domenica 30 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: Giovanni Paolo II e Faustina Kowalska, apostoli della Divina Misericordia
2) Le pagelle dei cattolici bocciano Veltroni
3) IL DURO ACCIAIO DI TOLEDO, Il pensiero forte del cardinale Antonio Cañizares. Tutta l'intervista sul Foglio in edicola
4) Quelle elette senza onori in quota all’Assoluto, DAVIDE RONDONI
5) La Divina Misericordia vocazione della Chiesa Il cardinale Schönborn: «Un grande evento a Roma»
6) LO SCONTRO IN TIBET - Il Dalai Lama: «Per favore, il mondo ci aiuti»
7) «Ue, un aborto ogni 25 secondi»
8) «Don Benzi è stato unico Adesso però tocca a noi»


30/03/2008 12:25
VATICANO
Papa: Giovanni Paolo II e Faustina Kowalska, apostoli della Divina Misericordia
A 3 anni dalla morte del papa polacco, Benedetto XVI annuncia il primo Congresso Mondiale della Divina Misericordia, un tema caro a Giovanni Paolo II per polarizzare la missione della Chiesa e far scaturire la pace nel mondo, “impossibile alle sole forze umane”.

Castel Gandolfo (AsiaNews) – A pochi giorni dall’anniversario della morte di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha annunciato al Regina Caeli di oggi che egli presiederà una messa in sua memoria proprio mercoledì 2 aprile, 3° anniversario della scomparsa del grande papa polacco. La messa aprirà il primo Congresso Apostolico Mondiale della Divina Misericordia, che si terrà a Roma, e vede fra i responsabili il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna.
“La misericordia – ha detto Benedetto XVI - è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio, il volto con il quale Egli si è rivelato nell’antica Alleanza e pienamente in Gesù Cristo, incarnazione dell’Amore creatore e redentore. Questo amore di misericordia illumina anche il volto della Chiesa, e si manifesta sia mediante i Sacramenti, in particolare quello della Riconciliazione, sia con le opere di carità, comunitarie e individuali. Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10,10). Dalla misericordia divina, che pacifica i cuori, scaturisce poi l’autentica pace nel mondo, la pace tra popoli, culture e religioni diverse”.
Si deve proprio a Giovanni Paolo II la definizione di “Domenica della Divina Misericordia” data alla seconda domenica di Pasqua (domenica in Albis). “Questo avvenne – ricorda il papa - in concomitanza con la canonizzazione di Faustina Kowalska, umile Suora polacca, nata nel 1905 e morta nel 1938, zelante messaggera di Gesù Misericordioso”.
“Come Suor Faustina – ha aggiunto il papa - Giovanni Paolo II si è fatto a sua volta apostolo della Divina Misericordia. La sera dell’indimenticabile sabato 2 aprile 2005, quando chiuse gli occhi a questo mondo, era proprio la vigilia della seconda Domenica di Pasqua, e molti notarono la singolare coincidenza, che univa in sé la dimensione mariana – il primo sabato del mese – e quella della Divina Misericordia. In effetti, il suo lungo e multiforme pontificato ha qui il suo nucleo centrale; tutta la sua missione a servizio della verità su Dio e sull’uomo e della pace nel mondo si riassume in quest’annuncio, come egli stesso ebbe a dire a Cracovia-Łagiewniki nel 2002, inaugurando il grande Santuario della Divina Misericordia: ‘Al di fuori della misericordia di Dio non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani’. Il suo messaggio, come quello di Santa Faustina, riconduce dunque al volto di Cristo, suprema rivelazione della misericordia di Dio. Contemplare costantemente quel Volto: questa è l’eredità che egli ci ha lasciato, e che noi con gioia accogliamo e facciamo nostra”.
A conclusione della sua riflessione, Benedetto XVI ha invitato i fedeli a porre il Congresso che si terrà a Roma “sotto la celeste protezione di Maria santissima Mater Misericordiae. A Lei affidiamo la grande causa della pace nel mondo, perché la misericordia di Dio compia ciò che è impossibile alle sole forze umane, e infonda nei cuori il coraggio del dialogo e della riconciliazione”.


Le pagelle dei cattolici bocciano Veltroni
L'associazione Nuove Onde ha preparato un interessante dossier “Verso le elezioni politiche 2008″ che studia i partiti sui temi eticamente sensibili per i credenti.
Le coalizioni e i partiti che si presentano all'esame delle urne tra due settimane hanno già al loro attivo un lungo curriculum. Sono stati monitorati strettamente alla Camera e in Senato durante l'ultima legislatura. Sono state passate al microscopio le loro proposte di legge e i voti espressi dagli schieramenti anche nei consigli comunali e al Parlamento europeo.
Dopo la lettura le conclusioni sono ovvie



Per vescovi e parroci dalla memoria corta, oltre che per i cattolici smarriti ma sensibili ai valori non negoziabili, arriva una guida al voto. Più che altro, un avvertimento sui temi eticamente sensibili, per non giudicare soltanto in base ai programmi elettorali, che già di per sé sono eloquenti. Le coalizioni e i partiti che si presentano all'esame delle urne tra due settimane hanno già al loro attivo un lungo curriculum.
LE TAPPE DELL'ATTACCO
Sono stati monitorati strettamente alla Camera e in Senato durante l'ultima legislatura. Sono state passate al microscopio le loro proposte di legge e i voti espressi dagli schieramenti anche nei consigli comunali e al Parlamento europeo. Poi l'associazione Nuove Onde ha rielaborato tutti i dati, come aveva già fatto in occasione delle consultazioni del 2006, condensandoli in un dossier che smaschera il corteggiamento del mondo cattolico da parte del Partito Democratico e della Sinistra L'Arcobaleno. Ripercorrere le fasi dell'attacco (quasi sempre fallite) del centrosinistra alla vita e alla famiglia è l'introduzione necessaria per il vademecum. Ripassare la lezione della storia recente è utile per non farsi fregare. Dopo appena due settimane dalla nascita dell'esecutivo Prodi, nel maggio 2006, il ministro dell'Università e della Ricerca, Fabio Mussi (ora candidato nella Sinistra L'Arco baleno), ritirava l'adesione italiana alla moratoria europea sull'uso di embrioni come cavie da laboratorio. Appena un mese dopo, il 27 giugno, il senatore Ignazio Marino e la capogruppo dell'Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro (ora candidati nel Pd), presentavano un disegno di legge sul testamento biologico, anticamera dell'eutanasia. Progetto andato a monte soltanto per la caduta del governo, come per altro verso i Dico (diritti dei conviventi), che sdoganavano le unioni civili tra omosessuali, promossi dal ministro della Famiglia (sic!), Rosy Bindi, insieme alla collega delle Pari Opportunità, Barbara Pollastrini, nel febbraio 2007. Cinque mesi dopo li avevano trasformati in Cus (Contratti di unione solidale). Anche in quel caso l'iter del provvedimento si è interrotto soltanto grazie allo scioglimento anticipato delle Camere. Quei tre ministri, più la responsabile della Salute, Livia Turco, che aveva emanato un decreto sulle droghe che innalzava da 500 a 1.000 milligrammi il quantitativo massimo di cannabis che può essere detenuto per uso personale, si meritano una bocciatura in tronco, senza appello. Anzi, la Turco è doppiamente respinta da Nuove Onde per l'inerzia dimostrata davanti all'introduzione della pillola abortiva Ru486, il farmaco omicida. Nessun provvedimento, da parte sua, per bloccarne la commercializzazione in Italia. COSA ACCADREBBE SE...
Imparata la lezione, il dossier di Nuove Onde (scaricabile dal sito www.nuoveonde.com) passa poi alle prospettive, con tre diverse proiezioni su ipotetiche votazioni. Un disegno di legge sul testamento biologico avrebbe la certezza di essere approvato se la maggioranza andasse alla coalizione Partito democratico-Italia dei Valori. Lo stesso varrebbe per le unioni di fatto anche omosessuali e sulla revisione della legge 40 sulla fecondazione assistita, considerando anche il tasso di radicalismo interno al Pdl. Ma se fosse il centrodestra, cioè Pdl, Lega Nord e Movimento dell'Autonomia, il risultato si ribalterebbe: bocciate tutte e tre le proposte, nonostante qualche defezione, anche significativa. Lo stesso esito, molto probabilmente, si riprodurrebbe anche riguardo alle minacce contro la libertà di educazione, che nella passata legislatura avevano fatto balenare la norma cosiddetta anti-omofobia, che avrebbe reso illegale l'insegna mento della religione cattolica e passibile di condanna chi ne insegnasse la dottrina. In un quadro del genere, aggiungono i curatori del vademecum, Giovanni Fenizia e Fabio Luoni, le liste minori produrrebbero soltanto danni: «Per intenderci, si potrebbe avere il paradosso che il mio voto a Ferrara porti la Bonino e i radicali al ministero della Sanità». È il realismo del sistema maggioritario. Il che rende superflua, se non dannosa, la Lista per la Moratoria tanto quanto la presenza dei teodem nel Pd. Inutile, infine, la presenza dell'Udc-Rosa bianca. Anche senza partitini - anzi, proprio grazie alla loro assenza - si difendono vita, famiglia e libertà di educazione.
di ANDREA MORIGI
LIBERO 30 marzo 2008


29 marzo 2008
Il pensiero forte del cardinale Antonio Cañizares. Tutta l'intervista sul Foglio in edicola
Dal Foglio.it
IL DURO ACCIAIO DI TOLEDO
L’aborto, la cultura e le legislazioni abortiste, l’ideologia del genere e la sua deriva nichilista, l’autonomia dell’uomo contemporaneo e il nuovo concetto di diritto
Nell’intervista da Lei rilasciata al Corriere della Sera l’11 marzo scorso abbiamo letto – con entusiasmo – la sua adesione alla campagna per la moratoria sull’aborto. Lei ha anche detto che l’aborto “è il peggior degrado della storia dell’umanità”. Perché ritiene che il tema dell’aborto sia oggi così decisivo, più importante rispetto ad altri problemi? L’aborto è la violazione del diritto più fondamentale e sacrosanto di tutti i diritti umani: il diritto alla vita, intimamente connesso a ciò che c’è di più essenziale della dignità inviolabile di ogni essere umano, base della convivenza tra gli uomini, base della società. Nell’aborto si viola il “non uccidere”, un assoluto inscritto nella natura umana e che appartiene alla “grammatica comune” dell’essere umano. Si tratta di un crimine contro la persona e la società, perpetrato, inoltre, contro esseri umani innocenti, deboli e indifesi. Legittimare la morte di un innocente per mezzo dell’aborto mina e distrugge, dunque, il fondamento stesso della società. La generalizzazione tanto massiccia ai nostri giorni dell’aborto legale – sono molti milioni all’anno – in base a legislazioni permissive, nell’una o nell’altra maniera a favore dell’aborto, costituisce una grandissima sconfitta dell’umanità: sono stati sconfitti, in realtà, l’uomo e la donna. E’ stata sconfitta la società basata sul bene comune, giacché con l’aborto si sacrifica la vita di un essere umano a beni di valore inferiore e si sottomette il bene comune all’eliminazione della vita a favore il più delle volte di un benessere. E’ stato sconfitto il medico che ha rinnegato il giuramento e il titolo più nobile della medicina: quello di difendere e salvare la vita umana. Sono stati sconfitti i legislatori e coloro che devono applicare il diritto, chiamati tutti costoro a realizzare la giustizia e difendere il debole. Viene pure sconfitto lo stato di diritto, che ha rinunciato alla protezione fondamentale che deve al sacrosanto diritto della persona alla vita; lo stato invece di intervenire, secondo la sua missione, per difendere l’innocente in pericolo, impedendo la sua morte e assicurando, con mezzi adeguati, la sua esistenza e la sua crescita, con le sue leggi permissive contro la vita umana, come è l’aborto legale, sta autorizzando, di fatto, la violazione di un diritto fondamentale e l’esecuzione di “sentenze di morte” ingiuste, senza che, per giunta, il morituro possa difendersi; cosí non si sostiene lo stato di diritto. Possiamo approfondire ancora. Le legislazioni favorevoli all’aborto pongono in questione il carattere di “umano” di questo nuovo essere vivo dal momento in cui è concepito o portato in grembo. In queste legislazioni, questo essere vivo è una cosa, un qualcosa, non un qualcuno, un chi, a cui non si possa sottrarre la condizione di essere personale, inerente a ogni essere umano. Con ciò, non solo viene gravemente posto in questione il diritto fondamentale dell’uomo alla vita, ma anche la persona stessa. A partire da qui già non si sa più chi è il soggetto del diritto fondamentale alla vita: l’essere umano simpliciter ut talis, in quanto tale o quello che decidono di considerare come tale i legislatori, le maggioranze parlamentari, il potere, insomma? Qui c’è una questione di fondo gravissima: chi, quando e come si è uomo. Chi lo decide? O sta nelle mani dell’uomo – del potere – decidere quando si è persona? Tutto ciò ha conseguenze enormi, per esempio, nel campo della concezione dei diritti umani, della creazione o dell’allargamento di “nuovi” diritti eccetera. Per questo il tema dell’aborto è tanto decisivo, più importante di altri problemi. Così si comprende come sia il problema più grave che si è avuto nella storia dell’umanità e quello che segna una frattura tra l’uomo e la società mai accaduta prima. Presto l’umanità se ne vergognerà, come si vergogna della schiavitù o di genocidi ancora a noi tanto vicini.
di Maurizio Crippa


Quelle elette senza onori in quota all’Assoluto, DAVIDE RONDONI
Avvenire, 30 marzo 2008
I eri un importante quotidiano sbeffeggiava un uomo politico e l’assemblea di donne che lo applaudiva perché venivano dipinte come padrone della casa, più intuitive dell’uomo e più capaci di custodire. Volti nuovi o seminuovi di donni sono stati sbandierati dalle forze politiche di ogni colore, magari per un attimo solo. Come spot, come truppe d’assalto, come leader ferree o come tocco gentile. In questa campagna elettorale molte chiacchiere (e pochi fatti) si sono sentite intorno alle donne, alle cosiddette 'quote rosa', espressione linguistica infelice, che ricorda le 'quote latte' e altre cose del genere, pur se afferma un principio di pari opportunità sacrosanto. Insomma, nobili intenzioni, ma anche tanta ipocrisia fatta slogans, da ogni parte.
Allora io voglio girare lo sguardo ad un’altra assemblea di donne.
Un’assemblea non politica. Di donne già elette, in un certo senso. Già scelte. Un’assemblea di gente che con zero onori e poca immagine su giornali e tv sta però offrendo un servizio reale al Paese. Forse più di tante ministre passate o future. Non viaggiano su auto blu, anzi spesso le vedi trotterellare tra il timore degli altri automobilisti, su austere utilitarie, senza autista. Anche a loro, dal momento della elezione cambia spesso la vita. Ma invece di aggiungere un suffisso nel biglietto da visita, che so: 'sen' o 'on', semplicemente, e più radicalmente, cambiano nome. Insomma, dico delle suore italiane, che hanno tenuto un loro convegno. O meglio il convegno delle loro 'cape', delle Superiori di circa 600 congregazioni femminili. Donne di ogni genere, che svolgono mansioni diverse, da quelle invisibili, segrete ma non per questo meno efficaci, a quelle familiari a tanti italiani che le incontrano negli asili, negli ospedali, nelle mense per i poveri e spesso là dove c’è un lavoro che altri non farebbero. Sono donne che si trovano a metter le mani nei luoghi più delicati e feriti della nostra vita. E che alla continua, spesso simpatica ma a volte anche acida e cattiva consuetudine a denigrarle – sui media e anche in campo culturale – oppongono la disponibilità a farsi carico di tanti pesi, e la semplicità della fede.
Le suore italiane sono consapevoli della «crisi delle vocazioni» che però è da leggere insieme alla ripresa di nuove forme di vita consacrata. È una crisi di fede e di speranza. Sono state autorevolmente invitate, con parole quasi poetiche da monsignor Castellani, a non lasciare rovinare l’anima delle loro comunità dalla «brezza dell’ormai», vale a dire da una strana rassegnazione. Nella storia del monachesimo femminile si trovano esempi straordinari di forza, di cultura e di apertura al futuro.
Donne che hanno in molti casi segnato la storia del Paese, o dei luoghi dove si trovavano. E che hanno segnato, soprattutto, la vita di tanta gente che nella loro presenza vedeva, anche senza ammetterlo, la traccia di un destino buono che ama gli uomini.
Non sono in lista, non sono candidate se non a seguire il carisma che li ha conquistate. Non ambiscono a luoghi di potere. Di certo, rispetto a tante altre donne infinitamente replicate sui media, continuamente illustrate dalla fama, ognuna di loro è, se così si potesse dire, più insostituibile. Ormai sono le uniche donne che possono dare vero scandalo. Di fronte alle quali ci si ferma un istante e si dice: 'ma come è possibile…'. E mentre in tante si agitano per farsi notare, loro, nella appena percettibile ma efficace presenza, possono ancora farci sentire lo scandalo e la dolcezza di non sentirci abbandonati dal cielo. E aiutarci a fare l’Italia, facendoci alzare il viso da tutto ciò che sembra importante o definitivo per guardare il fuoco più profondo e desiderato della vita: la gratuità, il vergine, la dedizione.


