quando il pastorale è entrato nell'uso dei romani pontefici».

Quanto alla comunione data dal papa in bocca ai fedeli inginocchiati – nella recente visita a Santa Maria di Leuca e Brindisi – Marini afferma che diventerà "prassi abituale nelle celebrazioni papali". E prosegue:

«Al riguardo non bisogna dimenticare che la distribuzione della comunione sulla mano rimane tuttora, dal punto di vista giuridico, un indulto alla legge universale, concesso dalla Santa Sede a quelle conferenze episcopali che ne abbiano fatto richiesta. La modalità adottata da Benedetto xvi tende a sottolineare la vigenza della norma valida per tutta la Chiesa. In aggiunta si potrebbe forse vedere anche una preferenza per l'uso di tale modalità di distribuzione che, senza nulla togliere all'altra, meglio mette in luce la verità della presenza reale nell'Eucaristia, aiuta la devozione dei fedeli, introduce con più facilità al senso del mistero. Aspetti che, nel nostro tempo, pastoralmente parlando, è urgente sottolineare e recuperare».

Insomma, a chi accusa Benedetto XVI di voler "imporre così modelli preconciliari" Marini ribatte:

«Per quanto riguarda termini come "preconciliari" e "postconciliari" utilizzati da alcuni, mi pare che essi appartengano a un linguaggio ormai superato e, se usati con l'intento di indicare una discontinuità nel cammino della Chiesa, ritengo che siano errati e tipici di visioni ideologiche molto riduttive. Ci sono "cose antiche e cose nuove»" che appartengono al tesoro della Chiesa di sempre e che come tali vanno considerate. Il saggio sa ritrovare nel suo tesoro le une e le altre, senza appellarsi ad altri criteri che non siano quelli evangelici ed ecclesiali. Non tutto ciò che è nuovo è vero, come d'altronde neppure lo è tutto ciò che è antico. La verità attraversa l'antico e il nuovo ed è ad essa che dobbiamo tendere senza precomprensioni. La Chiesa vive secondo quella legge della continuità in virtù della quale conosce uno sviluppo radicato nella tradizione. Ciò che più importa è che tutto concorra perché la celebrazione liturgica sia davvero la celebrazione del mistero sacro, del Signore crocifisso e risorto che si fa presente nella sua Chiesa riattualizzando il mistero della salvezza e chiamandoci, nella logica di un'autentica e attiva partecipazione, a condividere fino alle estreme conseguenze la sua stessa vita, che è vita di dono di amore al Padre e ai fratelli, vita di santità».

* * *
È fuori dubbio che le posizioni espresse dall'attuale maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie riflettano fedelmente il pensiero di Benedetto XVI. Per rendersene conto basta riaprire, ad esempio, un libro pubblicato da Joseph Ratzinger nel 2001: "Introduzione allo spirito della liturgia".

In quel libro Ratzinger scriveva che la soluzione a tante attuali "assurdità" liturgiche non è di cambiare nuovamente tutto, perché "niente è più dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra".

Ma a proposito dell'orientamento della liturgia e della croce al centro dell'altare mostrava di avere idee chiarissime:

«In antico la direzione verso oriente si trovava in stretto rapporto con il "segno del Figlio dell'uomo", con la croce, che annuncia il ritorno del Signore. L'oriente fu quindi posto molto presto in relazione con il segno della croce. Dove non è possibile rivolgersi tutti assieme verso oriente in maniera evidente, la croce può servire come l'oriente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi al centro dell'altare ed essere il punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote quanto la comunità orante. In tal modo seguiamo l'antica esortazione pronunciata all'inizio dell'Eucaristia: "Conversi ad Dominum", rivolgetevi al Signore. Guardiamo insieme a Colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio, a Colui che sta presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a Colui che fa di noi un nuovo tempio vivente. Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato dell'altare per lasciare libero lo sguardo dei fedeli sul sacerdote. Ma la croce, durante l'Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile, e questo può avvenire senza nuovi interventi architettonici. Il Signore è il punto di riferimento. È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue e acqua – l'Eucaristia e il Battesimo –, come pure di una croce trionfale, che esprime l'idea del ritorno di Gesù e attira l'attenzione su di esso. Perché è Lui, comunque, l'unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno».

Da allora Ratzinger non ha modificato di uno iota questi suoi giudizi. Nè li tace.

Lo scorso 22 marzo, infatti, nella messa della veglia di Pasqua nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI ha concluso la sua omelia riproponendo proprio l'esortazione "Conversi ad Dominum". Così:

«Nella Chiesa antica c’era la consuetudine, che il vescovo o il sacerdote dopo l’omelia esortasse i credenti esclamando: "Conversi ad Dominum", volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava innanzitutto che essi si volgevano verso oriente, nella direzione del sorgere del sole come segno del Cristo che torna, al quale andiamo incontro nella celebrazione dell’Eucaristia. Dove, per qualche ragione, ciò non era possibile, essi in ogni caso si volgevano verso l’immagine di Cristo nell’abside o verso la Croce, per orientarsi interiormente verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della "conversio", del volgersi della nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce vera. Era collegata con ciò poi l’altra esclamazione che ancora oggi, prima del Canone, viene rivolta alla comunità credente: "Sursum corda" – in alto i cuori, fuori da tutti gli intrecci delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angosce, della nostra distrazione – in alto i vostri cuori, il vostro intimo! In ambedue le esclamazioni veniamo in qualche modo esortati ad un rinnovamento del nostro Battesimo: "Conversi ad Dominum", sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci muoviamo così spesso con il nostro pensare ed agire. Sempre di nuovo dobbiamo volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo dobbiamo diventare dei "convertiti", rivolti con tutta la vita verso il Signore. E sempre di nuovo dobbiamo lasciare che il nostro cuore sia sottratto alla forza di gravità, che lo tira giù, e sollevarlo interiormente in alto: nella verità e l’amore. In questa ora ringraziamo il Signore, perché in virtù della forza della sua parola e dei santi sacramenti Egli ci orienta nella direzione giusta e attrae verso l’alto il nostro cuore».

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Il testo integrale dell'intervista di monsignor Guido Marini a "L'Osservatore Romano" del 26 giugno 2008:

> Il pallio papale tra continuità e sviluppo

Sullo stesso numero de "L'Osservatore", l'articolo di Michael Lang sulla storia del pallio pontificio:

> Quella lana bianca di cui è tessuto il pallio

E l'articolo di Juan Manuel de Prada sull'abbigliamento – non solo liturgico – di Benedetto XVI, in polemica con il blasone d'eleganza tributato al papa dalla rivista americana "Esquire":

> Le vesti liturgiche secondo Ratzinger

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Il servizio di www.chiesa con il motu proprio "Summorum Pontificum" e la lettera di spiegazione di Benedetto XVI:

> Benedetto XVI liberalizza il rito antico della messa. E spiega perché (7.7.2007)

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Un esempio di "creatività" liturgica contrastata da Benedetto XVI:

> In Olanda inventano un'altra messa. Col copyright dei domenicani (3.10.2007)

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Per altre notizie e commenti vedi il blog SETTIMO CIELO che Sandro Magister cura per i lettori italiani. Ultimi titoli:

L'identikit del cattolico progressista. Un lettore chiede, De Marco risponde

Ruini: peggio delle "pallottole di carta" è quando i vescovi lasciano il papa da solo

