lunedì 31 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: LA TRINITÀ DIVINA DIMORA IN NOI DAL BATTESIMO - Discorso introduttivo alla preghiera mariana dell'Angelus - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica in occasione della recita dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro.
2) CONQUISTA SCIENTIFICA O PRESUNZIONE CREATRICE? - di La Redazione di Medicina e Persona - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).
3) POPIELUSZKO, UN MARTIRE DEL XX SECOLO - Proiettato alla Radio Vaticana il film sul cappellano di Solidarnosc - di Antonio Gaspari
4) 1033 bambini scomparsi nel 2009 - nel silenzio quasi generale…- Sono 1033 i minori scomparsi e ancora non ritrovati in Italia nel 2009. Questo il dato fornito dalla Direzione centrale anticrimine della polizia e diffuso nel corso del convegno ‘La scomparsa e lo sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti: quali strategie e interventi?’ organizzato dall’associazione Telefono Azzurro, in occasione della “Giornata internazionale dei bambini scomparsi”.
5) Che cosa voglio di più - Curatore: Fortunato, Simone - Regista: Silvio Soldini - Voto: 6/10 - domenica 30 maggio 2010
6) Responsabilità dei «magisteri paralleli» - Autore: Romano, Giovanni - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 30 maggio 2010
7) “Per i pedofili l’inferno sarà più duro” - GIACOMO GALEAZZI - CITTÀ DEL VATICANO - © Copyright La Stampa, 30 maggio 2010
8) IL CASO - UNA DELIBERA ELENCA TRA LE CONTROINDICAZIONI UN QI INFERIORE A 70 - Disabili mentali discriminati - «Niente trapianti in Veneto» - L’attacco di tre esperti su una rivista americana L’assessore Coletto: per loro solo più attenzioni - In sala operatoria Nel 2009 il Veneto ha eseguito 438 trapianti - http://corrieredelveneto.corriere.it - Michela Nicolussi Moro - 29 maggio 2010
9) Un fatto inaudito - Pigi Colognesi - lunedì 31 maggio 2010 – ilsussidiario.net

BENEDETTO XVI: LA TRINITÀ DIVINA DIMORA IN NOI DAL BATTESIMO - Discorso introduttivo alla preghiera mariana dell'Angelus - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica in occasione della recita dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Dopo il tempo pasquale, concluso domenica scorsa con la Pentecoste, la Liturgia è ritornata al "tempo ordinario". Ciò non vuol dire però che l’impegno dei cristiani debba diminuire, anzi, entrati nella vita divina mediante i Sacramenti, siamo chiamati quotidianamente ad essere aperti all’azione della Grazia, per progredire nell’amore verso Dio e il prossimo. L’odierna domenica della Santissima Trinità, in un certo senso, ricapitola la rivelazione di Dio avvenuta nei misteri pasquali: morte e risurrezione di Cristo, sua ascensione alla destra del Padre ed effusione dello Spirito Santo. La mente e il linguaggio umani sono inadeguati a spiegare la relazione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e tuttavia i Padri della Chiesa hanno cercato di illustrare il mistero di Dio Uno e Trino vivendolo nella propria esistenza con profonda fede.
La Trinità divina, infatti, prende dimora in noi nel giorno del Battesimo: "Io ti battezzo – dice il ministro – nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo". Il nome di Dio, nel quale siamo stati battezzati, noi lo ricordiamo ogni volta che tracciamo su noi stessi il segno della croce. Il teologo Romano Guardini, a proposito del segno della croce, osserva: "lo facciamo prima della preghiera, affinché … ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato … Esso abbraccia tutto l’essere, corpo e anima, … e tutto diviene consacrato nel nome del Dio uno e trino" (Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia 2000, 125-126).
Nel segno della croce e nel nome del Dio vivente è, perciò, contenuto l’annuncio che genera la fede e ispira la preghiera. E, come nel vangelo Gesù promette agli Apostoli che "quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità" (Gv 16,13), così avviene nella liturgia domenicale, quando i sacerdoti dispensano, di settimana in settimana, il pane della Parola e dell’Eucaristia. Anche il santo Curato d’Ars lo ricordava ai suoi fedeli: "Chi ha accolto la vostra anima – diceva – al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? … sempre il sacerdote" (Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale).
Cari amici, facciamo nostra la preghiera di sant’Ilario di Poitiers: "Conserva incontaminata questa fede retta che è in me e, fino al mio ultimo respiro, dammi ugualmente questa voce della mia coscienza, affinché io resti sempre fedele a ciò che ho professato nella mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo" (De Trinitate, XII, 57, CCL 62/A, 627). Invocando la Beata Vergine Maria, prima creatura pienamente inabitata dalla Santissima Trinità, domandiamo la sua protezione per proseguire bene il nostro pellegrinaggio terreno.


