lunedì 30 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
2) Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
3) RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
4) RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
5) L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
6) CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
7) SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
8) La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net


Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- Il mondo contemporaneo ha bisogno soprattutto di speranza e questa si trova solo in Gesù Cristo. E’ quanto ha affermato Benedetto XVI all'Angelus di domenica, che ha aperto il periodo di Avvento, il tempo di preparazione al Natale del Signore, ed ha dato inizio a un nuovo Anno liturgico.

“Il mondo contemporaneo – ha detto il Papa – ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci accorgiamo che ci troviamo su un’unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme".

Ci rendiamo conto – ha aggiunto – che, “vedendo crollare tante false sicurezze, abbiamo bisogno di una speranza affidabile”, una speranza che si trova solo in Cristo.

“Il Signore Gesù è venuto in passato, viene nel presente, e verrà nel futuro – ha continuato –. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché è morto e risorto, è ‘il Vivente’ e, mentre condivide la nostra precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità stessa di Dio. E’ ‘carne’ come noi ed è ‘roccia’ come Dio”.

“Chiunque anela alla libertà, alla giustizia e alla pace – ha osserva il Papa – può risollevarsi e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina”.

“Gesù Cristo non riguarda solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché Egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della speranza. E della speranza ogni essere umano ha costantemente bisogno”.

Infine, il Papa ha invitato i fedeli a mettersi alla scuola della Vergine Maria, che “incarna pienamente l’umanità che vive nella speranza basata sulla fede nel Dio vivente. Lei è la Vergine dell’Avvento: è ben piantata nel presente, nell’"oggi" della salvezza; nel suo cuore raccoglie tutte le promesse passate; ed è protesa al compimento futuro”.


Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
Che cosa c’è di più semplice di un fatto? Eppure mai come oggi sembra impossibile guardare in faccia la realtà. Sembra che tutto debba ridursi ad opinione, a mera contrapposizione di opposte ideologie. In questo modo, però, non è possibile nessun dialogo né progresso sulla via della verità, pure così indispensabile quando ci sono in gioco la vita e la morte.
Occorre un cambiamento di metodo: tornare alla nudità dei fatti, ad uno sguardo leale sulla realtà, alla fiducia nella ragione, impegnata ad investigare e scoprire il vero là dove si manifesta.
Su queste premesse veniamo alla Ru486.
Giovedì 26 novembre, la Commissione Sanità del Senato ha varato il documento finale dell'indagine conoscitiva sulla pillola abortiva Ru486, nel quale si chiede di fermare la procedura di immissione in commercio della pillola abortiva in attesa di un parere tecnico del ministero della Salute circa la compatibilità tra la legge 194 e la Ru486.
Vi erano ragioni valide per assumere una tale decisione?
Sì. Perché?
Perché l’art. 4 della Direttiva CE 2001/83 sui medicinali per uso umano dispone: “la presente direttiva non osta all’applicazione delle legislazioni nazionali che vietano o limitano la vendita, la fornitura o l’uso di medicinali a fini contraccettivi o abortivi”.
Non vi è dubbio quindi che lo Stato membro ha l’obbligo di verificare la compatibilità con la legislazione nazionale, prima di riconoscere l’autorizzazione al commercio di un farmaco abortivo.
Neppure si può ragionevolmente discutere sul fatto che la Ru486 rientri nell’ambito di applicazione della norma. Per quanto, con il consueto linguaggio eufemistico, si usi il termine «pillola» è chiaro che la Ru486 non è una medicina ma un veleno: ha il solo scopo di procurare un aborto e quindi uccidere.
In conclusione, deve considerarsi vietata la commercializzazione di un prodotto abortivo in assenza della preventiva valutazione di compatibilità con la legislazione nazionale e quindi, in particolare, con la legge 194/1978.
Non è questione di opinione ma di fatti giuridici di cui è necessario tenere conto.
Ru486 e legge 194 sono incompatibili?
La Ru486 impedisce un’adeguata riflessione. Le pillole vengono consegnate alle donne in tempi necessariamente brevi, dovendosi assumere entro i primi 49 giorni della gravidanza per essere efficaci e pertanto, in contrasto con quanto previsto dalla legge 194/78 (cfr. art. 5), impediscono, di fatto, una sufficiente valutazione, la proposta di possibili alternative e aiuti che la donna, a termini di legge, può ricevere. La Ru486 mette fretta e si propone come una “soluzione” rapida: non voglio il bimbo – prendo la pillola.
Inoltre, la Ru486 è in contrasto con la legge 194/1978 perché trasforma l’aborto in fatto privato. La nostra legge impone il controllo medico nell’ambito di strutture ospedaliere mentre la donna che assume la pillola, al contrario, può abortire privatamente. In altre parole la Ru486 costringe la donna alla solitudine.
Neppure sono da sottovalutare i rischi dell’aborto farmacologico.
La Ru486, infatti, è dannosa per l’integrità fisica e psichica. Non solo l’aborto chimico provoca un maggior numero di decessi e complicazioni rispetto a quello chirurgico, secondo uno studio della Società medico-scientifica “Promed Galileo” la pillola è 10 volte più rischiosa, ma è lesiva della salute psichica della donna, considerando l’aumento di stress cui viene sottoposta: la donna vive in prima persona l’uccisione del figlio e viene lasciata sola sia nello svolgimento di quell’evento (l’espulsione del feto spesso avviene a casa) sia nelle ripercussioni psicologiche di quest’ultimo.
Inoltre, dopo 24 ore dalla prima “pillola”, occorre assumerne una seconda che aiuta la definitiva espulsione del feto. Tale evento può verificarsi in un periodo di tempo variabile da tre a 15 giorni, con dolori intensi e protratti dovuti al mini travaglio. Occorrerà, successivamente comunque un controllo medico per verificare che l’utero sia “pulito” e non siano presenti condizioni di pericolo per la salute della donna, che comporterebbero ulteriori interventi invasivi.
La Ru486, infine, non sempre è efficace e se il feto sopravvive, il più delle volte ha gravi danni nello sviluppo e gravi handicap. Per questa ragione, in Francia, le donne firmano modulo che le impegna a ricorrere all’aborto chirurgico se è la “pillola” non dovesse fare effetto completamente.
La verità è che la Ru486 non è altro che l’ennesimo prodotto chimico abortivo (la prima ricetta abortiva conosciuta a base di mercurio risale addirittura alla Cina del 3000 a.C.) per il quale è lecito domandarsi se costituisca un “progresso” rispetto agli altri abortivi che hanno funestato secoli di aborto clandestino.
Sussistono, pertanto, numerose e valide ragioni per impedire la commercializzazione della Ru486 in Italia.
La questione di fondo, tuttavia, come ha anche sottolineato il presidente del Movimento per la Vita, Carlo Casini, non è il metodo usato per provocare l’interruzione della gravidanza e neppure la legge 194 ma la consapevolezza che i soggetti coinvolti nell’aborto sono almeno due, la donna e il bambino, e che quest’ultimo, in nessun caso, può essere sacrificato, tanto meno, aggiungo, in nome di un malinteso principio di “autodeterminazione” e di libertà.
Tali concetti di enorme rilievo, pensiamo ai diritti di libertà costituzionalmente garantiti, sono pur sempre in funzione e a tutela della persona. Pertanto, è paradossale che in bioetica (concepimento, testamento biologico, eutanasia, ecc.) siano concepiti in modo assoluto ed indipendente, fino a giustificare l’eliminazione dello stesso soggetto titolare, la persona.


RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Lo scopo principale per cui si vuole introdurre la pillola RU 486 in Italia è quello di passare dall’aborto in ospedale a quello a casa”. E' quanto ha sostenuto Assuntina Morresi, consulente del Ministero del Welfare, nell’incontro pubblico: “Pillola abortiva RU 486: l’azione della società civile per le donne e i bambini”, organizzato il 27 novembre a Modena dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

Intervenendo all'evento, cui hanno aderito altre 11 associazioni del territorio, la Morresi ha spiegato che l'altro scopo “è quello aggirare la crescente obiezione di coscienza dei medici”.

“Con l’aborto chirurgico si ammazza una vita, con l’aborto chimico anche”, ha sostenuto Annibale Volpe, primario di Ginecologia e ostetrica al Policlinico di Modena, secondo cui oggi solo una bassissima percentuale di donne abortisce con questa metodica.

La vera ragione dell’introduzione della pillola, ha spiegato, è il profitto che ne ricaverà la casa farmaceutica, mentre per le donne rappresenta “un calvario”.

“La Legge 194 prevede che l’aborto debba avvenire interamente in ospedale”, ha evidenziato Claudia Navarini, dell’Università Europea di Roma, che ha illustrato la storia della pillola e le problematiche legali e bioetiche connesse.

Lo stesso Ministero del Welfare, infatti, ha comunicato che la pillola è compatibile con la legge 194 solo se l’aborto avviene con questa modalità.

“Ma se nei fatti questo non avverrà perché le donne vanno tutte a casa, allora per il governo vuol dire che la legge è violata”, ha evidenziato la Morresi.

La Comunità Papa Giovanni XXIII per bocca di Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale, e di Andrea Mazzi, membro dell’associazione, ha ribadito che la pillola non cambia la natura dell’aborto, e ha denunciato come sulla pillola in tanti facciano forme di ‘pubblicità ingannevole’, non presentandone la sua vera natura e i rischi. Come esempio è stato citato un opuscolo prodotto dalle aziende USL e Policlinico di Modena.

Infine, si è parlato dei seri rischi di diffusione clandestina del prodotto.


RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La commissione sanità del Senato della Repubblica ha concluso la propria indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU 486, approvando a maggioranza un documento estremamente stimolante per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione bioetica.[1]

In via preliminare si può affrontare il tema dell’opportunità di una discussione politica riguardo alla questione di un farmaco abortivo (etimologicamente il termine farmaco riconosce la duplice accezione di lenimento e di veleno; dal momento che la gravidanza, desiderata o meno, non costituisce di per sé un elemento patologico, per qualsiasi prodotto abortivo è difficile individuarne la valenza curativa).

Vi sono quanti sostengono che la decisione sull’aborto chimico sia di mera spettanza medico-scientifica. Nel caso italiano questa prospettiva individua nell’approvazione del prodotto da parte del CdA dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e prima ancora da parte del suo comitato tecnico-scientifico, il punto di svolta oltre il quale ogni ulteriore discussione rappresenta un’indebita intromissione nella relazione sanitaria tra donna e medico.

In termini generali possiamo facilmente comprendere come tale impostazione sia estremamente debole. La bioetica ha tra le sue radici principali la evidenza che la conoscenza tecnologica è divenuta così potente nella sua capacità manipolatoria della vita umana, da rendersi necessario sottrarre l’esclusiva gestione delle decisioni all’ambito tecnico-scientifico.

A tal proposito si possono citare le parole della commissione che interruppe il Tuskegee Syphilis Study: «La società non può più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica».

L’aborto costituisce un intervento che, laddove legalizzato o depenalizzato, per la particolarità e rilevanza pubblica dei beni in gioco, viene comunque sempre normato in modo specifico attraverso leggi e regolamenti. Nel nostro paese la legge 194 definisce i criteri di non punibilità dell’aborto, ma non vi sono leggi che regolano in maniera distinta il taglio cesario, l’estrazione dentaria, o la polipectomia endoscopica.

L’indagine del parlamento italiano non può essere indicata come una bizzarra intromissione politica rinvenibile solo nel nostro paese, se non dimostrando scarsa conoscenza della questione. Le “relazioni pericolose” tra politica ed RU 486 costellano la storia del prodotto sin dagli esordi.

Come dimenticare le pressioni esercitate dal ministro della sanità francese Claude Evin sull’azienda Roussel Uclaf che aveva deciso di ritirare dal mercato la RU 486? Come tralasciare l’attivo coinvolgimento del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nell’esortare l’azienda francese produttrice della pillola abortiva ad estenderne il commercio sul territorio americano?

Come omettere la commissione d’indagine parlamentare presieduta dal deputato Mark Sauder che negli USA ha prodotto un rapporto assai critico nei confronti dell’operato dell’ente americano per la sorveglianza dei farmaci? Ed il serrato dibattito nel parlamento australiano? E il concomitante impegno politico di alcuni medici coinvolti nella promozione della RU 486 nel nostro paese?

Alla luce di queste considerazioni l’interessamento dell’organo di rappresentanza del popolo italiano nell’affare RU 486 è da ritenersi non solo lecito, ma addirittura doveroso. È pertanto ridicolo accusare d’incompetenza una commissione parlamentare che al suo interno racchiude numerose e qualificate competenze, per di più presieduta dal senatore Tomassini, medico, già primario di ginecologia ed ostetricia, difficilmente accusabile di non possedere i requisiti per comprendere certi elementi di matrice tecnico-sanitaria.

Come peraltro già evidenziato attraverso un’ampia revisione scientifica dal Gruppo di Studio per l’Aborto Medico (GISAM), la commissione non ha potuto che prendere atto della presenza di elementi di criticità all’interno della procedura abortiva farmacologica con diversi articoli della legge 194.

L’indicazione che l’intera procedura abortiva si svolga all’interno delle strutture sanitarie individuate nella legge espressa nel documento approvato dalla commissione parlamentare deriva dalla preoccupazione che anche nel nostro paese si possano verificare casi tragici come quello di Rebecca Tell Berg, morta a 16 anni per emorragia secondaria ad aborto chimico gestito a domicilio, evitando inoltre che gli aborti avvengano in autobus, come è stato descritto nella letteratura scientifica.