La Divina Misericordia vocazione della Chiesa Il cardinale Schönborn: «Un grande evento a Roma»Avvenire, 30 marzo 2008
DA ROMA SALVATORE MAZZA
U n grande evento di Chiesa. Sullo stile 'dei Congressi eu­caristici' piuttosto che di un convegno teologico, e non per «pro­porre una specifica forma di devo­zione », ma piuttosto per «sentire le testimonianze di come il mondo vi­ve la misericordia di Dio». Al di fuo­ri della quale, come disse Giovanni Paolo II, inaugurando nel 2002, a Cracovia-Lagiewniki, il santuario della divina misericordia, «non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani».
È il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, a introdurre con queste parole il il primo Con­gresso apostolico mondiale della mi­sericordia che si svolgerà a Roma dal 2 aprile, terzo anniversario della morte di papa Wojtyla, fino alla do­menica successiva. «Io credo – affer­ma il porporato in questa intervista ad Avvenire – che sia veramente que­sta la chiamata per la Chiesa nel ter­zo millennio».
Quando, e perché, è nata l’idea di questo Congresso dedicato alla Di­vina Misericordia?
È stato il giorno stesso della morte di papa Giovanni Paolo. Il fatto che sia avvenuta proprio alla vigilia della do­menica della misericor­dia è stato un tale segno della provvidenza divi­na che era impossibile da non vedere. È lui che aveva introdotto questa festa nell’anno 2000, è lui che aveva canoniz­zato suor Faustina, e il Signore l’ha richiamato proprio questo giorno.
E poi, devo aggiungere, abbiamo anche pensa­to al messaggio che ci ha lasciato con la sua o­pera. Egli stesso ha det­to che, se si volesse rias­sumere in un concetto il suo pontificato, è pro­prio quello che Dio è ricco di misericordia.
Quanto è sentita, nella Chiesa, questa perce­zione?
Quel che abbiano potu­to sentire e vedere è che, in tutto il mondo, c’è davvero una grande attenzione a questo aspetto della mi­sericordia di Dio, che è tanto forte nel Vangelo. Credo che sia veramen­te questa la chiamata per la fede, e per la Chiesa, nel nuovo millennio. Ed è da tutto questo insieme di cose, alla fine, che è nata l’iniziativa di in­vitare persone, credenti, da tutto il mondo, per un primo Congresso sul­la divina misericordia.
Papa Wojtyla volle che la festività della misericordia cadesse la prima domenica dopo Pasqua. Perché?
Per capirlo dobbiamo chiederci: co­sa significa dire che Dio è misericor­dia? Vuol dire che Dio ci salva dalla nostra miseria, misericordia vuol di­re 'avere a cuore' le miserie, che so­no tante, economiche, di salute, di vita interiore, e la più grande mise­ria umana è quella del peccato, del­l’allontanamento da Dio e da noi stessi. E dunque che cosa ci ha dato Cristo nel suo mistero pasquale, nel­la sua morte e risurrezione? Ci ha da­to Dio che ci salva dalle nostre mise­rie, Dio che è misericordioso. La do­menica dopo Pasqua è la domenica di Tommaso, che ha messo in dubbio che Cristo sia risorto, e dunque ha messo in dubbio che ciò che Gesù ha predicato sia vero. Tommaso ha poi incontrato Gesù, e ha potuto vedere che ciò che Gesù ha detto sulla sal­vezza, sulla misericordia, non è una favola, non è una promessa, ma una realtà, un presente. Ed è proprio per questo, credo, che Gesù ha suscitato in questa povera suora polacca l’ini­ziativa di chiamare la domenica in albis, la domenica dopo Pasqua, 'do­menica della misericordia'.
Prima, a proposito del Congresso, ha parlato di un invito rivolto a tut­to il mondo. Chi sono i promotori, e chi ci sarà?
C’è un comitato di cardinali che s’è riunito, di cui evidentemente fa par­te il cardinale Stanislaw Dziwisz, che è il testimone privilegiato di Gio­vanni Paolo II e poi è l’arcivescovo di Cracovia, dove il Papa ha vissuto fin dalla sua gioventù questo miste­ro della misericordia. Poi c’è anche il cardinale Audrys Backis, di Vilnius, per­ché suor Faustina è sta­ta a Vilnius e qui si tro­va la prima immagine della divina misericor­dia, e poi altri porpo­rati, come il cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, che si è as­sunto gran parte del­l’onere organizzativo. Quanto ai partecipan­ti, sappiamo che ci sa­ranno un gran numero di vescovi, di preti, di religiosi e di laici.
Che cosa vi aspettate da questo Congresso?
L’intenzione primaria è anzitutto di sentire le testimonianze da tutto il mondo su come si vive il mistero della misericordia. Il Congresso, in altre parole, non vuole proporre una specifica forma di devozione, perché tutte le varie forme di devozione per la divina misericordia sono legittime. Neppure è un Convegno teologico, non sono stati invitati specialisti perché sarebbe stata, alla fine, una cosa ristretta. Lo stile è piuttosto quello dei Congressi eucaristici, cioè con Delegati da tutta la Chiesa cattolica del mondo, ma aperto anche a chiunque volesse essere parte di questo momento.


LO SCONTRO IN TIBET
«Non abbiamo potere a parte la giustizia, la verità e la sincerità», ha detto il capo religioso. «Sì al digiuno per esprimere il proprio dissenso». Nuova manifestazione in Nepal: 84 le persone arrestate
Il Dalai Lama: «Per favore, il mondo ci aiuti»
Il governo in esilio: «Riprese le proteste a Lhasa»
Avvenire, 30 marzo 2008
DI LUCA MIELE
L’ ennesimo disperato appello: «Il mondo ci aiuti». Dal suo esilio in India, il Dalai Lama – costretto a fronteggiare la valanga di accuse cinesi, pressato da una “fronda” interna sempre più distante dalle sue posizioni pacifiste, consapevole che per il “suo” Tibet si consuma forse con i Giochi olimpici l’ultima possibilità di sciogliersi dall’abbraccio di Pechino – è costretto a quella che sembra un’ammissione di impotenza: «Non abbiamo potere a parte la giustizia, la verità e la sincerità. Per questo motivo mi rivolgo alla comunità internazionale perché per favore ci aiuti». Ma nelle sue parole – «non posso fare altro che pregare» – è racchiusa al tempo stesso la sua forza e l’irriducibilità di un intero popolo ai dettami dell’Impero di Mezzo.
Un’irriducibilità che può esprimersi con il digiuno, una maniera «efficace» per «esprimere il proprio risentimento in modo non violento, come già fece Gandhi». Un’irriducibilità che ieri è tornata ad “esplodere”: secondo il governo tibetano in esilio, nuove proteste sono divampate nei pressi del monastero di Ramoche e di fronte al tempio di Jokhang. E la Cina? Risponde con un’offensiva diplomatica che suona anche provocatoria. Pechino ha “aperto” Lhasa, la capitale tibetana, ad una delegazione di 15 diplomatici, in rappresentanza tra gli altri di Usa, Francia, Italia, Commissione Europea e Slovenia, l’attuale presidente dell’Unione europea. Quella dei diplomatici ha tutto il sapore di una visita “guidata”. Il suo scopo: mostrare le devastazioni subiti dai cinesi. Nessuna possibilità di incontrare i monaci “ribelli” che pure erano riusciti clamorosamente a rompere l’isolamento e a parlare con i diplomatici in tour. «La visita è un buon primo passo, ma ancora non risponde alla nostra richiesta di un accesso incondizionato», ha detto uno dei diplomatici occidentali, che ha voluto mantenere l’anonimato. «Ovviamente si tratta di una visita minuziosamente pre-organizzata», ha concluso.
Gruppi tibetani in esilio raccontano di una realtà sempre più drammatica. I monasteri sono circondati dalle forze di sicurezza cinesi. I monaci non possono uscire. Il cibo scarseggia, la corrente elettrica sarebbe stata tagliata. Ma non basta: Pechino ha offerto ai parenti delle 18 vittime ufficiali degli scontri di Lhasa di pagare 200mila yuan, pari a circa 18mila euro a titolo di risarcimento. Ma non è difficile immaginare che i risarcimenti andranno solo alle vittime cinesi della rivolta. I feriti nelle manifestazioni del 14 marzo saranno curati gratuitamente negli ospedali. «Ulteriori misure – ha annunciato l’agenzia Nuova Cina – saranno prese anche per aiutare la gente a riparare le case e i negozi danneggiati durante gli sconti o a costruirne di nuove». La posizione di Pechino rimane immutata: la responsabilità degli scontri è da attribuire alla volontà secessionista del Dalai Lama e alla sua «cricca». E mentre in Nepal si è consumata l’ennesima dimostrazione pro-Tibet (conclusasi con l’arresto di 84 manifestanti), la massima autorità spirituale tibetana ha rilanciato l’ennesima offerta al dialogo alla Cina, chiedendo non l’indipendenza ma «una significativa autonomia». E ancora una volta ha parlato di un suo possibile «ritiro» per prepararsi «alla prossima vita». Tra i leader che potrebbero succedergli alla testa della comunità tibetana in esilio ha indicato il Karmapa, il giovane Buddha reincarnato fuggito rocambolescamente dalla Cina nel 2000 e che oggi ha 24 anni. Il bilancio della rivolta tibetana rimane di 20 morti secondo la Cina (19 a Lhasa ed un poliziotto nella provincia del Sichuan) e di circa 140 vittime secondo il governo tibetano in esilio.


«Ue, un aborto ogni 25 secondi» Avvenire, 30 marzo 2008
ROMA. Popolazione, natalità, aborto, spese sociali, povertà, adozione, distruzione del matrimonio sono alcuni dei capitoli del dossier sulla «crisi della famiglia in Europa» diffuso dall’agenzia Fides. Particolarmente allarmante il capitolo dedicato all’aborto. Infatti Fides riferisce che «ogni 25 secondi si consuma un aborto nell’Europa a 27 Paesi, dove ogni giorno vengono chiuse tre scuole per mancanza di bambini. Nel 2004, la cifra di aborti è stata di 1.235.517, pari a una media di 3,385 al giorno. Sono state abortite il 19,4 % delle gravidanze, un nascituro su cinque. La Spagna è il paese nel quale è aumentato di più il numero di aborti negli ultimi dieci anni, con un incremento del 75%, seguita dal Belgio, con il 50% e dall’Olanda, con il 45%». Se non bastassero i numeri assoluti e le percentuali, viene ricordato che «l’aborto è la prima causa di mortalità in Europa e ha fatto più vittime delle malattie di cuore, delle malattie cardiovascolari, degli incidenti stradali, droga, alcool, suicidi. Il numero degli aborti è anche superiore del numero dei decessi per malattia». Eppure la legislazione pro aborto continua a diffondersi: «Con la decisione del Portogallo dell’aprile 2007, di rendere possibile l’aborto entro la decima settimana di gravidanza, sono solo tre i Paesi europei dove l’aborto è tuttora illegale: Irlanda, Malta e Polonia». Le cose non vanno meglio sul piano delle istituzioni europee, che continuano a promuovere e favorire l’aborto, considerato un «diritto europeo»: «È stata una risoluzione approvata dal Parlamento europeo nel 2002 sui “diritti sessuali e riproduttivi” – ricorda Fides – a sancire che ”l’interruzione di gravidanza deve essere legale, sicura e accessibile a tutti”, chiedendo ai governi di “astenersi in qualunque caso dal perseguire le donne che si sono sottoposte ad aborto illegale”, sollecitando la distribuzione di contraccettivi e servizi per la salute sessuale “a titolo gratuito o a un costo molto basso per i gruppi meno abbienti”, pronunciandosi per un accesso ai metodi contraccettivi d’emergenza come la pillola del giorno dopo “a prezzi accessibili”, garantendo educazione sessuale e disponibilità di contraccettivi anche ai bambini, senza il consenso dei genitori».


«Don Benzi è stato unico Adesso però tocca a noi» DAL NOSTRO INVIATO IN EMILIA ROMAGNA
PINO CIOCIOLA
Avvenire, 30.3.2008
Mani sporche di dolori e sofferenze, le loro.
Difficile scoprirsele diverse se si sceglie di non restare affacciati da una finestra a guardare chi soffre. Ed è quasi un paradosso quel che è successo: la gente dell’Associazione Papa Giovanni XXIII si è rimboccata le maniche dopo la morte di don Oreste Benzi. «Tutti ci siamo sentiti ancor più responsabilizzati. Cerchiamo di andare avanti come prima e più di prima nell’impegno e nella radicalità della scelta», dice Giovanni Paolo Ramonda, successore del 'don' alla guida dell’Associazione. Nelle loro case famiglia i dolori e le sofferenze vi entrano realmente. Come quelli di Liliana, «sfruttata per 10 anni in Romania da alcuni zingari, poi venduta ad altri zingari», che ha partorito due bimbi «a loro volta venduti a zingari», che si è ammalata di tubercolosi e anche così veniva costretta ad andare sul marciapiede. Come quelli di Iona, abbandonata in ospedale dalla mamma a 1 anno e 8 mesi, cresciuta dalla nonna e poi in istituto, con un padre che quando aveva 5 anni voleva approfittare di lei, rapita da sei uomini, stuprata a ripetizione e poi costretta a battere, che partorisce due volte e due volte i suoi
magnaccia la costringono ad abbandonare i suoi bimbi in strada. Come i dolori e le sofferenze di Dorina, nata nell’Europa dell’est: 15 anni, forse 16, magra, bella e biondissima, occhi azzurri.
Caricata su un furgone all’uscita dalla scuola e poi tre anni in Italia fatti di botte, marciapiedi e sesso animale sul sedile reclinato di una macchina.
«Pensavo alla mamma, volevo morire». Una sera si ferma un’auto come mille altre ogni notte, ma stavolta qualcuno ne scende anziché contrattare dal finestrino abbassato per far salire lei. Un uomo che indossa una tonaca vecchia e consumata ed ha un gran sorriso. «Vuoi venire via con noi? Ti aiuteremo». Lei ribatte: «Ma mi ammazzeranno». E lui, ancora: «Non aver paura, vieni via con noi». Dorina scappa dalla strada e dalla luce tetra dei fanali che le si avvicinano, denuncia i suoi carcerieri, entra in una casa famiglia dell’Associazione «dove resterò tutto il tempo di cui ci sarà bisogno». Telefona alla mamma, le dice tutto, la mamma piange e piange anche Dorina, che ora ha un sogno: «Avere un lavoro qui in Italia e andare a trovare la mamma». L’Associazione è già in venticinque Paesi del mondo, ma presto diventeranno di più: «Abbiamo richieste per aprire case famiglia dall’Argentina e dal Ciad, dall’Uruguay e dal Ruanda», spiega Ramonda. E il futuro dell’Associazione secondo lui? «È nei giovani e in coloro che sentono dentro la freschezza del Vangelo per il bene della società e a partire dagli ultimi. Il tempo di don Oreste è stato unico ed è insostituibile, adesso tocca a noi». Ed il futuro è in parte anche nelle offerte sul conto corrente postale n. 12148417 intestato ad 'Associazione Papa Giovanni XXIII' (magari scrivendo nella causale « Sostegno accoglienza »).
Perché servono anche i soldi per strappare alla tragedia ragazze come Liliana, Iona, Dorina o Adelina, che ha vent’anni ed è albanese: «Non sono nata per prostituirmi, né per lasciarmi spegnere le sigarette sul petto e neanche per contrattare sul marciapiede venti minuti di sesso». Bisogna non avere paura per liberare queste ragazze (bambine, spesso) e salvarle poi da vendette e ritorsioni, eppure l’Associazione c’è già riuscita con 6/7mila di loro solo in Italia.
Come pure ha già accolto migliaia di ragazzi tossicodipendenti portandoli via alla droga, piccoli e grandi con disabilità fisiche e mentali, senza fissa dimora.
Combattendo poi anche e con ogni mezzo le sette sataniche.
Cercando intanto di testimoniare e raccontare quanta bontà esista e di quanta bontà chiunque possa essere capace: «Non si può vincere il male denunciando solo il bene che manca, ma facendo conoscere il bene che c’è», diceva don Benzi. Che andava, di persona, da chiunque avesse bisogno. Ad abbracciarlo, se necessario. Perché non si sentisse solo, mai. Su una lavagna dell’ufficio che è il cuore dell’Associazione, a Rimini, rimane ancora oggi una scritta col pennarello. Forse perché nessuno troverà mai il coraggio per cancellarla o forse perché è giusto lasciarla per sempre lì e ricordare: «Se chiamano donne e uomini che chiedono di uscire dalla strada dire che don Oreste lo vuole aiutare e dare il numero del telefonino di don Oreste».
I «suoi» ragazzi: «Ora ci sentiamo ancor più responsabilizzati». Il futuro dell’Associazione «è nei giovani che sentono la freschezza del Vangelo a partire da chi soffre»

sabato 29 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Medjugorje: Messaggio della Madonna del 25 Marzo 2008 a Marija Pavlovic Lunetti
2) Sabato 5 aprile 2008 incontro di preghiera con Marija Pavlovic a Casale Monferrato
3) L’orgoglio della fede in Gesù da spirito libero: Basta con le infamie miranti a screditarmi con l’obiettivo di attaccare il Papa, di Magdi Cristiano Allam
4) Prematuri: Per la medicina ora contano come gli adulti
5) Lo sciopero della fame interrotto, il risveglio, l’appello, il sogno, l’ultimo messaggio, la lettera a Welby e quella a Napolitano. Storia di Salvatore Crisafulli. Catanese, 43 anni, stato vegetativo, intrappolato, felice
6) EUROPA, CRISTIANESIMO, ISLAM VITTIME DI UNA PREMURA UNILATERALE
7) Rifiuta di curarsi per non abortire: muore dopo il parto



Medjugorje: Messaggio della Madonna del 25 Marzo 2008 a Marija Pavlovic Lunetti
"Cari figli, vi invito a lavorare alla conversione personale. Siete ancora lontani dall'incontro con Dio nel vostro cuore, perciò trascorrete più tempo possibile nella preghiera e nell'adorazione a Gesù nel Santissimo Sacramento dell'altare, affinché Egli vi cambi e metta nei vostri cuori una fede viva e il desiderio della vita eterna. Tutto passa, figlioli, solo Dio rimane. Sono con voi e vi esorto con amore. Grazie per aver risposto alla mia chiamata. "

Sabato 5 aprile 2008 incontro di preghiera con Marija Pavlovic a Casale Monferrato
Dalle ore 15.00
Palazzetto dello sport
Organizzato dai gruppi di preghiera Regina della Pace di Casale Monferrato e Regina Pacis di Alessandria
Info: Narcisa Cell. 3488121815


