giovedì 31 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI: Sant'Agostino, modello nel "rapporto tra fede e ragione"
2) Antonio Zichichi: l'alleanza tra fede e scienza è possibile
3) Chi nega il fondo di saggezza che le religioni portano alla ragione pecca contro la laicità: ieri a Roma un confronto fra monsignor Ravasi e Giuliano Ferrara. Ornaghi: «Dalla lectio del Papa un invito a riflettere» Il pregiudizio contro la verità
4) Da Grossman a Neusner, ecco una lezione di metodo
5) Gb: basta dire «mamma e papà», contro l'omofobia meglio parlare di «genitori»
6) Cattolici di Hanoi continuano la protesta sfidando l’ultimatum del governo
7) Arcivescovo di Hanoi: Pronto ad andare in prigione per il mio gregge


Benedetto XVI: Sant'Agostino, modello nel "rapporto tra fede e ragione"
Intervento all'Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 30 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato nuovamente sulla figura di Sant’Agostino.
* * *
Cari amici,
dopo la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem. Il Papa stesso volle definire questo testo “un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione”. (AAS, 74, 1982, p. 802) Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: “Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.
La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono “le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) — il credere apre la strada per varcare la porta della verità — ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (“comprendi per credere”), scruta la verità per poter trovare Dio e credere.
Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.
Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma “torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: “Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1).
La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: “Tu infatti – riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è “un grande enigma” (magna quaestio) e “un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.
L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e “via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – “nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).
Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – “prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).
Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: “A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.
Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà – che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Vescovi qui convenuti in occasione del 40° anniversario di fondazione della Comunità di Sant’Egidio, assicurando il mio orante ricordo affinché si rafforzi in ciascuno il fermo desiderio di annunciare a tutti Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Saluto con particolare affetto i fedeli della Parrocchia di Santa Caterina di Nardò – dove mi dicono che c’è un bellissimo mare - , con un pensiero speciale per i giovani musicisti. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza ed auspico che questo incontro possa accrescere in ciascuno il desiderio di testimoniare con gioia il Vangelo nella vita di ogni giorno. Vi accompagno con la mia preghiera, affinché possiate edificare ogni vostro progetto sulle solide basi della fedeltà a Dio. Saluto poi gli Operatori Caritas della diocesi di Sabina-Poggio Mirteto e li incoraggio a proseguire con generosità la loro opera in favore dei più bisognosi.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli.
Ricorre domani la memoria liturgica di san Giovanni Bosco, sacerdote ed educatore. Guardate a lui, cari giovani, specialmente voi cresimandi di Serroni di Battipaglia, come a un autentico maestro di vita. Voi, cari ammalati, apprendete dalla sua esperienza spirituale a confidare in ogni circostanza in Cristo crocifisso. E voi, cari sposi novelli, ricorrete alla sua intercessione per assumere con impegno generoso la vostra missione di sposi.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Antonio Zichichi: l'alleanza tra fede e scienza è possibile
Intervista dopo la mancata visita del Papa a “La Sapienza”
Paolo Centofanti
ROMA, mercoledì, 30 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Il professor Antonio Zichichi, Presidente della World Federation of Scientists, sostiene che una alleanza tra fede e scienza è possibile.
In una intervista a ZENIT, il noto scienziato ha affermato che l’opposizione alla visita di Benedetto XVI all’Università “La Sapienza” di Roma è stata la manifestazione di una cultura “pre-aristotelica”.
Zichichi ha lavorato nell'ambito della fisica subnucleare presso i laboratori Fermilab di Chicago e CERN di Ginevra, dove nel 1965 ha coordinato il gruppo di ricerca che ha scoperto un antinucleo di deuterio (nucleo di antideuterio), nucleo di antimateria. Nel 1963 ha fondato presso Erice il Centro “Ettore Majorana” di cultura scientifica.
È stato Presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare. Attualmente è docente emerito di Fisica superiore all'Università di Bologna.
Parlando del rapporto tra scienza e fede, tema affrontato da Benedetto XVI nel suo interevento all'Udienza generale di questo mercoledì, il professor Zichichi ha ricordato che i risultati raggiunti dalla scienza odierna sarebbero impensabili senza “quell’atto di fede e di umiltà intellettuale, maturato nel cuore della cultura cattolica con Galileo Galilei”.
Cos’è per lei la ragione?
Zichichi: Noi siamo l’unica forma di materia vivente a cui è stato dato il privilegio del dono della ragione; ed è grazie alla ragione che la forma di materia vivente cui noi apparteniamo ha potuto scoprire il linguaggio, la logica e la scienza.
Esistono infatti centinaia di migliaia di forme di materia vivente, vegetale ed animale, ma nessuna di esse ha saputo scoprire la memoria collettiva permanente – meglio nota come linguaggio scritto – né le forme di logica rigorosa come la matematica o la scienza che, tra tutte le logiche possibili, è quella che ha scelto il Creatore per fare l’Universo così come possiamo vederlo e studiarlo, e noi stessi.
Una logica che ci è permesso di studiare e capire ma che nessuno sarà mai in grado, anche minimamente, di alterare. Senza ragione non avremmo potuto scoprire la scienza, questa straordinaria avventura intellettuale, iniziata solo 400 anni fa, con Galileo Galilei e le prime Leggi fondamentali della natura da lui scoperte.
Galilei le chiamava “Impronte del Creatore”, impronte che potevano anche non esistere. Invece lui era convinto che esistessero, e che fossero presenti sia nelle stelle, sia nella materia “volgare” come le pietre, nelle quali in quel tempo tutti erano certi che non fosse possibile trovare verità fondamentali. È proprio studiando le pietre che Galilei iniziò a cercare quelle impronte, per un atto di fede nel Creatore.
Un atto di fede e di umiltà, che ci ha permesso di arrivare oggi, in soli quattro secoli, a concepire l'esistenza del "supermondo": la più alta vetta delle conoscenze scientifiche galileiane, quindi del sapere rigoroso, nell'immanente. Le frontiere stesse del supermondo confermano quanto dicevo prima, ovvero che siamo l'unica forma di materia vivente dotata di ragione.
Sono state attribuite al Pontefice false dichiarazioni di condanna nei confronti di Galileo Galilei, poi smentite. Come pensa che Papa Benedetto XVI veda realmente la figura di Galileo Galilei?
Zichichi: Per Papa Benedetto XVI, la ragione è al centro della cultura del nostro tempo. Il suo pensiero su Galileo Galilei è stato mistificato, estrapolando una citazione di Feyerabend (che dichiarava giusta la condanna a Galilei), da un discorso che in realtà mirava a sostenere proprio la tesi opposta. E proprio in Galilei, il Pontefice vede una unione ideale tra scienza e fede.
Il 6 aprile 2006, alla domanda di un giovane che partecipava in Piazza San Pietro a un incontro in preparazione della Giornata Mondiale della Gioventù, Benedetto XVI rispose che “il grande Galileo” Galilei considerava la Natura e la Bibbia due libri scritti dallo stesso Autore. Il libro della Natura in lingua matematica, perché per costruire l’Universo è necessario il rigore della matematica; la Bibbia, essendo parola di Dio, doveva invece essere scritta in linguaggio semplice e accessibile a tutti, come debbono essere i valori della nostra esistenza, che è una simbiosi della sfera immanentistica e della sfera trascendentale.
Cos’è la scienza?
Zichichi: La scienza, ci ricorda Benedetto XVI, nasce dall’atto galileiano di umiltà intellettuale: Colui che ha fatto il mondo è più intelligente di tutti noi, scienziati, filosofi, artisti, matematici, nessuno escluso. Per conoscere quale logica abbia scelto il Creatore per creare il mondo e noi stessi c’è una sola possibilità: porGli domande in modo rigoroso. È questo il significato di “esperimento di stampo galileiano”, e da qui nasce la scienza galileiana, che esige rigore e riproducibilità.
Se nel 1965 avessi potuto dimostrare l’esistenza dell’antimateria nucleare solamente con carta e penna e utilizzando il rigore della matematica, non avrei avuto bisogno di fare un esperimento estremamente difficile e per il quale fu necessario inventare un circuito elettronico speciale, che misurasse i tempi di volo delle particelle subnucleari con precisioni fino ad allora mai ottenute: frazioni di miliardesimi di secondo.
Per fare una scoperta scientifica è quindi necessario arrendersi alla superiorità intellettuale del Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, e realizzare un esperimento. È stato così per l’antimateria nucleare, come per tante altre scoperte.
Ogni scoperta è stata ottenuta sempre dopo un esperimento che ha richiesto almeno un’invenzione tecnologica, come ad esempio il più potente rivelatore di neutroni, che ha permesso di scoprire una formidabile proprietà dell’Universo subnucleare: l’enorme divario esistente tra le miscele mesoniche vettoriali e quelle pseudoscalari. Non è una proprietà banale delle strutture subnucleari ma il risultato delle leggi che governano l’Universo le cui regolarità e le cui leggi nessun filosofo, logico matematico, pensatore, nessuno, aveva saputo prevedere.
Se fosse sufficiente il rigore logico-matematico per comprendere com’è strutturato l’Universo subnucleare, non avremmo bisogno di costruire strutture complesse e gigantesche come la nuova macchina che entrerà in funzione entro la fine di quest’anno al CERN di Ginevra: una pista magnetica lunga 27 km, con una quantità enorme di rivelatori, cosa finora mai realizzata, per avere una risposta alla domanda: “com’era l’Universo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang”?
Lei parla spesso della necessità di umiltà intellettuale nella ricerca scientifica....
Zichichi: Se non fosse per l’atto di umiltà intellettuale del padre della scienza moderna, saremmo rimasti fermi, chissà per quanti secoli ancora, a ciò che pensavano i nostri antenati: basta essere intelligenti per capire com’è fatto il mondo.
Nel corso di diecimila anni, dall’alba della civiltà al sedicesimo secolo, tutte le culture si erano illuse di sapere decifrare il Libro della natura senza mai porre una sola domanda al Suo Autore. Ecco perché a nessuna cultura era toccato il privilegio di scoprire una Legge fondamentale della natura.
Oggi la scienza è arrivata alla soglia del supermondo, per quell’atto di fede e di umiltà intellettuale, maturato nel cuore della cultura cattolica con Galileo Galilei, che Giovanni Paolo II, il 30 marzo 1979, in Vaticano, presenti i rappresentanti dei fisici di tutta Europa, definì figlio legittimo e prediletto della Chiesa cattolica.
Con il suo coraggio intellettuale e spirituale Giovanni Paolo II riportò finalmente a casa i tesori della scienza galileiana che sono autentiche conquiste della cultura cattolica. E Benedetto XVI di questi tesori è oggi il massimo custode nella continuità culturale del Suo apostolato con quello di Giovanni Paolo II.
Questo si collega all’alleanza tra scienza e fede da lei sempre sostenuta?
Zichichi: Papa Giovanni Paolo II, spalancando le porte della Chiesa cattolica alla scienza galileiana, dette vita a questa grande alleanza tra fede e scienza. Una allenza di cui è prova la frase “scienza e fede sono entrambe doni di Dio” incisa su ferro ed esposta agli scienziati di tutto il mondo al Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” a Erice.
La cultura del nostro tempo è detta moderna, ma in effetti è pre-aristotelica, come è provato da quella lettera cui hanno aderito, prima 67 persone che oggi sono diventate – mi è stato detto – molte migliaia.
Insegna però Enrico Fermi che la scienza è fondata sulla meritocrazia, non sui numeri di chi sottoscrive una presunta verità. Non si possono mettere ai voti le “Forze di Fermi” né l’equazione di Dirac. Né le leggi che continuiamo a scoprire nell’Universo subnucleare. La democrazia va bene per la politica, non per le verità scientifiche. Se vivessimo – come pretende la cultura dominante atea – nell’era della scienza quella lettera sarebbe rimasta con zero firme: non sarebbe mai stata scritta. Le radici di quella lettera sono nella cultura del nostro tempo che – come dicevo prima – è detta moderna mentre in effetti è pre-aristotelica. Infatti né la logica rigorosa né la scienza sono ancora entrate nel cuore di questa cultura che – come ha scritto Papa Benedetto XVI nel discorso preparato per la visita a “La Sapienza” – “costringe la ragione ad essere sorda al grande messaggio che viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza. Così facendo questa cultura agisce in modo da non permettere più alle radici della ragione di raggiungere le sorgenti che ne alimentano la linfa vitale”.
La sintesi più bella del pensiero di Papa Benedetto XVI è incisa nella cupola della Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma, dove c’è un’altra famosa frase di Giovanni Paolo II: “La scienza ha radici nell’Immanente ma porta l’uomo verso il Trascendente”. Negare a Benedetto XVI il diritto di portare ai giovani il messaggio della grande alleanza tra fede e scienza è stato un atto di oscurantismo, non di laicità.


il «caso Sapienza»
Chi nega il fondo di saggezza che le religioni portano alla ragione pecca contro la laicità: ieri a Roma un confronto fra monsignor Ravasi e Giuliano Ferrara. Ornaghi: «Dalla lectio del Papa un invito a riflettere» Il pregiudizio contro la verità