La proposta della commissione senatoriale di un’analisi più approfondita della letteratura medica riguardo al profilo di sicurezza ed efficacia della procedura abortiva farmacologica nasce dalla consapevolezza che la legge italiana prevede il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza"; si tratta di qualità spesso attribuite alla pillola abortiva senza il necessario, metodologicamente rigoroso, supporto scientifico.

La supposta minore dolorabilità associata alla metodica di aborto chimico trova disconferma dall’intero corpo delle sperimentazioni cliniche, compresa quella appena pubblicata di Health Technology Assessment.

Non deve inoltre sfuggire la preoccupazione espressa dal prof. Casavola, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, delle “ricadute nell'immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l'assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell'aborto chirurgico”.

Si tratta di una valutazione già empiricamente in parte esplorata dallo studio GISAM già ricordato. Adesso la palla è nelle mani dell’esecutivo. Qui preme identificare almeno altri due punti che sono da puntualizzare in maniera ulteriore.

Il primo riguarda una prassi tutt’altro che astratta, essendo stata adottata in Toscana dove, seppure il protocollo regionale preveda il ricovero ordinario di tre giorni per le donne che abortiscono con la RU 486, di fatto la quasi totalità abortisce anche fuori dalla struttura ospedaliera attraverso il ricorso alle dimissioni volontarie.

Si tratta di un comportamento che, per la sua vastità, per la coincidenza con le risultanze di un’estesa indagine giornalistica e per la dissonanza rispetto agli studi che indicano una preferenza delle donne a completare l’aborto in ospedale, non può non suscitare viva preoccupazione.

È da ritenere che una prospettiva tecnica di soluzione sia individuabile nel documento GISAM che la società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo ha provveduto ad inviare anche agli organi competenti dell’esecutivo.

Sarebbe infatti paradossale che in nome della salute della donna si dovesse assistere a comportamenti su larga scala difficilmente inquadrabili come espressione di tutela della salute delle stesse donne che per giunta, proprio a causa dell’assunzione di responsabilità derivante dalla dimissione volontaria, non potrebbero neppure adire ai percorsi di tutela risarcitoria per eventuali danni alla salute derivanti da un accudimento sanitario insufficiente.

Il secondo aspetto che merita una riflessione ulteriore è quello dell’obiezione di coscienza. Rispetto a quello chirurgico il processo di aborto chimico è enormemente dilatato nel tempo. La inevitabile turnazione del personale sanitario non può andare a ledere il diritto del personale obiettore ad essere esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza”.

Dal momento che col metodo farmacologico non esistono criteri standardizzati per definire l’avvenuta interruzione della gravidanza, devono essere date adeguate garanzie al medico obiettore il cui intervento non fosse “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” attraverso una codifica dei compiti e delle responsabilità nell’assistenza sanitaria delle donne che abortiscono col metodo chimico di cui il ministero deve farsi promotore e garante.

Data la complessità e la delicatezza di tali questioni è da temere che le modalità che il ministero del welfare ha adottato per dare seguito alle raccomandazioni della commissione d’indagine parlamentare[2] siano così vaghe da risultare insufficienti ad assicurare gli obiettivi annunciati.

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Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.


L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Rom Houben non può non echeggiare quella a noi più nota in Italia: il caso Eluana Englaro. Troppe le analogie, troppe le somiglianze, troppi anche i luoghi comuni. «Signora, suo figlio è come un vegetale, non sente nulla, non pensa nulla. Di suo figlio non è rima­sta più traccia», si è sentita dire la mamma di Rom. Non è questo ciò che ci dicevano di Eluana? C’era una differenza, però. Quella che intercorre tra chi vuole mettere fine a una vita ritenuta “non degna di essere vissuta” e chi sa che, malgrado le apparenze, quella vita è degna perché è di suo figlio, ovvero di un essere umano come noi. Eluana è uno di noi, diceva uno dei tanti titoli scritti a proposito della drammatica vicenda della donna morta a febbraio scorso.

Oltre a questa grandissima testimonianza di umanità, il caso di Rom Houben, il ragazzo belga la cui diagnosi di stato vegetativo persistente (SVP) è risultata errata, ci costringe a rivedere alcune delle certezze scientifiche ed anche etiche che il caso Englaro, e anche il caso di Terri Schiavo, sembravano dare come scontate. La prima di esse è la difficoltà della diagnosi dello SVP. Infatti il quotidiano Avvenire riportava alcune mesi fa che nel Convegno della Società Europea di Neurologia tenutosi a Milano era stato comunicato che le diagnosi errate “sfioravano il 40%”. A simili conclusioni arrivava anche uno studio dell’Università di Tubinga e un altro svolto da ricercatori belgi pubblicato recentemente in BMC Neurology. Nel caso Houben, peraltro, la scoperta della diagnosi sbagliata è stato rivelata dall’uso delle tecniche di risonanza magnetica funzionale (RMNf) che consentiva di “vedere” come le diverse aree del cervello di Rom comunicavano in modo quasi identico a quelle di un soggetto normale. In un convegno alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo “Regina Apostolorum” nel mese di settembre sono stati presentati da Andrea Soddu, membro del Coma Study Gruop di Liegi, incoraggianti risultati sull’uso della RMNf per la diagnosi differenziale degli stati di coscienza alterata. Infatti, dal punto di vista clinico è estremamente difficile distinguere lo SVP da altri stati quali soprattutto lo Stato di Coscienza Minima e la sindrome del “Locked-in” o del “Chiavistello”, che era appunto la situazione di Rom Houben scoperta grazie alla RMNf. Sembra quanto meno problematico prendere decisioni di vita o morte, come la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, in casi di così grande incertezza sulla vera situazione del paziente. E se Eluana potesse aver capito e sentito tutto? Può esistere una forma più crudele e raffinata di tortura? Non si vede come possa essere ragionevole il disporre o rigettare in anticipo determinate misure tramite un testamento biologico quando neanche si è certo della diagnosi.

Ma la stessa vicenda di Houben mette in crisi anche il nostro atteggiamento davanti a questi pazienti. Ci sembra che è molto difficile ritenere che l’alimentazione e l’idratazione possano costituire accanimento terapeutico in casi di questo genere. Infatti, come si sa, non esistono parametri scientificamente collaudati che possano parlale dell’irreversibilità dello SVP, anche a distanza di molto tempo. Cioè, davanti a questi pazienti non solo non abbiamo certezza della diagnosi ma ancor di più della prognosi. Come può essere ritenuto sproporzionato fornire loro ciò di cui ogni persona ha bisogno? Poi, non si tratta di staccare nessuna “spina”, semplicemente di frullare il cibo normale per renderlo abbastanza fluido per essere ingerito tramite una sonda. Infatti, come ci ricordava poco tempo fa il presidente dell’Associazione Risveglio, Francesco Napolitano: “Io stesso e mia moglie, per 3 anni e mezzo, ab­biamo dato da mangiare e da bere a casa a nostro figlio cibi naturali (car­ne, pesce, verdure, frutta, ecc.), cioè esattamente i cibi che mangiamo noi, solo portandoli allo stato quasi liquido attraverso un normalissimo elettrodomestico, con grande sem­plicità quotidiana”. L’unica spina da staccare, in questo caso, è quella della frullatrice, una volta che ha fatto il suo compito. Può questa essere considerata una terapia medica? Come diceva Marina Corradi mercoledì 25 sull’Avvenire, occorre umiltà per non spacciare per certo ciò che non si conosce bene e tenacia per stare accanto a questi malati, attenti ai segnali più minimi di coscienza. In realtà, la storia di Rom è la storia di una donna, sua mamma, che non ha voluto ridurre e cambiare il suo amore materno per le certezze di una scienza fredda, disincarnata e sicura di sé, come alcuni, pochi fortunatamente, concepiscono la medicina odierna.

Come dice ora Rom: “Mi chiamo Rom. Non sono morto. E de­vo la vita alla mia famiglia”. La certezza di una madre che vale una vita. Non credo che nessuno abbia il diritto di contraddire questa verità che va ben al di là della scienza.

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* Padre Cristián Borgoño è docente stabile alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Cattolica del Cile è stato coordinatore accademico del Corso estivo di Bioetica “Etica alla fine della vita. Tra morte degna e dignità del morente” presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”.


CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Come si può affrontare la perdita di senso che caratterizza l’esserci nel mondo in questi tempi, senza sforzarsi ogni giorno, a partire dal lavoro, dalla professione, di ritrovare un cammino di verità che illumini la vita? Le parole di don Julián Carrón mi invitano a rendere manifesto questo progetto che è e diviene sempre più motivo di resistenza, e motivo di resilienza dinanzi al torcersi della vita umana associata nel, e contro, il nulla della reificazione. La crisi economica mondiale non ha avvicinato l’umano all’essenza dell’essere. Ne era di già troppo lontano, dimentico del logos che lo aveva fondato alla luce nei primordi.



La chiave di volta del mutamento è planetaria e risiede nell’avvento dispiegato della reificazione, non tanto del mercato quanto della sua assolutizzazione e della sua presenza totalitaria su tutto l’essere. È il paradigma filosofico neoclassico (irriflessivo e misconosciuto nella follia ideologica riduzionistica dagli stessi predicatori matematizzanti del nulla) a trionfare in ogni dove.



La razionalità, per i predicatori del nulla glorificati dal successo economico e mediatico di una società pornografico-mercantile, è e deve essere la sola caratteristica dell’umana vita ed essa, per costoro, se non si dispiega nel paradigma costo-beneficio, non val la pena né di essere vissuta, né di essere venduta. Sì, perchè anche la vendita della vita è assunta come valore positivo nella reificazione. Si pensi all’acquisto della vita a ore dei giovani e dei lavoratori in genere e al disastro che ciò determina: come si può procreare nell’amore se l’incertezza non solo è frutto del dominio, ma deve essere accettata dai dominati come condizione migliore in assoluto dell’esserci nel mondo? Se la natalità scende non solo si è dinanzi a un valore positivo, per i dominatori, nell’ignoranza delle tendenze di lungo periodo della crescita, ma s’instaura in tal modo su scala di massa un paradigma egoistico che dovrebbe regolare e divenire prototipo della vita buona nella reificazione. Vita buona perché efficiente, vita buona perché economicamente produttiva e generatrice di successo individualistico.
I disastri dell’individualismo metodologico son divenuti disastri morali e cataclismi esistenziali. Per questo bisogna avere il coraggio di affermare, senza “rispetto umano”, che la verità, oggi più di ieri, non può essere relativismo, ma solo obbligazione morale all’ente che è Dio e che per il cristiano è il sacrificio salvifico di Gesù. Il sacrificio che abbatte tutte le reificazioni, che pone con i piedi per terra tutte le superfetazioni economicistiche e le arrovescia, che fonda il paradigma del dono senza obbligazione a rendere, ma invece con la morale obbligazione a credere.



La sintesi paolina tra ebraismo ed ellenismo trova nell’ unità di fede e ragione il nuovo paradigma comunitario di una resistenza al dilagare del nichilismo. E questo perché il soggetto è irriducibile al mercato dispiegato e all’assenza di Dio. Il Dio nascosto il soggetto lo ricerca continuamente, spasmodicamente e senza tregua ed è questa ricerca che colpisce, che ci sottrae alla resa a cui troppo spesso vogliamo rassegnarci. La parola evangelica per cui occorre tutto lasciare per rispondere alla chiamata non rifulge solo per la scelta sacerdotale, ma anche per la chiamata associativa, comunitaria, che è esercizio di affermazione del sé nella libertà, riattualizzando la tradizione della fede.



Il dono è l’essenza del vivere associato; non lo è il paradigma economicistico. L’ economico che irrora l’umano ne realizza l’utopia ed è, invece, sempre sostenuto dal dono, dall’affermazione dell’umano in ogni sua manifestazione, nel trionfo dell’altruismo e dell’attenzione che fonda la reciprocità, e nell’affermazione del rispetto con cui si costruisce lo stare insieme. Sono le virtù penultime che danno agli ultimi la dignità, oggi sempre conculcata laddove la verità non fonda la carità. Sono le virtù penultime per gli ultimi e per tutti noi, che ci donano la speranza di cui sempre abbiamo bisogno.


SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net



Sulla Sindone, è certo, non si finirà mai di discutere. Dopo la pesante affermazione di qualche settimana fa da parte del CICAP e dell’UAAR relativa alla presunta scoperta del metodo per realizzare lenzuola in tutto e per tutto simili al lino sacro, puntualmente smentite da più esperti su queste pagine, oltre che su altri giornali, ecco adesso una prova a favore dell’autenticità della reliquia più famosa al mondo. Si tratta questa volta della decifrazione di alcune scritte presenti sul tessuto del sudario. Una grafia che, a detta degli esperti, risale inconfutabilmente al I secolo, ossia in quel periodo di tempo che va dallo 0 d.C al 100 d.C. A decifrare l’arcano, la dottoressa Barbara Frale, già nota per alcune pubblicazioni di rilievo sui templari, che abbiamo intervistato



Dottoressa Frale, dai Templari alla Sindone, qual è stata la causa di questo “salto”?



Per quanto riguarda la mia formazione nessuna, nel senso che io sono un’archeologa specializzata nelle ricerche sul mondo antico e medievale. Ho passato diversi anni a studiare i documenti risalenti al Medioevo e le mie pubblicazioni più famose sono quelle relative ai templari. Ma questo non significa che in realtà mi sia messa a studiare da poco il mondo antico, anzi. Sono anni che mi occupo di archeologia grecoromana. Diciamo che noi storici siamo piuttosto noti per gli argomenti che piacciono al pubblico. Per fare un esempio: sono anni che i miei studi si concentrano su documenti relativi ai papi del Medioevo. Non abbiamo idea della miniera di risvolti interessantissimi che toccano la storia della Chiesa. Ho provato più volte a proporre alcune indagini all’attenzione di diversi editori. La risposta è sempre stata: «non ha qualcosa sui templari?». Piuttosto avvilente, ma è quello che piace al pubblico, è una “moda”. Quindi mi sono rassegnata a pubblicare solo le mie ricerche sui templari.