L’orgoglio della fede in Gesù da spirito libero: Basta con le infamie miranti a screditarmi con l’obiettivo di attaccare il Papa
La mia replica ai cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo e del politicamente corretto, che avrebbero voluto che mi convertissi al cattolicesimo mantenendo una valutazione positiva dell’islam

autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Vi propongo la versione integrale della mia seconda e spero ultima lettera al Direttore Paolo Mieli, pubblicata oggi dal Corriere della Sera, in cui chiarisco il mio pensiero sulle critiche infondate, infamanti e strumentali sollevate da taluni dopo la mia conversione al cattolicesimo. Voglio precisare che da parte del Corriere della Sera non c’è stata alcuna censura ma che per ragioni di spazio non è stato possibile pubblicare la versione integrale della lettera.
Caro Direttore,
la mia conversione al cattolicesimo avvenuta nella solenne celebrazione della Veglia Pasquale nella Basilica di San Pietro per mano del Papa è stata da più parti strumentalizzata sia per screditarmi sia per accusare il Santo Padre. Ebbene voglio subito chiarire che sottoscrivo pienamente, in ogni sua virgola, la precisazione del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, che distingue correttamente tra le mie idee personali, di cui mi si riconosce la libertà d’espressione, e le posizioni ufficiali della Chiesa, che ovviamente sono del tutto autonome dal mio pensiero. Ci mancherebbe altro! Mi auguro che a questo punto cessino le manovre più o meno occulte di tutti coloro che, pur facendo riferimento ad ambiti religiosi o ideologici differenti, si sono sostanzialmente ritrovati uniti nell’attacco a Benedetto XVI.
Sai bene, e lo sanno anche i lettori del Corriere, che da musulmano sono stato uno spirito libero ed è proprio questa libertà intellettuale, a cui fa da sponda una radicata rigorosità etica, ciò che ha gradualmente fatto maturare in me il convincimento che la religione cattolica corrisponda pienamente al contesto ideale al cui interno possono naturalmente convivere dei valori inalienabili e inviolabili che per me sono da sempre irrinunciabili in quanto rappresentano l’essenza della nostra umanità, a cominciare dalla fede nella sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, dal riconoscimento della dignità della persona quale fondamento della civile convivenza, dal rispetto della libertà di scelta tra cui spicca l’esercizio incondizionato della libertà religiosa. Ebbene voglio rassicurare tutti che continuerò ad essere ancor di più uno spirito libero da cattolico. E non potrebbe essere diversamente visto che proprio da questo Papa ho imparato che l’uso della ragione, l’adozione di parametri valutativi e critici, la verifica della verità scientifica e storica, costituiscono la condizione imprescindibile per accertare la fondatezza della bontà di una autentica religione e per perseguire quella Verità che coniughi l’oggettività, l’assolutezza e l’universalità del pensiero laico con la trascendenza propria della fede in Dio. Così come la libertà di spirito è stato il tratto saliente degli amici fraterni cattolici che mi hanno accompagnato nel percorso interiore culminato nella piena adesione alla fede in Gesù, a cominciare da monsignor Rino Fisichella, la mia guida spirituale, che forse non a caso riuscì a diventare il referente religioso di Oriana Fallaci, il vessillo della libertà incondizionata e irrefrenabile nella storia del giornalismo italiano contemporaneo.
Da spirito libero trovo del tutto infondate, pretestuose e maligne le critiche che mi sono state rivolte. Ci si è scandalizzati per il fatto che il mio battesimo sia avvenuto nella notte di Pasqua, a San Pietro, da parte del Papa. Forse i più non sanno che i catecumeni, gli adulti che si convertono, ricevono i sacramenti d’iniziazione al cristianesimo nel corso della cerimonia della Veglia Pasquale. Ciò avviene ovunque nel mondo. E che, avendo effettuato il percorso di conoscenza e di adesione alla nuova fede a Roma, non deve sorprendere che sia stato il Papa, nella sua veste di vescovo di Roma, a impartirmi il battesimo, la cresima e l’eucarestia. Sinceramente sono allibito e rammaricato quando perfino alcuni esponenti del clero cattolico arrivano a sostenere che sarebbe stato di gran lunga preferibile che il mio battesimo fosse stato impartito in una parrocchia di una remota cittadina, lontano da occhi discreti e dall’interesse dei mass media. Come se il mio battesimo fosse una vergogna da tenere il più possibile nascosta. Alla luce di questa interpretazione infamante, il ruolo di Benedetto XVI ha finito per essere equiparato a una “provocazione” se non un vero e proprio “complotto” contro l’islam. Ebbene io sono orgoglioso della mia conversione al cattolicesimo, sono orgoglioso che sia avvenuta in modo pubblico e che sia stata pubblicizzata, sono orgoglioso di poterla affermare a viva voce, sono orgoglioso di poter testimoniare la mia nuova fede ovunque nel mondo e considero il mio battesimo dalle mani del Papa come il dono più grande che la vita potesse accordarmi.
Sono stato criminalizzato, qualcuno mi ha paragonato agli estremisti islamici che mi hanno condannato a morte, per aver espresso un giudizio radicalmente negativo nei confronti dell’islam. Una folta schiera di cristiancomunistislamici, adoratori del relativismo etico, culturale e religioso nonché del politicamente corretto, avrebbe voluto che io limitassi la mia denuncia al terrorismo islamico ma che mantenessi una valutazione comunque positiva dell’islam. Perché, a loro avviso, tutte le religioni sono pari a prescindere dai loro contenuti e, in ogni caso, non bisogna dire alcunché che possa urtare la suscettibilità altrui. Ma scusatemi: se mi sono convertito al cattolicesimo è del tutto ovvio che l’ho fatto perché ho maturato una valutazione negativa nei confronti dell’islam. Se io veramente credessi che l’islam sia una religione vera e buona, perché mai l’avrei abbandonata? A questo punto emerge il sospetto, usando un eufemismo, che si vorrebbe che io pur nutrendo una valutazione negativa dell’islam, non la debba però esternare rendendola pubblica. Sempre per la paura della reazione di condanna nelle sue varie sfumature, dalla deplorazione fino alla minaccia se non all’uso della violenza. Ebbene mi spiace per costoro: ciò che dentro di me è vero e giusto lo dirò e lo scriverò sinceramente e integralmente. Se loro sono già sottomessi al terrorismo dei taglia-lingua e già praticano l’auto-censura per prevenire la violenza degli estremisti islamici, io intendo affrontare questa guerra di libertà e di civiltà a testa alta e con la schiena dritta, fino alla fine.
A questo punto è doveroso chiarire che io non sono affatto un apologeta e un fautore di una “guerra di religione” o di una “guerra di civiltà”. Ciò che l’Occidente non ha o non vuole capire che è in già in atto una guerra scatenata dal terrorismo e dall’estremismo islamico globalizzato, i cui protagonisti sono i taglia-gola e i taglia-lingua che massacrano e sottomettono nel nome di Allah tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza, a cominciare dagli stessi musulmani nei paesi a maggioranza islamica. Io sono un ex musulmano che ha subito e continua a subire questo terrorismo e che ora, da cattolico, intende essere testimone di una verità storica e promotore del riscatto di valori e di un’identità senza cui l’Occidente, che affonda la sue radici nella fede e nella cultura giudaico-cristiana, non potrà affrancarsi e confrontarsi costruttivamente anche con i musulmani. Pur prendendo radicalmente e definitivamente le distanze dall’islam in quanto religione, sono assolutamente convinto che si possa e si debba dialogare con tutti i musulmani che, in partenza, condividono i diritti fondamentali della persona senza se e senza ma e perseguono il traguardo di una comune civiltà dell’uomo. L’errore in cui si incorre è di immaginare che i musulmani, quali persone, sarebbero dei cloni che incarnano in modo automatico e acritico i dogmi dell’islam. Sono, come tutte le persone, una realtà singolare e complessa in cui la dimensione religiosa, che assume dei connotati diversi, si confronta con quella che è l’esperienza personale frutto di uno specifico contesto familiare, psicologico, sociale, culturale, economico e politico.
Caro direttore, tu sai bene che il Corriere si è sempre speso per valorizzare la posizione dei musulmani moderati. Io stesso sono orgoglioso di essere stato nell’ultimo decennio il musulmano che più di altri si è speso per affermare in Italia un islam della fede e della ragione. Ricordo con orgoglio come il 10 settembre 2004 fui l’artefice della prima visita nella storia d’Italia di una delegazione di musulmani moderati al Quirinale, accolti dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, dopo la pubblicazione, il 2 settembre 2004 sul Corriere, di un “Manifesto contro il terrorismo e per la vita” da me redatto e fatto sottoscrivere a una trentina di musulmani che presumevo fossero moderati. Poi mi sono dovuto ricredere. Perché nel momento in cui devono confrontarsi con i dogmi e con i precetti dell’islam, qual è il caso della mia conversione al cattolicesimo, la loro moderazione viene del tutto meno. Non è forse singolare che i più accaniti critici della mia conversione siano proprio i cosiddetti moderati, a cominciare dai sedicenti 138 “saggi” dell’islam che hanno proposto un dialogo con il Vaticano sulla base di versetti coranici, estrapolati dal loro contesto, sull’unicità di Dio e l’amore per il prossimo? Ormai la millenaria esperienza con l’islam deve insegnarci che il dialogo è possibile solo con quei musulmani che accettano di assumere incondizionatamente, a prescindere da ciò che dice o non dice il Corano, rivolgendosi nella propria lingua alla loro gente, una chiara e ferma posizione sulle questioni concrete, tra cui oggi certamente figurano il massacro e la persecuzione dei cristiani, la negazione del diritto all’esistenza di Israele, la condanna a morte dei musulmani convertiti in quanto apostati, la legittimazione del terrorismo palestinese ed islamico, la discriminazione e la violenza nei confronti della donna e, più in generale, la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
Denunciare tutto ciò nella mia lettera che il Corriere ha pubblicato nel Giorno di Pasqua e della mia conversione al cattolicesimo, non significa in alcun modo voler “dettare la linea” al Papa o politicizzare il mio battesimo. Sono cose che io ho sempre detto da lunghi anni e sarebbe stato veramente singolare che, di punto in bianco, le avessi ignorate. Magdi Cristiano resterà sempre il Magdi che ha difeso dei valori inalienabili e inviolabili, con la sostanziale differenza che oggi questi valori convivono in modo del tutto armonico nel contesto della religione e della cultura cattolica. Ti ringrazio per l’attenzione e la correttezza con cui hai seguito questa mia vicenda personale di fede e di vita e ti comunico che con questo mio intervento ritengo di aver detto tutto ciò che ho ritenuto opportuno che i nostri lettori sapessero. Cordiali saluti e i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam



Prematuri: Per la medicina ora contano come gli adulti.
Un prematuro di 24 settimane ha le stesse possibilità di morire o rimanere disabile di quelle che ha un adulto colpito da un ictus, ma nessuno si azzarderebbe a negare le cure al secondo…
di Carlo Bellieni

Il Ministro Turco ha appena mandato una circolare ai vari presidi ospedalieri che raccomanda di attenersi alle conclusioni del Consiglio Superiore della Sanità per quanto riguarda la rianimazione dei prematuri. Ci congratuliamo col ministro e con tutti coloro che in questi anni hanno capito che le scelte etiche non si fanno a partire dai “massimi sistemi”, ma dalla realtà. Quanto c’è stato da combattere per far passare questo criterio nel discorso sui prematuri, contro pregiudizi, disinformazione, paure personali, criteri economicisti! Ma alla fine è prevalso il sano criterio della realtà: un bambino conta come un adulto. Un prematuro di 24 settimane ha le stesse possibilità di morire o rimanere disabile di quelle che ha un adulto colpito da un ictus, ma nessuno si azzarderebbe a negare le cure al secondo. “Cosa ha un bambino di meno di un adulto?” abbiamo chiesto, e siccome era impossibile trovare una risposta che avesse un senso per sostenere che un neonato si può lasciar morire e un adulto no, abbiamo vinto. Solo in nome della ragione.
E’ un metodo da seguire, cui ci sembra che la politica finalmente stia interessandosi, per prendere decisioni. Consiste nel non domandarsi più qual è il parere dei media che fanno tendenza… o quello del cantante, della star –ricordiamo le prime pagine di certi giornali durante la discussione sulla legge 40, piene dei sorrisi di “testimonial televisivi” in una campagna invece profonda e decisiva- . Non domandarsi neanche qual è il parere di una confusa maggioranza, dato che di certi temi scientifici e tecnici la maggioranza (che può essere orientata facilmente dai media e dai testimonial) sa ben poco.
Invece il metodo corretto sta nel partire da una semplice domanda: “fa bene o fa male alla persona?” prima ancora di approfondire le implicazioni morali. Già: perché così potremo capire che la droga, prima ancora di essere un fatto morale, è un rischio per la salute, dallo spinello al crack; e che prima di parlare di liberalizzarla bisogna attaccare l’immagine “positiva” che gli è stata appiccicata dalla moda. Capiremo che l’aborto è un dolore per la donna perché ogni donna sa –e la scienza con lei - che è la morte del figlio; e allora invece di discutere se sia un diritto, sarà bene capire come aiutare le mamme e le famiglie. Capiremo che l’eutanasia la chiede chi è solo, e che le politiche sociali non bastano se non sono accompagnate da una politica culturale verso la valorizzazione della terza età; così come capiremo che la fobia verso la disabilità che porta a preferire la morte alla malattia, nasce perché nessuno ha fatto capire che la malattia non è la fine della vita, che il mondo non è proprietà di chi è sano… e che in fondo volendo far sparire i disabili cerchiamo di celare al mondo le nostre nascoste disabilità.
Più si studia la letteratura scientifica, più si capisce che la scienza è amica di una visione etica della vita, e non certo nel senso necrologico in cui viene intesa oggi l’etica, della quale si parla quasi solo per decidere chi far vivere o far morire. Esistono infatti Paesi in cui si selezionano i figli in base al sesso; in cui lo Stato fa regali a chi si fa sterilizzare, o in cui si procura un medico per far morire… come se non fosse abbastanza facile –immensamente facile- eliminarsi da soli. Assistiamo alla creazione e distruzione di chimere semi-umane o a tentativi di clonazione, o a studi su embrioni che non hanno mai portato nessun aiuto alla scienza, ma hanno dirottato miliardi dalle cure su malattie “non di moda”: tubercolosi, malaria… La scienza non è amica di questa “etica”.
Il caso dei “grandi prematuri” è invece un modello di uso della ragione e di considerazione politica di questo; continui la politica in questo cammino moralmente e scientificamente virtuoso.
AVVENIRE 27 marzo 2008



28 marzo 2008 , dal Foglio.it
Anticipazione dal Foglio di sabato 29 marzo. Tutta la storia sul numero in edicola
Io non sono un carciofo
Lo sciopero della fame interrotto, il risveglio, l’appello, il sogno, l’ultimo messaggio, la lettera a Welby e quella a Napolitano. Storia di Salvatore Crisafulli. Catanese, 43 anni, stato vegetativo, intrappolato, felice
“Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro a cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”. Salvatore Crisafulli, settembre 2006. Oggi meglio. Andare. Fuori. Gelato. Pietà. Piango. Disperato. Bello. Rido. Notte. Basta. Sciopero. Vivo. Contatta. Mare. Catania. Mascara. Stadio. Mandorla. “Mam-ma”. Salvatore sorride scrivendo con gli occhi su un piccolo schermo a cristalli liquidi, sceglie le parole su una tastiera bianca nella sua camera da letto, sfiora con la mandibola un bottone nero poggiato pochi centimetri sopra la spalla e sposta un cursore giallo con un oscillazione morbida del collo che trasforma in voce scritta il suo corpo immobile: un corpo che tre anni fa doveva essere finito e che oggi respira, tossisce, piange, mangia, russa, sciopera, la domenica va allo stadio, a ferragosto va ad Augusta e ogni tanto balbetta in catanese quando la mamma si avvicina e di nascosto gli passa un goccio di caffè. Salvatore Crisafulli si è risvegliato tre anni fa su un lettino dell ospedale di Arezzo, respirando con un tubo infilato nel collo, una piaga profonda sei centimetri sul sacrale, le braccia ricostruite in sala operatoria, un coma di quarto grado, un'insufficienza respiratoria, una frattura alla colonna vertebrale, un'emorragia cerebrale e i medici che dicevano di non toccarlo, perché suo figlio è in coma, signora: questo è uno stato vegetativo permanente; lui non può capire, non può sentire non può parlare; se alza la testa, se abbassa le palpebre e se muove gli occhi le assicuro che, purtroppo, sono gesti non volontari. Non lo fa apposta; signora, suo figlio non è cosciente. Salvatore si è risvegliato dopo due anni di coma, dopo due anni di uno stato vegetativo che doveva essere permanente. Oggi vive a Catania con la madre, con due fratelli, con due sorelle, con quattro figli e con una moglie che però si è allontanata. Tre giorni fa ha interrotto uno sciopero della fame cominciato il 15 marzo insieme con altri cinque disabili in stato vegetativo; che in pochi giorni sono diventati 28 e che infine sono diventati poco più di 40. E stato Salvatore stesso a chiedere lo sciopero; lo ha chiesto al fratello Pietro – “Pe-trù” come provò a sibilare la mattina di un anno fa; l’ha chiesto balbettando sul suo computer a scansione ottica quel comunicato che Petrù ha inviato a tutti gli indirizzi importanti che gli venivano in mente – il presidente della Repubblica, il sindaco di Catania, il presidente del Consiglio, gli assessori comunali, gli assessori regionali, i ministri, i sottosegretari e i candidati premier – per chiedere non di interrompere una sofferenza, non di staccare una spina, non di ricevere il diritto a morire. No. Ha scritto per vivere, Salvatore.
di Claudio Cerasa