[DOPO L’ANGELUS]
Stamani, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, è stata celebrata la beatificazione di Maria Pierina De Micheli, Religiosa dell’Istituto delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires. Giuseppina – questo il suo nome di Battesimo – nacque nel 1890 a Milano, in una famiglia profondamente religiosa, dove fiorirono diverse vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. A 23 anni anche lei imboccò questa strada dedicandosi con passione al servizio educativo, in Argentina e in Italia. Il Signore le donò una straordinaria devozione al suo Santo Volto, che la sostenne sempre nelle prove e nella malattia. Morì nel 1945 e le sue spoglie riposano a Roma nell’Istituto "Spirito Santo".


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Infine, rivolgo con affetto il mio saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare al folto gruppo venuto da Pordenone per onorare la memoria del Cardinale Celso Costantini, del quale è stato presentato due giorni fa a Roma il volume del Diario, dal titolo Ai margini della guerra (1938-1947). Questa pubblicazione è di grande interesse storico. Il Cardinale Costantini, molto legato al Papa Pio XII, la scrisse quando era Segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Il suo Diario testimonia l’immensa opera compiuta dalla Santa Sede in quegli anni drammatici per favorire la pace e soccorrere tutti i bisognosi. Saluto, inoltre, il Movimento dell’Amore Familiare che ha promosso alcuni incontri sulle radici cristiane della famiglia e della società, i fedeli provenienti da Sardagna di Trento, quelli di Lallio insieme con i loro amici tedeschi di Schöngeising, la Fondazione "Gigi Ghirotti" per i malati di tumore, l’Associazione Carabinieri da Firenze, i gruppi di ragazzi che hanno ricevuto la Cresima e le varie scolaresche. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


CONQUISTA SCIENTIFICA O PRESUNZIONE CREATRICE? - di La Redazione di Medicina e Persona - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).
Nel recente articolo apparso su Science (1), Craig Venter e il suo gruppo hanno descritto la sintesi chimica del genoma di Mycoplasma mycoides, agente infettivo della pleuropolmonite essudativa dei bovini, e il suo trasferimento nella cellula di un altro batterio, il Mycoplasma capricolum (agente infettivo per la stessa malattia nelle capre), ottenendo così un nuovo microorganismo, Mycoplasma mycoides Jcvi-syn1.0.
Hanno così riprodotto un organismo vivente sintetico, in cui il citoplasma e l’apparato per la sintesi proteica sono derivati dall’organismo originale, e il DNA nucleare è stato interamente rimpiazzato da un DNA sintetizzato in vitro. Questo risultato è stato l’esito di un progetto iniziato più di 10 anni fa, del costo stimato di 40 milioni di dollari, che ha impegnato 20 ricercatori a tempo pieno. È stato ottenuto mediante l’impiego di procedure in parte note e in parte originali, in cui 1078 sequenze da circa 10,000 basi sono state assemblate in 11 composti intermedi di 100,000 basi, fino all’assemblaggio del genoma completo di circa un milione di basi. Il genoma è stato poi trasferito nel microorganismo finale. Le cellule con il genoma sintetico sono in grado di crescere in modo autonomo alla stessa velocità del microorganismo originale, formano colonie che hanno il medesimo aspetto, e sono indistinguibili dall’originale all’analisi proteomica.
Le considerazioni che Venter fa all’inizio dell’articolo sono interessanti per capire le ragioni di questa conquista scientifica: la nostra capacità di ottenere informazioni genomiche è incrementata di otto ordini di grandezza negli ultimi 25 anni, tuttavia la nostra capacità di comprenderle è ad oggi molto limitata. Non siamo in grado di comprendere la funzione di tutti i geni di nessun sistema vivente, inclusi gli organismi unicellulari. Se i cromosomi contengono tutto il repertorio genetico di una cellula batterica, è possibile riprodurre un sistema genetico completo mediante sintesi chimica, partendo solo dalla sequenza di DNA contenuta nel computer?
La ricerca di Venter nasce da questa scommessa, e arriva ad un risultato positivo. Nella discussione si afferma che questo risultato è la prova del principio secondo il quale si possono produrre cellule partendo da sequenze genomiche digitali, e questo approccio dovrebbe essere applicabile anche alla sintesi di genomi più complessi. Si approda cioè alla “cellula sintetica”, in una visione che vede nel futuro la sintesi di organismi più complessi in un’ottica di “biologia sintetica”, la produzione di cellule con caratteristiche inesistenti in natura e finalizzate a impieghi biotecnologici.
Sarà dunque possibile vedere in futuro organismi pluricellulari complessi con caratteristiche disegnate in vitro? Questo non è affatto scontato, perché l’animale e l’uomo sono molto più complessi del micoplasma, e come lo stesso Venter ammette, tuttora non comprendiamo la funzione di molti dei nostri geni. Questo studio può forse avere prospettive terapeutiche per le malattie genetiche? Com’è noto, in tutto il mondo nascono ogni anno otto milioni di bambini con un gravi patologie di origine totalmente o parzialmente genetica. Molti di questi difetti sono monogenici, dovuti cioè al malfunzionamento di un singolo gene. Esistono già sperimentazioni cliniche di terapia genica, e in futuro di ricombinazione omologa, che sostituiscono il gene malato con un gene sano in alcune malattie genetiche quali le immunodeficienze primarie (deficit di ADA, malattia granulomatosa cronica, deficit di adesione leucocitaria, sindrome Wiskott Aldrich) (2). Da un punto di vista puramente clinico, l’efficacia terapeutica di queste sperimentazioni è evidente nei pazienti in cui il trasferimento del gene sano all’interno del genoma delle cellule staminali ematopoietiche avviene con successo (3).
Che rapporto hanno gli studi di Venter con queste ricerche? Entrano in competizione con le sperimentazioni già in corso? Certamente si, dal punto di vista “culturale” - del modo cioè di pensare la ricerca e quindi di affrontare il codice genetico - e dal punto di vista prettamento economico, cioè dei finanziamenti.
La medicina è nata per migliorare le condizioni di salute, in un susseguirsi di tappe e passaggi ineludibili, così come ci insegna la storia della medicina. In questo scenario corrisponde meglio alla categoria della possibilità provvedere a sostituire a fini terapeutici un gene alla volta piuttosto che progettare la creazione di un genoma ex novo. Come ci insegna la vicenda di Icaro, a tutti nota.
Editoriale a cura di M. Bregni, G. Pompilio, C. Isimbaldi