Adesso però è arrivata alla Sacra Sindone, in un certo senso di “moda” anche questa



In realtà tutto il materiale, sia i templari sia la Sindone, fa parte di una ricerca che ho svolto per il dottorato in storia all’Università di Venezia. Sono già dieci anni che contemplo entrambi gli argomenti. In effetti occorre lungo tempo per realizzare studi di confronto fra i diversi papiri con i quali ho a che fare.



Anni spesi bene a quanto pare. Lei è infatti giunta a una scoperta eccezionale, ce ne vuole parlare?

Bisogna essere precisi. Io non ho “scoperto” niente nel senso stretto della parola. Capisco che si possa fare confusione su questioni come la Sindone perché si sono ammassati in molti anni argomenti su argomenti. Ma qui occorre risalire a trent’anni fa. Era infatti il 1978 quando il professor Aldo Marastoni, insigne latinista dell’Università Cattolica di Milano, scoprì sul lenzuolo, a occhio nudo, tracce di scrittura in latino reputando che fossero risalenti al primo secolo. Un occhio esperto di scritture antiche come quello di Marastoni non ci mise molto a tirare le somme. Il tutto passò però quasi totalmente sotto silenzio. Poi la questione venne riaffrontata nel 1994 dal punto di vista tecnologico. Un’equipe di studiosi francesi, capeggiata dal professor André Marion del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) ha messo in “chiaro” tutte le scritte presenti.

Io arrivo “tardi”, in realtà il mio lavoro è stato quello di spiegare che cosa significassero le parole contenute in questi segni.



Nel senso che fino al suo arrivo nessuno se ne è mai occupato?



Il fatto è che le avevano scoperte, ma non spiegate. Ovvio che gente del calibro di Marastoni avesse inteso il significato letterale, ma non quello “circostanziale”. Per capire che cosa significhino quei segni bisogna fare migliaia e migliaia di confronti con le epigrafi. Marastoni abbandonò il lavoro. Probabilmente si era un po’ scoraggiato a seguito degli esiti del famoso esame del Carbonio 14. Anche se aveva visto bene: le scritture risalgono a tutti gli effetti al primo secolo.



E gli esperti francesi?



Si sono resi conto che finché si trattava di visualizzare con l’aiuto informatico le scritte tutto andava bene però ci voleva un esperto di scritture antiche. Loro sono matematici e fisici. Le fecero esaminare ad alcuni esperti della Sorbona che individuarono il periodo storico delle scritte fra il primo e il terzo secolo dopo Cristo. La loro analisi si fermò però soltanto alla collocazione storica Credo che il motivo fosse lo stesso di Marastoni. Siccome occorre una lunghissima e molto faticosa ricerca per questo tipo di indagini perché doversi impelagare su un documento che all’epoca era considerato, con un assurdo pregiudizio, di dubbia autenticità?



Poi è arrivata lei, ci dica in che cosa dunque consistono queste scritte?



In un certificato di sepoltura. Quello che noi possiamo vedere ha tutte le caratteristiche di un certificato di sepoltura. Anche se può sembrare strano che ai tempi dell’impero romano si facessero certificati di sepoltura. E invece è tutto il contrario, ci sono numerosissime testimonianze di questi certificati in antichità. E non solo dei Romani. Anche per quel che riguarda l’Antico Egitto, per esempio, disponiamo di una notevole mole di simili documenti. I sacerdoti curavano la mummificazione e stilavano il certificato di morte. Praticamente svolgevano l’esercizio delle odierne pompe funebri.



Questa scritta insomma rafforzerebbe l’idea che la Sindone appartenga al primo secolo?



Molto più che “rafforzarla”. Si può dire con certezza scientifica che l’autore di queste scritte, che ha lasciato queste tracce, è senz’altro un uomo vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Il che rende molto difficile che l’intero oggetto archeologico in esame sia più tardo.



Quindi nessun fantomatico realizzatore? Leonardo da Vinci? Un anonimo medievale?

Queste scritte recano con sé dei dettagli che sarebbe impossibile dedurre perfino dagli stessi Vangeli. Sono documenti del tutto “inediti”. Noi oggi siamo in grado di riconoscerli perché a partire dai primi anni del ’900 un mare di papiri scoperti ci ha aiutato a capire come andavano le pratiche di sepoltura nell’epoca presa in considerazione. Nemmeno un genio come Leonardo avrebbe potuto inventarsi una simile falsificazione. Faccio un esempio: nel Rinascimento non si aveva idea di quanto tempo il cadavere di un condannato a morte dovesse restare lontano dalle altre tombe. E via dicendo. Un falsificatore avrebbe usato parole di tutt’altro avviso. Mentre queste scritte sono paragonabili a nuovissime ricerche su questo terreno. Da dove diamine poteva trarre ispirazione il fantomatico anonimo medievale o Leonardo per inventarsele?



Come giudica, le chiediamo un parere da scienziata e archeologa, il fatto che le pubblicazioni “piccanti” sulla Sacra Sindone siano in così grande abbondanza?



Io credo che sia una pura speculazione commerciale volta a far parlare di sé. Oppure per sponsorizzare le proprie posizioni. Prendiamo il ridicolo esperimento del CICAP. In primo luogo la ricerca era pagata dall’UAAR il che non sorprende visti i risultati. Poi la modalità con la quale si è preteso di ricavare una copia della Sindone è davvero risibile. Per intenderci la può fare chiunque abbia un lino e della tempera. Le cose però, analizzando la colorazione autentica del lino, sono un po’ più complesse. Non ci riescono i fisici nucleari figuriamoci gli “esperti” del CICAP. Credo francamente che per loro sia stato un autogol perché se è questa la serietà scientifica con la quale affrontano le questioni misteriose di questo mondo stiamo freschi.



Le sue ricerche sulla Sindone proseguiranno o il mistero del lenzuolo è stato svelato del tutto?



Sicuramente proseguiranno. Non ho pubblicato tutto quello su cui ho raccolto materiale perché mi piace avere moltissimi documenti e prove a disposizione prima di uscire con pubblicazioni scientifiche. C’è ancora tanto da fare e da studiare sulla Sindone e sulla storia in generale. Mi piace considerare il mio studio solo come il passaggio di un testimone in una grande staffetta. Se non fosse stato per gli studiosi che mi hanno preceduto io non avrei scoperto proprio un bel niente. Quindi spero che la mole di materiale da me raccolto possa servire anche per i ricercatori in futuro. Quando si sente dire che qualcuno ha scoperto qualcosa da “solo” il mio personale consiglio è quello di diffidare. Certo può capitare, come è successo per la penicillina, ma si tratta di momenti di “grazia” rarissimi e isolati nella storia della ricerca scientifica. Per lo più tutti noi dipendiamo da chi ci ha preceduto nel tempo.
(Raffaele Castagna)


La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Non so se il mio amico pittore Bill Congdon - sia quando era all’apice della notorietà a New York, sia quando viveva gli ultimi fecondissimi anni della sua parabola artistica ritirato nella bassa milanese - sarebbe andato all’incontro degli artisti col Papa nella cappella Sistina. Era molto schivo. Il discorso di Benedetto XVI però sono sicuro che lo avrebbe letto con devota attenzione. Immagino di entrare nel suo studio proprio nel momento in cui ha finito di meditarlo. Mi legge questo passaggio: «Una funzione essenziale della vera bellezza consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, spingendolo verso l’alto».

Proprio mentre sto per chiedergli come mai questa frase lo abbia così colpito, Bill mi anticipa e dice: «Questa immagine della freccia che ferisce è proprio giusta. Troppi oggi, sia tra coloro che si credono artisti sia tra quelli che l’arte la guardano, l’ascoltano, la leggono, pensano che la bellezza sia una cosetta semplice semplice, un giochino scaltro, una consolazione a buon mercato. Io, invece, l’ho sempre vissuta come uno squassamento». Squassamento? «Ma sì, la bellezza è una cosa che non ti lascia in pace, è come uno strattone che ti tira fuori dalla banalità in cui ti rifugi per non pensare. È un taglio che rivela l’immensità del tuo desiderio. È la ferita di domande grandiose: Cosa sono, veramente, le cose? E dove vanno a finire? Nel nulla? Oppure ogni piccolo aspetto di ciò che esiste è una finestra che spalanca su un oltre? È una vita che tengo aperta questa ferita. Ogni quadro è accettare la sfida di andare oltre l’apparenza per cogliere la verità di quel che c’è».


Ma perché chiami questo “squassamento”? «Perché io non sono il padrone della realtà. Nessun uomo è il padrone della realtà. Semplicemente la riceviamo in dono. Quando ce ne dimentichiamo, accade quello che ha detto il Papa: la bellezza diventa “ipocrita”, pura maschera di una “volontà di potere”. Per non strozzare tutto dobbiamo tirare indietro le mani. E questo ti squassa».

L’immagine della bellezza che ferisce - e ferisce chiunque, non solo l’artista come Congdon - è costante nel pensiero di Ratzinger. Nel suo messaggio per il Meeting di Rimini del 2002 aveva scritto: «La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo». E, celebrandone i funerali, ha descritto don Giussani come «toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». Sempre quel verbo: ferire. Sembra un accento negativo, ma è l’unica possibilità per evitare di ridurre la bellezza ad estetismo, che fugge dal tanto brutto che c’è nella vita. Infatti, scriveva ancora Ratzinger al Meeting, «un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente»; ciò di cui abbiamo bisogno è la paradossale bellezza di Chi, nello stesso tempo, ha un volto «sfigurato dal dolore» ed è «il più bello tra i figli dell’uomo».


domenica 29 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 29/11/2009 – VATICANO - Papa: Cristo, fondamento della speranza di cui hanno bisogno tutti gli uomini - All’inizio del nuovo anno liturgico, Benedetto XVI sottolinea che Gesù Cristo è la speranza di cui hanno bisogno popoli ricchi e popoli in via di sviluppo; credenti e non credenti. Un pensiero per i malati di Aids, soprattutto i bambini e i più poveri. Saluti ai partecipanti alla marcia per affermare il valore religioso storico e culturale del crocifisso, dopo la sentenza della Corte europea.
2) Avvenire, 28 Novembre 2009 - INIZIA L'AVVENTO - Il Papa: «Sostare in silenzio per capire una Presenza»
3) LA SERRATA CRITICA ALLA PILLOLA ABORTIVA HA SMASCHERATO LE TROPPE BUGIE - Ma quale «conquista della donna»: adesso sulla Ru486 non ci sono più alibi - MICHELE ARAMINI – Avvenire, 29 novembre 2009
4) La battaglia della Ru486
5) Le omelie di Benedetto XVI: un modello per una Chiesa confusa - È in libreria un volume con la predicazione di papa Ratzinger nell'ultimo anno liturgico. Ad essa egli si dedica con crescente intensità. Come volesse offrire una guida a vescovi e preti - di Sandro Magister


29/11/2009 – VATICANO - Papa: Cristo, fondamento della speranza di cui hanno bisogno tutti gli uomini - All’inizio del nuovo anno liturgico, Benedetto XVI sottolinea che Gesù Cristo è la speranza di cui hanno bisogno popoli ricchi e popoli in via di sviluppo; credenti e non credenti. Un pensiero per i malati di Aids, soprattutto i bambini e i più poveri. Saluti ai partecipanti alla marcia per affermare il valore religioso storico e culturale del crocifisso, dopo la sentenza della Corte europea.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Gesù Cristo è “il fondamento della speranza”; quella speranza di cui “ogni essere umano ha costantemente bisogno”: così Benedetto XVI ha spiegato il senso dell’Avvento con l’inizio oggi dell’Anno liturgico. Parlando alle migliaia di pellegrini radunati in piazza san Pietro per la preghiera dell’Angelus, il papa ha precisato che “Gesù Cristo non riguarda solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché Egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della speranza”.

Spiegando la “rilevanza” che l’anno liturgico ha per gli uomini, il pontefice ha detto: “Il mondo contemporaneo ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci accorgiamo che ci troviamo su un’unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme. Soprattutto ci rendiamo conto, vedendo crollare tante false sicurezze, che abbiamo bisogno di una speranza affidabile, e questa si trova solo in Cristo, il quale, come dice la Lettera agli Ebrei, ‘è lo stesso ieri e oggi e per sempre’ (13,8). Il Signore Gesù è venuto in passato, viene nel presente, e verrà nel futuro. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché è morto e risorto, è ‘il Vivente’ e, mentre condivide la nostra precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità stessa di Dio. E’ ‘carne’ come noi ed è ‘roccia’ come Dio. Chiunque anela alla libertà, alla giustizia, alla pace può risollevarsi e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina (cfr Lc 21,28) – come leggiamo nel Vangelo di oggi.”.

Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato che il 1° dicembre si celebra la Giornata mondiale contro l’Aids. “Il mio pensiero e la mia preghiera – ha detto - vanno ad ogni persona colpita da questa malattia, in particolare ai bambini, ai più poveri, a quanti sono rifiutati. La Chiesa non cessa di prodigarsi per combattere l’Aids, attraverso le sue istituzioni e il personale a ciò dedicato. Esorto tutti a dare il proprio contributo con la preghiera e l’attenzione concreta, affinché quanti sono affetti dal virus HIV sperimentino la presenza del Signore che dona conforto e speranza. Auspico infine che, moltiplicando e coordinando gli sforzi, si giunga a fermare e debellare questa malattia”.