EUROPA, CRISTIANESIMO, ISLAM VITTIME DI UNA PREMURA UNILATERALE
Avvenire, 29 marzo 2008
ANDREA LAVAZZA
Difficile negare che, in Italia e in Occiden­te, vi sia una palese differenza di tratta­mento verso le manifestazioni pubbliche del pensiero ritenute offensive dagli esponenti delle maggiori religioni. Il caso del cortome­traggio
Fitna, realizzato e diffuso del deputa­to olandese Geert Wilders, pare un caso e­semplare.
Per 16 minuti immagini raccapriccianti d’at­tentati di matrice islamica si alternano ai ver­setti più controversi del Corano che, presi alla lettera, suonano come espliciti inviti alla vio­lenza contro gli infedeli. Associazione arbitra­ria, mentre va giudicata inaccettabile l’equi­parazione del testo sacro musulmano al Mein Kampf hitleriano o il suo appiattimento su in­terpretazioni illiberali e repressive, che pure sono note e anche oggi ben visibili. In 14 secoli, chi ha detto di ispirarsi alle parole del Corano è stato capace di produrre santità di vita e ca­polavori d’arte, saggezza e scienza, così come conflitti e intolleranza, arretratezza e sotto­missione delle donne. Né sembra possibile o sensato improvvisare un bilancio tra esiti po­sitivi e conseguenze negative.
Ciò che preme qui sot­tolineare è la reazione di sdegno che imme­diatamente
Fitna ha su­scitato a livello ufficiale. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha condannato «nei ter­mini più forti possibili» la messa in Rete del fil­mato. La presidenza dell’Unione europea ha parlato di «incitamen­to all’odio» e ricordato che la «libertà d’espres­sione deve essere eser­citata in uno spirito di rispetto per le convin­zioni altrui». Il numero uno del Parlamento di Strasburgo, il popolare Hans Gert Pöttering, ha detto di «respingere in modo assoluto l’inter­pretazione dell’islam come una religione vio­lenta ». Il governo olandese, prima ancora che si conoscesse il contenuto del video, aveva pre­so le distanze e fortemente auspicato che l’au­tore facesse marcia indietro.
Considerando che le reazioni del mondo mu­sulmano sono state – per ora – più contenute e moderate di quelle suscitate dalle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, la corsa all’esecrazione e alle scuse implicite richiama
la tirannia della penitenza, titolo di un recen­te pamphlet dello scrittore francese Pascal Bruckner, a parere del quale saremmo vittime di un masochismo che ci fa deboli e vergognosi della nostra identità.
Si può infatti leggere il rincorrersi di dichiara­zioni concilianti come un tentativo di preve­nire esplosioni di violenza nelle comunità di immigrati, azioni terroristiche o ritorsioni e­conomiche, ammettendo la sostanziale inca­pacità di limitare o di sostenere una massic­cia protesta musulmana. (Non saremo co­munque noi, dalle colonne di questo giorna­le, a non apprezzare il riguardo riservato all’i­slam). Eppure, non appare fuori luogo ricon­durre almeno una parte delle prese di posi­zione a una sincera adesione al politicamen­te corretto, attento a non offendere persone o idee che si ritengono più vulnerabili o degne di qualche forma di compensazione per pas­sate ingiustizie.
Non si rammenta infatti tale mobilitazione per episodi in cui sono stati il cristianesimo, la Chiesa o il papa oggetto di insulto, vilipendio, scherno, falsificazione storica o letture distor­te. Certo, in quei casi la reazione degli interes­sati e dei credenti è, in genere, lungi dall’esse­re intollerante o bellicosa. Tende però ad ave­re preminenza e prevalenza, nelle reazioni e nei giudizi comuni, la libertà di espressione e di critica, giustamente considerate un bene da custodire della nostra civiltà. Civiltà che però è nata proprio dalle radici cristiane, che han­no fatto crescere la pianta dei diritti inviolabi­li della persona.
Come Avvenire ha già avuto modo di dire, la li­bertà di religione sembra implicare anche u­na tutela del nucleo delle credenze fondanti dagli attacchi immotivati. Una ragione, quin­di, per non avallare in alcun modo il film o­landese, ma pure per chiedere che la difesa i­stituzionale scatti per tutte le religioni. Anche quando non vi sono minacce di attacchi e di boicottaggi.


Rifiuta di curarsi per non abortire: muore dopo il parto
Avvenire, 29 marzo 2008
DA MILANO PAOLO FERRARIO
H a scelto la vita senza esitare, fe­lice di diventare madre anco­ra una volta. Nemmeno per un istante ha pensato di sacrificare la nuo­va creatura che le stava crescendo in grembo per salvare se stessa. Così, nel giorno del Venerdì Santo, è morta Ste­fania Dal Cer, 36 anni di Saronno, uc­cisa da un melanoma maligno scoper­to tre giorni dopo aver saputo di esse­re incinta di Misael, nato l’8 febbraio. Per suo amore ha rifiutato le cure che i medici le avevano consigliato, ma che avrebbero irrimediabilmente com­promesso la vita del bambino.
«Ha affrontato tutto con determina­zione e coraggio, sempre con il sorriso sulle labbra», ricorda la sorella Simona, che con la famiglia ha accompagna­to gli ultimi sei mesi di Stefania, educatrice di scuola materna e già mamma di Gloria, una bimba di tre anni. Dopo la morte della madre, sarà proprio Simona a pren­dersi cura della piccola, mentre Misael starà col padre e con la nonna. «Naturalmente – aggiunge – la speranza di Stefania e di noi tutti era che, alla fine, le cose an­dassero bene, che tutto si risolvesse positivamente. Ed è stata proprio que­sta speranza, questa voglia di vedere che cosa sarebbe successo dopo, che l’ha sostenuta, dandole forza e corag­gio, aiutandola anche quando il dolo­re fisico sembrava avere il sopravven­to ».
Quando, a poco a poco, le forze l’han­no abbandonata e la stanchezza era sempre più grande, Stefania si è affi­data con ancora più convinzione alla preghiera, continuando a combattere così la propria battaglia con la malat­tia. «Gli ultimi giorni accanto a lei – di­ce ancora la sorella – sono stati una ve- ra esperienza spirituale. Stefania spe­rava e pregava, senza un lamento, sen­za una parola di rimpianto, ma, anzi, felice della scelta compiuta. Fin dal pri­mo istante sapeva che cosa rischiava e ha affrontato anche questa prova da vera combattente qual era».
Un esempio che ha lasciato il segno nella comunità della Sacra Famiglia di Saronno, che sabato mattina ha gre­mito la parrocchiale per l’ultimo saluto a Stefania. Nell’omelia, il parroco don Alberto Corti ha par­lato del «sepolcro che si apre alla Resurrezione», sottolinendo così l’ap­prodo definitivo che at­tende questa giovane ma­dre coraggiosa. «Come la santa Gianna Beretta Molla – aggiunge il vicario episcopale di Zona, monsignor Ange­lo Brizzolari – anche questa giovane madre, illuminata dalla Grazia di Dio, ha messo al primo posto il rispetto as­soluto per la vita. È un altro esempio di testimonianza di fede, silenziosa e di­screta, senza clamore ma molto con­vinta e convincente, dalla quale la co­munità può trarre insegnamento».
Anche gli amici dell’associazione “Pe ’no chao”, che si occupa di bambini di strada a Recife, in Brasile, di cui Stefa­nia era volontaria molto attiva, hanno voluto leggere una lettera per testimo­niare a tutti il suo grande impegno ac­canto ai deboli, agli ultimi della Terra. «Ho conosciuto Stefania durante il suo soggiorno a Recife – dice Paolo Cre­monesi, che in Brasile ha trascorso quattro anni – e ricordo una persona molto aperta e desiderosa di mettere al servizio degli altri le proprie capacità. Era felice di stare coi ragazzi e di poter conoscere, da vicino, i progetti che, con gli altri volontari del gruppo, aveva contribuito a sostenere attraverso le i­niziative che solitamente promuovia­mo sul territorio durante l’anno».

venerdì 28 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Magdi Cristiano Amico
2) "Allam incita all'odio” di AFEF JNIFEN
3) La "Spe salvi" tra storia ed escatologia -. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica
4) PER UN GRANDE PROGETTO FORMATIVO, di Francesco Botturi
5) «Basta scontri ideologici sul futuro della scuola»
6) intervista Ribolzi: prioritario attuare l’autonomia e la libertà di scelta
7) Russia, la «Spe salvi» fa incontrare cattolici e ortodossi


Magdi Cristiano Amico
Autore: Cavallari, Fabio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 27 marzo 2008
Ho conosciuto Magdi Cristiano Allam circa un anno fa, quando stavo ultimando il libro scritto a quattro mani con l’amica Suor Maria Gloria Riva. Stavamo cercando qualcuno che sapesse interpretare il nostro lavoro, che intendesse immergersi in “Volti e Stupore – Uomini feriti dalla bellezza“ con assoluta curiosità e stupore. Fu don Gabriele Mangiarotti a fare il nome di Magdi. Confesso: mi sembrava un’esagerazione. Intellettuale, scrittore e vice-direttore ad personam del Corriere della Sera. Perché mai avrebbe dovuto accettare la nostra proposta? Altro livello di relazioni il suo, altre frequentazioni e conoscenze. “Il nostro non è un libro” dicevamo io e Suor Gloria, “il nostro è un cammino, un percorso comune, la testimonianza che l’incontro è possibile”. “Magdi Allam poi non avrà neppure il tempo materiale per dedicarsi a noi…”, così pensavo cercando di non crearmi illusioni. “Ci sta!” mi telefonò entusiasta don Gabriele “Scriverà la prefazione al libro”. Una prefazione può essere considerata un po’ come la fase preparatoria di un viaggio. E’ necessario scegliere le cose giuste da mettere in valigia, stabilire percorso e tappe intermedie. Il viaggio è una domanda, è incontro. Per non sbagliare strada, per non perdersi nelle paludi è imprescindibile preparare il viatico. Viaticum come provvisione per il viaggio. Bene, noi avevamo bisogno di un testimone, di qualcuno che prendesse per mano le nostre storie e ne desse voce. Magdi, entrò in punta di piedi, con delicatezza e sensibilità. Schiuse porte, conferì un tono alle nostre parole. Egli fu il primo che concretizzò il nostro desiderio di comunanza. Rimasi affascinato dalle parole che usò per il nostro libro. Rese palese ciò che palese ancora non era: l’Amicizia. Ricordo ancora la prima volta che lo sentii telefonicamente. Suor Gloria era con lui e mi aveva annunciato che nel corso di quell’incontro mi avrebbero chiamato. Ero emozionato, volevo testimoniargli la mia gioia per aver capito, per essere entrato così prepotentemente nei nostri racconti, per essersi inserito nel nostro dialogo con partecipazione, condivisione e tatto. Non credo di essere riuscito in quella telefonata ad esprimere compiutamente tutta la mia gratitudine. Non credo, ma da quel momento è iniziato un percorso di amicizia. Non più il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera ma un amico che combatte una battaglia, un amico che in nome della libertà non abbassa lo sguardo neppure al cospetto di una condanna a morte. Un amico, un compagno di viaggio. Da quel momento, ci siamo incontrati, abbiamo avuto modo di affrontare momenti pubblici l’uno accanto all’altro. Solo qualche giorno prima della Veglia Pasquale ho saputo della sua conversione, la notizia mi ha scosso per il timore che quella scelta potesse mettere in pericolo la sua vita, ma non mi ha meravigliato la decisione in sé. Come ha avuto modo di dire don Gabriele Mangiarotti, la conversione di Magdi “l’ho trovata, per così dire, naturale”. Non ho la “grazia della fede” ma ho partecipato al percorso di Magdi con il trasporto e l’affetto che solo agli amici è possibile riservare. Per la prima volta nella mia vita ho assistito alla Veglia Pasquale. Domenica 23 Marzo non mi trovavo neppure in Italia, ma grazie ad un computer di fortuna sono riuscito a seguire, grazie a Sat2000, l’intera cerimonia. Partecipazione e tensione, emozione e afflato del cuore mi hanno catturato durante le tre ore della diretta televisiva. Un amico stava compiendo una svolta storica per la sua vita ed una sorta di empatia mi ha coinvolto profondamente. Il giorno seguente, il lunedì dell’Angelo, ho voluto immediatamente chiamarlo per testimoniargli il mio affetto e seppur a distanza donargli il mio abbraccio. Abbracciare non è un semplice gesto d’affetto, implica accoglienza, dedizione e difesa. Nell’attesa di sentire la sua voce, sono stato colto dalla stessa emozione che ho provato la prima volta che ci siamo sentiti. “Una nuova prima volta”, mi sono detto. Non so spiegare razionalmente questo fatto, ma esprimerlo mi sembra un atto dovuto, un gesto tutto interno al concetto di Amicizia. Nei giorni seguenti avrei sperato per Magdi, la possibilità di una “pausa” che gli permettesse di riposarsi da emozioni e tensioni fortissime. Le reazioni alla sua conversione sono state però di una ferocia inaudita. Per carità, le espressioni di affetto e di vicinanza non gli sono certo mancate, ma come sempre a fare clamore sono state le voci “fuori” coro, le urla stonate, le accuse di tradimento e apostasia. Non voglio ora ripercorre i fiumi di parole spese, le tante dichiarazioni irresponsabili e offensive scritte su giornali e pronunciate all’interno del mondo dei mass-media, mi interessa però sottolineare un punto che credo centrale. Se le reazioni del mondo islamico potevano considerarsi “d’obbligo” sono state le critiche provenienti dal mondo occidentale che mi hanno impressionato. Non mi interessa confutare, una per una, le tesi proposte, non mi interessa dare ulteriore pubblicità a demagoghi e menzogneri che hanno fatto della delegittimazione il loro esercizio retorico. Mi ha però impressionato la reazione di taluni intellettuali italiani. L’accusa che gli hanno rivolto non è stata quella di essersi convertito. La colpa di Magdi Cristiano sarebbe quella di averlo fatto pubblicamente e attraverso una celebrazione solenne. In pratica ritorna sempre a primeggiare la questione legata al ruolo pubblico della religione. I laicisti vorrebbero ridurre il “sacro” ad una mera esperienza intima e privata, del tutto estranea alla dimensione collettiva. E’ l’ennesima pretesa, di ridurre il Cristianesimo ad un ruolo subalterno rispetto alle pratiche quotidiane della modernità e del relativismo. Oggi si attacca Magdi Allam per la sua conversione pubblica e facendolo si rinnova l’attacco violento contro l’esperienza cristiana. I laicisti chiedono di operare un’astrazione intellettuale, epurando il pensiero e la cultura cattolica dalle vicende che riguardano la vita, la morte, la dignità e la libertà individuale. Non è necessario essere credenti per considerare tutto questo una follia totalitaria. Da amico e compagno di strada, saluto la nuova vita di Magdi Cristiano con il cuore aperto e la mano salda sul timone della verità.



Padre Lombardi: la libertà di scelta religiosa
deriva dalla dignità della persona umana

"Affermare la libertà di scelta religiosa conseguente alla dignità della persona umana": è questo "il rischio" che il Papa si è assunto amministrando il battesimo al giornalista Magdi Allam. Lo afferma padre Federico Lombardi, direttore generale della Radio Vaticana, rispondendo in una nota - trasmessa nel radiogiornale di giovedì 27 marzo - alle osservazioni di Aref Ali Nayed, direttore del centro regale di studi strategici islamici ad Amman, in Giordania. "Non pensiamo - sottolinea - che l'accusa di mancanza di rispetto per la dignità e la libertà della persona umana sia meritata oggi da parte della Chiesa. Ben altre sono le violazioni di essa a cui dare attenzione prioritaria".
Pur riconoscendo la volontà di Nayed di proseguire nel dialogo fra cristiani e musulmani, intrapreso soprattutto nell'ultimo anno e mezzo, padre Lombardi puntualizza alcuni aspetti delle critiche espresse dall'intellettuale islamico dopo la celebrazione del sabato santo. "Amministrare il battesimo a una persona - ribadisce - implica riconoscere che ha accolto la fede cristiana liberamente e sinceramente". Naturalmente egli resta libero "di esprimere le proprie idee, che rimangono idee personali" e - nel caso in questione - non diventano "in alcun modo espressione ufficiale delle posizioni del Papa e della Santa Sede".
Anche riguardo alla simbologia liturgica della veglia, il direttore di Radio Vaticana fa notare che non ci sono state novità rispetto agli anni passati e che quindi le spiegazioni offerte dal Papa non possono essere tacciate di "manicheismo". Infine, riferendosi all'accusa di proselitismo da parte delle scuole cristiane nei Paesi musulmani, padre Lombardi sottolinea "la grandissima tradizione di impegno educativo della Chiesa cattolica".
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)


"Allam incita all'odio” di AFEF JNIFEN
La Stampa, 28 marzo 2008
Mi sono decisa a parlare della conversione al cristianesimo di Magdi Allam avendo letto la presa di distanza del Vaticano dai giudizi critici sull’Islam che il giornalista ha rilasciato dopo la cerimonia del battesimo nella veglia pasquale in San Pietro.
Voglio precisare che non mi permetto di giudicare Papa Benedetto XVI e che al tempo stesso sono profondamente convinta che debba essere a ogni costo difesa la libertà di professare la propria religione così come di convertirsi. Ma non posso più tacere sulla disinformazione riguardo al mondo musulmano che Magdi Allam porta avanti da anni. Pur essendo italiana, le mie origini si radicano nella cultura islamica e faccio parte della comunità araba in Italia. Non sono praticante, ma per rispetto della religione musulmana, la religione dei miei genitori in cui sono cresciuta, sento di dover intervenire.
Non sono interessata alla conversione di Magdi Allam, e così credo la maggioranza degli italiani, ma ho ben chiaro - e da diverso tempo - qual è il suo obiettivo. Magdi Allam grida al genocidio contro gli ebrei e i cristiani nel mondo islamico. Ci sono stati e ci sono casi, ce lo insegna la storia. Ma ci sono stati e ci sono conflitti anche all’interno di una stessa religione, tra sciiti e wahabiti, tra sunniti e sciiti, tra cattolici e protestanti. Di questo, però, Allam non scrive, come non scrive delle tante testimonianze e dei tanti sforzi per favorire il dialogo interreligioso. No, lui vuole soltanto alimentare i conflitti, infiammare lo scontro di civiltà per cercare di passare alla storia come un simbolo e una vittima di queste crisi. E’ diabolico, ma non ci riuscirà.
Nei giorni scorsi in Qatar - un Paese di soli 800 mila abitanti - è stata aperta la prima chiesa cristiana e negli Emirati Arabi la quinta, mentre in Oman sono quattro quelle già presenti. Ancora, in Tunisia c’è la più vecchia sinagoga di tutta l’Africa, il Marocco ha avuto un ministro del Turismo di religione ebraica così come oggi il re ha alcuni consiglieri che professano quella fede, mentre in Libano la Costituzione dice che il presidente debba essere cristiano. Insomma, ci sono tanti esempi di tolleranza e dialogo che la gente magari non conosce, ma Allam non ne parla mai. Lui cita soltanto esempi di conflitti. Certo che nel mondo musulmano ci sono gli integralisti, chi lo nega? E in presenza di conflitti gli integralisti esasperano il fattore religioso. Ma nessuno oserebbe dire che poiché Mussolini e Hitler erano cristiani il cristianesimo sia violento. Gli articoli che da anni scrive Magdi Allam sono stati molto dannosi per la comunità arabo-musulmana in Italia. Non c’è stato alcun esponente della destra, anche la più estrema, che abbia fatto un lavoro tanto negativo. Allam ha troppo astio dentro di sé, mi auguro che ora dopo il battesimo trovi pace interiore, lo dico senza ironia. Scommetto però che arriverà invece un libro sulla sua conversione, spero soltanto che darà i soldi in beneficenza a qualche parrocchia. Ci risparmi altre lezioni di malafede tra le religioni, anche il Vaticano ha capito che crea zizzania fra due mondi che cercano un dialogo difficile, ma molto importante.
Caro Magdi, alla faccia tua il dialogo continuerà.