Avvenire, 31.1.2008
DA ROMA MIMMO MUOLO
L a prima parola chiave è «pre­venzioni ». La seconda «verità». Miscelandole, monsignor Gianfranco Ravasi conia quella che si potrebbe definire la «morale» del­la brutta vicenda che ha costretto il Papa a rinunciare alla visita all’uni­versità 'La Sapienza'. Argomenta, infatti, il presidente del Pontificio Consiglio per la cultura: «Questa vi­cenda ci deve spingere a superare le prevenzioni della nostra epoca nei confronti della verità». Il che signifi­ca «uscire dal sospetto che la verità sia una cappa che ci sta sopra e non una meta di luce da raggiungere». Benedetto XVI questo l’ha mostrato con chiarezza nel discorso inviato al rettore Renato Guarini. Dunque, conclude il vescovo, «il suo è un in­vito a intraprendere il cammino che porta a quella meta, perché una vi­ta senza la ricerca della verità non mette conto di essere vissuta».
Ravasi è intervenuto, ieri pomerig­gio, insieme con il direttore de Il Fo­glio Giuliano Ferrara, al primo dei due colloqui organizzati dall’Uni­versità Cattolica del Sacro Cuore sul discorso del Pontefice alla 'Sapien­za'. Un incontro, svoltosi nella sede della Facoltà di Medicina a Roma e moderato (come del resto lo sarà an­che il secondo in programma a Mi­lano lunedì prossimo) dal rettore magnifico Lorenzo Ornaghi. Il qua­le nella sua introduzione non ha mancato come il testo di Benedetto XVI sia davvero contro corrente. «In un’epoca come la nostra che si fer­ma alla superficie dei fenomeni e non si interessa più all’essenza del­le cose, un’epoca in cui sappiamo più distinguere il giusto dall’ingiu­sto, il vero da ciò che non lo è, il Pa­pa invita a riflettere». E il suo invito è particolarmente importante per l’università nel suo complesso, che «Benedetto XVI esorta a riprendere un’opera di composizione del sape­re, anziché contribuire a scompor­lo ».
Il successivo dibattitto tra Ravasi e Ferrara ha visto un’ampia conver­genza proprio su questa necessità. Il vescovo e il giornalista si sono trovati innanzitutto d’accordo nell’indivi­duare il passaggio chiave del discor­so. Quello in cui il Papa invita a «non gettare nel cestino della storia delle idee», la sapienza delle grandi tradi­zioni religiose, che contribuisce a formare «il fondo storico dell’uma­na sapienza». Il direttore de 'Il Fo­glio', ad esempio, dopo aver ricor­dato che la contestazione è nata da «un’interpretazione equivoca e fon­damentalmente sbagliata di un vec­chio intervento del cardinale Rat­zinger, un 'super-professore' che sa benissimo cos’è il mondo universi­tario », ha definito il suo discorso al­la 'Sapienza' «strepitoso, folgoran­te e anche intellettualmente ironi­co, specie nell’affermazione di par­tenza, in cui il Pontefice rende o­maggio all’università laica, alla sua autonomia, che deve essere legata esclusivamente alla verità».
La «perla» di tutto l’intervento, se­condo Ferrara, è però quella in cui «Joseph Ratzinger denuncia il rischio di un Occidente che tende a esclu­dere in maniera sistematica e pre­ventiva il ricorso a quel 'fondo sto­rico dell’umana sapienza' che è la fede come esperienza concreta». Ri­nuncia «poco coraggiosa», che di­venta anche «un pericolo», in quan­to «si può risolvere nella mancanza di volontà a collaborare insieme al­la ricerca della verità».
Ciò ha delle ripercussioni in ambito politico, che Ferrara ha sottolineato in riferimento all’esperienza con­creta di Zapatero. «Il suo modo di governare – ha detto – costituisce l’inveramento storico-politico del­l’esclusione del ricorso al 'fondo sto­rico dell’umana sapienza'». «Non solo si fa ciò che dice la maggioran­za, ma questa volontà maggioritaria diventa anche misura del vero e del giusto».
Per Ferrara, invece, la strada indica­ta da Benedetto XVI nella conclu­sione del suo discorso può offrire u­tili spunti anche a chi non crede. «Ve lo dico da laico – ha concluso – Quel­la di Cristo è una luce che illumina il cammino non solo per chi ha den­tro di sé la fede, ma anche per non possiede questo tesoro».
Anche per Ravasi punto nodale del­la riflessione di Benedetto XVI è quello in cui il Papa ricorda che «il vero concetto di ragione non è e­sauribile nella sola logica formale». «Esiste una Ragione-creatrice che è al contempo RagioneAmore. E an­che la logica dell’amore fa parte del­la brama di conoscenza, che il Be­nedetto XVI ha ricordato essere 'la vera, intima origine dell’università'». Non solo. Citando Platone, il presi­dente del Pontificio Consiglio per la cultura, ha fatto notare che esiste an­che una logica estetica, che la verità contiene in sé la bellezza e che la ri­cerca della verità diviene anche ar­te e poesia.
Benedetto XVI, dunque, «contraria­mente alla cultura filosofica domi­nante – secondo cui la verità è una questione di retroguardia o, come afferma Michel Foucault, è «paraliz­zante e impositiva» – propone di ri­portare questo tema dentro l’uni­versità ». Perciò, ha notato ancora Ravasi, «il ritorno alla cultura greca è un dato fondamentale del suo ma­gistero, in quanto il Papa sa che quel­la cultura ha creato tutte le regole per far sì che la ragione si orienti ver­so la luce che ci trascende e che sem­pre ci interpella». La prova? Ancora una volta Platone, secondo cui «il ci­bo profondo dell’anima e della stes­sa ragione sta proprio nella pianura della verità, verso cui bisogna met­tersi in cammino come se fosse un pellegrinaggio».


intervento
Da Grossman a Neusner, ecco una lezione di metodo
Avvenire, 31.1.2008
DI ARIEL S. LEWIN
I n occasione del Giorno della memoria, il 27 gennaio, l’Università di Firenze ha conferito una laurea honoris causa allo scrittore israelia­no David Grossman. L’autore ha letto un testo di elevato spessore in cui la vicenda della Shoah racchiudeva in sé la necessità di un continuo interrogarci sulla nostra coscienza, sul nostro agire. Si è trattato, dunque, di un evento significativo, che ha commosso e offerto tanti motivi di ri­flessione.
Ma negli ultimi tempi non sempre nelle università c’è stato un clima a­perto al dialogo. Appare immancabile ripensare alla forzata rinuncia di Benedetto XVI a tenere la prolusione alla Sapienza di Roma. L’elemento centrale del ragionamento di molti – anche coloro che poi finivano con l’ammettere che non bisognasse negare al Pontefice di parlare in quella occasione – era che la circostanza fosse inade­guata. In altre parole, l’inaugurazione dell’an­no accademico avrebbe rappresentato un mo­mento di vita dell’università incompatibile con un intervento papale. Contro di ciò si può ra­gionevolmente sostenere che una cerimonia festiva come quella dell’inaugurazione del­l’anno accademico sarebbe stata una situazio­ne opportuna per celebrare la nostra cultura.
Proprio una prolusione da parte di Benedetto XVI avrebbe garantito un elevato spessore all’evento, come vediamo bene dal testo che poi è sta­to reso noto. Diciamolo francamente: le motivazioni addotte per porre dubbi sulla sede ed il momento del discorso di Benedetto XVI oltre che erronee nelle loro premesse erano speciose. Esse riflettono un certo mo­do di pensare prevenuto in cui non trova spazio la tensione verso il dia­logo.
Un paio di anni fa pochi studenti impedirono all’ambasciatore israelia­no Ehud Gol, invitato all’Università di Firenze, di tenere il proprio intervento. In seguito un noto intellettuale e scrittore, in uno dei più diffusi quotidiani, difese l’operato dei contestatori sostenendo che l’ambasciatore, in quanto rappresentante del governo di Sharon, non aveva diritto alla parola: si è mai visto un ambasciatore che venga a parlare nelle università? Secondo questo intellettuale, la presenza dell’ambasciatore costituiva, dunque, un’autentica provocazione. Sfortunatamente è vero esattamente il contrario: aprendo il mio computer, entrato in rete, verificai come accada assai di frequente che gli ambasciatori parlino nelle università. Per ironia della sorte risultava che proprio in quei giorni l’ambasciatore brasiliano teneva una lezione all’Università ebraica di Gerusalemme. Ritenni opportuno segnalare la mia 'scoperta' al caporedattore di quello stesso giornale e chiedere la pubblicazione del mio intervento in merito, in cui fra l’altro era precisato che probabilmente io stesso non avrei aderito a tutte le posizioni sostenute da quell’ambasciatore, ma che comunque egli aveva diritto alla parola. Tuttavia ciò mi fu negato.
La mia preoccupazione verte, dunque, sul metodo. Mi pare allora bello e consolante leggere pagine che denotano l’applicazione di un metodo nobile di dialogo negli scritti del rabbino ebreo Jacob Neusner e di Benedetto XVI. Neusner, molto probabilmente ai nostri tempi il più insigne studioso dell’ebraismo nei primi secoli dell’era cristiana, in un libro u­scito originariamente in inglese nel 1993 immaginava di essere un ebreo vissuto all’epoca di Gesù di cui avrebbe ascoltato il Discorso della Mon­tagna a noi noto attraverso il Vangelo di Matteo. Con estremo rispetto, ma anche con fermezza, Neusner esponeva dunque i motivi che gli a­vrebbero impedito di aderire a quel messaggio. E tuttavia - occorre sot­tolinearlo - lo scopo di Neusner non era polemico, ma costituiva la fon­dazione per un dialogo autentico: «In questa discussione non mi inte­ressa vincere. Essa vuole spiegare, sia agli ebrei sia ai cristiani l’altra po­sizione, quella della Torah». Neusner sottolinea come il proprio obietti­vo sia quello di dare elementi perché il credente di ciascuna delle due re­ligioni rafforzi la propria fede. L’esame scrupoloso del testo del Vangelo di Matteo da parte del dotto ebreo prova in modo molto chiaro come il Gesù della storia coincida con quello della fe­de: «Quando paragoniamo quello che Gesù disse sul comandamento che prescrive di o­norare il padre e la madre con quello che dis­sero gli altri saggi, vediamo nel Gesù della sto­ria precisamente quel Cristo della fede che, per venti secoli, i cristiani hanno ritrovato tan­to nel Gesù di Matteo quanto nel Cristo di Pao­lo ». Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Na­zaret ha dedicato molte pagine a prendere in esame il lavoro di Neusner denotando una medesima impostazione di grande rispetto per la reli­gione del suo interlocutore. E’ di particolare rilievo notare che egli abbia affermato: «Per il cristiano credente le disposizioni della Torah restano decisamente un punto di riferimento, al quale gli guarda sempre. Alla cri­stianità farebbe bene guardare con rispetto a questa obbedienza di I­sraele e così cogliere meglio i grandi imperativi del Decalogo, che essa deve tradurre nell’ambito della famiglia universale di Dio».
Vorrei terminare ritornando a David Grossman il cui impegno per la pa­ce ed il dialogo è di una coerenza esemplare. Quando nell’estate di due anni fa suo figlio – che militava nell’esercito israeliano – fu ucciso in Li­bano, egli affermò, pur nell’immenso dolore, di non odiare né chi lo a­veva mandato a combattere, né chi lo aveva ucciso. Mi pare interessan­te ricordare come nel suo intervento in occasione del conferimento del­la laurea allo scrittore il rettore di Firenze abbia ricordato un avvenimento che lo aveva colpito: per le vie della città Grossman era stato riconosciu­to e molti lo avevano abbracciato. È bello osservare ancora oggi come u­na persona cresciuta nella cultura della Torah e nel desiderio di conoscere e di comprendere l’altro possa costruire amore intorno a sé.



La proposta fatta propria dal ministro per la scuola e l’infanzia Ed Balls
Gb: basta dire «mamma e papà», contro l'omofobia meglio parlare di «genitori»

Per abituare i bambini delle elementari all'idea che ci potrebbero essere genitori dello stesso sesso

LONDRA - Nelle scuole elementari britanniche sarà proibito usare l'espressione «mamma e papà» e diventerà obbligatorio utilizzare l'espressione neutra «genitori», in modo particolare nelle comunicazioni a casa. Come scrive mercoledì il popolare quotidiano Daily Mail, il ministro per la Scuola e l’infanzia Ed Balls farà propria la proposta lanciata dall'organizzazione per i diritti degli omosessuali Stonewall, mirante ad abituare i bambini britannici delle elementari all'idea che potrebbero esserci genitori dello stesso sesso.
DIRITTI GAY - Secondo gli attivisti di Stonewall, l'espressione «mamma e papà» lede i diritti dei genitori omosessuali e favorirebbe pregiudizi anti-gay, inoltre ritengono che i bambini non dovrebbero avere un'idea «convenzionale» della famiglia. Ma non solo: l'iniziativa prevede che, quando si discuterà di matrimonio nelle scuole medie, gli insegnanti dovranno parlare anche delle unioni civili e dei diritti sulle adozioni gay.
TOLLERANZA ZERO - La proposta di Balls tende inoltre a combattere l'intolleranza nei confronti degli omosessuali e prevede punizioni per chi offenderà un compagno chiamandolo gay. Tra le espressioni che dovrano essere bandite dalle scuole britanniche ci sono anche: «comportati da uomo» e «siete un branco di donnicciole». Il ministro Balls si è detto «orgoglioso che il governo e il dipartimento siano stati fermi su questa strada. Il nostro punto di vista è che ogni scuola debba mettere in pratica azioni chiare contro ogni forma di bullismo, incluso quello a sfondo omofobico».
CorSera 30-1-2008