Nei saluti finali, in diverse lingue, Benedetto XVI ha salutato in particolare il gruppo che ha partecipato ad una marcia promossa dal Movimento dell’Amore Familiare “per manifestare profondo amore al Crocifisso, riconoscendone il valore religioso, storico e culturale”. La marcia era stata indetta anche per contestare la sentenza della Corte europea che giudica lesiva alla libertà l’esposizione dei crocefissi nei luoghi pubblici italiani.


Avvenire, 28 Novembre 2009 - INIZIA L'AVVENTO - Il Papa: «Sostare in silenzio per capire una Presenza»
"Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli" ma per sentire la sua presenza occorre "sostare in silenzio" e non farsi travolgere dal "fare": è questa l'esortazione espressa da papa Benedetto XVI che questa sera, nella Basilica di San Pietro, ha celebrato i Vespri della prima domenica di Avvento.

"Tutti facciamo esperienza, nell'esistenza quotidiana, di avere poco tempo per il Signore e poco tempo pure per noi. Si finisce per essere assorbiti dal 'farè. Non è forse vero che spesso è proprio l'attività a possederci - chiede il pontefice - la società con i suoi molteplici interessi a monopolizzare la nostra attenzione? Non è forse vero che si dedica molto tempo al divertimento e a svaghi di vario genere? A volte - aggiunge - le cose ci 'travolgono".

Il senso dell'Avvento, liturgia che conduce al Natale, può aiutare, invece, "a sostare in silenzio per capire una Presenza". Così, "i singoli eventi della giornata" diventano "cenni che Dio ci rivolge, segni dell'attenzione che ha per ognuno di noi".


LA SERRATA CRITICA ALLA PILLOLA ABORTIVA HA SMASCHERATO LE TROPPE BUGIE - Ma quale «conquista della donna»: adesso sulla Ru486 non ci sono più alibi - MICHELE ARAMINI – Avvenire, 29 novembre 2009
C on lo stop del Senato all’introduzione negli ospedali italiani, seguito dalla lettera con la quale il ministro del Welfare Sacconi detta una serie di condizioni per il suo uso ospedaliero in osservanza della legge 194, la Ru486 è tornata al centro del dibattito bioetico, con interessanti osservazioni circolate in questi giorni. Tra le altre, è utile isolare quella del ginecologo Giuseppe Benagiano, a parere del quale le critiche sollevate contro la pillola abortiva (pericolosità del farmaco e banalizzazione dell’aborto) sarebbero in realtà inconsistenti. La sua argomentazione può sembrare di buon senso: se una cosa è pericolosa (prima critica) è difficile che il suo uso si possa banalizzare (seconda critica), due argomenti che dunque si annullerebbero a vicenda.
La realtà s’incarica però di smentire quest’apparente sensatezza. Nei fatti i comportamenti a rischio sono ampiamente praticati: fumo, eccesso di alcol, uso di stupefacenti, sesso occasionale... Possiamo ben immaginare come le persone che hanno urgenza di abortire non si fermino di fronte al maggior pericolo della procedura chimica: l’aborto 'a tutti i costi' accetterebbe anche un rischio aggiuntivo. Occorre poi precisare che non molti sarebbero al corrente delle possibili conseguenze sulla salute provocate dall’aborto chimico. Questa conoscenza è presente invece in coloro che debbono prendere la decisione di immettere la pillola nella prassi abortiva, tenuti a operare per il miglior bene della donna e non per motivazioni ideologiche.
Che sia vero che la Ru486 sia dannosa per l’integrità fisica è un dato incontestabile.
Infatti, al di là del maggior numero di decessi che l’aborto chimico provoca, va considerato l’aumento di stress psichico cui la donna viene sottoposta. Il semplice confronto tra l’aborto chirurgico (pochi minuti di intervento, tre ore di osservazione ambulatoriale alle quali seguono le dimissioni della donna) e l’aborto chimico (somministrazione del mifepristone, dopo 24 ore le prostaglandine per l’espulsione del feto, un tempo variabile per arrivare al minitravaglio che coinvolge la donna per molte ore) fa comprendere che la procedura farmacologica si presenta come un danno per la salute psichica della donna. E la salute psichica fa parte del più generale concetto di salute, o no?
Già solo questo aspetto pone l’interrogativo fondamentale: a chi giova questo nuovo modo di abortire? È chiaro che l’insistenza sull’uso della Ru486 è dovuta, oltre che alla potenza delle case farmaceutiche, alla volontà di spostare l’aborto dall’ambito pubblico al privato.
Infatti i sostenitori della Ru486 si oppongono alla sua somministrazione ospedaliera. L’obiettivo della privatizzazione è parte di una strategia che si ritrova anche in altri aspetti della bioetica, come il testamento biologico e l’eutanasia. Si vorrebbe rendere inefficace ogni possibile controllo sociale sulle decisioni bioetiche in nome di una logica libertaria, che viene nobilitata definendola 'autodeterminazione'. Tale strategia si attua con l’aiuto di governi 'amici' – un esempio è quello di Zapatero – o tramite campagne mediatiche che veicolano tutta una serie di bugie sull’aborto chimico quale nuova 'conquista della donna'.
Se questa strategia avesse successo per inavvedutezza della politica, ci ritroveremmo con una società insidiata dalla tossina della mancanza di rispetto per la vita, un autentico germe di violenza. In questa società non ci sarebbe più bisogno di definire l’aborto come un dramma, perché sarebbe solo un evento insignificante.
Questi argomenti mostrano che la lunga e serrata discussione sulla Ru486, in corso nel nostro Paese da almeno quattro anni, ha avuto il merito di far emergere con precisione le troppe inesattezze sulle vere conseguenze e le implicazioni dell’uso della Ru486. I responsabili dell’Agenzia italiana del farmaco, chiamati ora a tradurre le stringenti indicazioni di Sacconi in una nuova delibera, non possono non tenerne conto. Comunque vadano le cose, ai politici spetterà il compito di vigilare perché non si allarghino le maglie, già larghissime, della 194.


La battaglia della Ru486
Nuovo stop alla diffusione in Italia della pillola abortiva. La Commissione Sanità del Senato (voti a favore del Pdl e della Lega) ha votato un testo in cui si prevede che l’immissione in commercio sia preceduta da un parere del ministero della Salute, che assicura un intervento in tempi strettissimi. Il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella: «Nessun boicottaggio. Viene semplicemente ripristinato l’ordine delle competenze e data la priorità alle indicazioni del governo circa la compatibilità del metodo con la legge italiana, in particolare la 194». «Il parere arriverà entro 24 ore. A quel punto l’Aifa dovrà convocare un nuovo Cda e votare una nuova delibera sulla Ru486. La pillola abortiva – lo ribadisco – potrà essere impiegata in Italia solo a questa condizione: che la donna sia in ospedale per tutta la procedura, che un medico sia accanto a lei, che l’aborto non avvenga a casa o su un tram».
Un passo certamente importante, ma ancora una volta si deve constatare amaramente che “gli interrogativi ruotano intorno alla salvaguardia dell’integrità fisica della donna ed al rispetto di quella legge che da oltre trent’anni legittima l’uccisione volontaria di esseri umani innocenti ed indifesi. L’abominevole delitto descritto dal Catechismo diventa tale solamente quando la donna ne subisce le conseguenze fisiche o morali. Il tentativo di occultamento del male operato dalle lobby abortiste ha probabilmente raggiunto l’obbiettivo fissato: della vittima non v’è più alcuna traccia” (cf. Corrispondenza Romana).

Non smettiamo di difendere la vittima dell’aborto: il BAMBINO !





Le nuove tappe della Ru486 in Italia

Il “no” della Commissione Sanità del Senato all’immissione in commercio della pillola abortiva, arrivato ieri al termine dell’indagine conoscitiva sulla Ru486, azzera di fatto gli ultimi atti dell’Agenzia del farmaco a partire dal 30 luglio scorso, quando il Consiglio d’amministrazione dell’agenzia autorizzò con una delibera ad hoc l’introduzione della pillola nel nostro Paese.

Cosa succede ora?
Non appena verrà formulato il parere del governo sulla compatibilità della legge 194 con l’aborto chimico (entro 24 ore, come assicurano al ministero della Salute), l’Aifa dovrà ricominciare la procedura di autorizzazione della Ru486 proprio dalla delibera di luglio. I tempi del nuovo documento dipendono dall’Aifa, ma un atto in questo senso potrebbe arrivare in tempi brevissimi, anche entro una settimana. A quel punto si dovrà attendere che la nuova delibera – con le disposizioni tecniche per l’uso del farmaco così rinnovate – sia pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Solo allora l’aborto chimico potrà essere effettuato negli ospedali, nel pieno rispetto della legge 194.

E cosa cambia?
Nella nuova delibera sarà introdotto – questa la novità essenziale che verrà sottolineata proprio dal governo – l’obbligo del ricovero ordinario per le donne che ricorrono alla pillola abortiva. Un punto, quello in questione, che non era abbastanza chiaro nel testo della prima delibera, in cui il ricovero era previsto "fino alla certezza dell’avvenuta interruzione di gravidanza", quindi non fino all’espulsione del feto, che come noto è successiva di almeno tre giorni all’assunzione della Ru.

È coinvolta anche l’Europa?
Il governo potrebbe decidere – come peraltro auspicato dalla stessa commissione Sanità del Senato – di rivolgersi tramite l’Aifa all’Emea (l’agenzia del farmaco europea) per discutere il problema della farmacovigilanza, cioè della sicurezza della Ru486. Nell’indagine conoscitiva sono infatti emersi da più parti dubbi su come vengono elaborati i dati sulla pillola abortiva, e non solo quelli sulla mortalità, ma anche sugli eventi avversi, gli effetti collaterali e l’intero follow up della pillola (in gran parte d’Europa la pillola viene assunta fuori dalle strutture sanitarie). In questo caso l’Emea potrebbe riconsiderare le modalità dell’aborto chimico non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi europei in cui la pillola è stata adottata.

Avvenire 27 Novembre 2009


Il cinismo di chi non vuole capire

di Francesco Ognibene

Il colpo di scena è arrivato proprio all’ultimo minuto. La partita per il via libera alla pillola abortiva negli ospedali italiani s’è riaperta proprio quando pareva ormai prossimo alla conclusione l’inesorabile iter burocratico del "mutuo riconoscimento" per un farmaco già adottato in altri Paesi dell’Unione europea.
La cieca macchina dei timbri apposti da organismi tecnici in calce all’autorizzazione di un medicinale col quale s’introduce in Italia nientemeno che un nuovo modo di abortire pareva impossibile da arrestare, in barba a una legge dello Stato. Ma il Parlamento ha finalmente reagito mostrando di volersi riappropriare della sua funzione di rappresentanza della volontà popolare. E ha deciso di vederci chiaro, con una determinazione che l’ha condotto – ieri – a rimettere in discussione ciò che molti davano per acquisito.

È arrivata così l’ineccepibile decisione di chiedere al governo una parola chiara sulla discutibilissima compatibilità della Ru486 con ciò che dispone la 194: una legge che, come tutti sanno, mai ci è piaciuta, ma che quantomeno detta alcune regole minime per evitare di aggiungere allo scempio dell’embrione lo sfregio sulla donna già ferita da una scelta drammatica come l’interruzione di una gravidanza. Perché la Ru486 non è l’«aborto dolce» o «meno invasivo», come vagheggia chi vorrebbe sbancare ogni forma di tutela della vita (caposaldo della Costituzione) in nome di una libertà "liquida". L’aborto chimico – in realtà – è una procedura lunga e dolorosa, un metodo brutale per mettere fine con le proprie mani a quella vita che germoglia nel grembo, fino all’umiliazione di fare tutto da sé e di vedere (in oltre la metà dei casi) quel poco che resta di una vita che poteva essere.

Un dolore indicibile, ricacciato nell’angolo buio del bagno di casa, nella migliore delle ipotesi. La clandestinità riabilitata. È questo che dovremmo veder introdotto anche in Italia (e poco importa che altrove sia già così), col placet di uno Stato neutrale? O non è bene reagire e ragionare finché c’è possibilità, per esigere civilmente che ci si accorga della «banalità del male» quando ricompare in nuove, edulcorate forme dalle sentine della storia, per allungare la sua ombra sulla vita umana più fragile?

A questo orrore il Senato ha responsabilmente detto no, reggendo un formidabile e convergente urto politico, mediatico e culturale. La maggioranza della Commissione Sanità ha dunque chiesto che venga rispettata alla lettera la legge là dove dispone il ricovero ordinario sino al completamento dell’aborto, senza ricorrere a stratagemmi come il day hospital o le dimissioni "volontarie" (magari incoraggiate da disinvolti ginecologi o fautori di un’ideologica deregulation). Chi nelle manifestazioni tardo-femministe strilla all’intoccabilità della 194 abbia almeno il buon gusto di non pretenderne ora un’applicazione a intermittenza, e un sostanziale scardinamento.

Di fronte a un intervento dell’istituzione democratica che s’ingegna per garantire la salute fisica e psicologica delle donne, insidiata da un nuovo "farmaco" che porta morte, diventa sempre più incomprensibile il fuoco di sbarramento opposto da parlamentari che hanno parlato di decisione «cinica» e «insensata», di «forzatura politica», addirittura di «gioco scandaloso». In questo coro di lamentazioni pregiudiziali non s’è udito il coraggio moderno e libero di affrontare la sostanza della questione: la pillola abortiva è davvero un bene per le donne, o è solo un sistema illusoriamente sbrigativo per chiudere la "pratica" aborto senza disturbare, fingendo che sia una vicenda sanitaria come tante? Il modo in cui lo si vorrebbe estendere in tutta Italia (una pillola e via, tutte a casa, per non appesantire i costi della sanità) sa tanto di ostinazione ideologica, con un sovrappiù di invettive agli "oscurantisti" che si oppongono.