Vietnam. Ultime notizie d'oltre la cortina di bambù


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28.6.2008


Dono trinitario: incarnazione, mistero pasquale ed Eucaristia
QUEBEC, sabato, 28 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, al Symposium internazionale di Teologia sull'Eucaristia (Quebec, 11 giugno 2008) incentrato sul tema L’Eucharistie, un don eschatologique dans l’histoire.
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INTRODUZIONE
Rinnovamento eucaristico
1. Un’opportuna attenzione
La crescente attenzione riservata al mistero eucaristico nella vita della Chiesa e nella riflessione teologica degli ultimi decenni è ben documentata, tra l’altro, dai numerosi interventi del magistero ecclesiale sull’Eucaristia[1], dalla celebrazione, nell’ottobre 2005, della XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi culminata con la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis[2] e dall’abbondante letteratura, non solo strettamente teologica, riguardante il significato dell’Eucaristia e della celebrazione eucaristica[3].
La natura salvifica del memoriale eucaristico è sorgente di dialogo con le istanze dell’uomo e della società contemporanea e si rivela particolarmente importante per mostrare la capacità dell’evento di Gesù Cristo di sciogliere l’enigma umano. Nel sacramento dell’Eucaristia, infatti, avviene, nel presente della storia, l’incontro tra la libertà di Dio e quella dell’uomo. E a ben vedere l’autenticità dell’esperienza cristiana trova la sua verifica principale nella comprensione dell’Eucaristia[4].
La rilevanza eucaristica per la vita del mondo richiede però che non si concepisca il rito eucaristico in modo estrinseco rispetto alla quotidiana esistenza, come una sorta di elemento sacro in contrapposizione al profano. Abbiamo invece assistito a stagioni ecclesiali, anche recenti, in cui, pur non mancando l’assidua frequentazione sacramentale, si è stati largamente incapaci di mostrarne la piena portata esistenziale. Pertanto l’odierna urgenza di riscoprire il mistero eucaristico rappresenta una forte spinta a coglierne il nesso decisivo con la libertà dell’uomo sempre storicamente determinata nel suo rapporto con tutto il reale: «Il culto cristiano non è una parentesi all’interno di un’esistenza vissuta in un orizzonte profano. Non è neppure un puro atto sacrificale e riparatorio delle offese o delle prese di distanza dallo sguardo di Dio. Il nuovo culto cristiano diventa espressione di tutta l’esistenza rinnovata: “sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10, 31). Ogni atto di libertà del cristiano è chiamato così ad essere atto di culto. Da qui prende forma la natura intrinsecamente eucaristica della spiritualità cristiana»[5].
2. Evento prima che dottrina, grazia prima che impegno
La decisione di Gesù Cristo, il «mandato dal Padre a fare la sua volontà»[6], di istituire, prima di concludere la Sua missione, l’Eucaristia come gesto anticipatore e partecipativo[7] del mistero pasquale, esprime il carattere di evento e di azione di tutta la rivelazione cristiana. L’Eucaristia, infatti, è propriamente azione eucaristica perché è comunicazione della verità ad modum actionis. Azione in cui sono coinvolte le libertà dei soggetti che vi prendono parte[8]. Riflettere sul mistero eucaristico, scoprendovi il dono del Deus Trinitas all’uomo di ogni tempo, vuol dire ritrovare la verità cristiana sia nel suo carattere di evento, prima che di dottrina, sia in quello di dono gratuito, prima che di impegno ascetico ed etico[9]. Se il rischio del cristianesimo, soprattutto a partire dall’epoca moderna, è stato ed è quello del concettualismo astratto, dello spiritualismo disincarnato e del riduzionismo etico, la riscoperta integrale del mistero eucaristico ci restituisce la rivelazione come evento e come dono di grazia che precede, senza escluderli, la nostra comprensione concettuale ed il nostro impegno[10].
Non si tratta di opporre tra loro evento e dottrina, e nemmeno grazia ed impegno, ma di rispettare l’ordine fondante l’esperienza cristiana che il sacramento dell’Eucaristia, sempre e di nuovo, assicura alla Chiesa stessa[11]. L’Eucaristia è pertanto il sacramento dell’evento Gesù Cristo, la Verità-in-Persona, come diceva De Lubac[12]. Infatti, la peculiare natura rituale dell’Eucaristia corregge alla radice ogni deriva intellettualistica e moralistica nella recezione della verità-dono di Dio. Nella liturgia noi cogliamo la parola nel gesto; l’esperienza cristiana investe tutto l’uomo, con la conseguenza che deve essere mediata da tutti i linguaggi, verbali e non verbali. Il mistero eucaristico, fin nella sua istituzione, si presenta a noi come il dono che Gesù fa di Se stesso nel Suo Corpo e nel Suo Sangue: non si tratta dunque della consegna di una idea, ma dell’offerta totale di Sé nella concretezza dei segni sacramentali del pane e del vino.
3. Evento-originario ed evento-mediazione
La forma (Gestalt) che caratterizza l’esistenza di Cristo ha il suo centro nel mistero pasquale, mistero di morte e di risurrezione. Essa trapassa, per così dire, nella forma eucaristica del pane spezzato e del sangue versato. In essa Gesù dà realmente il Suo Corpo e il Suo Sangue per noi. In tal modo l’evento originario della verità-dono di Cristo accade per noi nella forma dell’evento-mediazione costituito dal sacramento. Già Balthasar, nella sua riflessione sull’estetica teologica, aveva mostrato come l’Eucaristia faccia essenzialmente parte della forma della rivelazione cristologica. Costituisce una automediazione di questa forma stessa[13].
È possibile approfondire questo dato riprendendo quanto affermato da Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis circa la distinzione tra istituzione e rito eucaristico. Tale distinzione, carica di implicazioni teologiche, ecclesiologiche ed antropologiche, fornisce la ragione ultima del rapporto tra evento-originario (Pasqua) ed evento-mediazione (Eucaristia). Ciò che la Chiesa celebra nel rito non è la “copia” della istituzione[14] compiuta da Cristo, ma è la «novità radicale del culto cristiano» (SacrC. 11). «Dall’“unica volta” può venire il “per sempre”»[15] perché nell’istituzione eucaristica Cristo stesso implica originariamente la realtà della Chiesa, quale Sua sposa che accoglie incondizionatamente il dono che Egli fa di Se stesso. L’Eucaristia attira nell’atto oblativo di Gesù i suoi discepoli. Essa è quindi originariamente offerta alla libertà credente.
Nella liturgia eucaristica, le cui forme la Chiesa ha sviluppato nel tempo sotto la guida dello Spirito Santo, l’evento mediazione diventa la modalità costante con cui la comunità ecclesiale stessa può attingere l’evento originario. E questo senza mai poter arrivare a “disporre” dell’evento originario che, proprio in forza del rito, mantiene tutto il suo carattere trascendente e indeducibile. Lo si può comprendere a partire dall’incommensurabile differenza tra il dono trinitario che oggettivamente Cristo realizza con l’offerta di Se stesso e la fede nelle sacre specie posta in atto dalla libertà credente. Adoro Te devote latens Deitas.
Rivelazione e fede, evento originario ed evento mediazione, essendo iscritti nella storia, mostrano contemporaneamente quanto la libertà concreta dell’uomo sia implicata dall’evento fondante e quanto il fondamento rimanga sempre trascendente rispetto ad ogni mediazione[16].
4. La più decisiva di tutte le azioni umane
Con ciò possiamo affermare il carattere paradigmatico che l’azione eucaristica possiede anche dal punto di vista antropologico.
Infatti, che Cristo abbia implicato il soggetto ecclesiale ed in esso ogni libertà credente proprio nella istituzione dell’Eucaristia, illumina in profondità la dinamica stessa di ogni umana azione. A questo proposito, nella Relatio Ante Disceptationem all’inizio della XI Assemblea del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia, ho avuto modo di affermare che: «Inserita temporalmente e spazialmente nella trama dell’esistenza quotidiana, ma nello stesso tempo proveniente “dall’alto” in quanto sacramento, cioè segno e strumento efficace della grazia divina, l’azione rituale eucaristica diventa paradigma dell’intera esistenza dell’uomo». E aggiungevo che: «Per la sua natura di sorgente della logikē latreía l’azione rituale eucaristica viene ad essere oggettivamente anche la più essenziale e decisiva di tutte le azioni umane»[17].
Le considerazioni svolte fin qui ci consentono di delineare i due elementi decisivi che occorre ora indagare per approfondire un poco il nesso del dono eucaristico con l’incarnazione e col Mistero pasquale ai fini di mostrarne la valenza escatologica all’opera nella storia.
Mi riferisco anzitutto al rapporto Eucaristia/Trinità. Infatti il carattere singolare dell’evento che il rito eucaristico ripresenta sacramentalmente rinvia al Deus Trinitas.
Il secondo tema da approfondire è quello della forma eucaristica dell’esistenza cristiana. L’accoglienza del dono e l’affidamento che la libertà credente è chiamata a realizzare a partire dal rito eucaristico, conferisce all’esistenza cristiana una forma eucaristica. In essa è lo stesso mistero trinitario a rispecchiarsi fino alla trasparenza testimoniale propria della santità.
Nel mistero eucaristico siamo chiamati a contemplare il dono trinitario che, nella transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo, pone il principio di una trasfigurazione dell’uomo e di tutto il reale. Veramente l’Eucaristia si rivela dono di Dio per la vita del mondo.
PRIMA PARTE
Azione trinitaria ed azione eucaristica
Non è superfluo notare come, in teologia, la comprensione della verità come evento sia andata storicamente di pari passo con un maggior approfondimento del mistero trinitario[18]. Infatti la riduzione tendenzialmente concettualistica della riflessione teologica sulla rivelazione ha rischiato in passato di riservare al Trattato sul mistero della Trinità uno spazio minimo ed estrinseco rispetto all’insieme della riflessione sui misteri cristiani. Al contrario, la concezione della verità come evento comporta una considerazione del mistero trinitario che lo rende orizzonte esplicito ed imprescindibile per la riflessione su tutti gli altri misteri del cristianesimo.
In questa prospettiva, per cogliere in profondità il mistero eucaristico, siamo condotti a mostrarne innanzitutto l’originaria dimensione trinitaria. Ultimamente non sarebbe possibile la relazione tra l’evento originario della morte-resurrezione di Cristo e l’evento-mediazione che si realizza nel rito sacramentale se si escludesse la considerazione della “singolarità” di Gesù Cristo, il protagonista che pone in atto questo dono. Ora, proprio una necessaria ed equilibrata fenomenologia dell’evento cristologico ci permette di cogliere la singolare umanità di Colui che era Figlio di Dio. Nello stesso evento di Gesù Cristo si offre così il fondamento trinitario. Nella Pasqua in particolare è all’opera la libertà di Cristo, totalmente affidata, per opera dello Spirito Santo, al Padre e alla Sua volontà salvifica.
1. Eucaristia come azione trinitaria
Il mistero eucaristico si rende intelligibile alla fede cristiana unicamente nella sua forma trinitaria: l’azione eucaristica è azione che vede come protagonista la Trinità. «In Essa il Deus Trinitas, che in Se stesso è amore (cfr. 1Gv 4,7-8), si abbassa nel Corpo donato e nel Sangue versato da Gesù Cristo, fino a farsi cibo e bevanda che alimentano la vita dell’uomo (cfr. Lc 22, 14-20; 1Cor 11, 23-26)»[19].
La stessa forma liturgica possiede in sé una struttura trinitaria. L’analisi del rito eucaristico mostra come al centro vi sia sempre il mistero di Cristo che si dona alla Sua Chiesa. Tuttavia, a nessuno sfugge il fatto che la liturgia eucaristica, in tutte le sue varianti, sia essenzialmente rivolta al mistero del Padre, Fons totius divinitatis e perciò di ogni dono perfetto.
A questo proposito basti una semplice osservazione basata sulla struttura dell’anno liturgico. Il ritmo è dettato dai misteri costitutivi dell’evento di Cristo: dal tempo dell’Avvento fino al Natale, dal Mercoledì delle Ceneri a Pentecoste, con al centro il Triduo Pasquale e con la sua sintesi esplicativa nel Tempo per annum, ricapitolato nella solennità di Cristo Re dell’universo. Intorno a questo nucleo si dispongono le festività espressive della comunione dei santi. Non sono un fatto periferico, ma radicato originariamente nell’evento di Cristo stesso. Al cuore di queste emergono le feste mariane, che mostrano la Madre di Dio come nucleo incandescente della Chiesa immacolata[20].
Il fatto poi che il canone romano incastoni nella struttura trinitaria del suo procedere le figure dei santi e dei martiri rivela che nel mistero eucaristico è ben presente, fin dai primi secoli, la coscienza ecclesiale dell’originaria reciprocità (ovviamente asimmetrica) tra Cristo e la Chiesa.
Tuttavia l’elemento determinante la forma liturgica è certamente il fatto di essere sempre rivolta verso la persona del Padre. Di ciò è particolare ed intensa espressione la dossologia che chiude il canone: «Per Cristo, con Cristo ed in Cristo a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli».
È sempre la liturgia eucaristica a mostrarci l’essenziale azione dello Spirito Santo (l’epiclesi). In essa sola è possibile la celebrazione del memoriale di Cristo e la transustanziazione del pane e del vino[21].
Di conseguenza, è la stessa fenomenologia del rito eucaristico a manifestare inequivocabilmente la dimensione trinitaria del dono. La Chiesa celebra questo “mistero della fede”, riconoscendo in esso il dono della Trinità e rivolgendosi alla Trinità[22].
Ci è data in tal modo una verifica assai preziosa della relazione tra evento-originario ed evento-mediazione: nella celebrazione eucaristica è l’azione stessa della Santissima Trinità a mediare sacramentalmente il carattere originariamente trinitario dello stesso evento cristologico.
2. Orizzonte trinitario della “forma” di Gesù Cristo
«Se si elimina la dimensione trinitaria dalla forma oggettiva della rivelazione, tutto diviene […] incomprensibile»[23]. Con questa espressione Balthasar vuol dire che la singolare forma di Cristo è intelligibile alla fede unicamente in senso trinitario. Con la parola “forma” si intende fare riferimento alla configurazione concretissima con la quale l’esistenza di Cristo si presenta nella storia. Essa non è semplicemente la somma delle parole pronunciate da Gesù e degli episodi che caratterizzano la Sua vita ma è la “figura” (forma, Gestalt) unificata e complessiva della Sua persona e della Sua storia, culminante nel dono eucaristico. È nella forma cristologica che la Parola di Dio “si abbrevia” per potersi esprimere nella condizione umana[24]. L’Eucaristia appare come la modalità sacramentale con cui il Verbo di Dio si “dice” in modo abbreviato: «Nell’esperienza cristiana – come ci insegna il tempo liturgico col suo valore simbolico, cioè di kairos inaugurato nell’Eucaristia – il frammento non lacera il tutto, ma lo veicola. “Il Figlio di Dio entrato nella forma brevissima del corpo umano” manifesta tuttavia in esso “l’immensa ed invisibile grandezza del Padre”. Il tutto nel frammento, cioè il frammento come sacramento del tutto»[25].
È possibile lumeggiare un poco di più questa struttura trinitaria del darsi del Verbo di Dio dentro il tempo, a cui la forma liturgica inevitabilmente rinvia? Per rispondere conviene considerare un’altra volta la peculiare caratteristica della forma di Gesù Cristo. La persona singolare di Gesù Cristo è tenuta armonicamente in unità dalla sua missione che rivela il rapporto con il Padre del Verbo incarnato. Una equilibrata cristologia della missione[26] è in grado di documentare come la coscienza che Gesù mostra di sé sia totalmente determinata dall’essere inviato dal Padre (l’apostolos, cfr. Eb 3, 1). In tal modo Egli si presenta come mandato dal Padre in dono al mondo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17). Così Cristo rivela il volto del Padre.
Nondimeno, fin dall’incarnazione, Gesù appare determinato dalla relazione con lo Spirito Santo[27]. Il dono di Cristo è pertanto intimamente segnato dall’azione dello Spirito Santo. Nato da Maria di Nazareth per opera dello Spirito Santo, Cristo vive in statu exinanitionis, docile alla volontà del Padre e condotto dallo Spirito Santo, che scende su di Lui e su di Lui rimane[28].
In questo contesto possiamo vedere come la forma trinitaria del dono di Dio trapassi nella istituzione dell’Eucaristia. Ciò accade allo scoccare dell’ora di Gesù. Qui il carattere di “mandato dal Padre”, che caratterizza l’esistenza di Cristo, si manifesta nella Sua radicale e libera obbedienza fino alla morte di Croce. Nel sacrificio eucaristico vissuto come estrema obbedienza al Padre, Cristo fa dono di Se stesso a noi “fino alla fine”. In questo atto di spogliazione assoluta avviene la realizzazione della perfetta corrispondenza tra Gesù e il Mistero trinitario e dunque la perfetta logiké latreia, il culto perfetto a Dio e la consegna di questo dono alla Chiesa stessa. In estrema sintesi si deve dire che «l’Eucaristia, sacramento della Pasqua del Verbo incarnato, è il dono del Padre in quanto è il Padre che, in comunione perfetta con il Verbo e lo Spirito, consegna il Figlio incarnato al sacrificio della croce: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2Cor 5,21). Da questo punto di vista il mistero pasquale di Gesù Cristo è opera della benevolenza misericordiosa e gratuita della Trinità. Tale benevolenza del Padre, tuttavia, non si attua da sola, ma incontra la cooperazione del mistero dell’obbedienza del Figlio incarnato»[29].
Pertanto, la prima modalità con cui la Chiesa potrà corrispondere al dono di Cristo e partecipare alla Sua stessa obbedienza salvifica sarà l’accoglienza del Suo comando: «Fate questo in memoria di me». L’azione eucaristica nella comunità cristiana diviene così espressione sacramentale dell’obbedienza della Chiesa, ed in essa di ogni libertà credente, a Cristo stesso. Nel sacrificio di Cristo la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito, potrà ripresentare sacramentalmente lo stesso dono trinitario.
3. Il mistero pasquale come mistero salvifico