La "Spe salvi" tra storia ed escatologia -. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica
di Aldo Schiavone
Direttore dell'Istituto Italiano di Scienze Umane
La Spe salvi è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.
Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit - una bellissima citazione paolina - è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia. È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (in "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità, di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si rivers(i)no in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il Pontefice (n. 7).
Per lui (e non potrebbe essere altrimenti) l'aspetto escatologico della speranza - della speranza cristiana - si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore" (n. 5). È il punto di giunzione - insieme limpidissimo e tormentato - fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate" (n. 7).
Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale "che cosa possiamo sperare?" (n. 22) - un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia - richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia. Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza - sulla sua forma storica, potremmo dire - si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti. La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del Pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno" (n. 22). Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi - se sappiamo davvero interpretarli - siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre. Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società - e su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza. Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi (n. 17) - cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.
Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica - la potenza trasformatrice della tecnica - non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura" (n. 24); ma sta facendo molto, molto di più. Ci sta spingendo - dopo milioni di anni di storia della specie - verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento - il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente - non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.
E allora io mi domando - e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il Pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto? È vero, Benedetto ha ragione: la scienza - nessuna scienza - potrà mai "redimere" l'uomo (n. 17): c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare - e lo sta già facendo - in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita (e di morte). Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo: il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio - anch'essa richiamata dal Pontefice (n. 43) - nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"? In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito: anch'esso, come Benedetto sa bene, un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca. E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi. Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi (omnis determinatio est negatio) sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo. Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore - come quello che Benedetto ci invita a pensare - non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo. Non mi nascondo che mettersi in questo vento - arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta - imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero se non ora, quando? Le energie vi sono - e c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia - senza rinunciare alla dottrina.
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)


Russia, la «Spe salvi» fa incontrare cattolici e ortodossi
Avvenire, 28 marzo 2008
La presentazione a Mosca dell’edizione russa della «Spe Salvi» ha rappresentato un importante passo in avanti nel dialogo tra cattolici e ortodossi, oltre che un’occasione d’incontro con la viva voce della Chiesa cattolica. La seconda enciclica di Benedetto XVI, «sbarcata» in Russia da poche settimane grazie alle Edizioni Francescane – in collaborazione con la Nunziatura apostolica e l’agenzia di stampa cattolica Agnuz – è stata presentata per la prima volta martedì presso il Centro culturale «Biblioteca dello Spirito», in cui da 15 anni collaborano cattolici e ortodossi promuovendo il dialogo ecumenico attraverso incontri, mostre e pubblicazioni. La serata del 25 marzo è stata un’ulteriore occasione di confronto, cui hanno partecipato l’arcivescovo cattolico di Mosca, Paolo Pezzi, e padre Vladimir Shmalij, segretario della Commissione teologica sinodale del Patriarcato e vicerettore dell’Accademia teologica di Sergiev Posad. Nel suo intervento, padre Shmalij si è soffermato sulla percezione dell’enciclica da parte del mondo ortodosso, che vede molto positivamente il Pontificato di Benedetto XVI per il recupero del cristianesimo nella sua tradizione integrale, contro ogni deriva soggettivista: «La speranza cristiana – ha affermato padre Shmalij – è una realtà oggettiva, che non deriva dal nostro stato psicologico».
Rileggendo alla luce dell’enciclica alcuni gravi problemi della società russa, l’autorevole esponente ortodosso ha citato il caso dei tanti suoi connazionali «che ricorrono a psicologi e antidepressivi per superare la tristezza e l’assenza di speranza, tratti distintivi della società consumistica di oggi». A sua volta Pezzi ha affermato che «il mondo oggi ha bisogno del coraggio di alcuni testimoni, che facciano già esperienza della speranza e la portino a tutti».
Nel suo intervento l’arcivescovo di Mosca ha sottolineato il legame tra speranza e certezza: «Mentre solitamente gli uomini tendono a riferire la speranza a un futuro incerto, il Papa testimonia che essa si fonda sul fatto cristiano ed è già possibile viverla ora, tanto da esserne salvati». Al termine dell’incontro padre Shmalij ha definito «azzeccata» l’idea di una presentazione a più voci della «Spe salvi», «un’enciclica indirizzata a tutti gli uomini, che affronta le questioni più scottanti della modernità».
Firmata da Papa Ratzinger il 30 novembre scorso, giorno della festa di Sant’Andrea (patrono della Russia, dell’Ucraina e della Romania), l’enciclica è stata subito accolta come «omaggio» simbolico alla tradizione cristiana orientale e un ponte verso il futuro.
Fabrizio Rossi



L’ITALIA E IL FUTURO
PER UN GRANDE PROGETTO FORMATIVO
, di Francesco Botturi
Avvenire, 27 marzo 2008
« D are significato alla for­mazione » è il titolo del primo punto del manifesto Un patto per la scuola e credo sia an­che l’espressione del giudizio culturale di fondo che sostiene questa iniziativa. Dare significa­to alla formazione significa mol­te cose. Essenziale è certo il suo valore in ordine al rispetto, alla crescita, alla cura della persona umana, che è – appunto – il sog­getto titolare di un diritto-dove­re di formazione. Ma oggi la «for­mazione » riceve un significato più ampio, in riferimento alla nuova e sempre più perentoria situazione internazionale e mon­diale.
Si parla di 'globalizzazione' e di nuovi soggetti, soprattutto o­rientali, che si presentano sulla scena mondiale, determinando spostamenti dell’asse dell’eco­nomia, degli interessi finanziari, dei centri della decisione politi­ca, eccetera. In questo nuovo contesto, mondiale ed epocale, in cui le 'placche continentali' si sono rimesse in movimento, che cosa ha il dovere di fare un Paese del Vecchio Mondo – che e­videntemente non ha illimitate risorse demografiche ed econo­miche – per avere un futuro di­gnitoso e utile a sé e agli altri? Può pensare di non avere su alcune grandi questioni un progetto na­zionale complessivo e di non a­vere al centro di questo la preoc­cupazione per la formazione del­le sue risorse umane, a comin­ciare dagli ambiti familiare, sco­lastico e universitario? Con qua­li altre energie antropologiche crede di poter essere protagoni­sta della storia che lo attende?
Un patto per la scuola è, a mio avviso, un contributo serio in ta­le direzione. Per questo inizia col dire che «le decisioni sul sistema educativo di istruzione e forma­zione debbano essere escluse […] dalla logica dello scontro po­litico che ha segnato questo de­cennio, con interventi di natura legislativa continui e contrappo­sti »; perché «la formazione è un bene comune» e – insisterei nel dire – oggi più di prima fonda­mentale e ormai strategico. Si sottolinea perciò il bisogno di in­terventi organici, ma sulla base di un accordo che si mantenga si­no al raggiungimento degli o­biettivi, per superare l’ostacolo grave e ricorrente del breve im­pegno di legislatura, sproporzio­nato a portare a compimento un disegno efficace.
Non è possibile però formare per decreto, ma è possibile e neces­sario sollecitare e sostenere le e­nergie e le strutture che hanno la capacità e il compito della for­mazione. Perciò «dare significa­to alla formazione» significa an­che avere fiducia nella capacità delle «diverse agenzie educative» operanti nella società e insieme avere fiducia nelle istituzioni pre­poste al compito formativo. Per questo appaiono particolar­mente importanti, da una parte, la proposta di promuovere le ne­cessarie innovazioni con una «lo­gica leggera» in «una cornice nor­mativa organica ma flessibile», dall’altra, quella di incentivare «la piena autonomia delle istitu­zioni scolastiche», attribuendo loro tutta la necessaria respon­sabilità. Un patto per la forma­zione e per la scuola è solo ap­parentemente – o per pigra abi­tudine – una questione settoria­le: è piuttosto un gesto etico di cura per la risorsa fondamenta­le del Paese e, perciò, un atto di responsabilità politica.


«Basta scontri ideologici sul futuro della scuola»
Appello ai partiti: servono riforme bipartisan

Avvenire, 28 marzo 2008
DA MILANO ENRICO LENZI
S ette punti per rilanciare «un patto per la scuola» che punti a superare lo scontro ideologico e permetta di aprire «una nuova stagione di riforme condivise». Ma so­prattutto che renda la scuola «più equa e me­no egualitaristica», cioè capace di valorizza­re le capacità di tutti. Un documento essen­ziale e sintetico, ma ricco di spunti e indica­zioni offerti al mondo politico e non solo. Pro­mosso da alcuni dei componenti del «Grup­po del buon senso», che alcuni anni fa fu tra i primi a richiedere un diverso approccio nel­la riforma del nostro sistema scolastico (in ri­goroso ordine alfabetico Vittorio Campione, Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio Gentili, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi, Sil­vano Tagliagambe e Stefano Versari), l’appel­lo per «un patto per la scuola» ha raccolto il sostegno di decine di esperti e operatori nel campo della formazione, tra i quali Giuliano Amato, Franco Bassanini, Dario Antiseri, Ro­berto Maragliano, Attilio Oliva, Stefano Za­magni, Claudia Mancina, Gianfelice Rocca. Uno schieramento bipartisan, segno di un in­teresse trasversale che il tema della scuola rie­sce a suscitare, nonostante tutto, nell’opi­nione pubblica.
«Noi pensiamo che le decisioni sul si­stema educativo di istruzione e for­mazione – si legge nel documento – debbano essere escluse, esplicita­mente e in modo condiviso, dalla lo­gica dello scontro politico, che ha se­gnato questo decennio». Due i moti­vi: «la formazione è un bene comu­ne da salvaguardare e sviluppare» e «gli effetti delle riforme sono visibili solo ben oltre l’arco di una legislatu­ra ». Ma non basta eliminare lo scon­tro, occorre anche modificare l’ap­proccio riformatore. «I falliti tentati­vi di realizzare una riforma che mo­difichi l’intero assetto del sistema e lo determini sino ai minimi dettagli – prosegue l’appello –, suggeriscono di adottare una logica leggera di pro­mozione delle innovazioni, con una cornice normativa organica ma fles­sibile, che fissi i punti essenziali e pre­veda la possibilità di modifiche suc­cessive ». Partendo da questo scena­rio, i firmatari del «patto per la scuo­la » chiedono alle forze politiche tre impegni precisi: «trovare un’intesa sulle priorità, superando la logica del muro contro muro; sviluppare l’intesa anche a livello regionale, in un quadro di collabora­zione con gli Enti locali; mantenere questa intesa fino al raggiungimento degli obiettivi concordati, indipendentemente dalle varia­zioni del quadro politico». Accanto a queste premesse i firmatari del­l’appello indicano anche sette «punti essen­ziali » da cui partire nell’azione di riforma del sistema scolastico. Elementi che già da tem­po caratterizzano il dibattito riformatore al­l’interno delle scuole italiane, ma che non hanno trovato ancora un’applicazione con­creta o completa. Si parte dal «dare significa­to alla formazione» anche «attraverso una col­laborazione e una valorizzazione delle diver­se agenzie educative, presenti a vario titolo nella società, per contribuire a contrastare, con uno sforzo comune, il disagio giovanile». Nell’attuale contesto socio-economico serve «più formazione, in più luoghi, per tutta la vi­ta ». In questo secondo punto, il documento riconosce che «sarà chiesto di avere una for­mazione più elevata e più diversificata nei contenuti e nei livelli», perché «è ormai un fatto irreversibile una formazione nel corso della vita». Ecco allora, come terzo punto, la necessità di «più autonomia e più responsa­bilità ». È una delle riforme che non ha trova­to pieno compimento. Al contrario «è neces­sario realizzare e incentivare la piena auto­nomia, attribuendo alle scuole poteri reali in materia di organizzazione del curricolo e u­tilizzo delle risorse umane e finanziarie». In questo scenario il ministero «conserverà e potenzierà i propri compiti fondamentali di indirizzo, controllo e ricerca», a cui si affian­cherà «un forte sistema di valutazione che o­pererà come agenzia indipendente». Con l’autonomia sarà possibile raggiungere il quarto punto: «un sistema educativo nazio­nale più articolato» nel quale «un passo es­senziale è la piena attuazione della parità sco­lastica, che realizza le condizioni per il dirit­to di scelta delle famiglie». Un passaggio per «innalzare la qualità dell’offerta formativa», assicurando «le intese necessarie ad una mi­gliore integrazione tra istituzione, formazio­ne e lavoro». Al quinto punto il documento parla di «più competenze e meno dispersio­ne ».
Serve, secondo i firmatari, «una formazione di base più qualificata e soprattutto attenta al­lo sviluppo integrale della persona: maggior integrazione tra indirizzi e livelli, potenzia­mento della cultura tecnica e scien­tifica, maggiori connessioni con il mondo del lavoro». Indispensabile anche guardare a «una didattica nuo­va », inserita come sesto punto es­senziale. Fissare centralmente gli standard da conseguire, ma «lascia­re la possibilità alle scuole di rag­giungere con modalità diverse que­sti obiettivi». E come accade per tut­te le riforme servono «più risorse e meno sprechi». In questo settimo punto il documento affronta il tema dell’edilizia scolastica che «richiede un organico piano di interventi». Ma anche le risorse umane vanno tute­late. «Gli insegnanti, veri protagoni­sti del cambiamento, devono opera­re in condizioni di lavoro più vicine a quelle europee, per cui va ripensato tutto il processo di qualificazione, re­clutamento e carriera, in una logica per cui a maggiori responsabilità cor­rispondono maggiori incentivi». Ma, secondo i parametri medi europei e alle caratteristiche del territorio, «va fatta una stima seria del numero di docenti necessario, programmando anche gli accessi sul medio periodo».


intervista Ribolzi: prioritario attuare l’autonomia e la libertà di scelta
«Togliere la scuo­la dalla lotta partitica e farla tornare sul terreno del con­fronto politico». Per Luisa Ri­bolzi, docente di Sociologia dell’Educazione presso la Facoltà di Scienze della For­mazione dell’Università di Genova e una degli otto pro­motori dell’appello, è l’o­biettivo di questo «patto per la scuola».

Come nasce l’appello?
«Le sue radici si collocano nel lavoro che come 'grup­po del buon senso' abbia­mo elaborato alcuni anni fa, lanciando già allora, un ap­pello alle forze politiche per­ché la scuola smettesse di essere un terreno di scontro ideologico. Un appello sot­toscritto allora, come oggi, da persone rappresentative di differenti posizioni ideo­logiche e culturali. Un do­cumento che il mondo del­l’associazionismo scolasti­co ha studiato e in gran par­te apprezzato. Ora, in occa­sione di una nuova campa­gna elettorale, abbiamo pensato di riproporre il te­ma all’attenzione di tutte le forze politiche. In fase di e­laborazione il testo è stato inviato a moltissime perso­ne e le adesioni sono state numerose. Davvero in raris­simi casi abbiamo ottenuto dei rifiuti a sottoscriverlo».
Quale obiettivo immediato vi siete posti?
«Spezzare il meccanismo di riforme e controriforme che ha caratterizzato l’approc­cio di cambiamento della scuola italiana in quest’ulti­mo decennio. Una modalità che non ha funzionato. Al contrario serve una 'rifor­ma gentile', implementan­do gli aspetti innovativi che nella scuola esistono. E poi è impossibile pensare di ve­dere i risultati di una rifor­ma scolastica all’interno di una legislatura. I tempi per i risultati sono più lunghi. An­che per questo è necessario un patto bipartisan e un ap­proccio differente nelle riforme scolastiche».
I sette punti essenziali che avete individuato sono la base su cui poggiare un’a­zione di riforma?
«Sono sicuramente i punti fondanti. Sono enunciazio­ni di principio, che devono poi trovare un’applicazione concreta».
In quest’ultimo decennio l’azione di riforma non è mancata. I sette punti da voi indicati come si pongono ri­spetto a questo lavoro?
«Sono il frutto del grande di­battito che ha caratterizzato il periodo di riforma. Sono di fatto una sorta di agenda delle cose da fare, ma par­tendo dalla constatazione della situazione reale che la scuola italiana vive tutti i giorni. Prenda il primo pun­to, in cui parliamo del biso­gno di dare significato alla formazione. Non è forse l’e­sigenza di aiutare i giovani d’oggi a dare un senso alla loro esistenza?»
Ritiene che l’appello trovi terreno fertile?
«Nell’opinione pubblica è decisamente favorevole. E­sprime da tempo il desiderio che intorno alla scuola si plachi lo scontro ideologico e si ponga mano a una rifor­ma condivisa. Anche tra gli esperti che animano il di­battito culturale sui mezzi di informazione è in calo la li­tigiosità ».
E i punti critici?
«Esistono, ovviamente. Le o­biezioni sono principal­mente legate alla difesa di posizioni corporative e non solo. Dentro la scuola c’è chi preferirebbe avere meno au­tonomia e dunque meno re­sponsabilità. Per non parla­re della valutazione del pro­prio lavoro. E lo stesso mini­stero della Pubblica Istru­zione a volte si dimostra re­stio ad assecondare il pro­cesso di autonomia».
Quale dei sette punti ritie­ne prioritario?
«Quello sull’autonomia, che richiama anche una mag­gior responsabilità di tutti i soggetti. Più autonomia comporterebbe anche mol­ti altri aspetti: l’attenzione alla preparazione e al reclu­tamento dei docenti, elabo­razione dei progetti educa­tivi e l’elenco potrebbe con­tinuare.
E non dimentiche­rei anche il diritto di scelta in campo educativo per le famiglie, con il varo di una piena parità».
Un documento con cui i partiti dovranno confron­tarsi?
«È la nostra speranza, so­prattutto perché si avvii un periodo di riforme condivi­se. Un successo in tal senso è legato anche al modo con cui si parla di scuola. I mez­zi di comunicazione do­vrebbero occuparsene non solo per la cronaca nera, ma dovrebbero mostrare l’altro volto, quello che funziona. E che è quello vero».
Enrico Lenzi

giovedì 27 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Sua Santità Benedetto XVI - «La Resurrezione» - UDIENZA GENERALE 26 03 2008
2) La voce del prigioniero 6865, “Il grande diario” di Giovannino Guareschi
3) IL CASO ALLAM L’IDENTITÀ DELLA CHIESA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
4) Magdi Cristiano Allam, una conversione contestata, di Samir Khalil Samir, sj
5) "Noi ex musulmani viviamo nel terrore"
6) Eutanasia: «La soluzione ha un nome: cure palliative»