Una vita che palpita e il corpo delle donne usati per affermare un’assoluta e incontrollata libertà di aborto. Lo chiamano diritto, ma è questo il vero cinismo.

Avvenire 27 Novembre 2009


Le omelie di Benedetto XVI: un modello per una Chiesa confusa - È in libreria un volume con la predicazione di papa Ratzinger nell'ultimo anno liturgico. Ad essa egli si dedica con crescente intensità. Come volesse offrire una guida a vescovi e preti - di Sandro Magister


ROMA, 27 novembre 2009 – Alla vigilia dell'Avvento è uscito in Italia un libro che raccoglie le omelie di Benedetto XVI dell'anno liturgico appena trascorso.

Ogni anno liturgico va da Avvento ad Avvento. È una grande narrazione sacramentale che, di messa in messa, ha questa particolarità: realizza ciò che dice. Il protagonista della narrazione, Gesù, non è semplicemente ricordato, ma è presente ed agisce. Le omelie sono la chiave di comprensione della sua presenza e dei suoi atti. Dicono chi egli è e che cosa fa oggi, "secondo le Scritture".

Questo, almeno, è ciò che si apprende ascoltando papa Joseph Ratzinger, straordinario omileta.

Le omelie sono ormai un segno distintivo del pontificato di Benedetto XVI. Forse ancora il meno noto e capito, ma sicuramente il più rivelatore. Le scrive in buona misura di suo pugno, a tratti le improvvisa, sono quanto di più genuino esce dalla sua mente.

Ad esse si dedica in misura preponderante e crescente. Le omelie del penultimo anno liturgico – anch'esse pubblicate in un volume un anno fa dallo stesso editore – erano state ventisette; in questa nuova raccolta sono quaranta.

E ad esse vanno aggiunte le "piccole omelie" che il papa pronuncia la domenica all'Angelus di mezzogiorno, sulle letture della messa del giorno: tutte inconfondibilmente di suo pugno, anch'esse riprodotte in appendice a questo volume.

Per facilitare la lettura, nel volume ogni omelia è seguita dai testi delle letture bibliche della relativa messa. Benedetto XVI, infatti, fa riferimento sistematico a questi testi. E non solo. Quando serve, il lettore trova riprodotti anche altri testi liturgici commentati dal papa nell'omelia: dal "Magnificat" del vespro al "Te Deum" dell'ultimo dell'anno, dal "Victimæ pascali laudes" del giorno di Pasqua al "Veni Sancte Spiritus" di Pentecoste.

Lo scorso Giovedì Santo papa Ratzinger commentò a lungo il canone – cioè la preghiera centrale della messa – che si legge quel giorno nella liturgia di rito romano. E anche questo canone il lettore trova trascritto nel libro, sia in latino che in lingua moderna.

Le omelie papali sono ordinate secondo la scansione dell'anno liturgico, di domenica in domenica e di festa in festa, dall'Avvento al Natale, alla Quaresima, a Pasqua, a Pentecoste e oltre. Ma sotto ogni titolo è sempre specificato dove e come il rito è stato celebrato: ad esempio nella Cappella Sistina battezzando alcuni bambini, oppure a Gerusalemme, a Betlemme, in Camerun, in Angola, nell'uno o nell'altro dei viaggi papali.

In ogni omelia, infatti, Benedetto XVI "situa" la sua predicazione, la applica alla comunità alla quale parla, oppure ricava dal contesto una lezione per tutti.

Un esempio lampante è l'omelia riprodotta qui di seguito, che nel libro non c'è perché pronunciata mentre esso era già in stampa.

Benedetto XVI l'ha letta durante la messa da lui celebrata lo scorso 8 novembre a Brescia, nella diocesi natale di papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI. E a questo papa egli quindi fa riferimento, oltre che alle letture bibliche della messa del giorno.

Un secondo esempio recente della predicazione di papa Ratzinger – per ragioni di data assente dal libro – è la "piccola omelia" dell'Angelus di domenica 15 novembre, anch'essa riprodotta più sotto.

Se è sempre più evidente che Benedetto XVI, col suo "stile" nel celebrare la messa, intende offrire un modello a una Chiesa liturgicamente confusa, lo stesso si può dire che faccia con la sua arte omiletica.

venerdì 27 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA STORIA/ "Noi dipendenti in cassa integrazione faremo la Colletta" - Redazione venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
2) COLLETTA/ Passera: la vera povertà è l’individualismo in cui siamo immersi - INT. Corrado Passera venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
3) … E infine la Supplica del 27 novembre - 26 novembre 2009 / - dal blog di Antonio Socci
4) Prima di tutto la vita - Convegno a Brescia organizzato da Heptavium, un progetto del MPV italiano - di Elisabetta Pittino
5) Il Gesù uomo visto con gli occhi di Erri De Luca - Intervista allo scrittore autore di “Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ - di Silvia Gattas
6) L’Europa che difende il crocifisso - Mario Mauro venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
7) 24 Novembre. John Rawls. Un filosofo per la democrazia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - giovedì 26 novembre 2009
8) Avvenire, 27 Novembre 2009 - INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO AL WELFARE ROCCELLA - «Così tuteliamo la salute delle donne»
9) Colletta alimentare, i bisogni dei poveri entrano nel carrello - DA MILANO PAOLO FERRARIO – Avvenire, 27 novembre 2009


LA STORIA/ "Noi dipendenti in cassa integrazione faremo la Colletta" - Redazione venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Che questo sia un periodo difficile e critico per molti lavoratori lo vediamo tutti. Ce lo dicono i dati sulla disoccupazione, sull’aumento del ricorso alla cassa integrazione e lo osserviamo nelle immagini di manifestazioni di dipendenti che a volte arrivano ad atti dimostrativi come, per esempio, salire sul tetto della propria azienda. Ma tra questi volti c’è anche una storia particolare. È quella che ci racconta Valeriano Sottura, delegato della Rsu della Metalli Preziosi di Paderno Dugnano, provincia di Milano.


Fino a marzo di quest’anno l’azienda, che produceva semilavorati in leghe preziose, impiegava 123 lavoratori poi è arrivato il fallimento. Ma per capire meglio la situazione bisogna partire esattamente da un anno fa: novembre 2008. «Allora, il proprietario - racconta Sottura - ci ha chiesto di slittare il pagamento dello stipendio di qualche giorno. A dicembre, non avevamo visto ancora niente in busta paga, nemmeno la tredicesima. Siamo andati avanti così fino alla terza settimana di marzo, perché da gennaio c’era stato detto che esisteva un concordato preventivo con un’azienda slovena».



Purtroppo però si rivela tutta una farsa. «Ci siamo informati e abbiamo scoperto che questa azienda aveva un capitale sociale versato di 8.000 euro e un solo dipendente. Come poteva salvarci?». Un grosso abbaglio anche per il giudice che aveva autorizzato la procedura. «Lo abbiamo avvisato e così ha dovuto dichiarare il fallimento dell’azienda. Ma proprio il giorno prima il proprietario ha portato i libri in Tribunale e quindì è rimasto impunito».



Così terminano 20 anni di lavoro nella stessa azienda, di cui 13 in fonderia. Sottura aveva visto nella sua carriera diversi passaggi di proprietà. Poi nel 2005 era arrivato Marcel Astolfi a rilevarne il 60%. Il restante 40% era in mano a soci russi. Tutta colpa della crisi? Non proprio, perché «ordini e lavoro continuavano a esserci. Abbiamo però smesso di lavorare già all’inizio dell’anno perché mancava l’argento, la materia prima: l’azienda aveva smesso di comprarlo».



«Il fatto è - spiega Sottura - che la proprietà ha voluto farci chiudere. Su quest’area vogliono costruire un hotel, alcune case e un centro commerciale in vista dell’Expo del 2015. Siamo infatti a circa 7-8 km dalla Fiera di Rho-Pero e vicini alla Tangenziale Nord che porta lì».



Da gennaio a marzo Sottura e un manipolo scarno di suoi colleghi continuano ad andare lo stesso in azienda per timbrare il cartellino e cercare di salvaguardare il posto di lavoro e iniziano un presidio in mensa. «In quel periodo dovevamo mangiare lì, abbiamo quindi chiesto aiuto alla Caritas e alla San Vincenzo e loro hanno incominciato a darci dei pacchi settimanali di cibo».



I lavoratori chiedono quindi la Cassa integrazione straordinaria, avendo già quasi 5 mesi di stipendi arretrati e non pagati. Non è per niente una passeggiata. «Sembrava non arrivare mai. Siamo andati da tutte le istituzioni: comune, provincia, Regione e Ministero. Finalmente a fine luglio sono arrivati i primi soldi (relativi all’ultima settimana di marzo e ai mesi di aprile e maggio) e ai primi di novembre sono arrivati altri quattro mesi».



Ma c’è chi non ce la fa ancora. «Per qualcuno siamo riusciti ad avere il Fondo anti-crisi di Tettamanzi, che è stata una bella cosa, peccato sia finita. Per altri abbiamo dato il nominativo alla San Vincenzo che li sta aiutando. All’inizio erano una ventina di persone poi sono aumentate».



Un ulteriore sostegno arriva dal Banco Alimentare. «Sono venuti loro, si sono presentati in azienda e hanno detto che erano disponibili per chiunque avesse bisogno. Visto che sono venuti, qualcuno che era indeciso e che aveva vergogna ad andare a chiedere aiuto si è fatto avanti. Ora ricevono dei pacchi di cibo. Io personalmente li ritiro per altri che ancora si vergognano di chiedere. Per ora in famiglia, grazie a mia moglie che lavora, riusciamo ancora a cavarcela».

Nel frattempo il manipolo aumenta di numero. «Adesso in azienda siamo quasi in 20 tutti i giorni. A inizio settembre siamo stati anche sul tetto dell’azienda per 8-9 giorni. Abbiamo cercato di far capire che ci siamo ancora, che non siamo morti. Abbiamo organizzato anche serate con i comici di Zelig e Colorado, concerti e spettacoli (anche in azienda), faremo un mercatino con gli oggetti fatti in questi mesi in ditta per alimentare il fondo di solidarietà che ci serve anche per mantenere il presidio».



Tutto in attesa del 3 dicembre quando «ci sarà l’assemblea dei creditori e probabilmente si deciderà di andare all’asta». Il futuro sembra quindi ancora incerto. Ma intanto Sottura e altri suoi colleghi hanno già preso un impegno per domani. Saranno infatti tra i volontari della Giornata nazionale della colletta alimentare, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare. «Domani andremo anche noi a dare una mano per quel che possiamo. Così come siamo stati aiutati, vogliamo aiutare gli altri perché è una esperienza che è utile a tutti».



Sottura sa infatti che oltre ai lavoratori della Metalli Preziosi e della Lares (altra azienda di Paderno in liquidazione e di cui era proprietario Astolfi), «molti altri avranno presto bisogno data la situazione di crisi. Già altre aziende di Paderno e paesi limitrofi sono nella stessa situazione (senza stipendio, senza cassa integrazione), quindi daremo una mano, visto che siamo stati aiutati».



Non è stato nemmeno difficile convincere i suoi colleghi a partecipare. «Abbiamo visto che è una cosa che serve e abbiamo anche capito che c’è gente che ha più bisogno di noi. In questi mesi siamo andati anche alla San Vincenzo a piastrellare e imbiancare un locale gratuitamente. Quando ho detto ai miei colleghi che c’era questa cosa da fare, tanti si sono offerti di venire, anche chi non ha mai ricevuto il loro aiuto».



Del resto la gratuità è proprio quello che ha toccato e colpito Sottura, soprattutto quando avviene rispettando la dignità della persona. «Questo è molto importante ed è ciò che mi ha colpito delle persone che ci hanno aiutato».


COLLETTA/ Passera: la vera povertà è l’individualismo in cui siamo immersi - INT. Corrado Passera venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Sabato 28 novembre è la giornata nazionale della Colletta alimentare, un momento di carità vissuta e praticata per milioni di italiani. E un colpo inferto all’individualismo che domina la mentalità corrente, sempre più convinta che per realizzare se stessi bisogna fare a meno degli altri. Lo ha detto di recente don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl: «l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della nostra felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus». Ma questa non può essere la risposta, perché la vita dell’uomo è affetto, carità. Ed è proprio la carità la sfida più grande contro la crisi: «andare incontro ai bisogni crescenti della gente - dice Corrado Passera, Ceo di Intesa Sanpaolo - richiede persone capaci non solo di portare doni, ma anche di donare se stesse».



Dottor Passera, di recente don Julián Carrón ha detto che la principale tentazione dei nostri tempi è proprio l’individualismo, ma che «in questo la modernità dimostra la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo». Che ne pensa?



È vero. Viviamo in un’ideologia per la quale il bene comune deve nascere dalla contrapposizione di interessi personali. Ma è una tesi indimostrata e indimostrabile, e sicuramente fallace, perché la società - se funziona - non è fatta dalla somma di interessi particolari, egoisticamente intesi, ma dalla convergenza di responsabilità. Occorrono persone che in quello che fanno si sentano responsabili non solo per la propria parte, ma per il tutto. Del resto è la storia stessa a dimostrare che la spinta eccessiva verso l’individualismo non porta in nessun modo alla massimizzazione del bene comune, ma alla disgregazione.



Cosa insegna la carità a un’economia che non ha saputo attenersi a regole ragionevoli di sensato sviluppo?