Fino ad ora abbiamo percorso un cammino circolare tra la forma trinitaria dell’Eucaristia e la forma trinitaria dell’evento di Cristo. Ciò ci ha consentito di cogliere anzitutto il rapporto intrinseco tra incarnazione ed Eucaristia. All’interno di questo orizzonte si impone ora la necessità di approfondire il dono fatto dal Deus Trinitas alla Chiesa attraverso il rapporto Eucaristia e salvezza (mistero pasquale). Sono le stesse espressioni neotestamentarie che identificano la forma trinitaria del dono eucaristico ad implicare questa dimensione soteriologica. Il riferimento è in particolare al pro nobis che sta al cuore di ogni riflessione teologica sull’azione di Cristo. Al pro vobis et pro multis con il quale Gesù esprime nell’Ultima Cena il significato dell’azione eucaristica, corrisponde la coscienza ecclesiale del pro nobis che giunge fino al personale pro me con cui san Paolo nella Lettera ai Galati descrive l’evento della salvezza: «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).
Dal pro vobis / nobis scaturisce una duplice dimensione del mistero pasquale. Da una parte nel mistero pasquale, anticipato nell’istituzione dell’Eucaristia, si compie il disegno del Padre su tutta la creazione. Esso consiste nella predestinazione obiettiva di Gesù Cristo morto e risorto e nella nostra co-predestinazione ad essere figli e figli in Lui[30]. È questo l’ “ordine” cristico del tutto voluto dal disegno del Padre. Dall’altra parte tale mistero si compie col dono di Sé ad opera di Cristo per il riscatto dell’uomo dal male e dalla morte[31]. La predestinazione (ordine, disegno trinitario) implica, nella historia salutis, la redenzione.
Il fatto stesso che l’Ultima Cena, pur presentandosi come un novum, sia inserita nel pasto rituale ebraico, memoriale della liberazione dalla schiavitù di Egitto e legato al sacrificio degli agnelli, ci pone obiettivamente in relazione al dato che il disegno di Dio si attua mediante il sacrificio di Cristo: egli è il vero agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (1Pt 1, 19-20)[32]. Del resto, la dimensione salvifica era già stata riconosciuta da Giovanni il Battista all’inizio della missione pubblica di Cristo sulle rive del fiume Giordano: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29).
Tuttavia, questo rilievo non può in alcun modo condurre a pensare che la historia salutis sia determinata dal peccato dell’uomo. La singolarità di Gesù Cristo impedisce di porre al centro dell’azione di Dio il peso del peccato dell’uomo. La storia della salvezza non è “necessaria” per il Dio Trinità. Occorre salvaguardare la assoluta libertà di Dio nei confronti della creazione e della redenzione del mondo. Il mistero trinitario è adeguatamente compreso solo se si mantiene contemporaneamente il Suo impegno nel mondo - dalla creazione libera fino alla incarnazione e al mistero pasquale escatologicamente inteso - e la sua trascendenza nei confronti di esso.
Contemplando il dono di Dio Trinità che si comunica a noi in particolare nel legame tra Incarnazione, Mistero Pasquale ed Eucaristia, si dovrà pertanto evitare ogni identificazione fra Trinità immanente e Trinità economica, che facesse del mondo una necessità per Dio stesso. Il rischio sarebbe quello di rendere immanente, attraverso una teologia del processo, il Fondamento stesso[33]. Il dono del Figlio nel mondo non è una necessità per Dio. Eppure non è indifferente per la Vita trinitaria, come se il Deus Trinitas potesse essere un mero spettatore rispetto a quello che accade sulla scena del “gran teatro del mondo”.
Il fondamento trinitario del dono di Cristo costringe piuttosto a pensare, con rinnovato stupore, come Dio stesso, offrendo all’uomo di partecipare liberamente alla Vita divina in Cristo, abbia da sempre incluso la possibilità di assumere la libertà umana nella sua concreta eventualità di rifiuto[34]. Solo in questa prospettiva, infatti, si può scorgere perché il dono divino, che libera l’umanità dalla condizione di peccato e di schiavitù, comunichi l’infinita vitalità della Vita trinitaria e ne sia la più intima rivelazione, mantenendo intatta la trascendenza e la libertà della Trinità stessa.
Infatti, da una parte la missione storica del Figlio di Dio si compie nel mistero pasquale, ossia in quella dedizione sacrificale in cui il male è definitivamente sconfitto, dall’altra tale missione non può che essere trinitariamente radicata nella eterna generazione del Figlio. Allora l’atto soteriologico supremo della missione redentrice del Figlio rivela l’intimo mistero della Vita divina come amore assoluto che liberamente si offre alla libertà dell’uomo. Balthasar nella sua Teodrammatica vede la dimensione trinitaria dell’Eucaristia proprio radicata nell’eterna generazione del Figlio. Questi, ricevendosi dall’eternità e per l’eternità dal Padre nel comune Spirito, risponde eucaristicamente a tale amore in un atto di totale disponibilità. In esso si fonda la possibilità della creazione di libertà finite e l’impegno di Dio in questa creazione fino al compimento del disegno del Padre nel mistero pasquale[35].
Appare rivelatore della dimensione trinitaria del dono di Cristo il rendimento di grazie che il Figlio compie nell’Ultima Cena. E non solo per l’antica liberazione ma soprattutto per ciò che Egli stesso è per il mondo: salvezza definitiva ed insuperabile: «Il Figlio ringrazia il Padre (eucharistêin, euloghêin) di aver permesso di disporre del Figlio in modo tale che ne risulta, nello stesso tempo, la rivelazione più alta dell'amore divino (la sua glorificazione) e la salvezza degli uomini»[36].
L’Eucaristia rivela in tal modo la precedenza assoluta dell’amore trinitario. Esso si può liberamente manifestare lungo la storia nella forma del sacrificio del Figlio (solidarietà) e, più ancora radicalmente, in quel supremo dono di Sé che Egli, innocente, compie prendendo il posto del peccatore con la morte di croce. In tal modo lo “scambio di posto” (sostituzione vicaria) manifesta tutta la densità soteriologia della divina liberalità: la «differenza che si manifesta nel mistero della croce tra il Padre ed il Figlio, che prende il nostro posto, nell’unità del loro Spirito Santo, manifesta la vitalità del mistero trinitario come fondamento del dono eucaristico»[37].
L’Eucaristia del Figlio si rivela pienamente nel Suo prendere su di Sé l’“antieucaristica” posizione dell’uomo peccatore. Costui, chiudendosi alla chiamata divina, ferisce mortalmente la propria umanità. Il dono radicale dell’evento pasquale restituisce all’uomo la possibilità di vivere la propria esistenza come dono. Il Figlio di Dio incarnato, realizzando nel modo più radicale il Suo essere dal Padre e verso il Padre, in forza del loro comune Spirito di Verità e di Amore, può smascherare l’essere da sé e verso di sé dell’uomo peccatore, riaprendo il percorso verso una umanità redenta, capace di risanare le ferite più profonde nell’uomo e tra gli uomini.
L’Eucaristia ci appare qui come supremo dono salvifico della Trinità che riapre all’uomo la via della guarigione dal peccato, della riscoperta della propria dignità filiale e della possibilità di una relazione autenticamente comunionale con le altre persone, anch’esse chiamate alla pienezza della figliolanza divina.
SECONDA PARTE
Dono trinitario e forma eucaristica dell’esistenza cristiana
Ciò che Cristo ha compiuto una volta per sempre nel mistero pasquale si offre in ogni celebrazione eucaristica alla nostra libertà, perché nel tempo e secondo la sapiente pedagogia di Dio, la nostra umanità afferrata obiettivamente dalla grazia di Dio possa risanare le proprie ferite ed essere condotta a gustare in pienezza la libertà dei figli di Dio. Si apre qui la dimensione escatologica dell’eucaristico dono trinitario. È l’ultimo passaggio della nostra riflessione.
1. La forma eucaristica dell’esistenza cristiana nel tempo
Il mistero dell’Eucaristia ci fa comprendere l’economia sacramentale della nostra salvezza. La nostra libertà è continuamente educata dal sacramento al riconoscimento del dono trinitario fattoci una volta per sempre in Cristo ed al quale siamo chiamati a conformarci, giorno per giorno, fino al raggiungimento del banchetto celeste. Questa logica sacramentale ha come scopo il dono della forma filiale della libertà del cristiano. Mediante il Battesimo, che ci rende parte del Suo corpo ecclesiale, la nostra esistenza appare obiettivamente afferrata e inserita nel mistero della morte e risurrezione di Cristo; il sacramento della Confermazione, con il dono dello Spirito, consente l’assunzione della forma adulta della fede. È però l’Eucaristia il gesto sacramentale che realizza in noi, progressivamente, l’assimilazione alla libertà filiale, perfettamente compiuta, di Cristo[38].
In questa graduale conformazione alla libertà obbediente di Cristo il sacramento eucaristico manifesta anche il Suo carattere medicinale e salvifico. Accompagna nel tempo la nostra libertà imperfetta e ferita col dono del Corpo e Sangue di Cristo. Così, nell’Eucaristia, il dono trinitario diviene contemporaneo alla nostra esistenza. Non è mai mero passato, né solo promessa futura. La potente efficacia del mistero eucaristico è garantita dal suo essere memoriale e dunque evento-mediazione dell’evento-originario e anticipazione (segno prolettico) dell’escatologico cristiano.
In tale prospettiva si comprende anche la rilevanza antropologica del nesso tra sacramento eucaristico e riconciliazione sacramentale[39]. La nostra libertà, in quanto libertà in cammino, resta segnata dalla propria fragilità colpevole. Tuttavia il dono trinitario dell’Eucaristia si offre all’incompiutezza della nostra libertà ferita. L’Eucaristia ci permette, pur segnati ancora dal peccato, di essere qui ed ora obiettivamente in rapporto con ciò che è definitivo (dimensione escatologica): il dono di Cristo morto e risorto, datore dello Spirito, Signore della storia. In tal senso se è vero che «chi commette peccato è schiavo del peccato», è ancor più vero che «se il figlio vi farà liberi sarete liberi davvero» (Gv 8, 34-36). Pertanto, posti obiettivamente in rapporto con Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto, pur nella tensione insuperabile del già e non ancora, si può con verità affermare insieme a Paolo: «Non sei più schiavo ma figlio» (Gal 4, 7), figlio nel Figlio.
Tale esperienza si rinnova ogni giorno nel sacramento eucaristico, nel quale la nostra libertà in cammino è chiamata ad immedesimarsi con quella compiuta di Cristo: «Nell’azione eucaristica, pertanto, la libertà di Dio incontra effettivamente la libertà dell’uomo. A partire da questo incontro di libertà il cristiano, segnato dal riconoscimento del dono di Dio e della comunione con Lui e con i fratelli, è sospinto a dare a tutta la sua vita una forma eucaristica. E questo perché nell’Eucaristia si esprime in modo eminente quella che Fides et ratio chiama la “ratio sacramentalis della rivelazione” (FR 13). Essa consente al fedele di scoprire che, attraverso tutte le circostanze e tutti i rapporti di cui è obiettivamente costituita l’esistenza umana, l’evento di Gesù Cristo chiama la sua libertà ad un progressivo coinvolgimento con la vita della Trinità»ۚ[40].
2. Forma eucaristica come forma comunionale
Non potrà certo sfuggire alla riflessione teologica e alla preoccupazione pastorale della Chiesa che il sacramento dell’Eucaristia si presenta come sacramento della comunione. In esso l’esistenza cristiana è collocata in adeguata relazione con Dio e con quanti sono stati afferrati e resi partecipi del medesimo mistero di grazia. L’Eucaristia esplicita in tal modo la capacità del dono del Deus Trinitas di fondare un nuovo genere di relazione tra le persone. Nella celebrazione eucaristica si mostra con tutta evidenza come l’accesso alla verità di Dio si dà solo nella comunione. Questo dato intercetta una problematica antropologica decisiva – quella della relazione tra persona e comunità – e la pone obiettivamente in rapporto con la vita dell’Unitrino[41]. L’Eucaristia, infatti, mostra che la nostra libertà è chiamata ad esprimersi nell’essere-con e nell’essere-per l’altro[42].
La polarità “persona / comunità” costituisce da sempre una polarità drammatica con la quale la libertà dell’uomo deve confrontarsi. Chiunque viva attento alla propria condizione umana sa quanto la drammaticità di tale polarità sia esposta alla alternativa tra l’autochiusura narcisistica e l’estraneazione alienante. La libertà incompiuta e ferita dell’uomo porta a vivere, a volte in modo tragico, tale alternativa. Del resto, la storia del Novecento, con i suoi totalitarismi collettivistici ed i suoi individualismi libertari, è lì a ricordarcelo.
In definitiva possiamo dire che nel rapporto con il tu indeducibile dell’altro, la relazione tra la libertà creaturale ed il reale deve fare i conti con una delle sue espressioni più drammatiche. L’evento di Cristo, nella forma della kenosi gloriosa (cfr. Fil 2, 5-11), non ha evitato questa drammaticità propria dell’esistenza di ogni uomo; al contrario Egli l’ha assunta fino in fondo all’interno della forma trinitaria della Sua vita. La tensione tra persona e comunità, ultimamente, non può trovare risposta se non nel mistero della comunione. Ebbene questa ha il suo archetipo nel principio trinitario della differenza nell’unità, per cui ogni divina Persona è perfettamente e compiutamente Se stessa nell’essere per l’Altra. Certamente all’umano non è data la possibilità radicale dell’estasi propria delle Persone divine. Tuttavia, l’uomo può partecipare a tale mistero mediante quella comunione che ha proprio nell’Eucaristia la sua radice profonda[43]. Nel segno eucaristico, infatti, si offre alla libertà umana la verità di Dio nella forma della comunione. Da ciò consegue l’impossibilità di accedere alla verità se non nella forma della appartenenza ecclesiale[44].
La celebrazione eucaristica diviene così paradigmatica della dimensione comunionale della vita cristiana: qui infatti ognuno è chiamato personalmente a partecipare al divino banchetto, trovandosi nel contempo parte di una assemblea che è “una sola cosa” in Cristo (cfr. 1Cor 11). È nella comunione eucaristica che si esprime sacramentalmente l’essere della Chiesa come «popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[45].
Pertanto, nell’Eucaristia il dono trinitario consente alla nostra libertà di aprirsi al rapporto con l’altro, senza perdersi e senza ridurre l’altro alla propria misura. La relazione con l’altro diventa in tal modo quasi sacramento del mistero trinitario che, nell’insuperabile dato della differenza, si offre a ciascuno di noi.
3. Dono trinitario e responsabilità sociale e cosmologica
È così posta la premessa per scoprire come il dono eucaristico abiliti la libertà credente a vivere in pienezza anche la responsabilità sociale, senza l’ombra di artificiosi dualismi e di estrinsecismi. Quando il cristiano si impegna con i diversi aspetti della vita associata che quotidianamente condivide con i suoi fratelli uomini, non avrà bisogno di mettere tra parentesi la propria fede e nemmeno di ridurla a “pretesto”, da lasciarsi alle spalle nel concreto dell’azione sociale. Come la dimensione antropologica, anche la dimensione sociale è implicata nel sacramento eucaristico grazie alla sua capacità di conformare l’esistenza del credente alla comunione ecclesiale dentro le circostanze del vivere comune. La libertà che ospita il dono di Cristo, fatto dalla Santissima Trinità e celebrato nella liturgia eucaristica, saprà riconoscere che in ogni circostanza anche di tipo sociale, anche la più complessa, contraddittoria o avversa, si offre il fondamento (Trinità) che chiama alla testimonianza di una vita redenta ed eucaristicamente formata[46]. La parola testimonianza lascia ovviamente aperto tutto il rischio della libertà. Le circostanze infatti sono sempre storicamente determinate e perciò ultimamente indeducibili.
In sintesi, nelle implicazioni sociali del sacramento dell’Eucaristia possiamo trovare un’ultima verifica dell’orizzonte sacramentale dell’economia della salvezza e della intera rivelazione cristiana: senza l’impegno della propria libertà con il gesto sacramentale non si può cogliere il valore sacramentale (in senso analogico) delle circostanze esistenziali date. D’altra parte, senza l’impegno reale della libertà esigito dalle circostanze, sarà impossibile cogliere la densità esistenziale del mistero eucaristico stesso.
Analoghe riflessioni possono essere fatte in merito alle implicazioni cosmologiche del mistero eucaristico. Afferma in proposito Benedetto XVI: «Le giuste preoccupazioni per le condizioni ecologiche in cui versa il creato in tante parti del mondo trovano conforto nella prospettiva della speranza cristiana, che ci impegna ad operare responsabilmente per la salvaguardia del creato. Nel rapporto tra l’Eucaristia e il cosmo, infatti, scopriamo l’unità del disegno di Dio e siamo portati a cogliere la profonda relazione tra la creazione e la “nuova creazione”, inaugurata nella risurrezione di Cristo, nuovo Adamo»[47].
CONCLUSIONE
Dono eucaristico e vita come vocazione
Possiamo ora concludere la nostra riflessione. Come abbiamo più volte ricordato, nel sacramento eucaristico è il Deus Trinitas che si offre a noi nella forma della mediazione simbolica affinché ad esso la nostra libertà si possa affidare nella fede. Ciò che si dona sacramentalmente in questo mistero è pertanto il fondamento ultimo di tutto il reale. Qui la nostra libertà trova mediato simbolicamente l’evento originario in cui la verità di Dio si dà in quella differenza che permette, da una parte, il gioco della libertà dell’uomo e, dall’altra, la permanente trascendenza del fondamento stesso. L’uomo è così posto di fronte al mistero che rende la sua stessa vita, istante dopo istante, culto spirituale, santo e gradito a Dio, come afferma San Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 12, 1-2)[48].
Nessun istante della vita è estraneo al dono che la Trinità fa di Se stessa nel Corpo e Sangue di Cristo. La forma trinitaria della divina Eucaristia, che a sua volta media la forma trinitaria del mistero pasquale e dell’intera esistenza di Cristo, Verbo di Dio incarnato, rivela così che la stessa realtà creata, la storia ed il cosmo non sono ultimamente compresi nella loro verità fino a quanto non si coglie in essi l’effigie trinitaria. La creazione stessa, contemplata a partire da uno sguardo eucaristicamente determinato, si rivela essere creazione in Cristo (cfr. Col 1, 14) e dunque comunicazione ad extra della Santissima Trinità[49].