Cattolici di Hanoi continuano la protesta sfidando l’ultimatum del governo
Il governo locale minaccia “azioni estreme” se le dimostrazioni non cessano. I media accusano la Chiesa di violenze contro pubblici ufficiali e di minare l’ordine pubblico. La diocesi risponde accusando i media di manipolazione e rivendicando la proprietà della nunziatura da parte della Chiesa.
Hanoi (AsiaNews) – Più di 3 mila cattolici si sono radunati nel giardino della nunziatura apostolica di Hanoi a pregare, in aperta sfida all’ultimatum posto dal governo della città di liberare l’area e terminare le manifestazioni entro le 5 di ieri pomeriggio. Molti cattolici hanno perfino dormito nel giardino dell’edificio, sequestrato dal governo nel 1959 e che la Chiesa vietnamita continua a richiedere indietro, ora che si vuole utilizzare per costruire ristoranti e night club. Intanto l’arcivescovo di Hanoi, mons. Joseph Ngô Quang Kiệt ha diramato oggi un comunicato in cui rivendica il diritto dei cattolici a manifestare in un’area della Chiesa cattolica, sottratta ingiustamente dallo stato.
Il 26 gennaio scorso il Comitato del popolo di Hanoi ha emesso un comunicato, minacciando “azioni estreme” se le manifestazioni e il sit in - che continua dal 23 dicembre scorso – non terminavano entro le 5 del pomeriggio di ieri.
La dichiarazione a firma di Ngo Thi Thang Hang, la vice-presidente, esige dall’arcivescovo della città di ordinare ai cattolici di togliere la statua della Madonna, presente nel giardino della nunziatura, e la croce che i fedeli hanno piantato davanti all’entrata dell’edificio. Ngo Thi Thang Hang ha anche ordinato al vescovo di “presentare a lei un rapporto entro le 18” di ieri.
Intanto la stampa governativa ha aperto una campagna di disinformazione sui tafferugli avvenuti lo scorso 25 gennaio, in cui alcuni cattolici sono entrati nel giardino dell’edificio per salvare una donna picchiata dalla polizia perché era penetrata nell’area per portare dei fiori alla statua della Madonna presente in giardino.
La stampa accusa i cattolici di Hanoi di aver attaccato le forze di sicurezza e domandano la governo di ristabilire l’ordine prendendo le misure più severe.
Il p. Joseph Nguyen, che ha assistito agli scontri del 25 gennaio, bolla la lettura dei giornali comne una “svergognata distorsione”. E ad AsiaNews spiega: La preghiera di protesta si è tenuta alle 11.30, dopo la messa. Durante la dimostrazione, una donna Hmong ha saltato il cancello della nunziatura e ha deposto alcuni fiori alla statua della Madonna nell’area dell’edificio”.
“Il personale di sicurezza l’ha scoperta e ha cercato di afferrarla. Senza badare alle sue spiegazioni, essi hanno cominciato a picchiarla e a darle calci. Erano presenti almeno 2 mila cattolici come testimoni. Un comandante del personale di sicurezza ha perfino ordinato ad alta voce alle sue guardie di picchiare la donna fino a farla morire”.
“L’avvocato Lê Quoc Quan, lì presente, è intervenuto in difesa della donna, accusando le guardie di violare la legge. Le guardie allora hanno cominciato a picchiare anche lui, trascinandolo in un ufficio interno”.
“Vedendo tutto questo, i dimostranti non hanno avuto altra scelta che forzare il cancello e scontrarsi con la pubblica sicurezza. Dire però che i cattolici hanno attaccato il personale di sicurezza è una grossa menzogna”.
Ieri in tutte le messe nella capitale, i cattolici sono stati informati sull’ultimatum. Ma nonostante ciò, essi hanno deciso di manifestare ancora davanti alla nunziatura, con canti e preghiere.
Quest’oggi l’ufficio dell’arcidiocesi di Hanoi ha emesso un comunicato in cui si criticano i media statali di non presentare in modo “accurato” gli eventi di questi giorni.
Secondo radio, televisione e giornali di stato, l’arcidiocesi non può pretendere la proprietà dell’edificio perchè “il 24 novembre 1961, il p. Nguyễn Tùng Cương, allora amministratore della diocesi,… ha donato la proprietà al governo”.
L’arcivescovado risponde che l’autorità competente per tale transazione è solo “il vescovo diocesano, col consenso del consiglio finanziario e il collegio dei consultori”. Il comunicato precisa che “di sicuro egli [il p. Nguyễn Tùng Cương] non ha mai fatto alcuna donazione”. Esso ricorda pure che la Costituzione vietnamita difende la libertà religiosa e i luoghi di preghiera; inoltre, l’ordinanza 21/2004/PL-UBTVQH11 del 18 giugno 2004 specifica che le proprietà legali delle organizzazioni religiose sono protette dalla legge e che ogni violazione di tale diritto è proibito.
I media statali accusano i cattolici di Hanoi di distruggere proprietà dello stato, occupare suolo statale, radunarsi e pregare illegalmente su suolo pubblico, disturbare l’ordine publico erigendo una croce nel giardino della nunziatura, diffondere notizie distorte su internet.
Il comunicato della diocesi precisa che la proprietà in questione non è dello stato. “Il governo non ha alcuna prova che la Chiesa del Vietnam glielo ha donato, né vi è un decreto di confisca. Essa è perciò ancora proprietà della diocesi”. Da questo punto di vista, i raduni e le preghiere su una proprietà della Chiesa sono perfettamente legali e non possono essere interpretati come “raduni illegali su aree pubbliche”. Anche la statua della Vergine e la croce “erano lì in origine. I fedeli li hanno solo riportati dove erano prima”.
Sulle accuse di diffondere notizie distorte su internet, la diocesi sottolinea che tali articoli “sono stati messi da molte persone e l’arcidiocesi di Hanoi non ne è responsabile”. Ma, continua, “la maggior parte di essi sono accurati ed è diritto dei cittadini, protetto dalla Costituzione” il diffonderli. Al contrario, conclude il comunicato dell’arcidiocesi, “sono la radio e la televisione di Hanoi, il giornale ‘La Nuova Hanoi’ e il ‘Capital security’ ad aver in modo intenzionale distorto la In una dichiarazione del 14 gennaio scorso, il Comitato del popolo di Hanoi ha accusato l’arcivescovo della capitale di “usare la libertà di religione per provocare proteste contro il governo” e così “danneggiare le relazioni fra il Vietnam e il Vaticano”.
di J.B. An Dang
AsiaNews 28/01/2008

2) Arcivescovo di Hanoi: Pronto ad andare in prigione per il mio gregge
Hanoi (AsiaNews) – Continua il sit-in dei cattolici di Hanoi nel giardino dell’ex nunziatura, nonostante l’ultimatum lanciato dal governo di liberare il sito dalle 5 del pomeriggio di domenica scorsa. I giornali statali lanciano una nuova ondata di insulti su vescovo e fedeli. Alcuni cattolici pensano che questo sia un preparare il terreno a un gesto di forza.
Dal 23 dicembre l’edificio della ex nunziatura vaticana nella capitale è punto di raccolta di migliaia di cattolici che domandano di riavere indietro l’edificio sequestrato dallo stato nel ’59 e che ora sta per essere venduto per fare ristoranti e night club. Il governo locale ha già minacciato “azioni estreme” se i gruppi di fedeli che continuano a pregare davanti l’edificio e nel giardino non smettono di “minare all’ordine pubblico”.
P. Joseph Nguyen commenta ad AsiaNews: “Attualmente, nel giardino della ex nunziatura vi sono centinaia di religiosi e religiose, insieme a tanti laici che pregano. Ma vi sono anche un gran numero di poliziotti della sicurezza, in uniforme e in borghese. Si mescolano alla gente e prendono foto, filmano con delle videocamere. Temo che ci possa essere un attacco da un momento all’altro.
L’arcivescovo, mons. Joseph Ngô Quang Kiệt, ci ha detto che pregare è un diritto umano basilare, protetto dalla legge e che lui è pronto ad andare anche in prigione per il suo gregge, se il governo fa una prova di forza”.
Intanto una nuova campagna stampa accusa i fedeli cattolici di essere “ingenui” e di confidare troppo nei loro leader che vogliono “impadronirsi illegalmente dell’edificio”. Anche il giornale della polizia, il Capital security, accusa il clero di Hanoi di “mentire al loro popolo” e di “costringerli a dimostrare contro il governo”.
Joseph Vu Van Khoat,che da venerdì scorso continua il sit-in nel giardino della residenza, bolla le cose dei giornali come “senza senso”. “Non mi interessa quello che scrivono – dice ad AsiaNews. Basta andare per le strade e domandare a chiunque: nessuno crede loro. Tutti sanno che siamo qui per pregare pacificamente e per chiedere giustizia. Ma è il loro lavoro raccontare bugie”.
“Perché non pubblicano sui giornali la dichiarazione dell’arcivescovo?” si domanda Maria Doan Thi Tuyet. Il 28 gennaio a diocesi ha infatti diffuso una dichiarazione in cui si spiega che l’edificio della nunziatura non è mai stato “donato” (come invece pretende il governo locale). Esso inoltre afferma che il raduno dei cattolici è perfettamente legale.
“In quel comunicato – continua la signora Doan Thi Tuyet – l’arcivescovo risponde punto per punto a tutte le accuse della stampa. Noi continuiamo a protestare perché siamo vittime di uno spirito ideologico. Per 30 anni abbiamo presentato richiesta di riavere indietro l’edificio e non abbiamo mai ricevuto risposta. Il governo tratta sempre noi cattolici come cittadini di seconda classe”.
di J.B. An Dang
AsiaNews 30/01/2008

mercoledì 30 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Lettera di Julián Carrón a tutto il movimento di Cl
2) Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2008
3) IL MESSAGGIO PER LA QUARESIMA - ELEMOSINA IL PAPA SPIAZZA ANCORA
4) Monsignor Betori ai politici: il bene comune prima degli interessi di parte
5) E l'ultima figuraccia l'ha fatta con il Papa
6) Il circolo virtuoso delle staminali «etiche»
7) In fila per il processo di Erba Uno sguardo sull’abisso
8) I cristiani sotto tiro nello Stato dell’Orissa



FRATERNITÀ DI COMUNIONE E LIBERAZIONE
associazione di diritto pontificio civilmente riconosciuta

Uffici: Via Porpora, 127 - 20131 Milano - Tel. 02/26149301 - Fax 02/26149340 - e-mail: clfrat@comunioneliberazione.org
Milano, 28 gennaio 2008
Cari amici,
domenica 20 gennaio tanti di noi si sono recati per unmoto spontaneo, come sorto
dall’intimo del cuore, a Piazza San Pietro in segno di comunione col Vescovo di Roma, che per le note vicende aveva rinunciato a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico all’università La Sapienza, dove era stato invitato. Non c’è dubbio che questa vostra mossa è stata il frutto dell’educazione del Movimento a rispondere alle provocazioni della realtà.
La prontezza nella risposta è qualcosa di cui dobbiamo ringraziare Dio, perché è segno dell’incidenza che ha su di noi «quella forma d’insegnamento alla quale siamo stati consegnati» (J. Ratzinger). Infatti non c’è altra spiegazione di questa mobilitazione spontanea, se non la consapevolezza del valore che la figura del Papa ha per la nostra vita. In lui il Signore risorto comunica la Sua vittoria nel tempo e nello spazio della storia umana. Senza la testimonianza autorevole del Successore di Pietro noi saremmo smarriti come tanti nostri contemporanei: l’udienza del 24 marzo dello scorso anno ne è stata una documentazione imponente e segnerà la nostra storia per sempre. Perciò la sequela al Papa coincide con la sequela al contraccolpo della Sua presenza. Ed esige da noi l’impegno di ragione e libertà.
Noi l’abbiamo potuto toccare con mano quando è stato reso pubblico il mancato discorso di Benedetto XVI all’università. In lui risplende quel «compito di mantenere desta la sensibilità per la verità». È la sua testimonianza incrollabile che costituisce per noi la speranza di non soccombere al pericolo del mondo occidentale, da lui denunciato, di arrendersi «davanti alla questione della verità», perché noi sappiamo bene che «se la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita». E in questo modo la ragione «perde il coraggio per la verità» e si rassegna.
Questa grande testimonianza del Santo Padre costituisce per ognuno di noi un eccezionale richiamo a usare la ragione così. Egli ce l’ha offerta in contemporanea con l’inizio della nuova Scuola di comunità sul libro di don Giussani Si può vivere così?, le cui prime pagine trattano della fede come “metodo di conoscenza”. Noi siamo i primi a sentire il bisogno di un’educazione che ci consenta di conoscere la realtà fino in fondo, ad avvertire l’urgenza di cominciare un cammino di conoscenza che ci renda familiare il Mistero. A tre anni dalla sua morte, domandiamo a don Giussani di continuare a farci compagnia sulla strada che ci ha tracciato.
È seguendo la proposta fatta a noi dalla Scuola di comunità che potrà diventare sempre più nostro quello sguardo totalmente spalancato al reale che ammiriamo nel Papa.
Soltanto percorrendo quella strada possiamo veramente conoscere, attraverso il testimone, la realtà di cui parla la fede cristiana.
Questa passione per la ragionevolezza della fede ci è tanto familiare perché don Giussani non ha mai barato con noi, incoraggiandoci ad andare verso la verità in modo tale che la nostra adesione di fede sia dignitosa per la nostra natura di uomini.
Uniti più che mai in questa avventura
don Julián Carrón


Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2008
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 29 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Quaresima 2008.
* * *
“Cristo si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9)
Cari fratelli e sorelle!
1. Ogni anno, la Quaresima ci offre una provvidenziale occasione per approfondire il senso e il valore del nostro essere cristiani, e ci stimola a riscoprire la misericordia di Dio perché diventiamo, a nostra volta, più misericordiosi verso i fratelli. Nel tempo quaresimale la Chiesa si preoccupa di proporre alcuni specifici impegni che accompagnino concretamente i fedeli in questo processo di rinnovamento interiore: essi sono la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Quest’anno, nel consueto Messaggio quaresimale, desidero soffermarmi a riflettere sulla pratica dell’elemosina, che rappresenta un modo concreto di venire in aiuto a chi è nel bisogno e, al tempo stesso, un esercizio ascetico per liberarsi dall’attaccamento ai beni terreni. Quanto sia forte la suggestione delle ricchezze materiali, e quanto netta debba essere la nostra decisione di non idolatrarle, lo afferma Gesù in maniera perentoria: “Non potete servire a Dio e al denaro” (Lc 16,13). L’elemosina ci aiuta a vincere questa costante tentazione, educandoci a venire incontro alle necessità del prossimo e a condividere con gli altri quanto per bontà divina possediamo. A questo mirano le collette speciali a favore dei poveri, che in Quaresima vengono promosse in molte parti del mondo. In tal modo, alla purificazione interiore si aggiunge un gesto di comunione ecclesiale, secondo quanto avveniva già nella Chiesa primitiva. San Paolo ne parla nelle sue Lettere a proposito della colletta a favore della comunità di Gerusalemme (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15,25-27).
2. Secondo l’insegnamento evangelico, noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, i beni materiali rivestono una valenza sociale, secondo il principio della loro destinazione universale (cfr n. 2404).
Nel Vangelo è chiaro il monito di Gesù verso chi possiede e utilizza solo per sé le ricchezze terrene. Di fronte alle moltitudini che, carenti di tutto, patiscono la fame, acquistano il tono di un forte rimprovero le parole di san Giovanni: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17). Con maggiore eloquenza risuona il richiamo alla condivisione nei Paesi la cui popolazione è composta in maggioranza da cristiani, essendo ancor più grave la loro responsabilità di fronte alle moltitudini che soffrono nell’indigenza e nell’abbandono. Soccorrerle è un dovere di giustizia prima ancora che un atto di carità.
3. Il Vangelo pone in luce una caratteristica tipica dell’elemosina cristiana: deve essere nascosta. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, dice Gesù, “perché la tua elemosina resti segreta” (Mt 6,3-4). E poco prima aveva detto che non ci si deve vantare delle proprie buone azioni, per non rischiare di essere privati della ricompensa celeste (cfr Mt 6,1-2). La preoccupazione del discepolo è che tutto vada a maggior gloria di Dio. Gesù ammonisce: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Tutto deve essere dunque compiuto a gloria di Dio e non nostra. Questa consapevolezza accompagni, cari fratelli e sorelle, ogni gesto di aiuto al prossimo evitando che si trasformi in un mezzo per porre in evidenza noi stessi. Se nel compiere una buona azione non abbiamo come fine la gloria di Dio e il vero bene dei fratelli, ma miriamo piuttosto ad un ritorno di interesse personale o semplicemente di plauso, ci poniamo fuori dell’ottica evangelica. Nella moderna società dell’immagine occorre vigilare attentamente, poiché questa tentazione è ricorrente. L’elemosina evangelica non è semplice filantropia: è piuttosto un’espressione concreta della carità, virtù teologale che esige l’interiore conversione all’amore di Dio e dei fratelli, ad imitazione di Gesù Cristo, il quale morendo in croce donò tutto se stesso per noi. Come non ringraziare Dio per le tante persone che nel silenzio, lontano dai riflettori della società mediatica, compiono con questo spirito azioni generose di sostegno al prossimo in difficoltà? A ben poco serve donare i propri beni agli altri, se per questo il cuore si gonfia di vanagloria: ecco perché non cerca un riconoscimento umano per le opere di misericordia che compie chi sa che Dio “vede nel segreto” e nel segreto ricompenserà.