Sua Santità Benedetto XVI - «La Resurrezione» - UDIENZA GENERALE 26 03 2008
Cari fratelli e sorelle!
"Et resurrexit tertia die secundum Scripturas – il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture". Ogni domenica, con il Credo, rinnoviamo la nostra professione di fede nella risurrezione di Cristo, evento sorprendente che costituisce la chiave di volta del cristianesimo. Nella Chiesa tutto si comprende a partire da questo grande mistero, che ha cambiato il corso della storia e che si rende attuale in ogni celebrazione eucaristica. Esiste però un tempo liturgico in cui questa realtà centrale della fede cristiana, nella sua ricchezza dottrinale e inesauribile vitalità, viene proposta ai fedeli in modo più intenso, perché sempre più la riscoprano e più fedelmente la vivano: è il tempo pasquale. Ogni anno, nel "Santissimo Triduo del Cristo crocifisso, morto e risorto", come lo chiama sant’Agostino, la Chiesa ripercorre, in un clima di preghiera e di penitenza, le tappe conclusive della vita terrena di Gesù: la sua condanna a morte, la salita al Calvario portando la croce, il suo sacrificio per la nostra salvezza, la sua deposizione nel sepolcro. Il "terzo giorno", poi, la Chiesa rivive la sua risurrezione: è la Pasqua, passaggio di Gesù dalla morte alla vita, in cui si compiono in pienezza le antiche profezie. Tutta la liturgia del tempo pasquale canta la certezza e la gioia della risurrezione del Cristo.
Cari fratelli e sorelle, dobbiamo costantemente rinnovare la nostra adesione al Cristo morto e risorto per noi: la sua Pasqua è anche la nostra Pasqua, perché nel Cristo risorto ci è data la certezza della nostra risurrezione. La notizia della sua risurrezione dai morti non invecchia e Gesù è sempre vivo; e vivo è il suo Vangelo. "La fede dei cristiani – osserva sant’Agostino – è la risurrezione di Cristo". Gli Atti degli Apostoli lo spiegano chiaramente: "Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù risuscitandolo da morte" (17,31). Non era infatti sufficiente la morte per dimostrare che Gesù è veramente il Figlio di Dio, l’atteso Messia. Nel corso della storia quanti hanno consacrato la loro vita a una causa ritenuta giusta e sono morti! E morti sono rimasti. La morte del Signore dimostra l’immenso amore con cui Egli ci ha amati sino a sacrificarsi per noi; ma solo la sua risurrezione è "prova sicura", è certezza che quanto Egli afferma è verità che vale anche per noi, per tutti i tempi. Risuscitandolo, il Padre lo ha glorificato. San Paolo così scrive nella Lettera ai Romani: "Se confesserai con la bocca che Gesù è il Signore e crederai con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo" (10,9).
E’ importante ribadire questa verità fondamentale della nostra fede, la cui verità storica è ampiamente documentata, anche se oggi, come in passato, non manca chi in modi diversi la pone in dubbio o addirittura la nega. L’affievolirsi della fede nella risurrezione di Gesù rende di conseguenza debole la testimonianza dei credenti. Se infatti viene meno nella Chiesa la fede nella risurrezione, tutto si ferma, tutto si sfalda. Al contrario, l’adesione del cuore e della mente a Cristo morto e risuscitato cambia la vita e illumina l’intera esistenza delle persone e dei popoli. Non è forse la certezza che Cristo è risorto a imprimere coraggio, audacia profetica e perseveranza ai martiri di ogni epoca? Non è l’incontro con Gesù vivo a convertire e ad affascinare tanti uomini e donne, che fin dagli inizi del cristianesimo continuano a lasciare tutto per seguirlo e mettere la propria vita a servizio del Vangelo? "Se Cristo non è risuscitato, diceva l’apostolo Paolo, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede" (1 Cor 15, 14). Ma è risuscitato!
L’annuncio che in questi giorni riascoltiamo costantemente è proprio questo: Gesù è risorto, è il Vivente e noi lo possiamo incontrare. Come lo incontrarono le donne che, al mattino del terzo giorno, il giorno dopo il sabato, si erano recate al sepolcro; come lo incontrarono i discepoli, sorpresi e sconvolti da quanto avevano riferito loro le donne; come lo incontrarono tanti altri testimoni nei giorni che seguirono la sua risurrezione. E, anche dopo la sua Ascensione, Gesù ha continuato a restare presente tra i suoi amici come del resto aveva promesso: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Il Signore è con noi, con la sua Chiesa, fino alla fine dei tempi. Illuminati dallo Spirito Santo, i membri della Chiesa primitiva hanno incominciato a proclamare l’annuncio pasquale apertamente e senza paura. E quest’annuncio, tramandatosi di generazione in generazione, è giunto sino a noi e risuona ogni anno a Pasqua con potenza sempre nuova.
Specialmente in quest’Ottava di Pasqua la liturgia ci invita ad incontrare personalmente il Risorto e a riconoscerne l’azione vivificatrice negli eventi della storia e del nostro vivere quotidiano. Oggi mercoledì, ad esempio, ci viene riproposto l’episodio commovente dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Dopo la crocifissione di Gesù, immersi nella tristezza e nella delusione, essi facevano ritorno a casa sconsolati. Durante il cammino discorrevano tra loro di ciò che era accaduto in quei giorni a Gerusalemme; fu allora che Gesù si avvicinò, si mise a discorrere con loro e ad ammaestrarli: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti… Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,25 -26). Cominciando poi da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. L’insegnamento di Cristo – la spiegazione delle profezie – fu per i discepoli di Emmaus come una rivelazione inaspettata, luminosa e confortante. Gesù dava una nuova chiave di lettura della Bibbia e tutto appariva adesso chiaro, orientato proprio verso questo momento. Conquistati dalle parole dello sconosciuto viandante, gli chiesero di fermarsi a cena con loro. Ed Egli accettò e si mise a tavola con loro. Riferisce l’evangelista Luca: "Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Lc 24,29-30). E fu proprio in quel momento che si aprirono gli occhi dei due discepoli e lo riconobbero, "ma lui sparì dallo loro vista" (Lc 24,31). Ed essi, pieni di stupore e di gioia, commentarono: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32).
In tutto l’anno liturgico, particolarmente nella Settimana Santa e nella Settimana di Pasqua, il Signore è in cammino con noi e ci spiega le Scritture, ci fa capire questo mistero: tutto parla di Lui. E questo dovrebbe far ardere anche i nostri cuori, così che possano aprirsi anche i nostri occhi. Il Signore è con noi, ci mostra la vera via. Come i due discepoli riconobbero Gesù nello spezzare il pane, così oggi, nello spezzare il pane, anche noi riconosciamo la sua presenza. I discepoli di Emmaus lo riconobbero e si ricordarono dei momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane. E questo spezzare il pane ci fa pensare proprio alla prima Eucaristia celebrata nel contesto dell’Ultima Cena, dove Gesù spezzò il pane e così anticipò la sua morte e la sua risurrezione, dando se stesso ai discepoli. Gesù spezza il pane anche con noi e per noi, si fa presente con noi nella Santa Eucaristia, ci dona se stesso e apre i nostri cuori. Nella Santa Eucaristia, nell’incontro con la sua Parola, possiamo anche noi incontrare e conoscere Gesù, in questa duplice Mensa della Parola e del Pane e del Vino consacrati. Ogni domenica la comunità rivive così la Pasqua del Signore e raccoglie dal Salvatore il suo testamento di amore e di servizio fraterno. Cari fratelli e sorelle, la gioia di questi giorni renda ancor più salda la nostra fedele adesione a Cristo crocifisso e risorto. Soprattutto, lasciamoci conquistare dal fascino della sua risurrezione. Ci aiuti Maria ad essere messaggeri della luce e della gioia della Pasqua per tanti nostri fratelli. Ancora a tutti voi cordiali auguri di Buona Pasqua.
Saluto
Rinnovo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Grazie per la vostra gioia di Pasqua. In particolare, saluto i novelli Diaconi della Compagnia di Gesù con i loro Superiori e familiari, ed invoco su ognuno di essi una copiosa effusione di doni celesti, a conferma dei loro generosi propositi di fedeltà a Cristo. Saluto i fedeli della Parrocchia Maria Santissima Assunta e San Liberale in Castelfranco Veneto e quelli della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù in Bellizzi. Un affettuoso saluto indirizzo ai fedeli della Parrocchia di Ognissanti, in Roma che ricordano quest’anno il centenario di fondazione della parrocchia, affidata a San Luigi Orione dal mio predecessore San Pio X. Auguro a tutti di essere sempre fedeli testimoni di Cristo e di contribuire a diffondere ovunque la gioia di seguire il suo Vangelo per costruire insieme una società più fraterna.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani - e specialmente voi, ragazzi e ragazze che siete venuti così numerosi da parrocchie e oratori dell'Arcidiocesi di Milano, siate entusiasti protagonisti nella Chiesa e nella società. Voi, che fate quest'anno la "Professione di fede", impegnatevi a costruire la civiltà dell'amore, fondata su Cristo che è morto e risorto per tutti. Cari malati, la luce della Risurrezione illumini e sostenga la vostra quotidiana sofferenza, rendendola feconda a beneficio dell'intera umanità. E voi, cari sposi novelli, attingere ogni giorno dal Mistero pasquale la forza per un amore sincero ed inesauribile.


La voce del prigioniero 6865
Data: 26 Marzo 2008
Autore: Egidio Bandini
Fonte: Libero 26 marzo 2008

Una lieta sorpresa per gli amici guareschiani. Uscirà alla fine di maggio per Rizzoli "Il grande diario" di Giovannino Guareschi. Il libro contiene gli scritti inediti che l'autore compose durante i due anni di internamento nei lager nazisti. Il numero dell'internato Guareschi era 6865. Il materiale è stato ritrovato nell'archivio paterno da Alberto e Carlotta Guareschi. Lo scrittore fu arrestato l'8 settembre 1943 ad Alessandria, e tornò in libertà il 28 agosto 1945. Faceva parte degli IMI (Internati militari italiani), cioè quei soldati che dopo l'armistizio si erano rifiutati di combattere a fianco dei tedeschi. Guareschi di quei giorni terribili scrisse: «Nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica. E se, ancor oggi, molti dei ritornati guardano ancora sgomenti la vita di tutti i giorni tenendosene al margine, è perché l'immagine che essi si erano fatti, nel lager, della Democrazia, risulta spaventosamente diversa da questa finta democrazia che ha per centro sempre la stessa capitale degli intrighi e che ha filibustieri vecchi e nuovi al timone delle vecchie navi corsare». Parole forse da meditare seriamente proprio in questi giorni di campagna elettorale...
DIARIO DEL LAGER
Il libro segreto di Guareschi
per sopravvivere ai nazisti


Rizzoli pubblica le memorie inedite di Giovannino scritte in Polonia nel campo di concentramento. Lui voleva bruciarle, i figli le hanno recuperate
«Non muoio neanche se mi ammazzano!» Questo il motto arcifamoso che Giovannino Guareschi coniò appena arrivato a Czestochowa, quando, pur sotto gli occhi delle guardie naziste, un bambino corse via dalla madre per porgere all'Internato militare italiano numero 6865 una mela. «Sulla corteccia rossa e lucida della mela vedo l'impronta dei dentini del bimbo e penso a mio figlio», scrive Guareschi. « Lo zaino non mi pesa più, mi sento fortissimo. Lo debbo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo rivedrò. Non muoio neanche se mi ammazzano!». Di momenti come questo è fatto quello che Guareschi chiamava "Gran Diario". Lo scrisse dopo la prigionia, ma decise di non pubblicarlo, per rispetto dei suoi compagni che non l'avevano autorizzato. Oggi, dopo 60 anni e oltre dalla liberazione degli internati, le memorie saranno pubblicate grazie a Carlotta e Alberto (i figli di Giovannino) per Rizzoli (col titolo "Il grande diario", in uscita a fine maggio ). Nel testo si raccontano i due anni di prigionia che lo scrittore passò nei lager nazisti assieme ad altri 640.000 internati militari italiani: 200 generali, 3.000 ufficiali superiori ed anziani, 23.000 ufficiali inferiori, 16.000 sottufficiali, 594.000 graduati e soldati, 3.000 civili militarizzati.
Catturato dai tedeschi
Due anni nei campi di concentramento, che iniziarono con un increscioso incidente accaduto a Milano e che Giovannino descrive così, in una lettera del 1964 ad una professoressa di lettere: «Per cause indipendenti dalla mia volontà, scoppiò la guerra mondiale. Io ero stato fascista dal 1922 quando avevo 14 anni: venni arrestato nel 1942 dai fascisti per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Per salvarmi dal processo, mi fecero richiamare: l'8 settembre del 1943 fui catturato dai tedeschi che gentilmente mi domandarono se preferivo continuare a combattere assieme a loro o se preferivo essere mandato in campo di concentramento. Risposi che avevo deciso di continuare la guerra per conto mio e, così, mi ritrovai in un campo di concentramento presso Varsavia in Polonia». Comincia così la drammatica avventura di un umorista nel lager; l'incontro con la generosità di un bambino che se ne infischia degli invasori per aiutare un uomo affamato e, ben presto, con la consapevolezza di essere dimenticati da tutti, visto che la figura dell'Internato militare era nuova, non contemplata dai trattati e neppure la Croce Rossa avrebbe potuto aiutare Guareschi e gli altri 640.000 italiani che, come lui, avevano scelto di dire no ai nazisti. Passano quasi cinque anni e a Giovannino viene l'idea di scrivere un diario della prigionia: nasce "Diario Clandestino", l'opera più importante di Guareschi, il ritratto disincantato e preciso di quanto accadde in quei giorni interminabili, il racconto di ciò che fecero molti internati per rendere meno disperata la vita nei lager, dai giornali parlati ai tornei di bridge e di bocce, dalle lezioni universitarie alle rappresentazioni teatrali, alle trasmissioni virtuali di "Radio B 90". Un diario sui generis, dal momento che nasce dalle ceneri del vero diario: «In verità io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per due anni, annotai diligentissimamente tutto quello che facevo o non facevo, tutto quello che vedevo e pensavo. Anzi, fui ancora più accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi portai a casa tre librettini con dentro tanta di quella roba, da scrivere un volume di duemila pagine. E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina per scrivere e cominciai a decifrare e sviluppare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo giorno. Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario completo. Allora lo rilessi attentamente, lo limai, mi sforzai di dargli un ritmo piacevole, indi lo feci ribattere a macchina in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia. Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero che essa è l'unica di cui non mi sono mai pentito (...). Nomi, fatti, responsabilità, considerazioni di carattere storico e politico, tutto è stato bruciato e doveva bruciare assieme alle cartelle del diario».
La voce del prigioniero 6865
Perciò, a Guareschi non restò che utilizzare la parte del lavoro scritta per il lager: «Oltre agli appunti del diario da sviluppare poi a casa, scrissi un sacco di roba per l'uso immediato. La roba che, nelle mie intenzioni d'allora, doveva essere scritta e servire esclusivamente per il lager e che io non avrei dovuto mai pubblicare fuori del lager. E invece fu proprio questa la roba che mi è parsa ancora valida. E, disperse al vento le ceneri del "Gran Diario", ho scelto nel pacchetto di cartaccia unta e bisunta qualche foglietto, ed ecco il "Diario clandestino". È l'unico materiale autorizzato, in quanto io non solo l'ho pensato e l'ho scritto dentro il lager: ma l'ho pure letto dentro il lager. L'ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti l'hanno approvato. È la voce del numero 6865 che parla. È la stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora. Non ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire sul nostro lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia». In realtà, però, le cose non andarono proprio così. Una parte consistente del "Gran Diario" si è salvata dal furore ustorio di Giovannino, grazie ad una sua inveterata abitudine: utilizzare il verso dei dattiloscritti o dei quaderni per annotare spunti e idee per racconti, indici di volumi, scalette di romanzi. Qualcuno dei quadernetti di appunti andò effettivamente a finire nella stufa di casa Guareschi, ma si salvarono un centinaio di fogli del dattiloscritto definitivo (certamente accantonati in attesa di utilizzarne il lato non scritto) racchiusi in una carpetta infilata in una cassa utilizzata nel trasloco dell'archivio guareschiano da Milano alla nuova casa di Roncole Verdi nel 1952, oltre ai due taccuini che servirono allo scrittore nel 1946 per scrivere il "Diario Clandestino" e alle due agende nelle quali Guareschi, cronista della vita nel campo di concentramento descrive, dall'8 settembre 1943 - giorno della sua cattura ad Alessandria fino al 28 agosto 1945 - giorno del suo rimpatrio - le tappe giornaliere della prigionia. Questo materiale è stato ritrovato da Alberto e Carlotta Guareschi quando si misero a cercare i disegni fatti nel lager per una mostra in occasione del sessantesimo anniversario dalla liberazione degli internati. Durante le numerose incursioni nello sterminato archivio paterno, poi, emersero altri fogli dattiloscritti, già usati sul verso per alcune "brutte" di racconti o sceneggiature. Rispettando la volontà chiaramente espressa dal padre, Carlotta e Alberto, al di là dell'utilizzo di qualche brano nell'autobiografia "Chi sogna nuovi gerani" e nel volume "Ritorno alla base", decisero di non pubblicare il "Gran Diario" e non toccarono più quei fogli. Con l'attuale riordino dell'archivio a Roncole Verdi, però, sono tornati sotto gli occhi i taccuini, i dattiloscritti e le agende che, nel centenario dalla nascita di Giovannino Guareschi, a sessantatré anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, hanno assunto tutt'altro interesse: un interesse storico. Ecco, allora, che il "Gran Diario" ha preso forma, partendo dagli scarni appunti delle agende, in cui Guareschi annotava la cronaca suddividendola in due parti: nella prima Giovannino segna una sorta di bollettino, sulla stagione, sull'umore e sulla salute: le "f" significano "fame" e la lunghezza della serie di "f" varia a seconda dell'intensità della fame.
La vittoria sulla barbarie
Nella seconda parte la cronaca telegrafica sulla vita del lager e, spesso, il commento ai temi del giorno. Il "Gran Diario" vedrà la luce proprio quest'anno come omaggio al momento fondamentale nella vita e nella formazione di Guareschi, quella prigionia dalla quale lo stesso Giovannino dice di essere uscito vittorioso «perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica. E se, ancor oggi, molti dei ritornati guardano ancora sgomenti la vita di tutti i giorni tenendosene al margine, è perché l'immagine che essi si erano fatti, nel lager, della Democrazia, risulta spaventosamente diversa da questa finta democrazia che ha per centro sempre la stessa capitale degli intrighi e che ha filibustieri vecchi e nuovi al timone delle vecchie navi corsare». Leggeremo il "Gran Diario" con tutta la commozione e la pietà che Guareschi provò nell'annotare quei giorni di sofferenza e di fame, ma anche con lo stesso spirito che egli stesso mise nelle "Istruzioni per l'uso" del "Diario clandestino" concludendole così: «Comunque il libro è qui. Se la vedano i miei ventitré lettori. Se non va bene, vuol dire che la prossima prigionia farò meglio».