Da questo quadro sintetico emerge con chiarezza un dato imponente sul quale sia la pastorale che la teologia potrebbero riflettere con profitto. La vita è in se stessa vocazione: «Ogni circostanza (e ogni rapporto), infatti, provoca la libertà del fedele a rispondere alla libertà della Trinità che viene al suo incontro. In tal modo il tema della vocazione coincidendo con la vita e non potendo essere ridotto alla questione della scelta dello stato di vita, recupera il suo peso oggettivo»[50]. Parlare di vita come vocazione non significa sovraccaricare artificiosamente la realtà nella sua fatticità, ma assumere nel quotidiano quanto ci è donato nella rivelazione trinitaria, compiuta da Cristo e celebrata quotidianamente nel Sacramento dell’altare.
Solo a partire da questa riscoperta della vita come vocazione è possibile cogliere il pieno significato dei singoli stati di vita che diventano modalità stabili con cui la libertà risponde alla chiamata di Dio[51]. Matrimonio e verginità, come anche il ministero sacerdotale, ricevono nell’Eucaristia fondamento ed alimento permanente.
I coniugi troveranno nell’Eucaristia il sacramento nuziale dell’amore tra Cristo e la Chiesa, in cui custodire il senso della propria vicendevole fedele dedizione, nella insuperabile differenza sessuale e nella fecondità.
Il sacerdote ordinato incontra nell’Eucaristia la sua peculiare forma di vita. Egli offre completamente se stesso ad imitazione di Cristo, sacerdote, vittima ed altare, affinché al popolo santo di Dio non manchi mai il sacramento memoriale della propria redenzione.
Infine, dal dono eucaristico emerge il volto nuziale della chiamata alla verginità. In essa è dato quel «possesso nel distacco»[52] che rende partecipi fin d’ora della modalità con cui Cristo stesso si manifesta quale Signore di tutte le cose e centro del cosmo e della storia. Facendo eco alla nota espressione di Gregorio di Nazianzo, per la quale «Prima Virgo, Sancta Trinitas»[53], l’Eucaristia trova nella dedizione verginale la forma più acuta, dopo il martirio, di testimonianza cristiana. Manifesta la vittoria sul male e sulla morte, realizzata da Cristo nel Suo sacrificio d’amore.
Il dono trinitario comunicatoci in Cristo, Verbo di Dio incarnato, vero agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, quotidianamente contemporaneo a noi in forza del sacrificio eucaristico, ci rende nuove creature.
Siamo uomini nuovi, animati dallo Spirito Santo, chiamati in Cristo Gesù a riconoscere, in ogni circostanza e in ogni rapporto, Dio come Padre e ad abitare la terra con libertà di figli per il bene del mondo.
[1] Basti qui ricordare i documenti più importanti: Pio XII, Mediator Dei (20 novembre 1947); Paolo VI, Mysterium fidei (3 settembre 1965); Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24 febbraio 1980); Id., Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003); Id., Mane Nobiscum Domine (7 ottobre 2004); Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967); Id., Immensae caritatis (29 gennaio 1973); Id., Eucharistiae sacramentum (21 giugno 1973); Id., Inaestimabile donum (3 aprile 1980); Id., Liturgiam authenticam (28 marzo 2001); Id., Redemptionis sacramentum (25 marzo 2004).
[2] Benedetto XVI fa riferimento nel n. 5 dell’Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007) alla «multiforme ricchezza di riflessioni e proposte emerse nella recente Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dai Lineamenta fino alle Propositiones, passando attraverso l'Instrumentum laboris, le Relationes ante et post disceptationem, gli interventi dei Padri sinodali, degli auditores e dei delegati fraterni». Sull’esortazione apostolica cfr.: J.-L. Bruguès, L’eucharistie et l’urgence du mystère, in Nouvelle Revue Théologique 130 (2008) 3-25; E. Malnati, Sacramentum caritatis: actuosa participatio, in Rivista Teologica di Lugano 12 (2007) 531-539; R. Tremblay, Attualità dell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI, in Rivista di Teologia Morale 39 (2007) 547-554; M. Scheuer, Eucharistie und Nächstenliebe: zur Bischofssynode über die Eucharistie (2005) und das nachsynodale Schreiben von Benedikt XVI, in Heiliger Dienst 61 (2007) 70-84; A. Puig i Tàrrech – J. Fontbona i Missé - R. M. Serra – G. Mora, La exhortación apostólica Sacramentum caritatis de Benedicto XVI. Sesión de estudio de la Facultad de Teología de Catalunya, Barcelona 18 abril 2007, in Phase 47 (2007) 93-118; R. González, Sacramentum caritatis desde la perspectiva litúrgica, in ibid., 119-126; P. Turner, Benedict XVI ant the sequence of the sacraments of initiation, in Worship 82 (2008) 132-140; F. G. Brambilla, Sacramentum caritatis, in Teologia 32 (2007) 115-122; G. Marchesi, L’Eucaristia «sacramento della carità», in La Civiltà Cattolica 158 (2007) n. 3764, 169-178; N. Blázquez, El sacramento del amor, in Studium 47 (2007) 171-202;
[3] Per una introduzione generale alle problematiche relative all’Eucaristia si veda P. Visentin, Eucaristia, in D. Sartore – A.M. Triacca (edd.), Nuovo Dizionario di Liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 19883, 482-508; E. Ruffini, Eucarestia, in S. De Fiores – T. Goffi (edd.), Nuovo dizionario di spiritualità, San Paolo, Cinisello Balsamo 19946, 601-622; M. Gesteira Garza, Eucaristia, in A. A. Rodriguez – J. M. Canals Casas, (edd.), Dizionario teologico della vita consacrata, edizione italiana a cura di T. Goffi – A. Palazzini, Ancora, Milano 1994, 69 5-721; N. Reali (ed.), Il mondo del sacramento. Teologia e filosofia a confronto, Paoline, Milano 2001; A. Catella, Eucaristia, in G. Barbaglio - G. Bof - S. Dianich (edd.), Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 621-643; M. Brouard (dir.), Eucharistia: encyclopédie de l'Eucharistie, Cerf, Paris 2002; R. A. Nicholas, The Eucharist as the center of theology: a comparative study, Lang, New York 2005; D. Borobio, Eucaristía, BAC, Madrid 2005; R. Sokolowski, Christian faith & human understanding : studies on the Eucharist, Trinity, and the human person, Catholic University of America Press, Washington 2006; M. Schneider, Das Sakrament der Eucharistie, Koinonia-Oriens, Köln 2007.
[4] Marion J. L., Dieu sans l’être, PUF, Paris 1991, 226-227; una conferma e contrario è data dall’affermazione dell’allora cardinal Ratzinger sullo smarrimento che a volte serpeggia nelle comunità cristiane, a causa di una perdita del senso eucaristico: «Nella crisi di fede che stiamo vivendo, il punto nodale risulta sempre più essere proprio la retta celebrazione e la retta comprensione dell’Eucaristia»: J. Ratzinger, Il Dio vicino. L’Eucaristia cuore della vita cristiana, Cinisello Balsamo 2003, 21.
[5] A. Scola, L’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, in Id., Stupore eucaristico. Conversazioni dal Sinodo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, 63-118, qui 75.
[6] «Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato» Gv 5, 36-38; «Io sono venuto nel nome del Padre mio» Gv 5, 43; «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno»(Gv 6, 38-40); «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. … Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l'ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia» Gv 7, 16-18.
[7] Significativamente così la preghiera di colletta della Messa In Coena Domini del Giovedì Santo ci invita a pregare: «O Dio che ci hai riuniti per la santa cena, nella quale il tuo unico figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa che la partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita».
[8] Cfr. G. Bonaccorso, La liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero, Padova, 2005.
[9] Si scorge qui un ambito di fruttuoso dialogo ecumenico. Infatti Jüngel, ad esempio, ricorda che «il culto è pertanto l’evento di una passività salvifica, di una passività in verità estremamente creativa, ma precisamente di una passività umana. Non si può però mettere in discussione che l’uomo nel culto si presenti come agente. Non a caso parliamo di azione cultuale. Fino a che punto possiamo però agire e tuttavia portare ad espressione il fatto che propriamente non noi, ma Dio è colui che agisce? Fino a che punto l’agire umano e la passività umana possono essere originariamente in unità?» E. Jüngel, Segni della Parola. Sulla teologia del sacramento, Cittadella Editrice, Assisi 2002, 206.
[10] In questo senso Benedetto XVI ha recentemente affermato che «il cristianesimo, in rapporto con il moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è innanzitutto dono: Dio si dona a noi - non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che egli ci dà» Omelia alla Messa in Coena Domini, 20 marzo 2008.
[11] In questa prospettiva possiamo vedere confermata l’affermazione perentoria di Benedetto XVI, di chiara impronta guardiniana, all’inizio della sua prima enciclica, Deus caritas est 1: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
[12] Cfr. H. de Lubac, La rivelazione divina e il senso dell’uomo. Opera omnia 14, Jaca Book, Milano 1985, 49.
[13] Cfr. H. U. von Balthasar, Gloria 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1994, 535-538.
[14] «La tecnica produce delle copie e, quindi, ri-produce l’originale; il rito, invece, non produce delle copie, non ri-produce l’originale, ma lo ripete, ossia lo conserva nella sua unicità redendolo ripetutamente presente nell’atto cultuale» Bonaccorso, op. cit., 199.
[15] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 160.
[16] La differenza che in tale spazio teologico è data consente di affermare, senza ombra di relativismo, la verità di Dio in Cristo e, nello stesso tempo, di valorizzare ogni esperienza che ricerca e cerca di esprimere il vero culto nel confronti del mistero di Dio. Il carattere di rito dell’Eucaristia custodisce così la verità cristiana, oggettivamente data, e il dialogo testimoniale nei confronti di esperienza religiose e religioni diverse. Il fatto che l’identità cristiana venga custodita e restituita continuamente alla Chiesa nel rito dell’Eucaristia, impedisce di opporre radicalmente rivelazione/fede a religione.
[17] Scola, L’Eucaristia, fonte, op. cit., 77.
[18] Cfr. G. Colombo, Per una storia del trattato teologico di Dio, in La Scuola Cattolica 96 (1968) 203-227.
[19] Scola, L’Eucaristia, fonte, op. cit., 66.
[20] Cfr. Id., Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologica, Biblioteca di Teologica Contemporanea 130, Queriniana, Brescia 2005, 53-70.
[21] Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 12-13.
[22] Siamo qui dinanzi ad uno dei principali frutti della riflessione della teologia sacramentaria dopo il Concilio Vaticano II. Chauvet afferma che «se ne possono segnalare almeno quattro: ritorno all’azione liturgica stessa (la celebrazione) come primo “luogo teologico” della riflessione sacramentaria; ri-centratura dell’inseme della liturgia sul mistero pasquale di Cristo (morte, risurrezione e parusia), di cui i sacramenti sono il memoriale (cf. in modo particolare l’anamnesi eucaristica); riequilibrio del principio cristologico, predominante nella liturgia e nella sacramentaria latinaa, con un principio pneumatologico che ha sempre avuto un ruolo di impulso in Oriente, e del resto nella tradizione calvinista (le invocazioni dello Spirito – epiclesi – per la santificazione dell’acqua battesimale, del pane e del vino eucaristico o per le ordinazioni dei vescovi, preti o diaconi sono significative a questo proposito); intelligenza dei sacramenti all’interno della sacramentalità globale della Chiesa» L. Chauvet, Sacramento, in J.-Y. Lacoste (dir.), Dizionario Critico di Teologia, edizione italiana a cura di P. Coda, Borla-Città Nuova, Roma 2005, 1171-1177, qui 1177. Sul rapporto tra la Chiesa ed i sacramenti è d’obbligo citare i contributi di Karl Rahner. Fra tutti: K. Rahner, Chiesa e sacramenti, Morcelliana, Brescia 1969.
[23] Balthasar, op. cit., 437.
[24] Cfr. Id., La parola si condensa, in Communio 35 (1977) 31-35.
[25] A. Scola, Eucaristia. Incontro di libertà, Cantaglli, Siena 2005, 41.
[26] In proposito resta paradigmatica la proposta di Hans Urs von Balthasar: H. U. von Balthasar, Teodramamtica 3, Jaca Book, Milano 1983.
[27] Cfr. M. Bordoni, La cristologia nell’orizzonte dello Spirito, Biblioteca di Teologica Contemporanea 82, Queriniana, Brescia 1995.
[28] È interessante notare come Sacramentum Caritatis 12, mettendo in relazione Cristo e l’Eucaristia, insista così fortemente sul legame tra Cristo e lo Spirito: «Il Paraclito, primo dono ai credenti, operante già nella creazione (cfr Gn 1,2), è pienamente presente in tutta l'esistenza del Verbo incarnato: Gesù Cristo, infatti, è concepito dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo (cfr Mt 1,18; Lc 1,35); all'inizio della sua missione pubblica, sulle rive del Giordano, lo vede scendere su di sé in forma di colomba (cfr Mt 3,16 e par); in questo stesso Spirito agisce, parla ed esulta (cfr Lc 10,21); ed è in Lui che egli può offrire se stesso (cfr Eb 9,14). Nei cosiddetti “discorsi di addio”, riportati da Giovanni, Gesù mette in chiara relazione il dono della sua vita nel mistero pasquale con il dono dello Spirito ai suoi (cfr Gv 16,7). Una volta risorto, portando nella sua carne i segni della passione, Egli può effondere lo Spirito (cfr Gv 20,22), rendendo i suoi partecipi della sua stessa missione (cfr Gv 20,21)».
[29] Scola, Eucaristia, op. cit., 16.
[30] Cfr. A. Scola – G. Marengo – J. Prades, La persona umana. Antropologia Teologica, Jaca Book, Milano 2000, 261-277.
[31] Cfr. ibid., 291-308.
[32] Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 9-11.
[33] Cfr. J. Prades Lopez, "De la Trinidad econòmica a la Trinidad inmanente". A propósito de un principio de renovación de la teología trinitaria, in Revista Española de Teología 58 (1998) 285-344.
[34] Cfr. G. Colombo, Tesi sul peccato originale, in Teologia 15 (1990) 264-276.
[35] Per Balthasar l'acquisizione della forma eucaristica è radicata intratrinitariamente nell'eucaristico mettersi a disposizione del Padre: «Il Figlio, nell'accoglimento e nella risposta dell'autodonazione paterna, si mantiene sempre pronto ad accogliere ogni pensabile forma di prodigalità quanto a se stesso, e una di queste forme estreme, nella premessa che debbano sorgere delle creature libere, sarà quella dell'eucarestia, la quale, a quel modo che noi la conosciamo, è nel modo più intimo connessa con il pro nobis della passione» H. U. von Balthasar, Teodrammatica 4, Jaca Book, Milano 1986, 307.
[36] Id., Teologia dei tre giorni: mysteriuim paschale, Biblioteca di Teologia Contemporanea 61, Queriniana, Brescia 1990, 92. Medesimo concetto ripreso in Id., Teodramamtica 4, op. cit., 372: «Il suo grazie va alla divina concessione a donarsi sostitutivamente per i peccatori e a poter così manifestare l'amore estremo del Padre».
[37] Id., Teodramamtica 5, Jaca Book, Milano 1986, 281.
[38] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 17: «Non bisogna mai dimenticare, infatti, che veniamo battezzati e cresimati in ordine all'Eucaristia. … Il sacramento del Battesimo, con il quale siamo resi conformi a Cristo, incorporati nella Chiesa e resi figli di Dio, costituisce la porta di accesso a tutti i Sacramenti. Con esso veniamo inseriti nell'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,13), popolo sacerdotale. Tuttavia è la partecipazione al Sacrificio eucaristico a perfezionare in noi quanto ci è donato nel Battesimo. Anche i doni dello Spirito sono dati per l'edificazione del Corpo di Cristo (1 Cor 12) e per la maggiore testimonianza evangelica nel mondo. Pertanto la santissima Eucaristia porta a pienezza l'iniziazione cristiana e si pone come centro e fine di tutta la vita sacramentale».
[39] Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 20-21.
[40] Scola, L’Eucaristia, fonte, op. cit., 71-72.
[41] Cfr. Id., Chi è la Chiesa?, op. cit., 103-107.
[42] Cfr. H. U. von Balthasar, Teodrammatica 2, Jaca Book, Milano 1982, 360-370; Scola – Marengo - Prades, op. cit., 65-66, 179-182.
[43] Sul fatto che la ecclesiologia di comunione sia essenzialmente una ecclesiologia eucaristica cf. J. Ratzinger, La comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004.
[44] Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 76.
[45] Cipriano, De Orat.. Dom. 23, citato in Lumen gentium 4.
[46] «L'unione con Cristo che si realizza nel Sacramento ci abilita anche ad una novità di rapporti sociali: “la ‘mistica’ del Sacramento ha un carattere sociale”. Infatti, “l'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi”», Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 89.
[47] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 92.
[48] A questo proposito ha affermato Benedetto XVI nella Sacramentum caritatis 71: «Il nuovo culto cristiano abbraccia ogni aspetto dell'esistenza, trasfigurandola: “Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31). In ogni atto della vita il cristiano è chiamato ad esprimere il vero culto a Dio. Da qui prende forma la natura intrinsecamente eucaristica della vita cristiana. In quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza quotidiana, l'Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno, la progressiva trasfigurazione dell'uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio (cfr Rm 8,29s). Non c'è nulla di autenticamente umano – pensieri ed affetti, parole ed opere – che non trovi nel sacramento dell'Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza. Qui emerge tutto il valore antropologico della novità radicale portata da Cristo con l'Eucaristia: il culto a Dio nell'esistenza umana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell'individuo. Il culto gradito a Dio diviene così un nuovo modo di vivere tutte le circostanze dell'esistenza in cui ogni particolare viene esaltato, in quanto vissuto dentro il rapporto con Cristo e come offerta a Dio».
[49] Cfr. Scola – Marengo - Prades, op. cit., 78-86.
[50] Scola, Eucaristia, op. cit., 33.
[51] Si vedano in proposito gli insegnamenti di Benedetto XVI nella Sacramentum caritatis su matrimonio e famiglia (27-29; 79), sacerdozio ministeriale (23-26; 80) e vita religiosa (81).
[52] Cfr. L. Giussani, Affezione e dimora, Rizzoli, Milano 2001, 250.
[53] Carmi, II, 2.