4. Invitandoci a considerare l’elemosina con uno sguardo più profondo, che trascenda la dimensione puramente materiale, la Scrittura ci insegna che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr At 20,35). Quando agiamo con amore esprimiamo la verità del nostro essere: siamo stati infatti creati non per noi stessi, ma per Dio e per i fratelli (cfr 2 Cor 5,15). Ogni volta che per amore di Dio condividiamo i nostri beni con il prossimo bisognoso, sperimentiamo che la pienezza di vita viene dall’amore e tutto ci ritorna come benedizione in forma di pace, di interiore soddisfazione e di gioia. Il Padre celeste ricompensa le nostre elemosine con la sua gioia. E c’è di più: san Pietro cita tra i frutti spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità - egli scrive - copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8). Come spesso ripete la liturgia quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e, proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli.
5. L’elemosina educa alla generosità dell’amore. San Giuseppe Benedetto Cottolengo soleva raccomandare: “Non contate mai le monete che date, perché io dico sempre così: se nel fare l’elemosina la mano sinistra non ha da sapere ciò che fa la destra, anche la destra non ha da sapere ciò che fa essa medesima” (Detti e pensieri, Edilibri, n. 201). Al riguardo, è quanto mai significativo l’episodio evangelico della vedova che, nella sua miseria, getta nel tesoro del tempio “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44). La sua piccola e insignificante moneta diviene un simbolo eloquente: questa vedova dona a Dio non del suo superfluo, non tanto ciò che ha, ma quello che è. Tutta se stessa.
Questo episodio commovente si trova inserito nella descrizione dei giorni che precedono immediatamente la passione e morte di Gesù, il quale, come nota san Paolo, si è fatto povero per arricchirci della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9); ha dato tutto se stesso per noi. La Quaresima, anche attraverso la pratica dell’elemosina ci spinge a seguire il suo esempio. Alla sua scuola possiamo imparare a fare della nostra vita un dono totale; imitandolo riusciamo a renderci disponibili, non tanto a dare qualcosa di ciò che possediamo, bensì noi stessi. L’intero Vangelo non si riassume forse nell’unico comandamento della carità? La pratica quaresimale dell’elemosina diviene pertanto un mezzo per approfondire la nostra vocazione cristiana. Quando gratuitamente offre se stesso, il cristiano testimonia che non è la ricchezza materiale a dettare le leggi dell’esistenza, ma l’amore. Ciò che dà valore all’elemosina è dunque l’amore, che ispira forme diverse di dono, secondo le possibilità e le condizioni di ciascuno.
6. Cari fratelli e sorelle, la Quaresima ci invita ad “allenarci” spiritualmente, anche mediante la pratica dell’elemosina, per crescere nella carità e riconoscere nei poveri Cristo stesso. Negli Atti degli Apostoli si racconta che l’apostolo Pietro allo storpio che chiedeva l’elemosina alla porta del tempio disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Con l’elemosina regaliamo qualcosa di materiale, segno del dono più grande che possiamo offrire agli altri con l’annuncio e la testimonianza di Cristo, nel Cui nome c’è la vita vera. Questo periodo sia pertanto caratterizzato da uno sforzo personale e comunitario di adesione a Cristo per essere testimoni del suo amore. Maria, Madre e Serva fedele del Signore, aiuti i credenti a condurre il “combattimento spirituale” della Quaresima armati della preghiera, del digiuno e della pratica dell’elemosina, per giungere alle celebrazioni delle Feste pasquali rinnovati nello spirito. Con questi voti imparto volentieri a tutti l’Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, 30 ottobre 2007
BENEDICTUS PP. XVI


IL MESSAGGIO PER LA QUARESIMA - ELEMOSINA IL PAPA SPIAZZA ANCORA
Avvenire, 30.1.2008
DAVIDE RONDONI
Come uno che, mentre la folla si dirige in un senso, va dall’altra parte. E però, mostrando il volto alla folla controcorren­te, ridesta in coloro che lo osservano qual­cosa di grande: un desiderio, un ricordo. Sembra questo il destino del cristiano di oggi. Lo si vede anche leggendo il messag­gio per la Quaresima di Benedetto XVI.
Mentre tutti parlano di crisi economica, di difficoltà a guadagnare abbastanza, di spre­chi della politica e di prezzi alle stelle per il gas come per i quadri d’arte, ecco che il Pa­pa si mette a parlare dell’elemosina. Anco­ra prendendo in contropiede, ma ancora rammentando a tutti qualcosa di essen­ziale. Senza l’essenziale, infatti, ogni preoc­cupazione anche legittima e giusta – come quella di cavarsela con i soldi – rischia di tra­sformarsi in ansia quasi patologica degli in­dividui e della società. Perciò, mentre tutti si preoccupano dei soldi, il Papa ci parla dell’elemosina. Di quel gesto che si com­pie per aiutare il povero e per rammentarsi che non siamo padroni della vita e dei suoi beni. E per ricordarci quella verità straordinariamente semplice e che però spesso dimentichiamo: c’è più soddisfazione nel donare che nel ricevere. Il che equivale a dire che la natura umana è fatta per amare.
Senza la gioia di do­nare, una società non riesce a far fronte nemmeno alla necessità dello sviluppo e della cre­scita. L’elemosina è un gesto realista, non eccezionale. Realista perché prende atto che il bisogno dei poveri intorno a noi è tale che tante nostre pretese e lamenti suonano spesso addirittura indegni. E si tratta di un gesto non eccezionale, perché dovrebbe avvenire, come ricorda il Vange­lo, senza che la mano sinistra sappia cosa fa la destra.
Il Papa, dopo aver ricordato che i beni ci vengono dati per aiutare tutti, insiste sul rischio di quel che chiamerei 'carità-spetta­colo'. Ovvero, la tendenza in una società dell’immagine a usare anche un’opera di elemosina per avere un tornaconto di autopromozione. Mentre, insiste con pacata fermezza Benedetto XVI, la carità implica l’atteggiamento interiore e, dunque, di­screto di una conversione a Cristo. L’elemosina fatta con il cuore gonfio di vanagloria è fuori del Vangelo. Fare la carità non è filantropia strombazzata ai quattro venti. Gesù come esempio di carità non porta l’azione eccezionale di qualche filantropo, ma il gesto dell’unica moneta donata al tempio dalla vedova povera. Lei a Dio offre tutto di sé, certi filantropi danno il surplus e a patto che si parli molto di loro.
Il Papa, nel suo messaggio, ricorda quei tan­ti che nel nostro popolo in modo discreto, a volte anonimo, aiutano il prossimo. L’Ita­lia dei bisognosi, dei veri indigenti – di qua­lunque razza –, deve la propria sussistenza molto di più a tante persone come la 've­dova povera' che a Istituzioni e a filantro­pi da spot televisivo.
Con sano realismo, il cardinale Cordes, pre­sentando il documento papale, ha inoltre richiamato il fatto che negli organismi ecclesiali dedicati alla carità la percentuale delle offerte raccolte usata per le spese amministrative oscilla tra il 3% e il 9%, mentre in tante istituzioni filantropiche si arriva a volte al 50%.
Di recente, anche alcuni noti uomini di cultura si sono interrogati su che cosa signifi­chi aiutare il prossimo. Un grande scritto­re, penna di punta di un grande quotidia­no laico (e laicista), Pietro Citati, ha rac­contato del suo normale gesto di elemosi­na. Non lo ha fatto certo per vanagloria, ma per ricordare quanto tali gesti semplici for­mano la qualità della vita e dell’anima. Nel più fine intellettuale come nel più illettera­to. Infatti la Quaresima di cui parla il Papa è proposta a tutti. Momento in cui ci si sco­pre poveri tutti. E bisognosi tutti, mendi­canti di Cristo e dei fratelli.



Monsignor Betori ai politici: il bene comune prima degli interessi di parte
Presentate le conclusioni della Consiglio permanente della CEI
Di Mirko Testa
ROMA, martedì, 29 gennaio 2008 (ZENIT.org).- A fronte della crisi attraversata dall'Italia in questo momento, il Segretario generale della Conferenza episcopale italiana (CEI), monsignor Giuseppe Betori, ha invitato i politici ad anteporre il bene comune agli interessi di parte.
E' quanto ha detto, questo martedì, il presule durante la conferenza stampa tenutasi presso la “Radio Vaticana” a conclusione dei lavori del Consiglio episcopale permanente della CEI, che si è riunito a Roma dal 21 al 24 gennaio.
Alle domande dei giornalisti circa una indicazione dei Vescovi per la crisi apertasi con la caduta del governo Prodi, monsignor Betori ha detto che “la Chiesa non deve e non intende coinvolgersi in alcuna scelta di schieramento politico o di partito”.
“Non si esprimono quindi preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale o elettorale purché sia sempre rispettosa della democrazia”, ha aggiunto.
Successivamente, ha espresso pieno appoggio e fiducia per l’operato del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per “l’amore che egli ha per il Paese e nelle sue capacità di giudizio, ovviamente all’interno delle possibilità che gli saranno permesse”.
Senza avanzare giudizi sull'ipotesi di un nuova leadership di potere, il presule ha poi rivolto “a tutti i soggetti politici l’esortazione a mettere anzitutto avanti il bene comune rispetto agli interessi di parte”.
In merito, invece, ai lavori del Consiglio episcopale permanente, monsignor Betori ha spiegato che "non si è parlato della crisi di governo" e che i Vescovi italiani hanno condiviso l’ispirazione di fondo sviluppata nella sua prolusione dal Presidente della CEI, il Cardinale Angelo Bagnasco, individuando nell'enciclica Spe salvi la chiave di lettura del delicato momento presente.
Come si afferma, infatti, nel comunicato finale l'enciclica “fornisce le categorie per un’analisi realistica anche della vita del nostro Paese, attraversato da molteplici contraddizioni sia sul versante antropologico – in cui sono posti radicalmente in questione i valori della vita e della famiglia fondata sul matrimonio – sia su quello sociale – con la crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni, il vacillare della coesione sociale e il crescere delle situazioni di povertà e di degrado ambientale”.
“In un contesto tanto problematico, i cristiani sono chiamati a offrire una credibile testimonianza in tutti i campi”, perché la fede, affermano i presuli citando la Spe salvi, “lungi dal falsare la lettura dei fatti, offre all’analisi un valore aggiunto, che è 'quella resistenza, quella lucidità di giudizio, quella carità profonda che fanno sperimentare la vita, e la vita in abbondanza'”.
Per questo, i membri del Consiglio Permanente si sono detti convinti che, “con la sua testimonianza pubblica e grazie alla capillarità della sua presenza vicina alla gente, la Chiesa vuole aiutare il Paese a riprendere il cammino, a recuperare fiducia nelle proprie possibilità, a riguadagnare un orizzonte comune”.
Come prova di questa rinnovata volontà di accompagnare il cammino del Paese i presuli hanno scelto il tema dei giovani e della loro educazione come argomento principale della prossima Assemblea generale dei Vescovi, che si terrà a Roma dal 26 al 30 maggio prossimo.
“Infatti – aggiungono ancora i presuli nel comunicato finale – , sono proprio le giovani generazioni l’ambito sociale ed ecclesiale più esposto ai turbamenti e alle incertezze del tempo presente, e perciò più bisognoso di essere accompagnato nel processo di discernimento e di maturazione, stimolandolo a esplicitare tutte le potenzialità che lo caratterizzano”.
Il Segretario generale della CEI ha poi parlato delle prove affrontate dalla fede cristiana, che la spingono sempre più verso una sorta di “criptodiaspora”, cioè a “rinchiudersi in spazi intraecclesiali”, oppure a “derive di una religione puramente civile”, “che toglie all’evangelizzazione la sua nota di eccedenza rispetto a ogni ideologia meramente umana”.
Riguardo al clima dominante in Italia, il presule ha lamentato la presenza di “una sottile vena anticlericale” sempre all’opera nella cultura italiana, e che “acquisisce credibilità qua e là sia negli ambiti culturali sia in ambiti sociali e qualche volta anche negli ambiti politici”.
Durante i lavori assembleari i presuli hanno lavorato alle linee portanti di alcuni documenti di prossima pubblicazione e riguardanti: la pastorale dei matrimoni tra cattolici e battisti in Italia; la formazione all’impegno sociale attraverso una educazione alla vita cristiana e una sensibilizzazione al volontariato; i venti anni della riforma del sistema di sostegno economico della Chiesa in Italia; e infine alcuni orientamenti pratici per i rapporti in ambito pastorale con migranti appartenenti a Chiese ortodosse.