Tra le società che meglio hanno superato la crisi, o che più hanno creato bene comune, ci sono quelle che hanno saputo far coesistere la competitività e la capacità di crescere nel mercato globale, con la capacità di garantire coesione sociale attraverso quei meccanismi di solidarietà, di fraternità e di condivisione di valori, di cura e di difesa dalla paura, basati anche sulle varie forme di welfare che la nostra civiltà europea è riuscita a costruire.



E il nostro paese?


In questo senso l’Italia ha dei vantaggi. Abbiamo una serie di difficoltà e di debolezze in tanti campi che dobbiamo senz’altro risolvere, ma abbiamo saputo anche costruire e salvaguardare nel tempo un livello di coesione sociale superiore a quello di molti altri Paesi. Dobbiamo valorizzare e consolidare, nel rispetto della solidarietà e della sussidiarietà, il nostro sistema di welfare, adeguandolo alle nuove esigenze della società e della demografia.



Lo stato può sperare da solo di farsi carico della povertà?



L’attuale welfare ha costi difficilmente sostenibili e per sopravvivere deve riformarsi. Ma nemmeno il privato da solo può far fronte alla povertà e alle varie forme di disagio. Tra stato e privato si apre un enorme spazio che solo il terzo settore saprà colmare, perché andare incontro ai bisogni crescenti della gente - di cui la povertà, e la povertà alimentare, sono solo un aspetto accanto a molti altri - richiede persone capaci non solo di portare doni, ma anche di donare parte di se stesse. In quest’azione pubblico e privato sono deficitari: il privato perché non vi trova ritorno, il pubblico perché non ha sufficienti risorse. Ma quando anche le avessero entrambi, non avrebbero la capacità di dono e la passione che alimenta il privato sociale. Il bisogno della persona non è mai puramente materiale.



Che significato ha, per lei, sostenere l’iniziativa del Banco alimentare?



Noi di Intesa Sanpaolo siamo appassionati “supporter” del Banco alimentare ormai da tanti anni. Abbiamo visto crescere anno dopo anno, sia in quantità che in qualità e spazio di intervento, un’iniziativa unica nel suo genere. Poiché abbiamo messo in campo una serie di iniziative per aiutare chi aiuta - basti pensare a Banca Prossima - e, pertanto, con un operatore come il Banco alimentare non potevamo che trovarci in perfetta assonanza. È per questo che ne sosteniamo e ne sosterremo le iniziative.



Che senso ha promuovere nel tempo opere di carità, anziché limitarsi a “staccare” un assegno?



Sono iniziative ugualmente apprezzabili. Ma tra regalare "una tantum" dei soldi o del cibo, e aiutare chi gestisce una grande ed efficiente macchina logistica in grado di dar da mangiare ogni anno a milioni di persone, assicurando continuità e stabilità all’aiuto, sostenere questo secondo livello - senza nulla togliere a chi dà l’assegno - vuol dire alleviare strutturalmente il disagio sociale. Disagio crescente in questa fase di recessione economica, che rende ancor più cruciale il ruolo del Banco alimentare.


… E infine la Supplica del 27 novembre - 26 novembre 2009 / - dal blog di Antonio Socci
Quanto è grande il dolore del mondo… In ospedale, dal letto di Caterina, si vede uno sconfinato e sconsolato panorama di sofferenze. Quanti afflitti da confortare, quante lacrime da asciugare…

Si può sostenere tutto questo solo fissando lo sguardo su Colui che davvero sostiene tutta l’afflizione umana sulle sue spalle, che la porta al Golgota e infine vince il Male e asciuga ogni lacrima…

Perché davvero Egli ha misericordia di tutti… di tutti… Quanto amore avvolge l’umanità ferita, quanti santi sconosciuti a tutti, quanti piccoli e semplici che fasciano ferite e sono l’abbraccio di Gesù e sono la carezza del Nazareno…

E’ specialmente Lei, la Madre di Dio che, oggi come a Cana, vede il dramma di ciascuno prim’ancora che l’interessato se ne accorga… E’ lei che previene e soccorre prima di tutti perché Lei è veramente Madre. Di ciascuno di noi! Sempre! Soprattutto nei momenti che sembrano più bui… Lei non ci abbandona mai!

A santa Caterina Labouré infatti disse: “Il momento verrà, il pericolo sarà grande, si crederà tutto perduto. Allora io sarò con voi”.

Con questo pensiero propongo di concludere la Novena della Medaglia miracolosa con la Supplica che va recitata alle ore 17 del 27 Novembre, in ricordo di quell’apparizione di Rue du Bac (ma anche il 27 di ogni mese e in ogni necessità).

Ecco il testo:


O Vergine Immacolata, noi sappiamo che sempre ed ovunque sei disposta ad esaudire le preghiere dei tuoi figli esuli in questa valle di pianto, ma sappiamo pure che vi sono giorni ed ore in cui ti compiaci di spargere più abbondantemente i tesori delle tue grazie.

Ebbene, o Maria, eccoci qui prostrati davanti a te, proprio in quello stesso giorno ed ora benedetta, da te prescelta per la manifestazione della tua Medaglia.

Noi veniamo a te, ripieni di immensa gratitudine ed illimitata fiducia, in quest’ora a te sì cara, per ringraziarti del gran dono che ci hai fatto dandoci la tua immagine, affinché fosse per noi attestato d’affetto e pegno di protezione.

Noi dunque ti promettiamo che, secondo il tuo desiderio, la santa Medaglia sarà il segno della tua presenza presso di noi, sarà il nostro libro su cui impareremo a conoscere, seguendo il tuo consiglio, quanto ci hai amato e ciò che noi dobbiamo fare, perché non siano inutili tanti sacrifici tuoi e del tuo divin Figlio.

Sì, il tuo Cuore trafitto, rappresentato sulla Medaglia, poggerà sempre sul nostro e lo farà palpitare all’unìsono col tuo. Lo accenderà d’amore per Gesù e lo fortificherà per portar ogni giorno la propria croce dietro a Lui.

Questa è l’ora tua, o Maria, l’ora della tua bontà inesauribile, della tua misericordia trionfante, l’ora in cui facesti sgorgare per mezzo della tua Medaglia, quel torrente di grazie e di prodigi che inondò la terra.

Fai, o Madre, che quest’ora, che ti ricorda la dolce commozione del tuo Cuore, la quale ti spinse a venirci a visitare e a portarci il rimedio di tanti mali, fai che quest’ora sia anche l’ora nostra: l’ora della nostra sincera conversione, e l’ora del pieno esaudimento dei nostri voti.

Tu che hai promesso proprio in quest’ora fortunata, che grandi sarebbero state le grazie per chi le avesse domandate con fiducia: volgi benigna i tuoi sguardi alle nostre suppliche. Noi confessiamo di non meritare le tue grazie, ma a chi ricorreremo, o Maria, se non a te, che sei la Madre nostra, nelle cui mani Dio ha posto tutte le sue grazie?

Abbi dunque pietà di noi. Te lo domandiamo per la tua Immacolata Concezione e per l’amore che ti spinse a darci la tua preziosa Medaglia.

O Consolatrice degli afflitti, che già ti inteneristi sulle nostre miserie, guarda ai mali da cui siamo oppressi.

Fai che la tua Medaglia sparga su di noi e su tutti i nostri cari i tuoi raggi benefici: guarisca i nostri ammalati, dia la pace alle nostre famiglie, ci scampi da ogni pericolo.

Porti la tua Medaglia conforto a chi soffre, consolazione a chi piange, luce e forza a tutti.

Ma specialmente permetti, o Maria, che in quest’ora solenne ti domandiamo la conversione dei peccatori, particolarmente di quelli, che sono a noi più cari.

Ricordati che anch’essi sono tuoi figli, che per essi hai sofferto, pregato e pianto. Salvali, o Rifugio dei peccatori, affinché dopo di averti tutti amata, invocata e servita sulla terra, possiamo venirti a ringraziare e lodare eternamente in Cielo. Cosi sia.

Recitare il Salve Regina e tre volte

“O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te”.


Prima di tutto la vita - Convegno a Brescia organizzato da Heptavium, un progetto del MPV italiano - di Elisabetta Pittino
BRESCIA, giovedì, 26 novembre 2009 (ZENIT.org).- Grande successo di pubblico al convegno sul tema "Prima di tutto la vita. O morte, dov'è la tua vittoria?", che si è svolto l’11 novembre nell’Aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia.

Organizzato da Heptavium, progetto del MPV italiano, il convegno ha ricevuto i saluti dal dott. Luigi Morgano, Direttore di sede dell’Università Cattolica di Brescia, dal dott. Paolo Picco, Presidente di Federvita Lombardia, dal prof. Massimo Gandolfini, Presidente AMCI Lombardia e Scienza e Vita Brescia, dalle associazioni CVS (Centro Volontari della Sofferenza), Silenziose Operaie della Croce, ANFASS, Famiglie numerose Cattoliche, Famiglie Numerose, Forum Famiglie, Scout, Identità Cristiana.

Laura Gavazzoni, volontaria del CVS, in sedia a rotelle, ha detto agli oltre 220 partecipanti: “noi siamo cristiani ammalati che si impegnano a valorizzare la loro sofferenza (…) l’ammalato si faccia apostolo presso altri ammalati (…) il limite, insito nella disabilità sia uno stimolo a costruire rapporti sociali basati sulla gratuità e non sulla logica del do ut des”.

“Ogni vita - ha sottolineato la Gavazzoni -, anche se segnata dalla malattia, se si unisce a Gesù Cristo, trova la sua ragion d’essere e come tale è sempre degna di essere vissuta”.

Il Presidente della regione, Roberto Formigoni, ha inviato una lettera sulle azioni concrete della Lombardia nella vicenda Englaro. Tra queste la premiazione alle Suore Misericordine di Lecco che l’hanno accudita per anni.

Il prof. Massimo Gandolfini, Associato di Neurochirurgia e direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Poliambulanza di Brescia, è entrato nel vivo del tema, ed ha affermato: “Da un’idea di accanimento terapeutico si è passati all’estremo opposto, l’abbandono terapeutico”.

Gandolfini ha precisato che c’è nettissima differenza, tra accanimento e insistenza terapeutica. “Insistenza terapeutica è il prolungamento delle terapie e/ o cure di sostegno vitale, anche per lungo tempo, a fronte di situazioni cliniche con prognosi non sicuramente prevedibile”.

“Il coma – ha aggiunto –, che studia anche gli stati comatosi e le tecniche di neuro stimolazione cerebrale profonda talamica è una tappa di passaggio verso: restitutio ad integrum o restituzione parziale, o morte, o stato vegetativo”.

A proposito del “don’t resuscitate order”, ordine di non rianimare, Gandolfini ha rilevato che al pronto soccorso numerosi pazienti arrivano in coma. Di 100 pazienti in coma se ne possono salvare con disabilità variabili o con restituito ad integrum più del 90%. Sarebbe folle dal punto di vista scientifico pensare di non rianimarli.

L’espressione “vite non degne di essere vissute” - ha ricordato Gandolfini- è stata introdotta il primo settembre del 1939 dal Terzo Reich.

Il dr. Mario Melazzini, Presidente AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, è intervenuto come testimone: malato di SLA, paziente e medico allo stesso tempo.

Nel 2003 gli fu diagnosticata la SLA. Si ribellò e pensò di cercare la morte. Prese contatti con le cliniche della “dolce morte” in Svizzera. Attraversò un’angoscia esistenziale profonda. Poi all’improvviso la rinascita.

La malattia può cambiare una persona in meglio dice oggi perchè “ti fa affrontare la vita in modo diverso” in un modo nuovo che non avevi mai sospettato. Ti si aprono orizzonti, che non sapevi esistessero. Torna la voglia di vivere, perché la vita è bella anche per un malato.

Da qui il suo battersi per i malati come lui. “C’è uno stato di completo abbandono assistenziale per i malati di SLA”, ha affermato. Non solo per loro.

Emettono sentenze sulla vita e la morte dei malati, dice Melazzini, persone che si definiscono normali. “Vivere – conclude – è una meravigliosa malattia inguaribile”.

Il dott. Pino Morandini, Vice Presidente del MPV nazionale, citando, tra gli altri, Romano Guardini ha spiegato perché il MPV si occupa anche del fine vita: “la vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona”. L’uomo è inviolabile dal concepimento fino alla morte naturale.

Morandini ha poi incoraggiato l’approvazione della nuova legge sulle cure palliative dopo un veloce excursus sulla situazione legislativa attuale, sul disegno di legge in discussione, sulle DAT, una parola in codice che significa testamento biologico.

Il prof. Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, ha affermato che, secondo l’art. 2 della Costituzione,“la titolarità dei diritti fondamentali non dipende dalle condizioni esistenziali, da un giudizio su qualità, capacità… età. I diritti inviolabili dipendono dall’esistenza in vita. Il mutuo rispetto della vita ha a che fare con il fondamento stesso della democrazia moderna, è il cuore della democrazia”.

“La giustizia – ha continuato – non sta nella reciprocità dei comportamenti: se io giudico uno negativo, sono autorizzato ad agire negativamente. Non sta nella reciprocità del male per il male, ma è l’avere coraggio di fare un progetto di bene dinanzi al male. La giustizia ha a che fare sempre con il riconoscimento dell’altro come portatore di dignità… fosse anche il malato terminale”.

Il dr. Giovanni Zaninetta, direttore dell’Unità operativa di cure palliative- Hospice della Domus Salutis di Brescia, ha proposto un’alternativa concreta a eutanasia e accanimento terapeutico.

La terapia del dolore è una parte delle cure palliative, che sono tecnicamente qualificate e hanno una loro evidenza scientifica. Hanno un obiettivo diverso dalle altre cure, quello di offrire la miglior vita possibile nonostante la malattia in atto. Occorre partire da una cultura della vita per affrontare sofferenza, malattia e morte.