Fede e scienza in dialogo
CHIETI, sabato, 28 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la conferenza pronunciata il 22 maggio scorso all'Università di Chieti da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.
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1. Fede e scienza nell’enciclopedia dei saperi

Alla teologia - “regina scientiarum” nell’enciclopedia del sapere medioevale - la ragione moderna ha sostituito se stessa quale protagonista e vertice della conoscenza: proprio così, essa tende ad assorbire in sé la fede, a farne una “provincia dello spirito”, regolata dalle leggi del divenire che abbraccia tutte le cose. Lo spazio lasciato aperto alla scienza, intesa come esercizio della potenza della ragione, diviene così assoluto: espressione di questa ambizione totale è il positivismo scientifico nel suo versante ideologico.
La crisi delle pretese della razionalità moderna, la cosiddetta “dialettica dell’Illuminismo”, investe questo tipo di rapporto fra scienza e teologia: si avverte l’insufficienza di ogni “scientismo”, di quell’ideologia della scienza, cioè, che è stata smentita nelle sue presunzioni deterministiche assolute dalla stessa evoluzione delle teorie scientifiche, al tempo stesso in cui appare non meno ideologico e insostenibile un uso teologico strumentale della scienza. La crisi dei modelli di sapere prodotti dalla modernità smaschera i possibili impianti ideologici della conoscenza scientifica e di quella teologica.
Sapere della fede e scienza si scoprono così entrambe più povere: è forse però questa nuova povertà che consente anche un nuovo dialogo. Da una parte, la razionalità teologica non potrà che avere un compito blasfemo nei confronti di una razionalità scientifica che continuasse ad avanzare pretese di assolutezza: essa si porrà come correttivo antiidolatrico, denuncia del limite di ogni totalità chiusa, stimolo all’apertura sulla traccia dell’infinito.
Dall’altra, la razionalità scientifica avrà ragione di mostrarsi disinteressata e scettica, perfino canzonatoria nei confronti di una teologia concordistica ad ogni costo. Dove però la teologia saprà essere non meno, ma più “teologica”, e si presenterà dunque come pensiero della Krisis (K. Barth), dell’interruzione (J.B. Metz), anti-ideologico per eccellenza, e la razionalità scientifica saprà coniugare la conoscenza del mondo dei fenomeni all’onesta consapevolezza dei propri limiti, allora entrambe potranno assumere una singolare rilevanza nell’attuale contesto di “caduta degli dei”, che è la crisi delle ideologie, specie nel Nord del mondo.
Teologia e scienza, più modeste e consapevoli del loro servizio a tutto l’uomo in ogni uomo, possono allora incontrarsi sul piano della intenzionalità ultima e della responsabilità etica. Nel tramonto degli idoli, legati ai grandi miti dell’ideologia, esse si trovano a confrontarsi non come due mondi chiusi che si sfidano, ma come due forme del pensare e dell’agire umano, chiamate entrambe a misurarsi sull’altro per cui esistono.

2. Le responsabilità dell’ideologia della scienza

La razionalità scientifica è chiamata in causa dal problema - oggi più che mai attuale - della distinzione fra ciò che è tecnicamente possibile all’uomo e ciò che gli è eticamente consentito: il mito della neutralità della scienza, fondato sulla soppressione di questa basilare distinzione, si è rivelato clamorosamente distruttivo ed alienante proprio nei suoi risultati umani e sociali. La crisi ecologica, ad esempio, di cui si è così acutamente consapevoli ai nostri giorni, consiste precisamente nel turbamento indiscriminato indotto nei ritmi e negli equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono sottoposti a causa del comportamento umano, che la scienza ha dotato di potenzialità prima imprevedibili. Non sarebbe errato affermare che il nucleo della crisi ambientale stia nella differenza tra i “tempi storici” e i “tempi biologici”, nella sfasatura cioè fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia.
Il profilarsi della scissione fra etica e scienza coincide con quella che Martin Heidegger ha chiamato “l’epoca dell’immagine del mondo”: è il tempo in cui il trionfo moderno della soggettività si è consumato a prezzo della riduzione degli enti a mero oggetto: il conoscere diviene possesso del conosciuto e la ricerca esercizio della “volontà di potenza” della ragione assoluta; gli esseri umani si relazionano al mondo come al vasto campo del loro dominio, “maîtres et possesseurs de la nature” ( R. Descartes).
Il “sapere aude” illuministico si coniuga al “sapere è potere” (Bacone), che sta alla base del moderno sviluppo della scienza e della tecnica. Si profila a pieno campo il trionfo della ragione strumentale! La violenza che si esercita sul reale, per assimilarlo alla rappresentazione dell’ideale, è percepita come una forma di affermazione della verità, come uno stabilire l’“ordre de la raison” sull’irrazionale disordine del tempo storico. Imperialismo della soggettività, volontà di potenza e rapporto strumentale con la natura si corrispondono.
Anche la concezione del tempo è condizionata dalla svolta moderna verso il dominio del soggetto: la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, imprime ai processi storici di adeguamento del reale all’ideale un’incalzante accelerazione. Il mito del progresso non è che una delle forme in cui si esprime la volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave di lettura dei processi storici, anima ispiratrice dell’impegno di trasformazione del presente. Il divario fra “tempo storico” e “tempo biologico” è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica delle “grandi narrazioni” dell’ideologia del progresso, anche scientifico. Porre un limite alle pretese della scienza, negare il principio scientista per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche lecito, diventa urgenza richiesta dalla tutela della qualità della vita di tutti...