30.01.2008, E l'ultima figuraccia l'ha fatta con il Papa, di Andrea Tornielli, IlGiornale


Il circolo virtuoso delle staminali «etiche» Avvenire, 30.1.2008
ASSUNTINA MORRESI
N egli Stati Uniti saranno forse aumentati i fondi federali a favore della 'ricerca etica', cioè di quelle indagini medico-scientifiche rispettose della vita umana fin dal suo inizio, e quindi – per intenderci – che non manipolino o distruggano embrioni umani. L’ha annunciato George Bush nell’annuale 'discorso sullo stato dell’Unione' – l’ultimo prima della fine del mandato – confermando il ruolo chiave svolto dalla sua presidenza nell’influenzare la ricerca scientifica mondiale. Nel 2001 Bush decise di finanziare solamente la ricerca su embrioni che a quella data fossero già stati trasformati in linee cellulari, negando soldi pubblici a progetti che prevedessero la creazione o l’uso di nuovi embrioni. Cinque anni dopo confermò la decisione ponendo il veto a una legge che avrebbe concesso di utilizzare embrioni congelati, considerati in eccesso nelle cliniche per la fecondazione assistita. Significativamente, il veto fu annunciato alla stampa in presenza dei bambini ribattezzati 'fiocchi di neve', nati cioè da embrioni dapprima congelati e poi dati in adozione. L’amministrazione Bush ha così impedito che un fiume immenso di denaro e una quantità proporzionale di energie umane fossero impegnati nella creazione e distruzione seriale di embrioni umani in laboratorio. Il blocco al finanziamento pubblico di questo tipo di ricerca, lungi dal deprimere la ricerca, ha finito per spingere gli scienziati del settore a trovare strade alternative. E i risultati non hanno tardato ad arrivare: negli ultimi mesi si sono moltiplicate infatti le pubblicazioni scientifiche sulle cosiddette 'staminali etiche', cioè quelle cellule potenti quanto le embrionali ma ricavate dalla pelle dell’adulto e fatte regredire grazie a una particolare forma di manipolazione. Lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka ha scovato il principio alla base di questa procedura e l’ha messo a punto utilizzando esclusivamente topi, dimostrando che tutto questo filone di ricerca si sarebbe potuto sviluppare con modelli animali, senza mai distruggere embrioni umani. Ed è stato lo stesso Yamanaka a dichiarare che l’idea di lavorare per questo scopo gli venne dopo aver guardato un embrione umano al microscopio, avendolo trovato molto simile a sua figlia. Il rilancio di Bush alla luce di questa scoperta ha un significato che non deve sfuggire. Potenziare questo nuovo settore con fondi pubblici innescherà infatti un circolo virtuoso, aumentando il numero degli scienziati coinvolti e le loro risorse, e quindi anche le probabilità di ottenere risultati. Non dimentichiamo che, a tutt’oggi, non esistono protocolli terapeutici che prevedono l’utilizzo di staminali embrionali, a differenza di quanto accade per quelle adulte, già utilizzate con successo per numerose patologie.
Mentre l’America scommette senza indugi sulle nuove linee di ricerca, l’Europa arranca. Il ministro della ricerca scientifica Fabio Mussi sarà ricordato per aver sdoganato in Europa una ricerca ormai vecchia, rendendo disponibili fondi pubblici europei per studi che comportano la distruzione di embrioni umani. Un atto miope e ideologico.
Mussi ha poi perso l’ultima occasione per recuperare il passo falso, snobbando la proposta di moratoria europea sulla ricerca embrionale lanciata dalle colonne di questo giornale perché si continui a lavorare solamente sulle linee cellulari già esistenti – come insegna Bush – concentrando tutti gli sforzi nel perfezionamento delle nuove tecniche 'etiche'. Nel frattempo in Gran Bretagna sono state concesse due licenze per la creazione di embrioni ibridi uomo-animale, una ricerca con basi scientifiche fumose, ma in compenso con tanti problemi giuridici.
In un panorama simile, non è difficile prevedere che ancora una volta sarà la scelta americana a dimostrarsi vincente.


In fila per il processo di Erba Uno sguardo sull’abisso
Avvenire, 30.1.2008
MARINA CORRADI
Q ualcuno si è messo in coda dalle cinque del mattino, come per accaparrarsi i biglietti della prima della Scala. Qualcuno, dotato di senso degli affari, quel biglietto l’ha rivenduto al migliore offerente – e di offerenti non ne sono mancati. E ora gli spettatori (anche se meno numerosi del previsto) si accalcano davanti all’ingresso del tribunale di Como, casalinghe, pensionati, ma anche ragazzi di vent’anni. E a chi chiede loro perché, e cosa vengono a vedere, rispondono: le facce di quei due.
Quei due, Rosa Bazzi e Olindo Romano, che hanno confessato e poi ritrattato, e ora lottano contro prove come macigni, in corsa contro l’ergastolo. Quei due assassini presunti per la legge, per cui alcuni fuori dall’aula hanno già deciso la condanna, e stabilirebbero forse volentieri anche la pena - una sommessa nostalgia di pena di morte si aggirava il giorno dell’arresto, nei crocchi davanti al cancello di via Diaz 25.
E dunque questa volta non è il 'giallo', non è un mistero come a Garlasco o come a Cogne a accendere una curiosità morbosa. La gente in coda non dubita un istante che gli autori del massacro siano i coniugi Romano. E’ un’altra, l’ansia: vedere in faccia, piantare gli occhi addosso ai prigionieri. Che ora se ne stanno, dietro le sbarre, mano nella mano. Così normali, così banali. Anche prima di quella notte d’inverno Olindo e Rosa apparivano, agli occhi della gente di Erba, la coppia più normale del mondo. Gran lavoratori, lui netturbino, lei una colf perfetta. La casa acquistata con tanti sacrifici sempre tirata a lustro. Sì, in lite coi vicini rumorosi, ma in quale cortile non succedono queste cose? Olindo e Rosa parevano una coppia modello. Proprio questo turba ancora di più, dopo il massacro – dopo che in quella casa sono stati uccisi in quattro, e anche, pensiero intollerabile, il bambino. Che uomini apparentemente come tanti possano essere stati capaci di un simile male, genera un sussulto viscerale di sgomento.
(Se due lavoratori onesti, la fedina penale intonsa, hanno fatto questo, vogliamo vederli in faccia. Fateceli vedere – quasi a cercare negli sguardi, nelle parole qualcosa di radicalmente diverso da noi).
E però questa esigenza coatta di vedere sembra celare, insieme all’ansia di prendere le distanze, simmetrico e uguale, anche il suo contrario. Come la voglia oscura di affacciarsi su un abisso. Seduti dietro le transenne in un’aula d’Assise, voglia di sporgersi in giù verso quel pozzo nero di male scoppiato una notte in una quieta città. Cos’è stato quel gorgo venuto su improvvisamente come dal nulla, da quali inferi è uscito, e quei due, perché proprio loro ne sono stati ingoiati?
Sembravano gente a posto. (Anche noi, tante volte, abbiamo la vaga idea di fare del male, e poi restano soltanto pensieri.
Come mai quell’uomo e quella donna, invece, così avvinghiati nell’odio, e dall’odio ciecamente manovrati?) Sporgersi sull’abisso in un’aula di tribunale, oppure anche seduti davanti alla tv. E certo è vero che a queste pulsioni i media fanno da volano, e ne allargano il contagio. Ma non ne sono in realtà gli autori. Le folle che nei secoli si raccoglievano attorno ai patiboli non obbedivano forse a una simile inquietudine? Vedere coi propri occhi gli assassini. Guardarli da vicino, tra la ripugnanza e la paura, quegli stranieri che ora, passata la furia, hanno facce di uomini non così diversi da noi. Avvicinarsi all’abisso, e rassicurarsi: a noi, quella voragine buia non potrà prenderci.
Accarezzare – senza magari ammetterlo apertamente – forse perfino l’idea di una morte data come in un rito catartico, che ricomponga l’ordine e la pace violati. Per affermare che non c’entriamo, noi, con quella oscura vertigine. Immemori, dimentichi della più antica nostra preghiera. Liberaci dal Male, dicono da duemila anni i cristiani: consci d’averlo addosso, come un’orma antica.


LIBERTÀ NEGATA
India segreta
I cristiani sotto tiro nello Stato dell’Orissa

Avvenire, 30.1.2008
DI STEFANO VECCHIA
« S ono arrivati attorno alle 7,30 di sera del 24 dicembre, armati di spade, pistole, sbarre di ferro e asce. Sono entrati nel complesso della par­rocchia sfondando il portone. Una volta dentro, hanno e minacciato sacerdoti e suore. Poi hanno puntato le armi contro i laici che stavano preparando gli addobbi per la messa di Natale. Siamo scappati nel­la foresta, da dove abbiamo visto levarsi le fiamme che distruggevano la chiesa, la re­sidenza del parroco e l’ostello per i nostri ragazzi. Tutto è bruciato...». La testimo­nianza di padre Laxmikanta Pradhan, par­roco di Balliguda, nei giorni scorsi anco­ra nascosto nei dintorni della parrocchia, esprime il dramma vissuto dai cristiani del distretto di Kandhamal, Stato indiano o­rientale di Orissa, lo scorso Natale. Un e­pisodio di una sequenza che sembra in­terminabile.
Oggi, l’India ricorda il 60° anniversario del­l’assassinio del Mahatma Gandhi da par­te di un fanatico hindu. Gli eventi di un mese fa in Orissa e la manifesta incapacità delle autorità di controllare il fanatismo religioso e, dietro ad esso, gli interessi che incentivano odio e distruzione tre le co­munità, ricordano al Paese e al mondo che oggi 'la più grande democrazia del mon­do' è ancora lontana dall’ideale di convi­venza e dialogo che la Grande Anima a­vrebbe voluto e per cui si è sacrificato.
Il Natale, un evento mondiale di gioia e di pace, si è trasformato in incubo per le co­munità cristiane dell’Orissa. Una settan­tina di chiese, scuole, orfanotrofi, ostelli, conventi dati alle fiamme o comunque de­vastati. Almeno sei i morti e decine i feri­ti. Al punto da far dire ai responsabili ec­clesiali locali che, «mentre il mondo ri­cordava il terzo anniversario dello tsuna­mi del 26 dicembre 2004 che devastò le coste dell’Oceano Indiano, il distretto di Kandhamal veniva colpito dall’'onda a­nomala' della violenza interreligiosa». Il distretto, e l’intero stato di Orissa, sono tutt’altro che paradisi della convivenza e del benessere. Qui, la popolazione è tra le più povere dell’India e gli hindu tra i più accaniti sostenitori delle discriminazioni legati all’appartenenza o all’esclusione dal sistema delle caste.
La fede cristiana si è affacciata in Orissa ol­tre tre secoli fa, ma il suo sviluppo è più re­cente, risalendo agli ultimi 150 anni. Le cinque diocesi raccolgono 500mila catto­lici su 37 milioni di abitanti. Complessi­vamente i cristiani di varie denominazio­ni sono un milione, in questo Stato carat­terizzato da un’alta percentuale di caste basse, gruppi fuoricasta e tribali (il 39% della popolazione). «Nonostante le diffi­coltà la nostra Chiesa è fiorente e in cre­scita, con un buon numero di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa –, dice l’ar­civescovo di Cuttack-Bhubaneswar, mon­signor Raphael Cheenath –. La ricostru­zione materiale è sempre possibile, anche per la solidarietà dei cattolici di tutta l’In­dia, ma per ricostruire la fiducia occorrerà lungo tempo, e molto dipenderà da come le autorità dimostreranno di essere in gra­do di controllare la situazione».
I problemi per Kandhamal erano iniziati la Vigilia di Natale, alle 8 del mattino nel villaggio di Bamunigam, non lontano dal posto di polizia di Daringabadi. Qui, la Hui Kalyan Samiti, una comunità tribale, ave­va organizzato una protesta che nulla ha a che fare con la religione, ma riguarda e­sclusivamente la politica, una miccia da accendere. I cristiani, sospettando un tra­nello, avevano già informato dei loro ti­mori il sovrintendente di polizia del di­stretto di Kandhamal due giorni prima, ot­tenendo una promessa di protezione in caso di incidenti.
«Avevo raccomandato ai miei sacerdoti di mettersi in salvo non appena fossero ve­nuti a conoscenza di un attacco immi­nente. Questo ha probabilmente salvato altre vite, ma ha permesso ai fondamen­talisti di distruggere a loro piacimento», testimonia ancora l’arcivescovo Cheenath. Da mesi il gruppo hindu Sangh Parivar, sotto la guida di Swami Laxmananda Sa­raswati – un estremista autroproclamato­si sadhu (asceta) – stava preparandosi. Co­me dimostra la rapidità degli attacchi e la convergenza quasi dal nulla di oltre 200 facinorosi nella parrocchia di Bamunigam e tra 400 e 500 a Balliguda, luogo dei di­sordini peggiori. Qui gli assalitori sono ar­rivati su camion e fuoristrada, dotati di strumenti che potessero provocare la mas­sima distruzione nel minore tempo pos­sibile.
Tutte le vie di accesso a Kandhamal erano state bloccate in poche ore, utilizzando grossi alberi messi di traverso sulle strade, un fatto, questo, tra i pochi ammessi dal­l’amministrazione locale. Gli assalitori e­rano raggruppati in modo da potere assa­lire contemporaneamente sette diverse lo­calità.
Insomma, le testimonianze concordano sul fatto che senza una pianificazione at­tenta non sarebbe stato possibile il sac­cheggio di Kandhamal in soli tre giorni. E senza connivenze e protezioni, oltre che con il disinteresse delle forze dell’ordine. Un gruppo di esponenti cattolici che ave­va raggiunto la regione per indagare sui disordini è stato espulso dal distretto dal­la stessa polizia e soltanto successiva­mente a esso è stato concesso di tornare, ma contando soltanto – come conferma John Dayal, giornalista e leader laico – sul sostegno delle comunità cristiane e di al­cuni hindu.
A fine dicembre un’ondata di attacchi degli estremisti hindu contro la comunità di Kandhamal. Almeno sei i morti e decine i feriti. Una settantina di chiese, scuole, orfanotrofi, ostelli, conventi dati alle fiamme o comunque devastati. Nel silenzio delle autorità