La condivisione con il malato e con la sua famiglia è il primo passo. Quindi è necessaria un’assistenza tecnica, medica e infermieristica. Non solo. “Quando non c’è più possibilità di guarigione – dice Zaninetta – bisogna prendersi cura attiva e globale del paziente”.

Il prendersi cura deve tenere conto di tutte le dimensioni della persona. L’architettura di un hospice, dunque, è la fitta rete di relazioni personali, il lavoro d’équipe. “La risposta alla fine – ha concluso Zaninetta – deve essere l’amore. Solo riconducendo il tutto alla dimensione della carità riusciremo ad accompagnare il malato”.

Secondo Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia della dottrine morali e ricercatore in Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano, “l’eutanasia è l’uccisione di una persona per motivi economici, eugenetici, o per una perversa idea di pietà”.

Nel 1907 nacque la prima società eugenetica. Le Fondazioni Ford e Rockefeller sovvenzionavano il movimento eugenetico, che accolse e sostenne il nazismo. Nietszche affermava che bisogna “ripristinare i sacrifici umani. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano allora che ne è dell’evoluzione?”.

Ecco da dove nasce l’ideologia eutanasica. Per questo, ha concluso Samek Lodovici, l’eutanasia nelle sue varie forme calpesta la dignità umana (Agnoli F., Scritti di un pro life).

La dott.ssa Maria Pia Buracchini, psicologa e responsabile del Progetto Heptavium, ha detto che nel momento di grande fragilità il sostegno è necessario per fare un percorso con il malato ed eliminare due rischi terribili: la paura della morte e il fattore emotivo. La paura della morte crea grande insicurezza, disagio, sofferenza psicologica profonda che porta a rifiutare la vita e alla depressione, che fa desiderare la morte.

Una famiglia, un’assistenza solida che conducano questo percorso di avvicinamento alla morte, aiutano il malato ad uscire dalla depressione. Il fattore emotivo serve alla relazione di aiuto per stare accanto. “Non si può – ha aggiunto la Buracchini – parlare di morte con il sentimento, si deve decidere con la ragione. La vita della persona è sacra”.

Il convegno è stato concluso da Paolo Marchiori, volontario del CVS, malato di SLA: “Anche io ho detto 'piuttosto che vivere come uno in carrozzina, meglio morire'. Poi ho cambiato idea nel mio cammino di sofferenza. Mi sono riavvicinato a Dio. Chiedevo la forza per affrontare le difficoltà. Ho conosciuto il CVS. Nel tempo, dal 2005 al 2008, ho maturato l’accettazione della sofferenza”.

“Dal buio sono passato alla luce, grazie a un viaggio a Lourdes – ha concluso –. Ho visto con occhi diversi la malattia, i malati mi hanno trasmesso la pace. Sono innamorato della vita. La speranza mi ha cambiato. Il mio cuore oggi è colmo di amore. La malattia non è stato una disgrazia, posso dirlo, mi ha aiutato a capire il senso della vita. Ho capito la sofferenza e oggi sono un suo volontario”.


Il Gesù uomo visto con gli occhi di Erri De Luca - Intervista allo scrittore autore di “Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ - di Silvia Gattas
ROMA, giovedì, 26 novembre 2009 (ZENIT.org).- Non è trascorso nemmeno un mese dalla pubblicazione del suo ultimo libro, intitolato ‘Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ (edizioni Messaggero di Sant’Antonio) ed è già boom di vendite: 10mile copie per il nuovo libro di Erri De Luca, scrittore napoletano, appassionato di Sacre Scritture e profondo conoscitore dell’ebraico antico che non definisce una lingua difficile.


“Sono non credente, ma scrivo di Maria e di Gesù di Nazareth, perché sono un narratore e distinguo il piano personale da quello di scrittore”, dice in questa intervista a ZENIT.

Nel libro su Gesù si raccolgono diverse storie: quella di Abramo e Isacco, l’Annuncio, la nascita, la storia di Giuseppe, i re magi, Gesù ragazzo, Gesù morto sulla croce.

“Queste pagine – scrive l’autore – si aggirano nella seconda metà del 3700 secondo il calendario ebraico. Non era ancora stato inaugurato il nuovo calcolo cristiano. Il suo anno zero e i successivi appartenevano ad altra numerazione”.

Erri De Luca, lei si definisce ‘non credente’. Però scrive di Maria, di Gesù…

De Luca: Non mischio quello che faccio con la mia scrittura narrativa, con la lettura delle cose sacre. Penso di tenerle ben separate, di distinguere il ruolo di scrittore e quello di lettore. Sono dei libri in cui racconto dei dettagli di quelle vicende, che sono per me facili da identificare conoscendo la matrice ebraica di quelle storie.

Perché ‘penultime’ notizie su Gesù?

De Luca: Perché quelle che si trovano nei Vangeli sono necessariamente penultime. Le ultime notizie spetteranno al ritorno della promessa cristiana e alla sua realizzazione.


Come è nato il progetto di un libro su Gesù?

De Luca: Sono un lettore assiduo di Scritture Sacre, in particolare quelle dell’Antico Testamento, e uno studioso dell’ebraico antico. Non faccio distinzione fra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la divinità dell’Antico e la divinità del Nuovo. Li considero naturalmente un testo unico. Nel caso di Ieshu, Gesù, mi capita spesso di ricevere, soprattutto vicino alle feste comandate, richieste da parte di organi di informazione di qualche commento alla festività in corso. Così come è avvenuto per ‘In nome della madre’ (una riflessione su Maria, ndr), perché considero il Natale la festa della Madre e non del figlio. Il resto e il seguito di quella vita, invece, mi riguarda sempre come lettore non credente, considerando quella storia una storia unica, eccezionale anche dentro quel corpo di Scritture Sacre. Quelle vicende sono continuamente delle eccezioni alla regola, sono continuamente una forzatura della vicenda umana nell’ambito del progetto divino. Sin dalla trasgressione dell’albero del bene e del male.


Perché questa passione così forte per l’ebraico antico? C’è un motivo particolare, un’origine?

De Luca: Sì, in effetti c’è un’origine. Una volta, ero in un luogo sperduto, ma non rivelo quale, e mi sono imbattuto in una Bibbia. C’era solamente quel libro e mi è piaciuto tanto, perché non era letteratura, non voleva accattivarsi l’interesse del lettore. Invece raccontava una storia che non permetteva nessuna identificazione tra una divinità che voleva rivelarsi e delle creature che accettavano la sua novità.

L’ebraico antico è una lingua molto difficile?

De Luca: No, affatto. Il russo sì che è difficile. Delle lingue che studio, il russo è più difficile. L’ebraico antico è una lingua ferma e scritta, non la trovo così difficile.

Lei si definisce ‘non credente’ e non usa il termine ‘ateo’. Perché?

De Luca: Ateo è qualcuno che ha risolto il problema una volta per tutte. Esclude la possibilità proprio dal suo orizzonte e in questo modo riduce la sua relazione con le persone di fede perché le considera delle persone bisognose di un supporto, di un appoggio, di una protesi per mantenersi. L’ateo è un soggetto che ha risolto la questione e in questo è simile al talebano, che non ammette obiezioni alla sua conclusione. Il ‘non credente’, invece, è una persona che tutti i giorni frequenta le Scritture Sacre, anche se resta una persona che non può rivolgersi alla divinità.

Lei dunque ammette la possibilità di diventare credente?

De Luca: No, ammetto nella vita degli altri la possibilità di credere. Ho conosciuto tanti cattolici, specialmente al tempo della guerra in Bosnia, quando ero autista dei loro convogli. Vedevo che con quella notizia svolgevano una attività magnifica. Ma io non posso rivolgermi nella mia vita alla divinità, posso parlare della divinità, ma non gli do del Tu. Posso parlarne, ma non mi ci rivolgo.

Quante volte ha letto la Bibbia?

De Luca: Non tengo il conto, la leggo tutti i giorni, diciamo che è una unità di misura molto elevata. Considerata la mia età faccia lei il conto.


Lei crede che in Italia si possa parlare di ingerenza della Chiesa nel dibattito politico?

De Luca: Sì, più per tradizione. Nel passato era una cosa più organica. Il partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, era legato alla Chiesa. Adesso interviene più che altro sui temi etici.

Ma anche in politica? Che ne pensa dei cattolici in politica?

De Luca: Più che ingeranza della Chiesa, direi che si verifica il contrario: i cattolici in politica cercano di guadagnarsi il consenso della Chiesa. Nella politica c’è un uso strumentale del fatto religioso; la politica cerca di guadagnarsi il consenso della Chiesa.

Quale analisi traccia dello stato attuale della letteratura italiana?

De Luca: Mi piacciono le letterature di popoli che vengono da esperienze potenti. La letteratura ha questo potere di rendere ragionevoli e sopportabili i morti, i lutti, le grandi disavventure e avventure. Mi interessa ad esempio la letteratura israeliana e di tutti quei Paesi che hanno tanto da insegnare. Il nostro è un Paese che ha poco da raccontare. Mancano delle belle storie…

Si dice che in Italia si legge poco, i giovani leggono poco…


De Luca: Non credo che i giovani leggano poco, anzi mi sembra che il formato libro sia un prodotto oggi molto più venduto di vent’anni fa. Mancano però delle belle storie, delle grandi esperienze, ci raccontiamo le storie di trentenni che vivono un disagio urbano sentimentale. E questo è triste.

Ha mai pensato di occuparsi anche di altre religioni? Di islam, di buddhismo? E di scrivere libri su questo?

De Luca: No, non lo faccio. Non sono arrivato mai all’islam, o al buddhismo. Per una questione di distanza geografica. Mi tengo alla Sacra Scrittura.


L’Europa che difende il crocifisso - Mario Mauro venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
«La Commissione ricorda che le leggi nazionali sui simboli religiosi negli edifici pubblici rientrano nelle competenze dell'ordinamento giuridico interno». «La Commissione ricorda altresì che l'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo rientra nelle competenze del Consiglio d'Europa».


È stata molto secca ma assolutamente non banale la risposta fornita dalla Commissione europea all’interrogazione parlamentare presentata lo scorso 10 novembre dal collega Antonio Cancian del Popolo della Libertà nella quale si ricordava come, oltre all’episodio della donna italofinlandese in Italia, «analoghi episodi sono avvenuti in Spagna, Germania, Francia e Italia, dove nel 1988 il Consiglio di Stato rilevò che il crocifisso “non è solo il simbolo della religione cristiana ma ha una valenza di carattere indipendente dalla specifica confessione”».



Cancian ha lanciato una provocazione chiedendo «se la Commissione ravvisa il rischio che il principio enunciato dalla Corte di Strasburgo possa mettere in discussione l'esposizione in luoghi pubblici dei simboli religiosi e culturali, persino della bandiera europea, che s'ispira alla simbologia cattolica mariana?».



La Commissione europea, nella prima parte della sua risposta, ha rimesso il problema nelle mani dei governi nazionali, riconoscendo quindi la validità delle sentenze italiane favorevoli al crocifisso. Se venisse respinto il ricorso del Governo italiano non solo dovremmo rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici, ma andrebbero sostituite anche le bandiere degli Stati europei che hanno al centro una croce.



Gran Bretagna, Svezia, Finlandia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Grecia sarebbero costrette a cambiare il proprio simbolo nazionale, perchè l’esposizione di quella croce nelle bandiere, presente ovviamente in migliaia di luoghi pubblici, non ha una ragion d’essere diversa dall’esposizione del crocifisso.



Stessa sorte toccherebbe alla bandiera dell’Unione europea, che ufficialmente «rappresenta non solo il simbolo dell'Unione europea ma anche quello dell'unità e dell'identità dell'Europa in generale. La corona di stelle dorate rappresenta la solidarietà e l'armonia tra i popoli d'Europa. Le stelle sono dodici in quanto il numero dodici è tradizionalmente simbolo di perfezione, completezza e unità». In realtà per l’autore del disegno aveva davvero un significato cristiano, il blu infatti è il manto del colore della notte di Maria e le 12 stelle sono la corona dell’apocalisse.



La questione della libertà religiosa riguarda l’Unione Europea come ente sovranazionale, come organizzazione democratica, e non può riguardare in maniera distinta ogni singolo Stato membro. Il problema di fondo è che la tipologia della sentenza pretende di omologare le culture quando l’Unione europea si basa sul motto “unità nella diversità”.



La Commissione, ricordando che «l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo rientra nelle competenze del Consiglio d’Europa», pare proprio voler prendere le distanze da una sentenza in pieno disaccordo con i principi di convivenza civile a cui si ispirano i Trattati Ue. Una freddezza calcolata insomma, per non far trapelare un disagio comunque evidente nei confronti del Consiglio d’Europa, le cui ambiguità continuano ad aumentare i dubbi sul reale apporto di questo ente alla libertà dei cittadini europei.



Questa presa di distanze però non basta, le istituzioni europee devono uscire dall’impasse e dare un giudizio chiaro su libertà religiosa e laicità delle istituzioni, per questo sulla scorta dell’interrogazione appena descritta chiederemo un dibattito in aula che faccia vedere di che pasta è fatta il nuovo esecutivo presieduto da Barroso. I tempi sono maturi per una svolta in questo senso, come dimostra il grande risultato della petizione promossa dai deputati del Popolo della Libertà in Parlamento europeo sul tema del crocifisso.



«Tutti i Paesi dell’Europa sono permeati dalla civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa che occorre ridarle». Lo disse il 19 marzo 1958, di fronte al Parlamento Europeo, Robert Schuman. Lui, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi erano tre credenti cristiani cattolici. Ed erano, come si dice con un’espressione tanto ambigua quanto abusata, tre “laici”. Nessuno di essi si è mai sognato di imporre il cristianesimo come confessione “di Stato” europea. Ma nessuno di essi avrebbe potuto immaginare che l’Europa potesse farne a meno.