3. L’importanza del riconoscimento di un’eteronomia fondatrice

Le responsabilità della scienza e delle sue possibili pretese assolute rimandano dunque a una misura che sia fuori del chiuso orizzonte delle visioni ideologiche, a un criterio altro, capace di fondare un impegno morale, che aiuti a discernere fra ciò che è possibile e ciò che è lecito in vista del bene di tutti. La tradizione ebraico-cristiana coglie questo criterio nell’orizzonte biblico dell’alleanza con Dio: pur ricevendo una particolare dignità e responsabilità, l’uomo sta davanti a Dio nella solidarietà con tutto il creato. L’atteggiamento richiesto all’essere personale nei suoi rapporti con il mondo presenta nel più antico racconto biblico della creazione i tratti della sollecitudine, dell’affidamento e della cura: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
Certamente, in questa prospettiva la natura non ha nulla che possa farla divinizzare: essa è creatura, come lo è l’uomo. Tuttavia, proprio in quanto oggetto dell’amore creatore del Dio dell’alleanza, essa riveste una dignità altissima, costantemente richiamata dall’espressione del compiacimento divino dinanzi all’opera dei sei giorni: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1). Il disincanto del mondo compiuto dalla rivelazione biblica si traduce allora non nel rapporto esclusivo uomo - natura, interpretato nella forma dello sfruttamento e del dominio, ma nella relazione articolata fra l’universo creaturale, la più alta delle creature e l’unico Signore del cielo e della terra.
Sul piano etico questa relazione impegna l’uomo a render conto al Dio vivente della maniera in cui si rapporterà al mondo, che l’Eterno ha affidato alle sue cure, e tanto più del modo in cui si relazionerà all’altro uomo, come lui immagine di Dio. Secondo la nota tesi di Karl Löwith non è la radice teologica, ma la sua perdita che trasforma il mito moderno del progresso in una permanente minaccia all’equilibrio dei rapporti fra l’uomo e il suo ambiente. Dove è perduto il senso della Trascendenza, ogni alterità è svuotata di consistenza e l’imperialismo del soggetto ha libero corso, anche nei rapporti con la natura.
L’Altro non riducibile al medesimo è dunque quanto la coscienza morale ispirata dalla fede biblica e confermata dalla crisi dei modelli ideologici propone all’uomo come misura del suo agire, altrimenti indiscriminato: in questo senso, veramente il Dio biblico è l’avvocato dell’uomo, non la sua minaccia o il suo concorrente. Alla luce di questo criterio fondamentale, la teologia ricorderà alla scienza che nessun intervento promosso dalla ragione scientifica sarà moralmente accettabile, se comporterà in qualunque forma o misura una violazione della sacralità della vita umana e della unicità e irripetibile dignità dell’essere personale (come nel caso di applicazioni di ingegneria genetica a scopo alterativo o distruttivo di esseri umani). Viceversa, lì dove la persona sarà rispettata o promossa (come nel caso delle applicazioni della genetica a livello diagnostico, terapeutico o produttivo, sempre che le tecniche adoperate non comportino danno all’integrità o alla vita stessa dell’essere umano), l’intervento di manipolazione scientifica risulterà moralmente fondato.
Dove c’è autonomia assoluta del protagonismo storico, lì ogni manipolazione e alienazione risulterà possibile. Dove invece è riconosciuta ed accolta un’eteronomia fondatrice, lì anche le forme più avanzate di ricerca scientifica rispetteranno il valore assoluto della persona umana e promuoveranno una cultura della vita e della sua qualità per tutti e per ciascuno. Affermare l’eteronomia fondatrice vuol dire per lo scienziato non ergersi a misura del tutto e di tutti, per entrare nella logica di un’etica della solidarietà e della responsabilità, che solo è capace di servire tutto l’uomo in ogni uomo.
In questo tempo postmoderno, descritto già come quello del “naufragio con spettatore” (H.Blumenberg), in cui ciascuno è al tempo stesso naufrago e responsabile dinanzi al naufragio, nel dialogo fra teologia e scienza non si gioca solo una battaglia dell’uomo con se stesso, ma una vera e propria lotta di Giacobbe, in cui la posta in gioco è la dignità stessa dell’essere umano e la qualità della vita per tutti. In questa lotta vince chi si lascia vincere dalla maestà dell’Altro, trascendente e sovrano: solo dove l’esistenza della persona è riconosciuta come dono da accogliere e rispettare, inviolabile nella sua sacralità, fondata eteronomamente, la ricerca scientifica conosce dei limiti e delle misure di ordine deontologico e sfugge ai rischi dell’alienazione.
La qualità etica della scienza non sta nelle sue possibilità e nelle sue pretese di assolutezza, ma nel suo essere consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità in campo etico e sociale, per inserirsi ordinatamente in un progetto di umanità solidale e di responsabilità morale nei confronti di ogni essere umano. È ricordando questo alla scienza che la teologia si fa sua “ancella”: è tacendo su questo, che si fa complice della caduta della razionalità scientifica nelle secche alienanti dello “scientismo”.
Non dunque una teologia ancella della scienza in senso servile, né una scienza ancella della teologia in chiave concordistica, ma teologia e scienza ancelle entrambe dell’altro, al servizio di tutto l’uomo in ogni uomo, aperte all’Ultimo, che tutto supera e trascende, nella fedeltà al penultimo, senza lasciarsi catturare da alcuno...


venerdì 27 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) "La Chiesa obbedisce a Gesù. Non possiamo cambiare nulla"
2) Bernanos Elogio dei miserabili - Sessant’anni fa, il 5 luglio 1948, moriva l’autore dei «Dialoghi delle Carmelitane». Qui pubblichiamo un testo poco noto, dedicato ai poveri, che avrebbe dovuto costituire il prologo di una Vita di Gesù
3) L'eterno ritorno del lodo: dal Foglio del 27 giugno 2003
4) Avvicinare gli oranghi all’uomo e annullare lo «specifico», di Marina Corradi
5) A lezione da Paolo Maestro del dialogo autentico perché non celava le differenze
6) «Così la famiglia è facilmente ricattabile» - Il cardinale Bagnasco: «Quando perde la serenità economica è anche esposta al pericolo della sua tenuta complessiva»


"La Chiesa obbedisce a Gesù. Non possiamo cambiare nulla"
di Andrea Tornielli
Momsignor Fisichella: "Tante persone si rivolgono a noi per chiedere che questa situazione evolva, non è in nostro potere. Ma nonostante tutto siamo comunque vicini a chi ha scelto altre strade"

«Non possiamo cambiare l’insegnamento di Gesù, ma siamo vicini ai divorziati risposati che soffrono per l’esclusione dall’eucaristia».
Monsignor Rino Fisichella, rettore della pontificia università Lateranense, teologo, da pochi giorni anche presidente della Pontificia Accademia per la vita, conosce bene il problema della comunione ai divorziati anche in rapporto alla politica, perché in questi anni, da vescovo, non ha mai smesso di fare pure il cappellano di Montecitorio.
Che cosa pensa della richiesta del premier Berlusconi di rivedere il divieto di ricevere l’eucaristia da parte dei divorziati risposati?
«Il presidente pone una domanda che ci pongono in tanti che si trovano nella sua stessa situazione. Tante persone si rivolgono a noi chiedendo le ragioni di questa esclusione e anche all’ultimo Sinodo sull’eucaristia, celebrato nell’ottobre 2005, si è parlato di questo argomento...».
Per concludere, però, con il divieto che permane...
«La Chiesa obbedisce ai comandi del Signore. Noi non possiamo cambiare ciò che Gesù ha detto e cioè che la famiglia è composta da un uomo e una donna uniti per amore in un vincolo matrimoniale che dura tutta la vita. Non è in nostro potere di cambiare questo mandato del Signore».
Converrà che si tratta di una decisione pesante per la vita di chi crede e ha alle spalle situazioni matrimoniali difficili.
«Ci sono cristiani che capiscono le ragioni di questa scelta e, pur con dolore, non si avvicinano all’eucaristia, accettandola. Ci sono altri cristiani che non la comprendono e che chiedono venga modificato l’atteggiamento della Chiesa».
E a questi ultimi che cosa risponde?
«A questi come a quelli rispondo innanzitutto che condivido la loro sofferenza. Dico che si devono sentire accolti dalla comunità cristiana e che la comunità cristiana deve impegnarsi maggiormente per accoglierli e far sentire questa accoglienza. Anche se non possono ricevere l’eucaristia, essi fanno parte della Chiesa, sono chiamati a vivere la celebrazione domenicale, sono chiamati a leggere la Sacra Scrittura per comprenderne l’insegnamento. Sono chiamati a partecipare alla vita ecclesiale».
Un’indicazione più concreta? Davvero non ci sono speranze?
«Le ripeto che la Chiesa obbedisce ai comandi del Signore, ci sono insegnamenti che non abbiamo il potere di modificare o di adattare. Mi permetto però di dare un suggerimento, che è quello della condivisione della carità».
Che cosa significa?
«È un episodio significativo tratto dalla vita del filosofo Blaise Pascal, che personalmente mi ha sempre commosso. Nell’ultima fase della sua esistenza, Pascal era molto ammalato e non poteva ricevere l’eucaristia. Chiese allora di poter condividere la sorte dei poveri e volle essere ricoverato in un ospedale dei diseredati, per essere vicino a loro e compartecipe delle loro sofferenze. Non glielo accordarono. Allora Pascal chiese e ottenne di avere un povero vicino al suo letto. Perché in quel povero egli vedeva Gesù Cristo e si sentiva in comunione con lui. Ecco, dobbiamo essere in grado di far comprendere ai divorziati risposati che la Chiesa è loro vicina, che il non potersi accostare all’eucaristia non deve significare un’esclusione dalla vita della comunità, che la condivisione della carità è un modo attraverso il quale possono sentirsi in comunione con i fratelli».
Lei esclude che in futuro possa esserci qualche cambiamento al riguardo?
«Non ci saranno cambiamenti perché, come ho spiegato, anche la Chiesa deve obbedire a un comando ricevuto. Anche il Papa e i vescovi devono obbedire».
il Giornale domenica 22 giugno 2008


IL TESTAMENTO DEL GRANDE SCRITTORE CATTOLICO
Bernanos Elogio dei miserabili - Sessant’anni fa, il 5 luglio 1948, moriva l’autore dei «Dialoghi delle Carmelitane». Qui pubblichiamo un testo poco noto, dedicato ai poveri, che avrebbe dovuto costituire il prologo di una Vita di Gesù
di Georges Bernanos

Vorrei scrivere questo libro per i più miserabili degli uomini. Vorrei anche scriverlo nel loro linguaggio, ma questo non mi è permesso. Non si può imitare né la miseria né il linguaggio della miseria. Bisognerebbe essere un miserabile per partecipare senza sacrilegio al sacramento della miseria.
Cristo è venuto in questo mondo, e vi è venuto per tutti, e non solamente per i miserabili. Intorno alla sua mangiatoia, si sono visti i Pastori e i Magi ma né i Pastori né i Magi erano dei miserabili. È possibile che il buon Ladrone lo fosse, ma non se siamo sicuri.
Contrariamente a quel che credono i moralisti, la vera miseria non sfocia nel crimine, essa non ha esito né nel male né nel bene, la vera miseria non ha esito. La vera miseria ha esito solo in Dio.
La miseria non ha via d’uscita che in Dio, ma essa non vuole via d’uscita. Essa si chiude su di sé. Essa è murata, come l’Inferno. Bisogna tuttavia che la cristianità vi discenda. Per tutto il tempo che noi tollereremo un inferno in questo mondo, saremo forzati ad attendere a casa nostra il regno di Dio.
L’inferno di questo mondo è l’inferno stesso. Ne è l’atrio e il serraglio. Satana è il dispensatore delle ricchezze, ma il tesoro di Mammona è vuoto. È nell’inaccessibile fondo della miseria che Satana si è trincerato, per la confusione e la costernazione dei ricchi stessi. L’oro non è che un simulacro, un’impostura, una trappola di colui che si dice l’idolo del mondo. Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. È possibile che la società moderna la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu precisamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili. Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo.
La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario, è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto. I poveri hanno il segreto della speranza...
Nei suoi romanzi l’eterna lotta fra bene e male
Ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario della morte del grande scrittore cattolico francese Georges Bernanos: morì infatti a Parigi il 5 luglio 1948. Bernanos era nato a Parigi nel 1888: la sua educazione profondamente religiosa lo fece avvicinare prima ai circoli cattolico­nazionalisti dell’Action Française, da cui si staccò nel 1932. Ha esordito con il romanzo Sotto il sole di Satana e Nuova storia di Mouchette. La fama gli venne con il Diario di un parroco di campagna, da cui fu tratto un noto film di Robert Bresson (foto a fianco): la storia di un giovane sacerdote, minato da un male incurabile, nominato parroco di Ambricourt; egli annota in un diario le vicende della lotta quotidiana contro l’indifferenza e l’ostilità dei suoi parrocchiani. Il parroco riuscirà a redimere molte di queste anime. Le sue ultime parole prima di spegnersi, benedetto da un vecchio compagno di seminario, lo spretato Dupréty, esprimono la gioia finalmente conquistata: 'Che importa? Tutto è grazia'. Nel 1934-37 fu in Spagna. Il libro che ne scaturì, I grandi cimiteri sotto la luna, è un’aspra requisitoria contro il franchismo. Allo scoppio della seconda guerra mondiale era in Brasile, dove svolse attività giornalistica a favore della Francia libera.
Tornato in Francia pubblicò Monsieur Ouine. Postume sono uscite varie opere, tra cui il dramma Dialoghi delle carmelitane e numerosi scritti di carattere etico e politico. I romanzi di Bernanos sono l’occasione di rappresentare violenti conflitti spirituali, in uno stile realistico e visionario che dà sorprendente grandezza ai personaggi più umili. Ha una visione drammatica delle coscienze individuali, spesso ritratte tra purezza e degradazione; tema di fondo è la ricerca della santità, che i suoi eroi raggiungono al termine di una lotta dove il male sembra fino all’ultimo avere la meglio sul bene. Il testo che qui pubblichiamo è tratto dal volume di Albert Béguin, il suo principale biografo e critico, Bernanos par lui- même, uscito nel 1961 e mai tradotto in Italia. Sono le uniche pagine esistenti della Vie de Jésus, che Bernanos iniziò in Brasile nel 1943 e che non portò mai a compimento.
Del testo si parla anche nel volume Quasi una vita di Gesù curato da Marco Ballarini per le edizioni San Paolo nel 1998. (R.A.)
Avvenire 22-6-2008