Vescovi: ci sono prove scientifiche

Avvenire, 30.1.2008
DA MILANO ENRICO NEGROTTI
«Si tratta di un filone di ricerca talmente pro­mettente che il Giappone ha recentemen­te deciso di fare investimenti strategici e­normi. Quel che spiace è che in Italia da almeno quat­tro anni potevamo metterci su questo filone di ricer­ca, ma per motivi ideologici siamo rimasti prigionieri del dibattito con coloro che difendevano l’utilità del­la clonazione». Angelo Vescovi, docente di Biologia al­l’Università di Milano-Bicocca e direttore scientifico del Centro «Brain Repair» di Terni, non si stupisce delle pa­role del presidente americano, ma puntualizza: «Gli scienziati, ovviamente, spostano il loro interesse do­ve la presenza di risorse offre la possibilità di lavorare meglio. E in questo caso, la scelta etica di Bush ha a­vuto il sostegno dell’evidenza scientifica».
Come valuta le parole del presidente Bush che invita gli scienziati a puntare su ricerche «etiche» e promette fondi in questo senso?
Non mi stupiscono. Il presidente americano aveva già fatto sapere di ritenere importante il movente etico­morale nelle ricerche basato sul rispetto della vita u­mana. È una sua visione, che peraltro condivido. Ma in questo caso c’è una spiegazione molto logica e ra­zionale, visto che i lavori di Yamanaka e di Thomson hanno dimostrato la bontà di una linea di ricerca che può fare a meno degli embrioni.
Queste ricerche sono state infatti citate dal presiden­te Usa. Sono sufficienti a garantire la svolta?
Credo di sì. Le ottime prospettive di questo filone di ricerca sono confermate dal fatto che proprio James Thomson, che nel 1998 aveva dato avvio agli studi sul­le staminali embrionali umane, abbia deciso di dedi­carsi a questa nuova via. E scommetterei che lo scien­ziato americano sia stato revisore per il lavoro di Ya­manaka su Cell.
Ma dal punto di vista dei finanziamenti, la scelta a­mericana potrà influenzare anche altri soggetti?
La svolta è già arrivata. Il governo giapponese ha già deciso di finanziare massicciamente questo tipo di ri­cerche, ne ha capito l’importanza e ne farà un settore strategico della biomedicina, così come ha investito in passato nelle tecnologie informatiche e delle teleco­municazioni. La notizia delle scelta giapponese, tra l’altro, è stata pubblicata su «Nature», ma da noi non è stata evidenziata da noi perché forse non piaceva. Quello che mi dispiace è che in Italia potevamo esse­re all’avanguardia in questo settore di ricerca, quan­do quattro anni fa io (e pochi altri) sottolineavo che si potevano tentare altre strade che non fossero la clo­nazione. Invece si preferì insistere in un dibattito i­deologico per sostenere l’importanza della clonazio­ne. E lo stesso sta accadendo ora con gli embrioni i­bridi.
È stata una scelta etica a sorreggere gli scienziati?
Non solo e non del tutto. Sicuramente in ambito bio­tecnologico, dove ruotano anche forti interessi eco­nomici, la ricerca si sviluppa in primo luogo lungo le linee che appaiono più foriere di risultati. In secondo luogo su quelle più moralmente accettabili, perché in tal modo incontrano minori resistenze da parte della società civile. E oserei dire che la ricerca moralmente accettabile tende a essere quella più proficuamente perseguibile.
Ma è solo una questione di finanziamenti a spingere la ricerca? O gli scienziati, come spesso si sente ripe­tere, sono in grado di autoregolamentarsi verso so­luzioni eticamente accettabili?
È normale che gli scienziati seguano le ricerche che of­frono maggiori possibilità di sviluppo perché attirano più finanziamenti. E il governo statunitense è un po­tere forte, in grado di dirottare ingenti risorse. Ma in questo caso occorre anche rimarcare che il sollevare il problema etico ha costretto gli scienziati a cercare al­tre vie dalla clonazione, che solo solo apparentemen­te era la più facile: in realtà è assurda, si vuole andare da Milano a Varese passando per Pechino. Yamanaka ha cercato una strada diversa, ma l’obiezione etica è stata sollevata dalla società civile.
Il biologo: anche il Giappone ha deciso enormi stanziamenti per quello che appare ormai un settore strategico promettente Peccato che in Italia siamo rimasti indietro a discutere sull’utilità della clonazione

martedì 29 gennaio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI: per una scienza con coscienza
2) San Tommaso D'Aquino e la teologia della santità
3) La dolorosa illusione della pillola contro la responsabilità
4) Ruini: restituire alle donne la libertà di non abortire
5) Quanti inganni dietro la pillola del giorno dopo
6) Bruno Forte riflette sul vuoto morale degli attacchi condotti dagli 'ateologi'


Benedetto XVI: per una scienza con coscienza
Discorso ai partecipanti a un Colloquio interaccademico
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 28 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da Benedetto XVI questo lunedì rivolgendosi ai partecipanti al Convegno interaccademico sul tema: "L’identité changeante de l’individu" ("L'identità mutevole dell'individuo") promosso dalla Académie des Sciences di Parigi e dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
* * *
Signori Cancellieri,
Eccellenze,
Cari Amici Accademici,
Signore e Signori,

È con piacere che vi accolgo al termine del vostro Convegno che si conclude qui a Roma, dopo essersi svolto nell'Istituto di Francia, a Parigi, e che è stato dedicato al tema "L'Identità mutevole dell'individuo". Ringrazio prima di tutto il Principe Gabriel de Broglie per le parole di omaggio con le quali ha voluto introdurre il nostro incontro. Desidero parimenti salutare i membri di tutte le istituzioni sotto la cui egida è stato organizzato questo Convegno: la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, l'Accademia delle Scienze Morali e Politiche, l'Accademia delle Scienze, l'Istituto Cattolico di Parigi. Sono lieto del fatto che, per la prima volta, una collaborazione interaccademica di tale natura si sia potuto instaurare, aprendo la via ad ampie ricerche pluridisciplinari sempre più feconde.
Mentre le scienze esatte, naturali e umane, hanno fatto prodigiosi progressi nella conoscenza dell'uomo e del suo universo, grande è la tentazione di voler circoscrivere completamente l'identità dell'essere umano e di chiuderlo nel sapere che ne può derivare. Per non intraprendere questa via, è importante dare voce alla ricerca antropologica, filosofica e teologica, che permette di far apparire e mantenere nell'uomo il suo mistero, poiché nessuna scienza può dire chi è l'uomo, da dove viene e dove va. La scienza dell'uomo diviene dunque la più necessaria di tutte le scienze. È il concetto espresso da Giovanni Paolo II nell'Enciclica Fides et ratio: "Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento.
Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge" (n. 83). L'uomo va sempre al di là di quello che di lui si vede o si percepisce attraverso l'esperienza. Trascurare l'interrogativo sull'essere dell'uomo porta inevitabilmente a rifiutare di ricercare la verità obiettiva sull'essere nella sua integrità e, in tal modo, a non essere più capaci di riconoscere il fondamento sul quale riposa la dignità dell'uomo, di ogni uomo, dalla fase embrionale fino alla sua morte naturale.
Nel corso del vostro convegno, avete sperimentato che le scienze, la filosofia e la teologia possono aiutarsi nel percepire l'identità dell'uomo, che è sempre in divenire. A partire da un interrogativo sul nuovo essere derivato dalla fusione cellulare, che è portatore di un patrimonio genetico nuovo e specifico, avete messo in luce elementi fondamentali del mistero dell'uomo, caratterizzato dalla alterità: essere creato da Dio, essere a immagine di Dio, essere amato fatto per amare. In quanto essere umano, non è mai chiuso in se stesso; è sempre portatore di alterità e si trova fin dalla sua origine ad interagire con altri esseri umani, come ci rivelano sempre più le scienze umane. Come non ricordare qui la meravigliosa meditazione del salmista sull'essere umano, tessuto nel segreto del seno di sua madre e allo stesso tempo conosciuto, nella sua identità e nel suo mistero, da Dio solo, che lo ama e lo protegge (cfr Sal 138, 1-16)!
L'uomo non è il frutto del caso, e neppure di un insieme di convergenze, di determinismi o di interazioni psico-chimiche; è un essere che gode di una libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la trascende, e che è il segno del mistero di alterità che lo abita. È in questa prospettiva che il grande pensatore Pascal diceva che "l'uomo supera infinitamente l'uomo". Questa libertà, che è propria dell'essere uomo, fa sì che quest'ultimo possa orientare la sua vita verso un fine, possa, con le azioni che compie, volgersi verso la felicità alla quale è chiamato per l'eternità. Questa libertà dimostra che l'esistenza dell'uomo ha un senso. Nell'esercizio della sua autentica libertà, la persona soddisfa la sua vocazione; si realizza e dà forma alla sua identità profonda. È anche nella messa in atto della sua libertà che esercita la propria responsabilità sulle sue azioni. In tal senso, la dignità particolare dell'essere umano è al contempo un dono di Dio e la promessa di un futuro.
L'uomo ha in sé una capacità specifica: quella di discernere ciò che è buono e bene. Posta in lui dal Creatore come un sigillo, la sinderesi lo spinge a fare il bene. Maturo grazie ad essa, l'uomo è chiamato a sviluppare la propria coscienza attraverso la formazione e l'esercizio, per procedere liberamente nell'esistenza, fondandosi sulle leggi fondamentali che sono la legge naturale e quella morale. Nella nostra epoca, in cui lo sviluppo delle scienze attira e seduce mediante le possibilità offerte, è più importante che mai educare le coscienze dei nostri contemporanei, affinché la scienza non divenga il criterio del bene e l'uomo sia rispettato come il centro del creato e non sia oggetto di manipolazioni ideologiche, né di decisioni arbitrarie o abusi dei più forti sui più deboli. Pericoli di cui abbiamo conosciuto le manifestazioni nel corso della storia umana, e in particolare nel corso del ventesimo secolo.
Qualsiasi pratica scientifica deve essere anche una pratica di amore, chiamata a mettersi al servizio dell'uomo e dell'umanità, e ad apportare il suo contribuito all'edificazione dell'identità delle persone. In effetti, come ho sottolineato nell'Enciclica Deus caritas est, "L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo... Amore è "estasi"... ma estasi come cammino, come esodo permanente dell'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, proprio così verso il ritrovamento di sé" (n. 6). L'amore fa uscire da se stessi per scoprire e riconoscere l'altro; aprendo all'alterità, afferma anche l'identità del soggetto, poiché l'altro mi rivela me stesso. In tutta la Bibbia è questa l'esperienza fatta, a partire da Abramo, da numerosi credenti. Il modello per eccellenza dell'amore è Cristo. È nell'atto di dare la propria vita per i fratelli, di donarsi completamente che si manifesta la sua identità profonda e che troviamo la chiave di lettura del mistero insondabile del suo essere e della sua missione.
Affidando le vostre ricerche all'intercessione di San Tommaso d'Aquino, che la Chiesa onora in questo giorno e che resta un "un autentico modello per quanti ricercano la verità" (Fides et ratio, n. 78), vi assicuro della mia preghiera per voi, per le vostre famiglie e per i vostri collaboratori, e imparto a tutti con affetto la Benedizione Apostolica.