IL CASO ALLAM L’IDENTITÀ DELLA CHIESA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Corriere della Sera, 27 marzo 2008
Sono due le questioni al centro della discussione nata dalla conversione al Cattolicesimo di Magdi Allam, nonché dal battesimo in San Pietro impartitogli da Benedetto XVI, che quella conversione ha per così dire ratificato e reso pubblica nel più solenne dei modi. La prima questione riguarda per l’appunto il fortissimo segno pubblico impresso dalla solennità della circostanza. Molti vi hanno visto quasi l’immagine di una «Ecclesia triumphans», di una nuova Chiesa trionfante pronta a lanciarsi in una crociata anti-islamica. Vi hanno visto cioè un più o meno esplicito contenuto politico. Prima però di rispondere se il gesto in questione possa davvero essere interpretato così, sarebbe bene riflettere sul fatto che, come in tutte le istituzioni che hanno alle spalle una tradizione secolare (penso alla monarchia britannica ad esempio), anche nella Chiesa cattolica «pubblico» e «politico» non sono necessariamente due dimensioni sovrapposte e/o sovrapponibili. Spesso la dimensione pubblica, i riti, le celebrazioni, corrispondono a esigenze che piuttosto che con la politica hanno a che fare con una vicenda storico-identitaria; sono cioè la manifestazione e insieme la rivendicazione della propria natura e della propria storia.
Si potrà naturalmente obiettare che tra i due ambiti vi è un certo rapporto, ed è senz’altro vero. Ma è ancor più vero che si tratta di cose assai diverse, le quali implicano intenzioni e prospettive ideali anch’esse assai diverse. Riaffermare pubblicamente chi si è, da quale storia si viene, non vuol dire affatto enunciare per ciò stesso un programma di azione, indicare obiettivi, insomma fare politica nel senso che comunemente si dà a questa parola. È molto probabile insomma che con il battesimo in San Pietro la Chiesa di Benedetto XVI — il cui pontificato sembra particolarmente sensibile proprio a questo tema — abbia voluto soprattutto riaffermare la propria identità, al cui centro sta, precisamente, la conversione. E cioè il battesimo.
Il Cristianesimo, infatti, lungi dal nascere come una religione etnica, cioè legata vocazionalmente a una determinata popolazione, è nato anzi in polemica con una religione siffatta, nel suo caso rappresentata per l’appunto dall’ebraismo. Proprio perciò esso dovette inizialmente affidare le sue sole speranze di successo alla spontanea adesione di migliaia e migliaia di uomini e donne, dovendo a null’altro che a tale adesione la sua prima, decisiva diffusione nel mondo. C’è stato e c’è un evidente, intimo nesso tra tutto questo e alcuni tratti cruciali dell’identità culturale cristiana nel suo complesso, a cominciare da quei tratti fondamentali costituiti dalla centralità della persona e dal primato della coscienza. Il motore storico del Cristianesimo, insomma, così come una delle sue massime dimensioni fondative, è stata la conversione. Ed è plausibile, direi ovvio, che per la Chiesa, la quale della storia cristiana si considera la vera erede, continui a esserlo; e che con il rito in San Pietro essa abbia voluto semplicemente ribadire questo elemento centralissimo della sua identità: a dispetto di ogni opportunismo (questo sì politico!) e di ogni conformismo dei tempi. Ha senso fargliene una colpa? Tuttavia, si aggiunge — ed è la seconda questione di cui si dibatte — le «bellicose dichiarazioni» rese da Magdi Allam stesso all’indomani del battesimo hanno piegato ad un significato politico la sua conversione, e dunque anche il rito e la partecipazione ad esso del Papa. Certo: bellicose quelle dichiarazioni lo sono state senz’altro. Ma chi punta il dito contro di esse, vedendovi soltanto un clamoroso fraintendimento della natura complessa dell’Islam, e, ancor peggio, una mancanza di carità cristiana, chi fa ciò, non solo, forse, dovrebbe spendere almeno qualche parola sulla terribile condizione personale del dichiarante. Sul fatto, per esempio, che Allam, sua moglie e i suoi figli vivono ormai da anni una vita non vita, una vita priva di un solo momento di vera intimità e tranquillità, dovendo tutto prevedere e programmare, circondati, 24 ore su 24, da uomini con le armi spianate che stanno lì a ricordargli continuamente il pericolo mortale sospeso sulle loro teste. Non solo; forse dovrebbe anche chiedersi come mai, di fronte alla violenza delle ripetute condanne a morte giunte dall’islamismo «estremista» ad Allam come a Salman Rusdie, come a Robert Redeker e a tanti altri, come mai di fronte alle «aberranti derive fondamentaliste e terroriste» dell’Islam, in nessuna occasione sia arrivata alle nostre orecchie dallo stesso Islam una voce significativa, alta e forte, di condanna; come mai nessun imam di fama, nessun celebre intellettuale, nessuna importante istituzione o assemblea islamica abbia mai pensato di pronunciarsi in maniera irrevocabile contro tale uso barbarico della fede. Dovrebbe chiederselo e, se possibile, anche darsi, e darci, una risposta.


27/03/2008 10:28
VATICANO – ISLAM
Magdi Cristiano Allam, una conversione contestata, di Samir Khalil Samir, sj
Il battesimo cattolico del noto giornalista Magdi Allam, egiziano e musulmano non praticante, suscita critiche e disprezzo nel mondo islamico. Vi è pure imbarazzo nel mondo cristiano, timoroso di vedere la Chiesa e Benedetto XVI lanciare una nuova crociata. Invece, come per il discorso di Regensburg, questo battesimo è un messaggio per difendere la libertà religiosa, l’evangelizzazione e la convivenza fra religioni.


Beirut (AsiaNews) - Ogni anno alla notte di Pasqua, nella basilica di san Pietro, il papa battezza un gruppo di adulti, provenienti da vari continenti. Nella festa del battesimo di Gesù invece, il papa usa battezzare alcuni bambini.
Alla veglia pasquale di quest’anno vi erano 7 battezzati. Uno di loro era un musulmano noto in Italia e all’estero: Magdi Allam, vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, il quotidiano più diffuso in Italia.
A. Il battezzato Magdi
1. Magdi Allam e l’evoluzione della società egiziana
Magdi Allam, nato al Cairo (Egitto) nel 1952, proviene da una famiglia musulmana. Sua madre era una donna religiosa, suo padre più laicizzato. È stato educato dai salesiani italiani in Egitto, che tengono la scuola tecnica più seria e più famosa del Cairo.
Giunto in Italia nel ‘72, egli continua gli studi all’università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea comincia una vita da giornalista, prima lavorando a Repubblica; poi al Corriere della Sera.
Magdi Allam si è specializzato sempre di più sul fenomeno dell’islam radicale, soprattutto dopo i fatti dell’11 settembre 2001. La sua posizione è divenuta sempre più netta contro questo tipo di islam che dà un’immagine violenta, radicale, intollerante e invadente. La sua posizione è divenuta poi ancora più dura, mentre la violenza dell’islam diveniva sempre più cieca e più diffusa, toccando tutto il mondo islamico, arabo e non arabo.
Va ricordato che questo movimento di islam radicale è nato agli inizi degli anni ’70 proprio in Egitto, sul sottofondo del movimento dei Fratelli musulmani – fondati al Cairo nel ’28 – rafforzandosi con l’aiuto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita e della scuola wahhabita. L’Egitto in questi 30 anni è cambiato radicalmente. E questo Magdi l’ha notato: tutti i programmi radio e televisivi si islamizzano; il cinema egiziano più famoso nel mondo arabo è divenuto più puritano e islamico; non si accetta la minima allusione negativa all’Islam; non si può fare un film sui profeti dell’Antico testamento; la televisione religiosa occupa tutto il campo della vita; le moschee si moltiplicano sempre di più; il velo diviene quasi un obbligo; il niqab – il corrispettivo del burka afgano, che copre tutto il corpo della donna meno gli occhi – si diffonde sempre di più.
Nel dicembre 2006 il ministro egiziano della cultura Faruk Hosni si permette un’allusione alla grande diffusione del velo in Egitto e dice che “non riconosco più il mio Paese, divenuto simile all’Arabia saudita”: in parlamento i deputati legati ai Fratelli musulmani esigono le sue dimissioni in base alla costituzione (che è ispirata alla sharia islamica). Sotto le pressioni, il suo partito al potere gli chiede di presentare le dimissioni. Faruk è salvato in extremis dalla Prima Donna, la signora Sawsan Mubarak.
Tutto questo ha reso la posizione di Magdi Allam ancora più radicale verso questo Islam. Esso ha il suo fondamento nel Corano e negli atteggiamenti del profeta Muhammad, ma non corrisponde ala visione della maggioranza dei musulmani. Questi, però, abituati a sottomettersi a tutti gli ordini che vengono dagli imam, accettano questa situazione in modo supino.
2. Dalla violenza degli islamisti attuali alla non violenza del Vangelo
Questo ha forse rinforzato il distacco di Magdi Allam dall’islam vissuto e l’ha condotto alla conclusione che i germi di questa violenza sono presenti nel Corano e nella tradizione dei detti di Maometto.
Qualcuno sospetta che dietro la sua scelta vi siano complotti politici, ma io preferisco seguire il principio che sant’Ignazio di Loyola ha stilato negli Esercizi Spirituali, quando dice che bisogna attribuire a chiunque, perfino a un nemico, l’intenzione migliore, il cosiddetto “presupponendum”.
La Chiesa cattolica, nella persona più rappresentativa, il papa, con la sua omelia nella notte di Pasqua, ha sottolineato che ogni uomo che abbia fatto un cammino spirituale e sia stato aiutato da una comunità cristiana a verificare i suoi motivi, deve essere accolto nella Chiesa.
Il giorno dopo il suo battesimo, Magdi Allam ha scritto al suo giornale una lettera, spiegando i motivi della sua scelta, perché si è fatto battezzare dal papa, ecc… Qualcuno ha reagito dicendo che il battesimo era una questione personale che non conviene esporre in pubblico. Io al suo posto forse non lo avrei fatto, ma non è scorretto averlo fatto.
Per me, è stonato che nel momento del battesimo, si riprenda la propria analisi sul fondamentalismo. Quello era il momento in cui Magdi avrebbe potuto comunicare come il cristianesimo è anche il compimento dello slancio religioso dell’islam. E anche questo avrebbe valore: l’islam contemporaneo si dirige a grandi passi verso un integralismo intransigente sempre più grande; il cristianesimo contemporaneo si muove invece verso un’apertura sempre più grande. Così si sarebbe compreso ancora di più la sua scelta.
La conversione poi non è solo uno staccarsi dal passato (in questo caso dall’islam). Essa è anche un proiettarsi verso il nuovo ed il futuro. Quest’altra dimensione, quella della scoperta del cristianesimo e dell’adesione sempre più forte alla persona di Gesù, è più intima e Allam non ne parla. Se ne parlasse, forse rischierebbe di essere bersaglio di critiche da parte di chi dice che la conversione è un fatto personale e privato. Ma sarebbe bello scoprire i perché più personali di questa scelta.
Il modo in cui lui ha scritto la sua lettera, apre lo spazio a una visione di conflitto fra cristianesimo e islam, con una lettura di tipo politico, ideologico, culturale. Ma questa è solo una tappa. Il cristianesimo è il compimento di tutto ciò che c’è di spirituale e di buono nel mondo. Ho avuto diverse occasioni di seguire giovani musulmani egiziani, iraniani e libanesi che volevano convertirsi al cristianesimo. In molti casi, il cammino comincia proprio col constatare la violenza dell’islam attuale; poi si scopre che il cristianesimo significa pace ed amore. Della persona di Gesù colpisce l’elemento amore, dono di sé anche nella passione e la croce, superando la visione del Corano, in cui Gesù sfugge al martirio.
Certo Magdi Allam non era un musulmano praticante, per cui il suo cammino è più sul versante culturale e politico. Di là a dire però che non è autentico, c’è un passo … che niente permette di fare!
B. Il valore assoluto della libertà religiosa
1. Libertà di abbandonare l’islam e convertirsi
Il suo battesimo però afferma la legittimità della conversione. Credo che per questo egli abbia voluto dare tanto risalto alla sua conversione: per affermare ciò che è negato dal mondo musulmano.
Allam ha scritto molto sul caso dell’afghano convertito Abdul Rahman, prendendo posizioni molto nette e affermando il diritto alla conversione. Magdi vuole sostenere la civiltà dei diritti umani, più rappresentata dalla civiltà cristiana.
Io conosco a Roma qualche musulmano convertito, che però tiene nascosta la sua conversione, senza mai negarla. Magdi, essendo persona pubblica, ha sentito il bisogno il proclamare che era musulmano e si è fatto cristiano. Tarek Ramadan l’aveva perfino accusato di essere in realtà un copto che si spacciava per musulmano.
Per i musulmani, uno che è nato islamico, rimane tale, anche se si allontana dalla pratica. Per questo la conversione a un’altra religione è impossibile. Avendo raggiunto la perfezione con la pratica islamica, la pienezza della rivelazione divina data da Dio nel cuore di Adamo, ma sviluppata e culminata nel Corano, non si può tornare indietro. Nel Corano, perfino Adamo è musulmano.
Mi pare capire così la reazione di una persona che mi è cara che dice su Repubblica del 23 marzo: "non c'era nessun bisogno, per dimostrare l'amore per Gesù, di rinnegare l'amore e la fede per il profeta Mohammed. I musulmani hanno, all'interno della loro dottrina, il riconoscimento più alto della figura di Cristo e della Vergine Maria". “Per questo, non capisco il perché della scelta di rinnegare la tradizione del messaggio islamico: qualsiasi apostasia è vista con forte perplessità".
E invece io dico: non si può essere cristiano e musulmano nello stesso tempo, perché ci sono alcuni punti inconciliabili tra di loro, a livello dogmatico (che Cristo sia l’ultima rivelazione del Padre o che Muhammad sia “il sigillo dei profeti” che ha portato l’ultimo messaggio all’umanità); a livello etico (l’obbligo di perdonare e di amare il nemico; oppure il non obbligo di farlo, ecc.); a livello storico (Cristo è morto in croce; oppure non è morto ma è vivo). Che i musulmani abbiano “il riconoscimento più alto della figura di Cristo e della Vergine Maria” è un conto, ma che il Cristo del Corano (per quanto bello possa essere) non sia quello dei Vangeli è un altro conto.
Nello stesso senso Abu Muhammad, commentando il battesimo di Magdi, scrive da Gaza: “L’islam è una vasta tenda che raggruppa tutte le religioni e i Libri Celesti. Noi crediamo a tutti i messaggeri di Dio e a tutti i Libri. Abbiamo visioni larghe e spirito aperto. Anche l’apostata nell’islam va criticato, finché riconosca il vero dal falso e scopra ciò che ignora”.
Lo stesso rimprovero è espresso dall’UCOII: “Non c'è contrasto Gesù-Maometto”. Invece il contrasto c’è, e come! Libero ognuno di preferire l’uno all’altro. Ma non si può negare i fatti.
Magdi, invece, viene ad affermare, con la sua conversione, che la perfezione lui l’ha trovata nel cristianesimo.
Queste sono alcune delle reazioni educate di musulmani. Ma se si passa a un sito musulmano in arabo, come “islamonline”, vi sono solo insulti. Badr lo tratta come un “cane”; Metwalli dice: “dal comunismo ai crociati al fuoco della geenna”; Chérif lo tratta da “vile” e si felicita con disprezzo che sia divenuto cattolico; un altro scrive: “se Dio vuole morirà da miscredente (kâfir) e così andrà all’inferno”; “hai amato chi ha ucciso i profeti e i politeisti, va dunque con loro!”. Ahmad scrive: “Va all’inferno !” ; et Umm Ahmad scrive dalla Francia: “Cerchiamo bene: è sicuramente un ebreo sionista, o comunque senza origine!”. Abu Muhammad da Gaza invoca Dio di mandargli torture dolorose”. La litania è infinita.
2. Libertà di conversione anche di fronte al mondo laico
La conversione e la religione sono anche malvisti dalla società occidentale secolarizzata. Basta vedere le polemiche che hanno suscitato le parole del presidente francese Sarkozy sulle radici cristiane dell’Europa e sulla necessità di puntare ancora sulla religione per recuperare i valori laici perduti. I laici dicono che è l’illuminismo laico che ha portato i valori al mondo, non la religione.
Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg voleva completare le conquiste illuministe allargando la ragione anche alla dimensione religiosa. Aggiungeva però: non si tratta di tornare alla situazione anteriore all’illuminismo; la sua proposta non è un ritorno al passato ma un passo avanti[1].
Chi, essendo non credente, non permette alla società di essere più credente, è contrario ai diritti umani. Nel nostro mondo vi è quindi un totalitarismo di tipo islamico, ma anche, da qualcuno, un totalitarismo illuminista e ateo.
Se non si rispetta la dimensione religiosa, si scivola verso un’interpretazione politica o ideologica della religione. Magdi Allam è stato talvolta criticato dall’intellighenzia laica occidentale come uno che vuol provocare il conflitto di civiltà, o a favore di qualche partito politico italiano o straniero. Personalmente, anche se non condivido alcune posizioni come quelle di fronte al conflitto israelo-palestinese, non credo che lui cerchi il conflitto di civiltà. Combatte la violenza quando si copre di religione, come nel caso di chi usa della violenza in nome dell’islam, ma si dovrebbe aggiungere anche quelli che lo fanno in nome dell’ebraismo o del Vangelo.
C. Benedetto XVI: Dovere di evangelizzare con rispetto, Reciprocità nella missione
1. Benedetto XVI: il cristianesimo è per tutti
Che Benedetto XVI abbia accettato di persona a celebrare il battesimo di Magdi Allam è un fatto che sorprende. Va pure detto che egli lo ha fatto senza ostentazione, dando la stessa importanza a tutti i 7 battezzati, non dando più importanza al musulmano convertito. Questa enfasi sull’islamico convertito è piuttosto opera della stampa, abituata alle letture politiche.
Ma Benedetto XVI ha voluto sottolineare che tutti, musulmani, atei, indù, buddisti, cristiani che hanno abbandonato la fede, tutti sono chiamati alla fede. Ha voluto affermare l’universalità dell’appello cristiano, non perché i cristiani siano il gruppo più folto, ma per sottolineare che tutti gli esseri umani sono chiamati da Gesù. Tutti hanno diritto a conoscere Cristo. Nessuno è escluso.
Certo, la presenza di un musulmano fra i catecumeni è un segnale per il mondo islamico. Esso è il gruppo più recalcitrante ad accettare questo passo. Il papa, senza violenza o acredine, sembra dire: Anche voi siete chiamati a scoprire Cristo e ad entrare nella Chiesa se lo desiderate.
2. Esperienze personale
Da parte mia, ho vissuto un’esperienza tragica. Anni fa ero in Marocco. Viene a trovarmi un professore marocchino 35enne di lingua araba per parlare del Vangelo e di Cristo. Dopo mezz’ora io gli dico che sono stupito a vedere la sua conoscenza di temi cristiani. Lui mi risponde che è da 14 anni che chiede il battesimo. All’inizio ho pensato che sbagliasse espressioni. Ore dopo mi incontro con il vescovo e con una piccola comunità di sacerdoti ai quali racconto l’episodio e dico che quel musulmano chiede da 14 anni il battesimo e i sacerdoti glielo rifiutano. Uno dei sacerdoti si alza e mi rimbrotta: “È giusti rifiutarglielo. Noi non vogliamo fare dei martiri”[2]. Dopo aver espresso le sue prudenze, il sacerdote mi fa una filippica sul fatto che io non ho capito il concilio Vaticano II secondo cui tutti possono essere salvati, anche nella loro religione, ecc…
Io ho risposto che il sacerdote non aveva il diritto di rifiutare il battesimo. Se il musulmano chiede il battesimo, lo si può avvertire dei rischi che corre, lo si può mettere in guardia, ma non si può rifiutarglielo perché la sua chiamata viene dallo Spirito Santo e lui è libero, è una sua scelta.
Uscendo, il vescovo mi ha ringraziato per le mie precisazioni.
Il giorno dopo vado a Marrakesh e incontrandomi con la piccola comunità di frati e di suore di là, racconto questo episodio e la mia conclusione, cioè che non si può rifiutare il battesimo a una persona che lo chiede, anche se musulmana. Tutti mi accolgono con applausi, festa, urla! E mi dicono che da anni sono impediti ad avvicinare i musulmani e i sacerdoti continuano a rifiutare il battesimo a chiunque di loro lo volesse. La loro “prudenza” si spiega col timore che per ripicca i musulmani facciano chiudere le scuole cristiane, mettendo in crisi l’organizzazione della missione.
Un’altra volta, dopo aver celebrato la funzione del Venerdì Santo, sto per chiudere la porta della chiesa, quando tre giovani musulmani sui 20-25 anni mi chiedono di entrare per visitarla. La loro curiosità li spinge a farmi tante domande sull’edificio, sulla croce coperta e sul cristianesimo. Ad un certo punto arriva il parroco e caccia via i giovani, dicendomi: “Non abbiamo il diritto di parlare con loro di fede cristiana”. Tutto ciò è un fatto molto grave perché oltre a mettere in luce la censura dei Paesi musulmani verso la missione cristiana, mostra che vi è anche un’autocensura a parte dei cristiani, della quale ha parlato Magdi Allam nella sua lettera.
Penso perciò che il gesto del papa significa: la missione della Chiesa è universale, è anche verso i musulmani e deve essere esplicita.
Altre volte la missione cristiana viene frenata da “opportunismi”. Ad esempio, si consiglia a un non cristiano di non prendere il battesimo per fungere da ponte con la sua cultura. Anche il card. Newman, quando era anglicano, ha pensato questo. Ma il punto è che se appena costui sente di dover fare il passo completo ed esplicito dell’appartenenza alla Chiesa, deve fare il passo che gli suggerisce la sua interiorità.
3. Benedetto XVI: Reciprocità e missione
L’ultimo aspetto è quello della reciprocità nel dovere di evangelizzare. Il papa e molti documenti vaticani sottolineano che noi cristiani abbiamo il dovere di annunciare il vangelo a chiunque, e ognuno è libero di accettare o rifiutare.
Come mantenere l’obbligo personale di annunciare il vangelo e rispettare la libertà dell’altro? La Chiesa risolve questa apparente contraddizione mettendo in chiaro che non si può obbligare nessuno a una conversione. Già dall’8°secolo i pensatori arabi cristiani hanno scritto trattati per sottolineare che non solo la violenza è vietata per chiamare qualcuno, ma anche la pressione morale o spirituale è vietata. E loro sapevano bene quali pressioni fisiche, finanziarie e morali dovevano subire per mantenere la loro fede!
Occorre garantire la libertà di evangelizzazione (tabshîr), come la libertà d’islamizzare (da’wa). Per me, il cristianesimo è la più bella e più perfetta religione, e l’islam, pur avendo molte cose belle, non è il compimento del progetto divino sull’uomo, non è l’appello all’umanesimo. Allo stesso tempo ammetto che il musulmano sia convinto del contrario ed è suo pieno diritto, anzi dovere! Questo è il vero rispetto reciproco: ognuno segue la sua coscienza e cerca di illuminare l’altro sempre di più.
Il papa non nasconde la sua certezza che il musulmano ha bisogno di un passo ulteriore per giungere alla perfezione della verità. Ma non per questo attacca l’islam o disprezza il musulmano. E quando un musulmano mi dice “peccato che non sei musulmano!”, capisco che mi porta molta stima. Ed è lo stesso per me a suo riguardo.
Questo rispetto reciproco è fondamentale per costruire una convivenza pacifica fra religioni, ma anche con personalità laiche ed atee: una società in cui ciascuno è convinto della bontà della sua posizione, ma convinti anche che l’altro ha altrettanto diritto a vivere questa certezza e a vivere con me.
Conclusione: Il minimo comun denominatore sono i diritti umani
Perchè questo avvenga occorre un minimo comune denominatore: i diritti umani. Rinunciare ai diritti umani è un errore. Per questo, senza tregua, il Vaticano continua a chiedere la reciprocità di culto. Come i musulmani si trovano in società europee in piena libertà religiosa, così i cristiani vorrebbero potersi esprimere con libertà nei Paesi islamici.
E come i musulmani possono chiamare i cristiani a diventare musulmani in Occidente (e lo fanno), così i cristiani devono poter chiamare i musulmani a diventare cristiani nei Paesi islamici. Invece, tanti Paesi musulmani hanno rinforzato le pene contro chi annuncia il Vangelo, l’attualità dell’Algeria ci lo ricorda quotidianamente!
Il battesimo di Magdi Allam da parte del papa non è un atto di aggressione, ma un’esigenza di reciprocità. È una provocazione tranquilla, ma che serve solo per farci pensare di più e svegliarci. Ognuno di noi deve vivere come missionario, tentando di offrire all’altro il meglio di quanto uno ha incontrato e compreso.
Quando scopro un “prodotto” buono, la mia gioia è di passare l’informazione ai miei amici. Non è atto di propaganda commerciale, ma di simpatia e di stima. Così, il musulmano m’invita con semplicità a diventare musulmano e io l’invito con semplicità a diventare cristiano.
Due anni fa, due studenti iraniani che studiavano l’arabo a Beirut sono venuti a chiedermi di spiegar loro il cristianesimo, e a mio turno ho fatto loro delle domande sull’islam. Poi, ad un certo punto, mi hanno detto: “professore, il tempo ci manca e dobbiamo tornare in Iran, per favore accontentiamoci di parlare del cristianesimo”.
Questo gesto di Benedetto XVI è un grande salto per la convivenza fra i popoli. Al di fuori di questa piena identità testimoniata nella libertà, vi è solo il disprezzo verso chi non la pensa come me o il relativismo di chi non ha alcuna certezza – e che spesso si esprime con grande intolleranza.
[1] Anche l’islam ha bisogno di un movimento illuminista, che è esistito nel IX-X secolo, ma è stato sommerso dalla corrente religiosa tradizionalista.
[2] Il riferimento è al rischio di essere uccisi per “apostasia dall’islam”, come avviene in molti Paesi musulmani.