Nelle memorie di Vàclav Havel
L'origine morale della vera politica

di Claudio Toscani
"Mi fa piacere che questo mio curioso libretto giunga in mano al lettore italiano - scrive Vàclav Havel, ex presidente della Repubblica Ceca, introducendosi da sé - perché credo vi troverà qualcosa di interessante. Non ho voluto né potuto scrivere vere e proprie memorie, ma ho sentito che, dopo tutto ciò che ho vissuto, dovevo presentare al pubblico una specie di bilancio".
È la prima frase di Un uomo al Castello (Treviso, Santi Quaranta, 2008, pagine 336, euro 15) singolare collage di passi e passaggi di vita, documenti, pensieri, interviste, riflessioni sulla costituzione e sui tanti negoziati presieduti o impersonati, sui fatti politici di alcuni decenni di storia mondiale e, in definitiva, su tutto quanto si può immaginare debba essere fatto per costituire, dal nulla, una democrazia. E poco più avanti aggiunge: "Sono convinto che non riusciremo mai a costruire uno Stato democratico e di diritto, se non costruiremo del contempo uno Stato umano, morale, spirituale, culturale".
Nato a Praga nel 1936 in una famiglia di imprenditori medio borghesi, vissuta l'infanzia in discreto benessere, nel 1948, al colpo di stato comunista per cui la Cecoslovacchia entra nell'orbita sovietica, Havel resta, con la famiglia, espropriato di tutto e solo negli anni Sessanta - cioè alle prime rappresentazioni delle sue opere teatrali - la sua vita riprende un decente livello.
Tale situazione dura i due decenni successivi quando, pur essendo perseguitato come autore proibito e persino incarcerato per lunghi periodi, gode di entrate derivate da pubblicazione di suoi testi all'estero. Nel 1977, decidendo con altri attivisti di chiedere pubblicamente alle autorità il rispetto dei diritti umani e civili garantiti dagli Accordi di Helsinki, fonda il movimento "Charta 77" ("Comunità libera informale e aperta di uomini di diverse convinzioni, religioni, professioni, legati dalla volontà di operare insieme e individualmente per il rispetto dei diritti umani").
Fino al crollo del regime nel novembre 1989, Havel è uno dei leader del dissenso centroeuropeo, grazie alla sua capacità di analisi, di mediazione e all'intelligenza politica con cui coordina le tante iniziative sue e del gruppo. Ma la notorietà internazionale non gli risparmia lunghi periodi di carcere che ne minano tra l'altro la salute. Dopo la caduta del comunismo seguìta alle manifestazioni di piazza del novembre 1989 (la cosiddetta "Rivoluzione di Velluto"), il 29 dicembre dello stesso anno viene eletto presidente della Cecoslovacchia. Riconfermato dopo le prime elezioni libere, alla separazione del Paese tra le due repubbliche Ceca e Slovacca, Havel sarà per altre due volte presidente della prima.
Nella sua fitta bibliografia creativa, già nel 1986 appariva un Interrogatorio a distanza, un libro simile a quello che ci giunge oggi (in realtà risalente al 2006), questo attualissimo Un uomo al Castello che, s'è detto, è strutturato come compendio d'appunti di lavoro e di vita che non risparmiano giudizi schietti sui politici ai vertici del potere mondiale, da Bush a Clinton, da Gorbaciov a Putin, da Köhl a Blair, riservando una particolare ammirazione a Giovanni Paolo ii.
Seguono così risposte politiche riguardo alla situazione interna e internazionale, lacerti di vita, anni di carcere, esami di coscienza e programmi ideologici, depressioni, esaltazioni e reazioni. Sopra ogni proposito e ogni intento brilla comunque un credo: "Ritengo che l'ordine morale sia superiore all'ordine legislativo, politico ed economico e che questi ultimi dovrebbero procedere dal primo, senza cercare sotterfugi per scansare gli imperativi. Credo anche che l'ordine morale abbia il proprio radicamento metafisico nell'infinito e nell'eterno".
Con il linguaggio della letteratura e del teatro (toccando i generi del grottesco e dell'assurdo, ma anche dell'umorismo nero, per smascherare senza pietà gli slogan ideologici, i fattori disumanizzanti e i meccanismi sociali nocivi alla patria e all'umanità), Havel aveva trattato temi in apparenza astratti o metatemporali, ma in realtà di spinosa attualità. Protagonista e osservatore critico di ciò che stava avvenendo nell'Est europeo e nelle avvisaglie d'una "gran brutta fine", come lui stesso diceva, mostrava apertamente il timore che il completo disfacimento morale dei regimi comunisti inibisse per sempre il ritorno delle libertà politiche e della coscienza nel suo Paese ma anche nel mondo.
Una cosa gli sembrava, e gli sembra tuttora, certa: l'origine morale di ogni autentica politica, il significato dei valori e delle misure etiche in tutte le sfere della vita collettiva, quella economica inclusa. Per questo insiste nel chiarire che ciascuno di noi deve tentare di scoprire o riscoprire in sé, se non di coltivare intenzionalmente e pubblicamente, una "responsabilità superiore", pena un'inevitabile "grandiosa e quasi accecante esplosione dei peggiori comportamenti umani".
Cinque anni fa, allargandosi da quindici a venticinque membri, l'Unione Europea accoglieva in sé diversi Stati postcomunisti, in tal modo avvicinandosi a realizzare una delle tante speranze di quelle "rivoluzioni di velluto" che si erano diffuse in Europa centro-orientale e alle quali Havel stesso aveva collaborato. Ora, caduti nella "pattumiera della storia" (parole sue), sia muro di Berlino che cortina di ferro, altre vestigia dell'era sovietica restano saldamente al loro posto, come sospese nel tempo, tenendo genti e menti ancora a battersi in solitudine sociale e politica.
È per questo che Vàclav Havel non ha esitato ad accettare per più volte l'incarico di presidente, lui che tutta la vita si era trovato in continuo confronto con il potere vantando un'assoluta indipendenza. Ma in questi casi si era sentito "trascinato dall'essere", come dire "strumento dell'epoca", dentro un vortice di irresistibile irruenza che lo costringeva a fare ciò che era necessario. Dice di non aver avuto scelta, e c'è da crederci, se alla resa dei fatti la storia stava correndo avanti anche attraverso di lui, guidando le sue azioni. Rifiutare sarebbe stata una incomprensibile fuga, se non un chiaro tradimento. Aiutare il suo Paese nella transizione dal totalitarismo alla democrazia, dalla posizione di satellite all'indipendenza, dall'economia centralizzata all'economia di mercato, non era pensabile se non per linee desideranti e di troppo alta aspirazione. Eppure successe.
Intervenendo però, dopo i primi esaltanti anni e alcune positive sorprese della storia, tutt'altri tempi (pochi gli accordi comuni e prove coerenti di sempre minor conto), ecco giorni di duro lavoro quotidiano, nude contraddizioni e scoperte divergenze d'interessi (disincanto politico, contingenze sempre più ardue e concause mondiali).
Questo libro, il libro di un uomo nel "Castello" del massimo potere, che sente di dovere ai suoi concittadini una parola chiara su "dove" si trova e su "cosa" intende fare, come vede il suo Paese, il suo futuro e per quali cause intende battersi, è il frutto di una intenzione prima che politica, morale. O sarebbe meglio dire, nel suo preciso caso, politica e morale assieme.
Nel citato Meditazioni estive, Havel si chiedeva come costruire uno "Stato spirituale", non essendo possibile proclamarlo né per legge, né per ordine, né per costituzione. Nel libro d'oggi ci mette al corrente che non avendo persi quell'intento e quell'impegno, ci documenta di un lavoro lunghissimo, interminabile, concreto e ideale assieme, fatto di interrogativi incessanti e di esami diuturni, cui scienza e tecnica, specializzazione e professionalità, non sono bastate. E noi leggiamo: nessuna battaglia da quattro soldi, nessuna piccineria, nessuna aprioristica mancanza di fiducia, nessun risparmio di generosità, nessuna paura degli altri, né del peso di alcuna responsabilità. In primo piano, comunque, quei valori dell'anima che poi in pratica diventano programmi, visioni, convinzioni, persuasioni, utopia creativa e, infine, moralità politica (i valori di una "libera volontà" sentita e vissuta come la più misteriosa ma anche la più vera delle opere di Dio nell'uomo).
(©L'Osservatore Romano - 27 giugno 2008)


27 giugno 2008
L'eterno ritorno del lodo: dal Foglio del 27 giugno 2003
Liberali con un nemico: la legge
Non è la prima volta che i cosiddetti liberali confidano nella Corte costituzionale per affermare il primato della toga sulla politica. Sbagliando.
Dal Foglio del 27 giugno 2003
Diceva John Locke, teorico del diritto naturale e dei limiti dello Stato, che quando tutto è compromesso, quando l’individuo proprietario vede ergersi la minaccia di un potere che contrasta con la sua libertà originaria, non resta che “l’appello al cielo”. Questo appello celeste è la metafora della ribellione o rivoluzione nel linguaggio di uno splendido filosofo liberale. I liberali d’oggidì se la cavano con molto meno, confidano in un ricorso alla Corte costituzionale per liberarsi di quel lodo Maccanico di cui parlano come di una spregevole legge fabbricata da una spregiudicata maggioranza parlamentare per motivi assolutamente abietti, che compromettono il principio secondo cui la legge è uguale per tutti. L’illustre costituzionalista Gustavo Zagrebelsky argomenta in modo sofisticato contro l’invadenza della macchina legislativa, capace ormai di sovrapporsi al quadro di valori costituzionali che dovrebbe reggere e giustificare la produzione delle leggi, di questi tempi asservite all’ultimo interesse personale promosso dalla politica. Giuseppe D’Avanzo, invece di Antigone, tira in ballo con fervore più giornalistico Jean-Jacques Rousseau e la dittatura giacobina della volontà generale: il Cav. è come Saint Just e la sua una rivoluzione sanguinaria contro l’Ancien Régime delle toghe e dei parrucconi. L’avvocato Rossi, Guido Rossi, critica il principio di maggioranza. La dottoressa Boccassini, liberale anche lei ma più modestamente, la mette sul piano funzionale e personale, e si sente doppiamente offesa dalla legge, come persona e come funzione dello Stato.
Noi marxisti o ex marxisti, che oltre a picchiarci con i fratelli in camicia nera come D’Alema, abbiamo cercato di imparare qualcosa dall’esperienza, se non dai libri, convivemmo per anni con l’idea del diritto sostanziale. Ma non potevamo sapere che quel modello nichilista fondato sulla lotta di classe piuttosto che sulla tradizione o sulla rivelazione, a marxismo tramontato, sarebbe risuscitato in casa dei liberali e dei magistrati della Repubblica. Chi lo desidera può bene occuparsi della verifica, noi troviamo più interessante cercare di capire come possa un establishment tanto sicuro di sé e tanto compassato passare così facilmente, e così in fretta, dal “controllo di legalità”, il grande mito giustizialista degli anni Novanta, alla diffidenza verso la legge e alla ribellione verso chi detiene il potere di votarla e di promulgarla, Parlamento e presidente della Repubblica. Studieremo ancora, visto che i fratelli in camicia nera non ci sono più, e cercheremo di capire meglio. Intanto ci piacerebbe sapere se le idee sulla lotta dello jus eterno contro la fragile lex, che appartengono a un futuro presidente della Corte costituzionale, influenzeranno o no il suo giudizio togato sul lodo Maccanico. Se il professor Zagrebelsky ci usasse la cortesia di dircelo, gliene saremmo grati. Così, per ragioni di studio.


NUOVA RIVOLUZIONE SPAGNOLA: IL PROGETTO GRANDI PRIMATI
Avvenire, 27 giugno 2008
MARINA CORRADI
Avvicinare gli oranghi all’uomo e annullare lo «specifico»
L a magna charta degli oranghi potrebbe essere la nuova rivoluzione della Spagna di Zapatero. La Commissione ambiente del Parlamento ha approvato a larga maggioranza, escluso solo il Partito popolare, una risoluzione che invita il governo ad aderire entro quattro mesi al 'Progetto Grandi Primati', iniziativa internazionale tendente appunto a riconoscere il diritto alla vita e alla libertà alle scimmie antropoidi (orangutan, scimpanzé, gorilla e bonobo, per la precisione). Il Governo spagnolo dovrà farsi promotore del Progetto presso la Ue.
Forse è una giornata storica. La comunità dei soggetti aventi diritto ai Diritti dell’uomo si amplia alle scimmie.
Con cui, ci ricordano illustri scienziati a partire da Umberto Veronesi, condividiamo oltre il 95 per cento del patrimonio genetico. Si potrebbe discutere sulle differenze derivanti da quel 5% di Dna diverso, tale che – almeno così pare a noi ignoranti – un orango non è esattamente un uomo. Ma potrebbe essere una discussione oziosa. Il punto è un altro.
Il punto è che, come ha detto Joaquin Arujo, il presidente del Progetto Grandi Primati, «in fondo siamo tutti grandi scimmie». Cioè la tendenza in realtà non è la 'promozione' degli animali a uno status e a una tutela umana, quanto la negazione di una fondamentale differenza, e la sostanziale equiparazione del bonobo all’homo sapiens.
È questo che inquieta, nella rivoluzione di Madrid. Si trattasse solo di imporre rispetto della vita per gli oranghi, beh, d’accordo, al massimo ricordando che milioni di uomini muoiono di fame. Si trattasse solo di difendere gli scimpanzé, se ne potrebbe approfittare per spezzare una lancia anche per gli embrioni di uomo che vengono pure in Spagna clonati «a fine terapeutico» o selezionati per avere un figlio sano. E magari per quei bambini al settimo mese di gravidanza abortiti in alcune cliniche catalane, nella tacita indifferenza delle autorità. Insomma, la battaglia per la tutela del primate, in sé, potrebbe tornare utile per chiedere un po’ di rispetto anche per l’uomo.
Ma il fatto è che, a sentire il leader del Progetto Grandi Primati, la prospettiva spagnola è altra: «in fondo, siamo tutti grandi scimmie». Siamo tutti animali. Il punto qualificante allora di questa rivoluzione a prima vista folkloristica, è una cosa seria: è la negazione della differenza e della unicità dell’uomo nel creato. C’era una volta un uomo fatto «a immagine e somiglianza» di Dio, e per questo, nella concezione ebraico cristiana che ha fondato l’Occidente, degno di un assoluto rispetto e titolare di libertà inalienabili. Ma se, nella dittatura del relativismo, si afferma l’idea che siamo tutti scimpanzé, il principio potrebbe avere qualche ricaduta sgradevole. Qualche svista o fastidiosa dimenticanza sul rispetto dell’uomo. Per esempio, la magna charta dei gorilla lodevolmente esclude che si possano fare sui primati ricerche scientifiche che possono arrecare danno. Domanda: e le sperimentazioni dei farmaci oggi testati su questi animali, come avverranno? Sugli uomini magari – volontari, certo, estratti in quel Terzo Mondo che per mangiare si vende anche un rene. Se «siamo tutti grandi scimmie», l’orango vale quanto un poveraccio del Bangladesh. E, vogliamo parlare di clonazione cosiddetta terapeutica? Se passasse universalmente il Progetto Grandi Scimmie, gli embrioni di gorilla sarebbero naturalmente tutelati. Quelli di uomo, no.
È la consueta contraddizione di un ecologismo disposto a tutto per i pinguini, ma stranamente ostile all’uomo. Ostile a quel 5 per cento di Dna diverso, a quell’irriducibile fattore di libertà e coscienza che è l’uomo. L’idea di fondo non è la tutela dell’orango. L’idea di fondo è negare l’uomo.