[Traduzione distribuita da L'Osservatore Romano



San Tommaso D'Aquino e la teologia della santità
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 28 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata dal Cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, durante la celebrazione eucaristica svoltasi questo lunedì presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, in occasione della festa del Patrono dell'Ateneo.
* * *
1. Magnifico Rettore, Illustri autorità accademiche,Chiarissimi Professori e cari studenti, tornare fra queste celebri aule dell’Angelicum mi suscita commozione e gioia per i tanti ricordi di ex-alunno, evocati dall’odierna circostanza, che ha avuto la gioia di conseguire il dottorato in teologia proprio qui, nella nostra Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino in Urbe.
La gioia poi si raddoppia per la grandezza del Santo che celebriamo, che ha sempre illuminato i nostri passi nel campo della ricerca teologica, dell’insegnamento ed anche nella quotidianità. Un uomo che, come disse il Papa Giovanni XXII ai delegati che gliene chiedevano la canonizzazione: “...ha illustrato la Chiesa più che tutti gli altri dottori: si trae più profitto in un anno dai suoi libri che in tutta la vita dagli altri” /cfr. B.Mondin, La metafisica di S.Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 202, p.8).
Ci aiuta, ancora una volta il noto episodio della fanciullezza di Tommaso quando, a cinque anni venne affidato, nel 1230, dai suoi genitori, potenti feudatari di Roccasecca, come oblato all’Abbazia di Montecassino, per la prima istruzione. Tommaso era un bambin odi poche parole, molto tranquillo e quando nei chiostri del monastero incontrava un monaco, non esitava a chiedergli: “Ditemi, padre, chi è Dio?” (cfr.Guglielmo da Tocco, Hystoria beati Thomae, c.5).
Una domanda semplice e chiara, per nulla ingenua, rivelatrice dell’orientamento fondamentale di tutta la vita e l’attività dell’Aquinate (cfr. Tommaso d’Aquino, L’esistenza di Dio, ed.La Scuola, Brescia, 2003, a cura di Zuanazzi, pag.7).
Di più, bisogna dire che si tratta di un interrogativo che ognuno di noi, specialmente chi consacra la sua vita al servizio della verità, quindi i professori e gli studenti di teologia in primo piano, portano davanti ai loro occhi, accomunati dall’aspirazione di ogni uomo di vedere Dio, conoscerne un giorno il volto, la sola cosa che ci farà eternamente felici.
2. Abbiamo ascoltato nel vangelo testé proclamato“Consacrali nella verità; la tua parola è verità”. Questa invocazione di Gesù, nella cosiddetta preghiera sacerdotale, può anche tradursi Santificali nella verità; la tua parola è verità: è così che traduce la Volgata (Sanctifica eos in veritate; sermo tuus veritas est) e non senza motivo, poiché il vocabolo greco qui usato (άγιάζειν) deriva da άγιος, che significa propriamente « santo », ed è lo stesso che, usato nella preghiera insegnata da Gesù, viene tradotto con « sia santificato il tuo nome ». Capirete senza dubbio che il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi preferisca la traduzione: Santificali nella verità; la tua parola è verità.
In questo passo della preghiera di Cristo all’inizio della sua passione, proposto dalla liturgia per la festa di S. Tommaso d’Aquino, possiamo, secondo me, scorgere il fondamento della fisionomia spirituale del Dottore Comune e della sua santità. Per capire ciò, basta lasciarci guidare da lui stesso.
Gesù, dunque, chiede al Padre di santificare gli apostoli. Santificare significa, com’è ovvio, rendere santo e, qui, la prima osservazione da fare è che è il Padre che santifica, non è l’uomo a farsi santo; in altre parole, la santità, come la giustificazione che ne è il fondamento, è dono di Dio, frutto della grazia abituale: S. Tommaso parla della gratia sanctitatis (IIa IIae, q. 185, a. 3, ad 3m) e afferma che sanctificare homines proprium Dei opus est : dicitur enim Levit. 22 [32]: ego Dominus, qui sanctifico vos (4 CG 17) « santificare gli uomini è opera propria di Dio; è detto infatti nel Levitico, 22,32: “sono io, il Signore, che vi santifico” »; questa opera di santificazione è appropriata, in modo diverso al Figlio e allo Spirito Santo, in quanto lo Spirito è il dono stesso della santificazione, mentre il Figlio è l’autore di tale dono1.
3. Sarà utile, ora, farci una domanda: ma in che cosa consiste, dunque, la santità? Ecco la risposta dell’Aquinate: sanctitas dicitur per quam mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo (IIa IIae, q. 81, a. 8, c.) « si chiama santità ciò per cui la mente dell’uomo applica se stessa e i suoi atti a Dio », o, in modo meno tecnico e articolato, ma del tutto equivalente: In hoc est sanctitas hominis ut ad Deum vadat (Super ev. Ioannis, c. 13, l. 1, n. 4 [Marietti, n. 1743]) « in ciò consiste la santità dell’uomo: che vada verso Dio ». Esser santo vuol dire quindi, fare di Dio il suo fine ultimo e comportarsi in conseguenza.
Cosa significa, però, per l’uomo, prender Dio come fine ultimo? Significa, evidentemente, prima di tutto, che l’uomo prende Dio come fine di ciò che lo specifica come uomo, cioè la sua mente e le facoltà di essa, ossia l’intelletto e la volontà. Esser santo vuol dire, quindi, conoscere e amare Dio come fine ultimo della propria vita, la qual cosa non può avvenire senza la grazia divina (cf. Ia IIae, q. 89, a. 6, c.).
Non sfuggirà alla vostra ormai affinata sensibilità teologica, il fatto che per poter amare Dio, bisogna, però, conoscerlo in una certa qual misura, poiché, come dice S. Agostino, Non [...] diligitur quod penitus ignoratur (Tract. 96 in Ioann. ev., n. 4 [CCLat 36, p. 571]) « Non si ama ciò che si ignora totalmente », che è stato tradotto con l’adagio ben conosciuto: Nihil amatum nisi praecognitum. E perché questi lo ami di carità bisogna che lo conosca – e normalmente in modo esplicito – come Creatore e Salvatore, come incarnato e risorto in Cristo, bisogna insomma che aderisca nella fede al Dio cristiano. E ritroviamo qui il versetto del vangelo di Giovanni da cui siamo partiti; commentandolo, S. Tommaso dice:
“ Santificali, immettendo in essi lo Spirito Santo, e questo nella verità, cioè nella conoscenza della verità della fede e dei tuoi comandamenti... Infatti, siamo santificati mediante la fede e la conoscenza della verità... (Super ev. Ioannis, c. 17, l. 4 [Marietti, n. 2229]).
4. Si deve, però, precisare subito che questa santità che ci dà Dio non è una perfezione sovrapposta alla natura umana e senza rapporto intrinseco con essa. Al contrario, la santità porta la natura umana verso la sua perfezione, se è vero che l’intelletto, il cui bene è la verità, non troverà riposo se non quando avrà raggiunto la conoscenza della « verità tutta intera », dell’άλήθειαπάσα (Gv 16,13), e questa verità è la verità prima, cioè Dio. Conoscere questa prima Verità è il fine naturale di ogni creatura intellettuale; questo fine, però, è raggiunto in pienezza dai soli beati i quali vedono Dio faccia a faccia, così come egli è, raggiungendo, in tal modo, la perfetta ed ultima felicità, come dice il Dottore Angelico: « quaggiù, nulla è più simile a tale felicità, se non la vita di coloro che contemplano la verità, per quanto è possibile in questa vita » (3 CG 63).
E questa contemplazione non è un esercizio riservato ad un ristretto gruppo di anime d’eccezione; è naturale ad ogni cristiano autentico ed è un altro nome della santità. Infatti, come insegna S. Tommaso, « è proprio dell’amicizia l’intrattenersi con l’amico. Ora l’uomo s’intrattiene con Dio contemplandolo; come l’apostolo diceva (Filip. 3,20): nostra conversatio in coelis est il nostro intrattenimento è nei cieli. Poiché, dunque, lo Spirito Santo ci fa capaci di amare di Dio, ne segue che, dallo Spirito Santo, siamo costituiti suoi contemplatori » (4 CG 22). E possiamo aggiungere, seguendo sempre S. Tommaso (IIa IIae, q. 180, a. 7, ad 1m), che se amiamo veramente Dio, desideriamo conoscerlo di più e che, più lo conosciamo, più lo amiamo, e in questa circulatio fra operazione della volontà e operazione dell’intelletto, fra amore e conoscenza, fra carità e fede, consiste la contemplazione stessa.
5. Cari amici, voi che avete il privilegio di dedicarvi, in questa pontificia Università, agli studi che sono orientati, in modo più o meno prossimo, alla conoscenza di Dio e che, quindi, meritano, in qualche modo, come dice ancora S. Tommaso (IIa IIae, q. 180, a. 4, c.), il nome di contemplazione, e voi, soprattutto, che vi date allo studio della teologia o, come preferisce dire il nostro santo, della sacra doctrina, che è, secondo il Doctor communis, velut quaedam impressio divinae scientiae (Ia, q. 1, a. 3, ad 2m), dovete render grazie a Dio che vi dà la possibilità di dedicarvi, con l’ausilio dei mezzi più appropriati, in particolare, l’insegnamento dei vostri maestri, a questa contemplazione che è la vita stessa dell’anima cristiana.
Però, dobbiamo fare ancora un passo, per capire veramente cosa Gesù intende dire quando chiede al Padre di santificare i suoi discepoli nella verità. Infatti Gesù, nel versetto seguente aggiunge: Non lo chiedo per loro soltanto, ma anche per coloro che, a motivo della loro parola, crederanno in me. Questo fa vedere che Gesù, pregando per i discepoli, ha anche in vista la loro missione di annunciatori della verità salvifica. Ma quel che è importante qui, è capire bene che l’annuncio del Vangelo non è un ministero estrinseco alla santificazione nella verità, bensì uno sviluppo normale di questa santificazione. S. Tommaso lo spiega molto bene... (in particolare nella questione disputata de Caritate, a. 11, ad 6m (v. anche, IIa IIae, q. 188, a. 6).
Non è difficile scorgere qui i motivi per i quali il giovane Tommaso ha voluto lasciare la sua prevista carriera a Monte Cassino per entrare nell’Ordine dei Predicatori. E in modo più generale, possiamo riconoscere come il programma di santificazione che egli traccia nei testi che abbiamo cercato di riunire e riassumere qui, è stato, innanzitutto, il programma di santificazione che egli stesso ha voluto metter in pratica nella propria vita. S. Tommaso che non parla quasi mai alla prima persona, lo ha fatto una volta, prendendo a prestito le parole di S. Ilario; scrive infatti, nel capitolo secondo del primo libro della Summa contra Gentiles, esponendo l’« intenzione dell’autore »: « per usare le parole d’Ilario: sono consapevole che il dovere principale della mia vita verso Dio è che ogni parola mia, ogni espressione mia parli di Lui ». A questa dichiarazione fanno come da risposta le parole dette a Tommaso, verso la fine della sua vita, da Cristo nella visione di Napoli: Bene dixisti de me, Thoma « hai parlato bene di me, Tommaso » e il seguito di questa visione illustra bene quanto abbiamo detto finora, poiché Gesù prosegue chiedendo: « quale ricompensa riceverai per il tuo lavoro? » e S. Tommaso risponde: Domine, non nisi te « Signore, nient’altro se non te » (Tocco, c. 34).
Tommaso, quindi, ha saputo, nella sua vita, conseguire questa santificazione nella verità di cui abbiamo, alla sua scuola, tentato di evocare alcuni aspetti. Cerchiamo, quindi, con la grazia di Dio, di imitare il suo esempio, consacrando non solo il tempo degli studi, ma tutta la nostra vita, per quanto possibile, a contemplare Dio e a trasmettere ai nostri fratelli la verità così conosciuta, per raggiungere un giorno, insieme a loro, il definitivo gaudium de veritate al quale siamo chiamati.
Roma, Pontificia Università S.Tommaso d’Aquino,
28 gennaio 2008
José Card. SARAIVA MARTINS
Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi


La dolorosa illusione della pillola contro la responsabilità
Avvenire, 29 gennaio 2008

EUGENIA ROCCELLA
S embra che tutto, o quasi, si possa risolvere con una pillola. I farmaci sono ormai idoli a cui credere con cieco abbandono, fiduciosi che le sostanze chimiche possano far svanire ogni problema, e scioglierci dalle responsabilità nei confronti di noi stessi e degli altri.
Un analgesico fa passare il dolore fisico, e un antidepressivo allevia il 'male oscuro' dell’anima e della mente: così ogni cosa torna a posto.
Per le donne, poi, non c’è che l’imbarazzo della scelta: ci sono pillole per non rimanere incinta, altre (si chiama contraccezione d’emergenza) per il giorno dopo, altre ancora per abortire. Le notizie degli ultimi giorni riportano sulla scena il Norlevo, la pillola che si assume entro 72 ore da un rapporto sessuale, per evitare la gravidanza nel caso non sia stato adottato alcun metodo contraccettivo. Il quotidiano inglese Guardian
racconta come in Gran Bretagna il farmaco sia offerto alle ragazze sotto i 16 anni senza il consenso dei genitori: molti ospedali lo distribuiscono anche alle dodicenni, senza alcun limite di età per le più giovani. In Spagna il premier Zapatero propone di promuoverne la diffusione rendendolo gratuito e accessibile senza ricetta, allo scopo di bloccare la crescita di aborti tra le minorenni. In altri Paesi europei è distribuito liberamente da tempo, senza però che questo in genere abbia nessun effetto sulla diminuzione degli aborti (vedi l’esperienza francese). In Italia le polemiche sono legate all’obiezione di coscienza dei farmacisti, dovuta al meccanismo d’azione del Norlevo, ancora poco chiaro: se, come è riconosciuto nel foglietto illustrativo, il farmaco può impedire l’impianto dell’ovulo già fecondato, si tratta di un’azione abortiva. In questo caso l’obiezione, prevista per i medici dalla legge sull’interruzione di gravidanza, deve valere anche per i farmacisti, che non sono solo addetti alla vendita ma hanno responsabilità professionali più ampie. Un recente studio svedese ha avanzato l’ipotesi che la pillola del giorno dopo non abbia alcun effetto sull’impianto, ma le certezze sono ancora lontane e il foglietto illustrativo è rimasto inalterato. Va detto però che anche se il Norlevo non avesse azione abortiva non sarebbe per questo un metodo da diffondere tra le ragazzine, senza ricetta medica e senza che madri e padri ne siano al corrente. C’è oggi – lo sa ogni genitore – una vera e propria emergenza educativa. Non è il lamento di chi mitizza i beati anni della propria adolescenza, e nemmeno l’invocazione di un ritorno a metodi pedagogici autoritari: è una semplice constatazione. La frattura tra le generazioni si è approfondita in maniera vertiginosa, anche grazie alle nuove forme di comunicazione e apprendimento, che isolano i giovani, li chiudono in un cerchio di autoreferenzialità che li rende esposti e insieme arroganti. Educare alla responsabilità è ancora più difficile sui temi dell’esperienza sessuale, del rapporto con il corpo, della relazione amorosa. La felicità tende a essere identificata con l’immediato soddisfacimento del desiderio, e chi è molto giovane non sa che il desiderio è per sua natura labile e sfuggente; si può spendere una vita a inseguirlo, acchiappandolo qualche volta per la coda, ma si materializzerà sempre da un’altra parte. Trasmettere ai nostri figli l’idea che qualunque gesto sia sostanzialmente privo di conseguenze, perché si può sempre cancellarne gli effetti con una pillola, crea illusioni dolorose. Le conseguenze di ogni atto restano.
Perché il cuore e la memoria non cancellano l’esperienza, né con un farmaco, né premendo il tasto 'reset'.


LA DIFESA DELLA VITA
Il vicario del Papa da Ferrara: «La fede non riguarda solo Dio ma anche i rapporti sociali» Poi conferma le parole di Bagnasco: i politici cattolici non promuovano leggi in contrasto con il bene
Ruini: restituire alle donne la libertà di non abortire
Avvenire, 29 gennaio 2008
DA ROMA MIMMO MUOLO
L’aborto «è la soppressione di un essere umano vivente». E una legge che lo preveda, come la 194 in Italia, «rimane intrinsecamente cattiva». Tuttavia la Chiesa non ha mai «incitato a rivolte o a comportamenti se­diziosi ». Chiede, però, che sia applicata in tutti i suoi aspetti. Lo ha detto ieri se­ra il cardinale Camillo Ruini, intervista­to da Giuliano Ferrara e Ritanna Arme­ni, durante la puntata di 'Otto e mezzo' andata in onda su La7. Sorridente e a suo agio, il vicario del Papa per la diocesi di Roma, ha risposto con pacata chiarezza a tutte le domande, che hanno toccato anche temi come la contraccezione, la presunta ingerenza della Chiesa nelle leg­gi dello Stato e l’atteggiamento dei poli­tici cattolici in materie eticamente sen­sibili.
Legge 194. «Un punto sul quale insistiamo da tempo – ha ricordato – è quello dell’attuazione integrale di questa normativa». So­prattutto «si faccia il pos­sibile per aiutare le donne ad accogliere il figlio». Spe­cie quando il problema è di ordine economico, ha sottolineato il cardinale, ri­solverlo non è eccessivamente difficile. «L’esperienza dei Centri di aiuto alla vi­ta che abbiamo promosso da tanti anni, ha già mostrato che 85mila aborti in Ita­lia sono stati evitati» in un primo mo­mento con modestissime somme e poi «attraverso il dialogo, l’aiuto psicologi­co, il far sentire alle madri che ci sono persone disposte a condividere il pro­blema con loro», infine con la capacità «di favorire un inserimento mondo del lavoro».
Quanto all’obiezione che in questo caso si restringe la libertà della donna, Ruini ha ribattuto: «È falsa in radice e va rove­sciata. La donna abortisce perché non è libera e diventa libera se le si dà la possi­bilità concreta di non abortire. Che non è un obbligo, nessuno può costringerla, è soltanto un’offerta, un atto di solida­rietà di solito graditissimo». Infine la que­stione terminologica. Aborto uguale o­micidio? «Personalmente non uso mai questa parola – ha risposto Ruini – anche per una forma di rispetto verso le donne e per le famiglie. Tuttavia anche altre e­spressioni, come 'interruzione volonta­ria della gravidanza' rischiano di occul­tare la realtà del fatto. Quindi il linguag­gio deve essere il più sereno possibile, ma anche veritiero e certamente ac­compagnato dall’affetto, dall’amicizia, dalla solidarietà». «Nei confronti delle donne che abortiscono, come nei con­fronti di tutte le persone che vivono per un motivo o per l’altro delle situazioni che la Chiesa giudica negative o irrego­lari, non abbiamo atteggiamenti perse­cutori od ostili, ma quanto mai acco­glienti ».
Contraccezione. Una battuta anche su questo tema. Si tratta di «una scelta eti­ca che la Chiesa ritiene sia corrispon­dente alla natura profonda del rapporto tra l’uomo e la donna e che perciò pro­pone ai cattolici, senza minimamente pensare che si debba im­porre per legge».
Ingerenza. «Vorrei sfatare che in Italia – ha detto il cardinale rispondendo a un’altra domanda – ci sia, da parte della Chiesa, più attenzione ai temi politici e sociali che altrove». E ha citato il caso del Canada, dove, «quando c’è stata la questione del matrimonio degli omo­sessuali due cardinali sono andati a pro­testare in Parlamento. Pensate che cosa sarebbe successo, se l’avessi fatto io». Quello che cambia, ha aggiunto, «è l’ef­ficacia degli interventi, certamente mag­giore da noi». Ruini ha quindi spiegato che «la fede cristiana non riguarda sol­tanto il rapporto con Dio», ma (e basti guardare i dieci comandamenti), anche i rapporti sociali. Perciò quando «vi so­no problemi etici che chiedono di esse­re codificati in leggi potenzialmente in contrasto con la visione cristiana della vita non si può non intervenire».
La mediazione dei politici cattolici. Ma tutto ciò, gli è stato chiesto, non dovreb­be avvenire, con la mediazione dei poli­tici? «La parola mediazione – ha risposto il porporato – può avere due significati. Se una legge viene approvata dalla mag­gioranza in Parlamento, anche se non ci piace, diremo che è ingiusta. Altro è che i cattolici stessi si facciano promotori di leggi in contrasto con ciò che anche alla luce della fede sappiamo essere il bene per l’uomo. Questo atteggiamento è cer­tamente sbagliato», ha detto, e anche su questo è apparso in accordo con l’attua­le presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. «Anche al tempo della Dc – ha concluso Ruini – Mai coloro che si di­chiaravano politici di ispirazione cristia­na sostenevano loro stessi certe posizio­ni. Soccombevano in Parlamento, ma questo è un altro discorso».
Alla fine della registrazione, salutando i giornalisti presenti, il cardinale si è con­cesso una battuta scherzosa anche in merito alla sua presenza sui media: «Non fatemi parlare troppo. Altrimenti la Li­tizzetto poi mi dice 'Eminens'. Io non l’ho mai guardata, ma mi dicono che è simpatica. E poi la mia segretaria la imi­ta benissimo».