24 Novembre. John Rawls. Un filosofo per la democrazia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - giovedì 26 novembre 2009
Oggi 24 Novembre, nel 2002, moriva uno dei maggiori filosofi della politica, John Rawls.
Anche i suoi più strenui oppositori, come, ad esempio, Robert Nozick, riconoscono che coloro che si occupano di questi temi o devono lavorare con Rawls o devono spiegare perché non farlo. E Amartya Sen giunge a considerare la teoria della giustizia rawlsiana "di gran lunga la più influente - e [...] più importante - che sia stata presentata in questo secolo".

Vita e opere
Nato a Baltimora nel 1921, John Rawls ha studiato a Princeton e a Oxford e ha insegnato nella prestigiosa Università di Harvard.
I suoi scritti principali sono: "Una teoria della giustizia" (1971) e "Liberalismo politico" (1993). La giustizia è per Rawls "il primo requisito delle istituzioni sociali", così come la verità lo è dei sistemi di pensiero.
Come una teoria, egli argomenta, deve essere abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni devono essere abolite o riformate se sono ingiuste, anche se fornissero un certo grado di benessere alla società nel suo complesso, in quanto "ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri" ("Una teoria della giustizia").

Pensiero
L'idea essenziale di Rawls, - secondo Hosle -che ha dato tanta attualità alla sua opera, è di immaginarsi uno stato, non nel senso di un sistema politico, ma di una situazione umana, in cui l'egoismo razionale porta a principi della giustizia.
Questo è interessante in quanto le scienze sociali moderne sono dominate dalla categoria dell'egoismo razionale.
Una persona è razionale se, secondo i criteri della teoria delle decisioni, riesce a perpetrare il proprio interesse nella maniera più efficiente.
Questo concetto di razionalità non presuppone che gli interessi della persona siano morali; ciò distingue nettamente il concetto di razionalità delle scienze sociali del nostro secolo per esempio dal concetto di ragione pratica di Kant, per cui la ragione pratica è la ragione morale.
Mentre l'uomo razionale nell'economia neoclassica non è l'uomo morale, ma l'uomo che pensa al suo interesse in maniera razionale.
Però Rawls è riuscito a immaginarsi una situazione nella quale l'interesse razionale porta ai risultati della giustizia. Questo ha reso la sua opera interessante per vari strati del mondo intellettuale; le persone che rimanevano fedeli al concetto di ragione pratica nel senso kantiano di giustizia, potevano dire che Rawls era riuscito ad argomentare per la giustizia basandosi sulla "forma mentis" che domina oggi nelle scienze sociali.
….
Certo. L'idea fondamentale di Rawls è molto semplice. Lui si immagina una situazione originaria in cui gli attori, che devono decidere sui principi da osservare in futuro in questa società, hanno gli occhi chiusi dal velo dell'ignoranza, cioè non sanno che posizione, che talenti, che capacità avranno nella società. Sotto questo velo d'ignoranza devono decidere per i principi di giustizia basandosi sul criterio di egoismo razionale.
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Secondo Rawls ci sono due principi di giustizia.

1) Il primo principio di giustizia è che è preferibile quel sistema che garantisce a tutti uguale misura di una libertà il più grande possibile. In questo primo principio vengono cioè integrate le categorie di uguaglianza e libertà; Rawls è liberale e vuole avere la libertà individuale il più grande possibile: ognuno deve avere la libertà massima, però il sistema deve essere tale che tutti abbiano questa libertà massima, cioè la libertà deve essere uguale per tutti però nella maniera maggiore.

2) Il secondo principio afferma che esistono però casi dove l'uguaglianza mette in una situazione peggiore i più deboli, mentre si potrebbe immaginare una situazione dove introducendo e permettendo l'inuguaglianza le persone che sono nella situazione peggiore oggettivamente stanno meglio. Facciamo due esempi.
Ci si può immaginare uno Stato in cui tutti abbiamo dieci unità di benessere, possiamo immaginarci un altro sistema in cui alcune persone hanno mille altre hanno trecento, altre hanno dieci alcune hanno due o tre.
Rawls direbbe naturalmente questo sistema è meno giusto del primo; però possiamo immaginarci un terzo sistema nel quale alcuni hanno mille, altri settecento, altri trecento, alcuni trenta ed è garantito che ognuno abbia almeno undici o dodici; allora Rawls ritiene che questo terzo sistema sia migliore del primo perché anche se c'è maggiore inuguaglianza che nel primo le persone che sono svantaggiate stanno meglio nel terzo che nel primo: hanno undici o dodici unità invece di dieci; dunque questo sistema sarebbe preferibile.
E secondo Rawls solo l'invidia può negare questo secondo principio che accetta la differenza dal momento che l'introduzione della differenza fa star meglio anche quelli che starebbero peggio senza questo principio.

L'utilitarismo era la teoria dominante nell'ambito dell'economia neoclassica che era basata sul principio morale della maggior felicità per il maggior numero.
Rawls afferma, e non è il primo a farlo, che questa teoria non è accettabile perché evidentemente in un sistema utilitarista se uccidendo una persona innocente si causa un'utilità negativa di cinquanta e si riesce a dare a cento persone una utilità positiva di uno si è allora legittimati perché nell'insieme si è creato più benessere di quanto se ne era tolto. E Rawls afferma che questo non ha niente da fare con la giustizia, perciò l'utilitarismo non può essere la base di una teoria della giustizia.


Avvenire, 27 Novembre 2009 - INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO AL WELFARE ROCCELLA - «Così tuteliamo la salute delle donne»
Eugenia Roccella Il Parlamento non fa il dottore, certo. Non si occupa di farmaci o princìpi attivi. Ma delle leggi e del loro rispetto, sì, anche quando a porre il problema è una procedura medica o farmacologica. Parla chiaro, il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, dopo che la commissione Sanità del Senato sulla pillola abortiva Ru486 ha deciso lo stop all’immissione in commercio previo parere del governo: «Nessun boicottaggio. Viene semplicemente ripristinato l’ordine delle competenze e data la priorità alle indicazioni del governo circa la compatibilità del metodo con la legge italiana, in particolare la 194».

Sottosegretario, sta dicendo che l’Aifa ha preso una decisione che non le spettava?
Sì. L’indagine parlamentare ha evidenziato un vizio nel processo di regolazione della Ru486. In particolare l’audizione del direttore dell’ufficio legale dell’Emea (l’agenzia europea del farmaco, ndr) ha chiarito che l’Aifa avrebbe dovuto chiedere al governo il parere sulla compatibilità della pillola abortiva con la 194 prima di convocare il Cda con cui le ha dato il via libera.

Dunque, ora la parola va al governo. Prima di tutto, che cosa dirà?
Quello che ci preme, fin dall’inizio del dibattito sulla Ru486, è che la sua introduzione avvenga nel rispetto delle legge 194, che poi significa nel rispetto e nella garanzia assoluta della salute delle donne. Il governo insisterà su questo punto, sostanzialmente chiedendo che venga specificata in modo chiaro e inequivocabile l’obbligatorietà del ricovero ordinario in ospedale per le pazienti.

Non era già stato indicato nella delibera dell’Aifa?
Si faceva riferimento al ricovero in ospedale, ma solo fino alla "certezza dell’avvenuta interruzione di gravidanza": una dicitura che lasciava spazio a interpretazioni diverse, tra cui quella che le donne presa la prima pillola potessero allontanarsi dall’ospedale. Il governo insiste sul ricovero per tutta la procedura, fino all’espulsione del feto.

E dopo il parere del governo, cosa succederà?
Il parere arriverà entro 24 ore. A quel punto l’Aifa dovrà convocare un nuovo Cda e votare una nuova delibera sulla Ru486. La pillola abortiva – lo ribadisco – potrà essere impiegata in Italia solo a questa condizione: che la donna sia in ospedale per tutta la procedura, che un medico sia accanto a lei, che l’aborto non avvenga a casa o su un tram».

Però c’è già chi parla di un nuovo attentato alla libertà della donna.
E invece è proprio il contrario. Un attentato alla donna è non voler garantire il rispetto della legge 194, non volerla tutelare da eventuali eventi avversi che potrebbero verificarsi quando è sola – penso alle emorragie, così frequenti in seguito all’assunzione della Ru486 – ed essere sottovalutati. Le donne sono libere di scegliere, anche la modalità dell’aborto: ma se scelgono quello chimico devono avere la stessa assistenza di chi sceglie quello chirurgico.

La commissione Sanità del Senato ha evidenziato problemi di farmacovigilanza sulla Ru486 anche a livello europeo. Cosa significa?
I dati sulla mortalità, sugli effetti collaterali e sul follow-up della pillola sono troppo scarsi, visto che in quasi tutta Europa la Ru486 si assume fuori dagli ospedali. Questo significa che la modalità dell’aborto chimico non è ancora sicura.

Che fare?
Il governo, tramite l’Aifa, potrebbe sollevare la questione davanti all’Emea. E il dibattito potrebbe essere riaperto anche a livello internazionale.
Viviana Daloiso


Colletta alimentare, i bisogni dei poveri entrano nel carrello - DA MILANO PAOLO FERRARIO – Avvenire, 27 novembre 2009
F are la spesa non solo per sè e per la propria famiglia. Domani questo semplice gesto, che per molti è quotidiano, potrà assumere, per chi lo vorrà, anche un altro significato: venire in­contro alle necessità dei tanti che, anche in Italia, non si possono permettere il “lusso” di varcare la soglia di un supermercato. Secondo una recente in­dagine della Fondazione per la Sussidiarietà, in­fatti, nel nostro Paese sono più di tre milioni le per­sone che faticano ad acquistare cibo a sufficienza. Anche e soprattutto a loro si rivolgerà, quindi, il la­voro dei più di 100mila volontari che, domani, a­nimeranno la 13esima edizione della Colletta ali­mentare, iniziativa promossa dalla Fondazione Banco alimentare e dalla Compagnia delle Opere, in collaborazione con l’Associazione nazionale al­pini e la Società San Vincenzo De Paoli.
La Colletta di quest’anno si svol­gerà in oltre 7.600 supermerca­ti dove i volontari inviteranno i clienti ad acquistare e donare a­limenti non deperibili (preferi­bilmente olio, omogeneizzati e alimenti per l’infanzia, tonno e carne in scatola, pelati e legumi in scatola), che saranno distri­buiti a circa 1,3 milioni di indigenti attraverso gli 8mila enti convenzionati con la rete del Banco a­limentare (mense per i poveri, comunità per mi­nori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza...). Alla Colletta dello scorso anno parteciparono più di 5 milioni di italiani, donando 8.970 tonnellate di cibo per un valore economico di oltre 27 milioni di euro. «L’obiettivo di questa edizione – spiegano i promotori – è quello di sensibilizzare ancora di più le persone a questo gesto di carità e alla condivi­sione dei bisogni di chi è in difficoltà».
Alla Fondazione Banco alimentare fa riferimento anche un’altra realtà che, in appena cinque anni, è riuscita a radicarsi nel territorio, soprattutto al Nord, dove è nata. “Siticibo”, che ha visto la luce a Milano nel dicembre 2003 da un’idea di Cecilia Ca­nepa, ha l’obiettivo di recuperare cibo invenduto da mense aziendali, ospedali, refettori scolastici, al- berghi, ristoranti e dalle altre strutture della risto­razione organizzata (non da singoli privati, dun­que), per donarlo a 88 enti caritativi che si occu­pano di fornire pasti ai poveri (mense, comunità residenziali di accoglienza, case famiglia, Caritas, Banchi di solidarietà...).
«Siticibo – spiega la responsabile nazionale, Giu­liana Malaguti – raccoglie cibo cucinato ma non servito, alimenti freschi come frutta e verdura, pa­ne e dolci, che nel giro di poche ore vengono con­segnati e consumati». La giornata tipo dei 119 volontari di Siticibo co­mincia alle 7,30 e termina alle 17 con la consegna degli ultimi prodotti per la cena. Tra gennaio 2004 e ottobre 2009, nelle cinque città finora coinvolte dall’iniziativa (Milano, Como, Roma, Firenze e Mo­dena, ma è allo studio la fattibilità di allargare la re­te anche a Busto Arsizio, Varese e Gallarate, nel nord milanese), sono state rac­colte 350 tonnellate di pane (per un controvalore di 770mila eu­ro), 330 tonnellate di frutta (va­lore 462mila euro) e 727mila porzioni di piatti pronti (primi piatti, pietanze e contorni), per un controvalore di quasi 1,5 mi­lioni di euro.
Al programma di raccolta par­tecipano, donando alimenti, 27 mense aziendali, 5 hotel, un ristorante e 118 scuo­le. Soprattutto con queste ultime, Siticibo ha av­viato un vero e proprio percorso educativo.
«Nelle scuole dove ritiriamo le porzioni non servi­te – aggiunge Giuliana Malaguti – abbiamo nota­to un grande cambiamento nei ragazzi per quello che riguarda l’approccio con il bene-cibo. Da quan­do sanno che ciò che loro non comsumano è pre­zioso per tante persone povere, hanno un maggior rispetto di quello che trovano in tavola e stanno imparando che non è scontato trovarlo tutti i gior­ni. Il cibo, insomma, per questi studenti è tornato ad essere davvero un dono. Un atteggiamento senz’altro controcorrente per il mondo di oggi ma che, magari, può contribuire a crearne uno mi­gliore domani. Naturalmente, ci sono ancora tan­ti comportamenti sbagliati da correggere ma il ter­reno è molto fertile».
Domani, in tutta Italia, i clienti dei supermercati invitati a donare parte degli acquisti