A lezione da Paolo Maestro del dialogo autentico perché non celava le differenze
Accanto all’intelligenza, alla cultura e allo slancio apostolico, in lui c’era tanta simpatia. «Mi sorprende la sua capacità di legarsi rapidamente alle persone che si trovava accanto Amici o nemici, umili o potenti»

Avvenire, 27 giugno 2008
DI EDOARDO CASTAGNA
Accanto all’intelligenza, alla cul­tura e allo slancio missionario, nel cittadino Gaio Giulio Paolo doveva esserci anche un’altra dote: la simpatia. « Quello che mi sorprende, nel­la vita di Paolo, è la sua straordinaria ca­pacità di legarsi rapidamente alle perso­ne che si trovava accanto. Amici o nemi­ci, umili o potenti » . La storica Marta Sor­di – docente emerita di Storia greca e Sto­ria romana presso l’Università Cattolica di Milano, massima esperta dell’epoca dell’Apostolo delle genti – descrive Pao­lo nella sua concretezza, lo riporta sulle strade polverose dell’Anatolia, dove la sua missione mosse i primi, decisivi pas­si. Una lettura umana che, alla vigilia del­l’apertura dell’Anno Paolino, dona ancor maggiore risalto all’originalità e all’at­tualità della sua opera, capace ancora og­gi di indicare strade concrete da percor­rere nel confronto tra i cristiani e tutti gli uomini. « La sua capacità di stringere a­micizia era davvero eccezionale. Lo si ve­de fin dall’incontro con il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, che ebbe un ruolo fondamentale nel determinare il cam­mino della sua predicazione. Il legame con l’apostolo fu talmente stretto che Paolo lasciò il suo vecchio cognomen,
Saul, per adottare quello dell’amico. Era un uomo dalle doti umane straordina­rie, che si accompagnavano a quelle in­tellettuali, allo spessore teologico » .
In effetti, l’importanza del suo pensiero e della sua opera è tale che talvolta si sente indicare in Paolo, e non in Gesù, il vero fondatore del cristianesimo...
« Sì, tra i non cristiani ricorre la tesi che Paolo sarebbe andato al di là dei comandi di Cristo, annunciando il Vangelo al mon­do intero e non solo agli Ebrei, fondan- do concretamente il cristianesimo. Que­sto non è vero. Non è vero storicamente, perché era stato Pietro a convertire per primo un pagano. E non è vero nemme­no teologicamente, perché in fondo Pao­lo non fece che ripetere quello che ave­va fatto Gesù Cristo stesso. Inizialmente predicava solo agli Ebrei, nelle sinago­ghe; fu Sergio Paolo a ' costringerlo', in un certo senso, a predicare il Vangelo tra i pagani, consigliandogli di andare ad An­tiochia di Pisidia e da lì iniziare la predi­cazione nell’Asia interna » .
L’itinerario paolino determinò in qual­che modo anche il suo modo di rivolgersi al « pubblico » ?
« In tutta la sua prima missio­ne, da Antiochia a Listri a Ico­nio, percorse la via Sebaste, costruita da Augusto e lungo la quale si allineavano colonie romane dalla popolazione composita: Greci, Romani, E­brei, gli indigeni Licaoni e Ga­lati. Paolo adottò lo stesso cri­terio che inizialmente aveva seguito Ge­sù: prima predicava agli ebrei, ottenen­do la conversione di alcuni e il rifiuto di altri; poi si rivolgeva ai pagani » .
In che modo affrontava il dialogo con quanti ancora non conoscevano il Van­gelo?
« Sceglieva l’impostazione più adatta al suo uditorio. Quando predicava agli E­brei, nelle sinagoghe, partiva dalla storia d’Israele, poi richiamava i profeti e infi­ne giungeva a Cristo- Messia, compi­mento delle profezie attraverso la resur­rezione. Con i pagani, sia quelli un po’ rozzi dell’Asia interna sia quelli colti e raffinati di Atene, Corinto ed Efeso, a­dottava invece un’altra tecnica. L’impo­stazione rimaneva uguale, cambiavano i riferimenti: qui muoveva dal Dio creato­re del mondo, comprensibile anche dai pagani politeisti, dall’ordine naturale delle stagioni e degli spazi, e quindi ap­prodava al Dio benefattore dell’umanità, che si è rivelato in Cristo. Anche qui, con sfumature: mentre nel ' discorso dell’A­reopago' ateniese citava i filosofi stoici, in Licaonia puntava su una più diretta osservazione della verità naturale » .
Un’altra lezione di dialogo, di capacità di confrontarsi con interlocutori diffe­renti?
« Certamente. E infatti anche a Roma fu in stretti rapporti con gli ambienti stoi­ci, che nell’Urbe erano attenti soprattut­to al versante morale dello stoicismo: la
gravitas, l’autocontrollo, la virtù erano tutti valori compatibili con l’antica tra­dizione romana. Anche per questo ri­tengo probabile che l’epistolario tra Se­neca e Paolo sia autentico » .
Sul quale, tuttavia, permangono molti dubbi...
« In effetti, anch’io inizialmente ero scet­tica. Poi però mi sono resa conto che sa­rebbe del tutto verosimile. Scartate due lettere, sicuramente apocrife, le dodici rimanenti coincidono come datazione – dal 58 al 62 – e come contenuti. Seneca restò un pagano, ma tra lui e Paolo e­merge una grande stima reciproca; il fi­losofo romano mostra di conoscere e ap­prezzare gli scritti paolini, e in effetti du­rante la prima prigionia romana, quan­do Seneca governava l’impero insieme ad Afranio Burro, l’apostolo godette di grande libertà, ricevendo e predicando nonostante avesse sempre un pretoria­no accanto a sé. Ci sono altri dettagli, nel­l’epistolario, che fanno propendere per l’autenticità – certe differenze stilistiche, certe reticenze spiegabili soltanto se si considerano le lettere composte proprio in quegli anni –, ma ciò che interessa sot­tolineare è come in effetti Paolo avesse saputo suscitare la simpatia di un auto­re pagano, che i cristiani sentivano vici­no dal punto di vista della moralità » .
Qual era quindi l’aspetto più « moder­no » dell’approccio paolino?
« Era un grande comunicatore, una per­sona di estrema duttilità e capace di ac­costarsi a tutti i ceti sociali. Sapeva par­lare ai semplici, e sapeva parlare ai po­tenti. E non solo: sapeva stringere ami­cizie, anche con le persone a prima vista più distanti: i magistrati greci di Efeso, il proconsole romano di Cipro, ma anche l’umile centurione che lo scortava a Ro­ma, o il suo carceriere a Filippi » .
Allora perché la sua predicazione era spesso accompagnata da conflitti?
« È vero: quando arriva Paolo, scoppia il contrasto. Qui c’è tutta la differenza del suo stile rispetto a Pietro, molto più cauto e pru­dente.
Tra Pietro e Paolo non c’era­no differenze teo­logiche; in questo andavano perfet­tamente d’accor­do, tant’è vero che Pietro, nella sua seconda let­tera, ricorda ' il nostro carissimo fratello Paolo'. Certo, poi mette in guardia i suoi interlocutori sulla sua fi­nezza, sul suo essere così... complicato. Non c’è stato mai stato scontro teologi­co tra i due, ma solo una diversa tecnica pastorale » .
Che cosa insegna a noi, oggi?
« A non fuggire lo scontro, a non temer­lo. Ai nostri giorni sarebbe certamente tra quelli che, nel mezzo del confronto più ecumenico, decidono di affrontare i problemi, anche i più controversi. Con i pagani Paolo attacca, e converte; predi­cava perfino ai pretoriani che lo pianto­navano: soldati scelti, coloro che ac­compagnavano l’imperatore in prima li­nea in battaglia! Insomma, ci insegna co­me va affrontato il dialogo: senza aver paura di mettere in evidenza i punti di di­vergenza, così da ottenere un’adesione convinta, o un rifiuto. È un dialogo in of­fensiva, insomma, non sulla difensiva. Oggi molti confondono il dialogo con un ' calar le braghe' che deve arrivare a tut­ti i costi a un accordo, invece Paolo ci in­segna una linea opposta: non nasconde­re niente, e affrontare apertamente la possibilità di un rifiuto » .


«Così la famiglia è facilmente ricattabile» - Il cardinale Bagnasco: «Quando perde la serenità economica è anche esposta al pericolo della sua tenuta complessiva»
Avvenire, 27 giugno 2008
DA GENOVA ADRIANO TORTI
L’ indebitamento per l’acquisto della casa, l’aumento del lavoro precario, bassi salari per le giovani generazioni, la diffusione esponenziale del gioco d’azzardo, il ricorso sempre più massiccio all’acquisto a rate sono, per l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, le cause principali dell’impoverimento e del sovra indebitamento delle famiglie. Un indebitamento che porta, non di rado, le famiglie a cadere nelle mani degli usurai. E, come ha ricordato Bagnasco, «quando la famiglia è posta sotto attacco dal punto di vista della sua serenità economica, è pure esposta al pericolo della sua tenuta complessiva».
Tra le principali cause del perdurare di questa situazione, il porporato ha citato, insieme a una situazione economica stagnante, la diffusione di una mentalità consumistica sempre più esasperata, con il ricorso sempre più massiccio all’acquisto a rate, e un’ottica prevalentemente individualistica.
Parlando ieri mattina a Genova in occasione dell’assemblea annuale della Consulta nazionale antiusura 'Giovanni Paolo II', che si è svolta presso il santuario di Nostra Signora della Guardia, Bagnasco ha affermato che nell’economia contemporanea «i mutui a tasso variabile sono la regola», il lavoro, «quando addirittura non è scomparso», è sempre più precario, mentre i bassi salari per le giovani generazioni «impediscono di progettare un sereno futuro familiare».
Sono tutte situazioni che, ha aggiunto, «mettono a dura prova la famiglia oggi» al punto da renderla «facilmente ricattabile». Il cardinale ha poi parlato degli «esuberi umani», coloro che non hanno «visibilità sociale». A questo riguardo ha ricordato come sia in aumento 'la forbice' «tra il privilegio eccezionale di pochi e l’ordinaria indigenza di tanti che perdono progressivamente il loro potere d’acquisto e la loro visibilità sociale». Sono le tante famiglie che vivono sempre più in precarietà economica. «Si va dalle spese superflue per consumi non strettamente necessari - ha spiegato l’arcivescovo della Lanterna - alle spese mediche, dall’aumento del costo della vita che ha ridotto la possibilità di accantonare il reddito, all’investimento per avvio di attività economica». Tutti questi fattori, ha continuato Bagnasco - portano le famiglie «a una certa forma di povertà che paradossalmente diventa il target ideale per quanti intendono lucrare su questa forma di debolezza che diventa facilmente ricattabile». Un ricatto che spesso coincide con il fenomeno dell’usura che «non sempre è un fenomeno necessariamente mafioso», anzi, altre volte «prende corpo nelle relazioni di vicinanza parentale e amicale e genera una sorta di 'struttura di peccato' che mette insieme l’usuraio e l’usurato, il carnefice e la vittima». L’usura, inoltre, «non è riconducibile a un’area geografica particolare, ma presenta una diffusione omogenea su tutto il territorio nazionale».
Tra le varie cause della precaria situazione di numerose famiglie italiane e del loro conseguente indebitamento, inoltre, il cardinale Bagnasco ha messo in evidenza la diffusione dell’acquisto a rate, secondo il modello del «comprare oggi e pagare domani», un modo di pagamento diffuso che «le moderne tecniche pubblicitarie esasperano, inducendo ad acquisti senza coperture». Coloro che sono maggiormente esposti sono «le giovani generazioni», per le quali è invece necessario «un investimento educativo di lungo periodo, che ridia al tempo prima ancora che al denaro la priorità nelle evidenze etiche». In quest’ottica, fondamentale diventa l’educazione dei giovani. «L’educazione - ha affermato - è il miglior investimento di una società, occorre aver pazienza e lungimiranza, ma educare paga, e ripaga chi investe in essa in termini umani, ideali e materiali».
Concludendo il suo ragionamento, il cardinale Bagnasco ha poi affermato che è necessario tenere a mente «tre atteggiamenti spirituali che bisogna far crescere se si vuol recidere la serie delle radici culturali che producono certi fenomeni desolanti sul piano sociale ed economico: la gratuità, la sobrietà e la solidarietà».
Deleteri gli acquisti a rate, «dovuti a una mentalità consumistica» ed esasperati dalla pubblicità