"Noi ex musulmani viviamo nel terrore"
Di Francesco De Remigis
Il Giornale
26 Marzo 2008
«Il mio nome è Hamid Laabidi. Il giorno che mi sono battezzato è il 25 aprile 1997». Comincia così il racconto di un uomo di origine marocchina che ha compiuto un percorso di fede per il quale tanti musulmani, anche in Italia, rischiano la persecuzione. Al Giornale Hamid, mediatore culturale di 42 anni, racconta com’è avvenuta la sua conversione al cristianesimo, tra le perplessità di alcuni correligionari e la diffidenza di chi vede un musulmano entrare in chiesa per la prima volta.
In provincia di Vercelli da quasi vent’anni, oggi vive a Borgosesia. Ricorda la difficoltà di un percorso di conversione maturato «dopo sei anni di ricerca spirituale portata avanti senza tagliare i ponti con gli altri musulmani». «Parlando con loro – racconta – avvertivo un pregiudizio, poi sono arrivate minacce concrete se fossi diventato cristiano e sono stato frenato.
Col tempo, però, ho capito che se noi ci sentiamo deboli e abbiamo paura di convertirci, i fanatici dell’islam si sentono forti e pensano di poterti spaventare». «Inizialmente ci hanno provato – spiega Hamid –. Ricordo gesti e parole violente nei miei confronti. Devo ringraziare la comunità cristiana che mi è stata vicina e la cittadinanza che ha rispettato il mio nuovo percorso. Gli altri musulmani, invece, sono stati messi di fronte al fatto compiuto. Si sono ritrovati un mediatore culturale cristiano. Se un immigrato musulmano aveva bisogno di me non poteva fare a mano di parlarmi. Così le cose si sono quasi normalizzate».
Ma nel frattempo il fanatismo di chi non accetta la libertà di culto è cresciuto nelle comunità islamiche italiane, spiega Hamid, soprattutto con l’ingresso di immigrati che lo hanno importato dai Paesi di origine, «dov’è inconcepibile che un fratello possa abbandonare l’islam».
Secondo Hamid è ancora troppa l’ignoranza che i governi di certi Stati arabi trasmettono ai cittadini, che mantengono il loro pregiudizio anche dopo l’arrivo in Italia. «Sembra più difficile scegliere liberamente il proprio credo qui che non a Rabat – conclude – dove ogni tanto faccio ritorno ed entro tranquillamente in chiesa».
In Italia ci sono infatti centinaia di convertiti che vivono in segreto la nuova condizione, almeno inizialmente. Alcuni sono riusciti a superare la paura grazie al sostegno di cittadini italiani.
Altri stanno chiedendo consiglio ad amici immigrati che vivono in Italia da più tempo. È il caso di Ahmed Mohamed, padovano di origine egiziana che al Giornale confida le difficoltà di un musulmano che vorrebbe convertirsi. Lui, per esempio, lo ha fatto soltanto a metà.
Non ha ricevuto il battesimo perché non si sente tutelato: «Lo Stato pensa che nelle comunità islamiche siamo tutti fratelli, mentre lo scorso anno hanno dato fuoco alla mia auto per intimorirmi. La diffidenza è molto forte – spiega – perché assumendo un nome cristiano si capisce che hai lasciato l’islam». Ahmed ha però superato le perplessità dei familiari e le ire di alcuni correligionari, assicurando almeno al suo primogenito il battesimo.
«Per i miei genitori è stato quasi un disonore quando mi sono presentato con un crocefisso addosso, mentre a Padova, dove la situazione è sempre più tesa, non posso certo ostentarlo».
La libertà religiosa è ancora tabù nelle comunità islamiche. Per questo è stata richiesta massima riservatezza da altri venti musulmani che hanno trovato il coraggio di ricevere il battesimo in Italia proprio in questi giorni. Sono diventati cristiani nelle festività pasquali, ma in segreto. Quattro egiziani sono stati battezzati in Sicilia, nel Palermitano.
Due tunisini in Calabria, una donna nel Viterbese. Altri due stanno invece valutando di sposarsi in una chiesa di Modena, sempre con il sostegno della comunità cristiana.


Eutanasia: «La soluzione ha un nome: cure palliative» Avvenire, 27 marzo 2008
Lo insegna l’esperienza di chi lavora sul campo: le richieste eutanasiche sono quasi sempre figlie di contesti di solitudine o depressione. La fine «dignitosa» che la gente cerca è quella che oggi offre la medicina palliativa. Parla l’esperto Gian Vito Romanelli, dell’Asl di Verona.
Nnon farsi cogliere, di fronte a una prognosi infausta, da una disperazione tale da essere indotti al suicidio. Oppure a formulare richieste eutanasiche. Sono innumerevoli le persone nel nostro Paese che potrebbero portare una testimonianza in questo senso. Ne parliamo con Gian Vito Romanelli, medico di famiglia esperto in cure palliative, che lavora nell’hospice San Giuseppe dell’Asl n. 20 di Verona.
Il tema dell’eutanasia ritorna in primo piano con i recenti casi del Belgio e della Francia
«Sono storie terribili: la tragedia di Hugo Claus riapre la discussione sulla demenza, che forse bisognerebbe iniziare a valutare come una malattia terminale, alla quale dare risposte assistenziali con le cure palliative. La vicenda di Chantal è più frequente e possibile, perché per una donna la trasformazione della propria immagine corporea comporta sempre un dramma. In entrambi i casi emerge un dato incontrovertibile: un uomo, se lasciato solo ad affrontare la sua sofferenza, pensa all’eutanasia come alla soluzione possibile. Del resto, anche la persona in preda alla depressione può pensare alla soluzione suicidaria come modo per mettere fine alle sue sofferenze. Resta il fatto che è sempre un momento in cui si è abbandonati. L’uomo ha bisogno, nei momenti difficili della sua esistenza, di sfogare la rabbia data dalla perdita del controllo sul suo corpo e l’angoscia della paura, condividendo tutto questo con qualcuno che l’accompagni nel suo personalissimo calvario, senza pietosità, ma aiutandolo a risolvere le sue angosce e a prepararsi, per quanto possibile, agli eventi ineluttabili che il suo destino gli offre»
C’è chi ritiene però che, di fronte a un episodio come quello francese emerga la necessità di una legislazione che regoli la morte assistita. Anche nel nostro Paese.
«Non credo che una legge possa dare agli operatori sanitari la serenità e la tranquillità necessarie per applicarla su tematiche così complesse e delicate. Ed effettivamente, la tendenza che si registra in alcuni Paesi in cui l’eutanasia è stata legalizzata già da tempo è quella di andare verso l’abbandono di questa scelta nefasta. Mi riferisco all’Olanda e ai dati resi noti lo scorso anno dal British medical Journal e che in questi giorni sono tornati alla ribalta».
Sul caso dello scrittore belga Hugo Claus, invece, è stata commessa da molti una imprecisione: hanno detto che sarebbe morto per sedazione palliativa.
«È un grave errore che va chiarito: nella medicina palliativa la differenza tra sedazione palliativa ed eutanasia è molto chiara. È dimostrato che i pazienti seguiti in un progetto assistenziale di medicina palliativa, sia in hospice che a domicilio, richiedono raramente l’eutanasia. L’eutanasia non è un atto terapeutico ed in genere viene richiesta quando l’ammalato ed i suoi familiari non si sentono accuditi e presi in carico dall’equipe curante. La sedazione palliativa, invece, è un atto terapeutico, proposto quando i sintomi del malato diventano refrattari alla cura. Lo scopo della sedazione non è il raggiungimento del decesso, ma l’attenuazione della percezione, da parte del paziente, dei sintomi».
Qualcuno potrebbe avanzare il dubbio che la sedazione palliativa acceleri il processo di morte.
«È chiaro che in pazienti che hanno una prognosi infausta, dopo la sedazione può iniziare quel processo irreversibile che chiamiamo 'fase agonica', che può durare anche giorni e che va controllata nel suo divenire, ma sempre nel rispetto del mistero della vita. Spesso, infatti, assistiamo a persone che sopravvivono giorni contro ogni logica scientifica. Sembra quasi che i concetti fisiologici e biochimici, vengano soppiantati da altre regole, che appartengono solo all’individuo».
Quale genere di risposta a suo parere si può dare all’opinione pubblica che di certo rimane scossa e provata da queste storie e che può sollevare richieste legislative improprie, o diritti a una camuffata autodeterminazione, solo sull’onda dell’emotività?
«La migliore risposta è l’informazione diretta e precisa di come la medicina palliativa può assistere, nella fase ultima della vita, pazienti affetti da malattie inguaribili, dando risposte puntuali e tempestive ai sintomi disturbanti e accompagnando il paziente e i suoi familiari nel processo di accoglimento di una morte accettabile e dignitosa. Ai parenti dei malati che assisto dico sempre di testimoniare, a quanti sono loro vicino, la possibilità di una cura efficace dei sintomi e la possibilità di una relazione di aiuto che attenui l’angoscia dell’ineluttabilità della fine».
di Francesca Lozito