Quanti inganni dietro la pillola del giorno dopo
Avvenire, 29 gennaio 2008
In Italia crescono le prescrizioni Il ginecologo Boscia: non è solo un contraccettivo E non mancano i rischi per la salute della donna
DA MILANO
ENRICO NEGROTTI
La pillola del giorno dopo torna a far discutere. I dati che indicano la sua diffusione crescente anche in Italia, l’intenzione del governo spagnolo di renderne sempre più facile la distribuzione riportano d’attualità un dibattito che non si è mai chiuso, almeno nel nostro Paese.
Da quando è stata autorizzata la vendita del levonorgestrel (il principio attivo) nel 2001 le vendite del farmaco sono cresciute del 55 per cento, arrivando alle 350mila confezioni nel 2006. «Eppure non si tratta di contraccezione – obietta Filippo Boscia, direttore del Dipartimento Materno infantile della Ausl provinciale di Bari – bensì di intercettazione dell’embrione già formato.
L’informazione in questo caso è fondamentale. E l’uso del farmaco presenta non pochi problemi di sicurezza per le donne, sottoposte a un “bombardamento” di ormoni che andrebbe monitorato dal punto di vista medico». Il professor Boscia, che è anche presidente della Società italiana di bioetica e comitati etici (Sibce), è stato protagonista, nei mesi scorsi, di un lungo braccio di ferro con le autorità sanitarie pugliesi, che volevano favorire la diffusione del farmaco: «La Asl di Bari ne aveva fatto un approvvigionamento di ben 4mila dosi da distribuire gratis nei consultori – racconta Boscia – ma dopo alcuni dibattiti in direzione sanitaria, siamo riusciti a far revocare la disposizione. Si sarebbe favorito un messaggio contrario alla logica, alla salute delle donne, oltre che all’etica». Il primo problema riguardante il levonorgestrel riguarda un aspetto scientifico: quando fu commercializzato, il levonorgestrel venne definito contraccettivo d’emergenza e non abortivo, perché l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito la gravidanza a partire dall’annidamento dell’embrione nell’utero materno: «In realtà l’Oms si riferisce alla fecondazione in vitro – sottolinea il professor Boscia –, quando effettivamente lo stato di gravidanza comincia solo con il trasferimento in utero dell’embrione. Ma quando la fecondazione avviene entro il corpo materno, iniziano subito alcuni fenomeni biochimici, sia da parte del corpo della madre, sia da parte dell’embrione appena formato, che danno origine a una interazione mai riproducibile in altro modo». E l’azione del levonorgestrel può essere duplice: «Può agire da contraccettivo inibendo l’ovulazione, ma se questa è già avvenuta la forte dose di ormoni entra nel sangue e modifica in modo rapido l’endometrio, cioè il tessuto interno dell’utero, che poi tende a cadere e a rendere impossibile l’attecchimento dell’embrione eventualmente formato».
Non è prevedibile la prevalenza di un effetto sull’altro: «Dipende molto – osserva Boscia – dal momento del ciclo in cui avviene il rapporto sessuale e l’assunzione della pillola: se è in coincidenza con l’ovulazione si tratterà verosimilmente di un aborto precocissimo, se è più lontano sarà probabilmente contraccezione.
Nell’incertezza bisogna rispettare anche il diritto all’obiezione di coscienza, visto che viene elusa in questo modo anche la legge 194: non c’è alcun registro della distribuzione della pillola. Tant’è vero che abbiamo verificato, nei mesi scorsi, che nella stessa sera una ragazza poteva farsene prescrivere dieci confezioni». E si continuano a ignorare i problemi di salute: «Prima di prescrivere ogni farmaco estroprogestinico, il medico sottopone la paziente ad analisi – ricorda Boscia –.
Nel caso della pillola del giorno dopo, nessuna indagine: se presa una volta ogni tanto può non far nulla, ma se viene utilizzata frequentemente, possono insorgere seri problemi di salute, sia a livello della coagulazione del sangue, sia a livello epatico».


Etica, ripartiamo dal dialogo
Bruno Forte riflette sul vuoto morale degli attacchi condotti dagli 'ateologi': «Troppa superficialità. Ma il tema del rapporto con l’altro coinvolge ogni uomo»
Avvenire, 29.1.2008

DI ALESSANDRO LANNI
«Quello dei vari pamphlet di moda in questi mesi è un ateismo piuttosto debole dal punto di vista del rigore del pensiero. Ma non è l’unica forma di ateismo esistente. Ne esiste anche uno tragico e pensoso con il quale ritengo sia utile dialogare». Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e tra i più importanti teologi italiani, non fa nomi, ma di certo i bestseller dell’ateismo di Richard Dawkins e, da noi, di Piergiorgio Odifreddi, non sono tra le sue letture preferite. Da numerosi anni, intrattiene uno scambio con alcuni filosofi laici intorno al tema dell’incontro tra fede e ragione e apprezza chi, anche nel campo dei non credenti, s’interroga sulle 'cose ultime'. In Trinità per atei (Cortina 1996) discuteva con Massimo Cacciari, Giulio Giorello e Vincenzo Vitiello dell’ineluttabilità della fede anche per dirsi non credenti. Un uomo del dialogo che difende le proprie posizioni, ma riconosce la grandezza di un Kant e addirittura di un Nietzsche.
Uno dei temi centrali della recente enciclica «Spe Salvi» promulgata da Benedetto XVI è proprio l’ateismo. Al quale il papa dedica non solo una scontata condanna, ma una grande attenzione sia per le sue motivazioni (una forma di 'protesta' per l’ingiustizia che esso rappresenta) sia per le conseguenze nefaste che gli attribuisce nel XX secolo.
«Credo che il merito di questa enciclica sia duplice. Il primo è di aver riposto al centro la speranza, ovvero la grande domanda di Kant: che cosa possiamo sperare? È la domanda di tutti, in forme diverse: dei giovani che cercano un senso alla vita e al loro futuro e delle persone anziane che s’interrogano sull’ultimo domani. Il discorso sulla speranza cristiana, il papa lo coniuga con un’analisi attenta dei processi della modernità, in cui c’è rispetto per la scienza, la tecnica e le filosofie del progresso. Quello che il papa mette in luce - a mio avviso, in modo assolutamente corretto - è l’incompletezza di queste proposte. La fede nel progresso, l’ideologia della scienza, lo scientismo hanno mostrato i loro limiti nelle vicende degli ultimi due secoli. Il cumulo di violenza prodotto dai totalitarismi, dalle guerre e dalla stessa scienza quando non si è autoregolamentata (si pensi solo all’uso dell’atomica!), quando cioè si sono separate etica e scienza, dimostra come c’è bisogno di un riferimento etico assoluto. Non è un no alla scienza, ma allo scientismo».
Nella «Spe Salvi» si legge: «Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza». È l’esatto opposto di quello che pensa un laico, che la speranza è proprio nella possibilità di cambiare il mondo da parte degli uomini. È uno degli insegnamenti che l’Illuminismo ha lasciato a tutto il pensiero successivo.
«A me sembra che due sono stati i grandi modelli che si sono confrontati nella modernità.
Uno è quello che ha riposto la speranza nell’emancipazione, nella capacità dell’uomo di essere il liberatore di se stesso, il costruttore del suo domani in maniera assoluta. L’altro è invece il modello della redenzione che, mentre riconosce l’assoluta necessità del coinvolgimento dell’uomo, apre però l’essere umano a un senso ultimo e trascendente.
Senza questo senso ultimo l’orizzonte della vita e della storia appare troppo breve e tutto diviene possibile, anche il male assoluto che le ideologie della modernità hanno dimostrato di sapere produrre, come è avvenuto nella Shoah, nei totalitarismi e nelle guerre. Di fronte a questa alternativa tra emancipazione e redenzione, il papa sta ovviamente dalla parte della redenzione, ma sarebbe banale ritenere questo una svalutazione del contributo che ognuno di noi può dare».
Ma a chi si rivolge il papa nella sua critica all’ateismo? A Dawkins e Odifreddi?
«Il papa parla con Bacone, con Kant, con Horkheimer. Con gente che le questioni se le è poste fino in fondo. Come dicevo, la modernità ci presenta due modelli diversi di ateismo: uno piuttosto superficiale e negligente; l’altro pensoso e drammatico».
In che cosa si distinguono questi due modelli di ateismo?
«Quello non troppo pensante o negligente è quello di questi pamphlet e in effetti non merita grande attenzione.
Questi libri sono perfino una propaganda a favore di Dio, se si valuta la povertà delle loro argomentazioni. Dall’altra parte, c’è l’ateismo pensoso e militante della rivoluzione, del progresso, della fatica di credere, di un Nietzsche davanti a cui bisogna levarsi il cappello quando dice del folle uomo che nella piazza del mercato grida 'Dio è morto'. Egli ha il coraggio di individuarne tutte le conseguenze: sentirsi orfani dopo che si è ucciso Dio. È con questo tipo di ateismo che il papa dialoga: con esso è possibile confrontarsi perché c’è la serietà della domanda. Ciò che invece è difficile, se non impossibile, è potersi incontrare con l’ateismo banale, poco pensoso e poco profondo. Il significato del 'Dio è vivo' o 'Dio è morto' è la vera questione. È questo che manca nei libretti anti­teologici o ateologici, come oggi si dice, nei quali 'Dio' è solo un ornamento di cui si può fare a meno. Norberto Bobbio amava ripetere che la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. E questo si potrebbe tradurre in un linguaggio che, per esempio, ama Cacciari, quando dice che è un pensiero negligente quello che non si confronta con le questioni ultime».
Eppure la questione dei valori, lo scontro tra laici e credenti anche in politica si pone tutti i giorni.
«A me sembra che alcune scaramucce che appaiono come grandi battaglie sono di retroguardia. Una politica senza parametri etici forti rischia di essere autolesionista e si stacca completamente dalla realtà. Si fanno battaglie su questioni marginali e la questione quotidiana di tanta gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, di gente che vuole sposarsi ma non ha un lavoro, di anziani che sono spesso soli, queste questioni non si affrontano...»
È possibile un’etica atea?
«Bisogna dire innanzitutto che l’etica è un mettersi in relazione con l’altro. Non c’è etica dove non c’è alterità, ovvero un corrispondere, un portare responsabilità nel senso del pondus, del peso dell’altro. Dunque, può esserci un’etica anche di chi non crede e riconosce l’alterità immediatamente nel prossimo, nel vicino, come esigenza con cui misurarsi e a cui corrispondere».
E perché prendersela con l’ateo, se l’ateo è comunque portatore di valori, diversi ma pur sempre valori?
«L’etica riferita all’altro, cioè al prossimo di cui vedo il volto, può essere totale e assoluta? Ecco la grande domanda, che poi è quella che ha posto Lévinas a tutto il Novecento. Lévinas riconosce che il volto degli altri è una traccia di un Altro ultimo, sovrano e trascendente. Dunque è proprio sul cammino dell’etica che si affaccia la possibilità del riconoscimento di Dio e della verità ultima e trascendente. Ecco perché da una parte affermo che è possibile un’etica della responsabilità verso gli altri anche in chi non crede, ma devo dire pure che portando fino in fondo la responsabilità etica verso altri ci si apre alla possibilità di riconoscere un’alterità ultima, ovvero il mistero santo di Dio».
Ci sarebbe dunque un’inconsapevolezza da parte degli atei della inevitabile necessità di un Dio quale fondamento anche di sistema di valori per i non credenti.
«'Inconsapevolezza' è un termine un po’ forte. In tutti c’è una sorta di 'nostalgia del Totalmente Altro'. Certo, noi possiamo darle molti nomi, questo è quello che gli hanno dato Adorno e Horkheimer. Ma questa nostalgia è quella che Agostino esprime all’inizio delle Confessioni: 'Hai fatto il nostro cuore per te ed è inquieto finché non riposa in te'. Dunque, più che di inconsapevolezza direi che si tratta di un non esplicitare fino in fondo ciò di cui siamo tutti inconsciamente consapevoli, perché radicalmente bisognosi.
Nella struttura più profonda del suo essere, l’uomo è capax Dei, fatto per Dio e chiamato a entrarci in dialogo per lodarlo, amarlo e lasciarsi amare».
«La 'Spe Salvi' non risponde certo ai Dawkins, ma dialoga con l’ateismo tragico di Nietzsche o di Horkheimer: quello che coglie la profondità della domanda di senso. Anche chi non crede può avere un’etica della responsabilità, ma se si arriva fino in fondo ci si apre alla possibilità di Dio»