POPIELUSZKO, UN MARTIRE DEL XX SECOLO - Proiettato alla Radio Vaticana il film sul cappellano di Solidarnosc - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).- Un film straordinario, che racconta la storia di un eroe sconosciuto ai più, padre Jerzy Popiełuszko, testimone e martire di un popolo, quello polacco, che ha sconfitto la dittatura comunista con le armi dell’amore e del vangelo cristiano.
Venerdì 28 maggio alla Radio Vaticana è stato proiettato il film del regista polacco Rafał Wieczyński: “Popiełuszko. Non si può uccidere la speranza”.
Il film racconta la storia di un santo, le cui qualità e vicende sono paradigma della virtù di un popolo, e il cui sacrificio supremo, così simile a quello di Cristo, è stato indicato dal Pontefice Giovanni Paolo II, come il tributo di sangue che ha salvato l’Europa.
Padre Jerzy Popieluszko nacque il 14 settembre 1947 a Okopy provincia di Bialystok. Fu ordinato sacerdote dal Cardinal Stefan Wyszynsky il 28 maggio 1972 a Varsavia. Oltre al lavoro parrocchiale, nella Chiesa di San Stanislao Kostka, svolgeva il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera anche per medici ed infermieri, assisteva gli ammalati, i poveri, i perseguitati.
Per il suo coraggio, la difesa dei diritti umani, la richiesta di libertà e giustizia, la capacità di amare anche i suoi persecutori, divenne subito una minaccia per il regime dittatoriale.
Padre Popieluszko aiutava tutti gli operai, dava loro coraggio, li educava all’amore fraterno, li invitava a non reagire quando venivano colpiti, li confessava, sosteneva le loro famiglie. Gli insegnava a rispondere con preghiere e canti sacri e patriottici alle minacce e alle aggressioni. Sosteneva Solidarnosc nelle sue battaglie per garantire migliori condizioni sociali, per la libertà, la giustizia, il progresso.
Tentarono in vario modo di minacciarlo e spaventarlo. Uccisero i figli e i parenti delle persone a lui più vicine. Qualcuno dei suoi collaboratori cedette alle minacce e divenne una spia dei servizi segreti. Ma padre Popieluszko, non cedette mai alle provocazioni. Mai si piegò al sentimento di odio. Nel film, in un momento molto duro, quando scopre di essere tradito e prossimo alla paura, quando i suoi amici non ne possono più dell’oppressione e del terrore, si riporta una sua frase: “combatto il peccato non le sue vittime”.
Questa sua capacità eroica di amare tutti cristianamente, lo rendono libero e invincibile. Il regime non sa cosa fare. Cercano di screditarlo e di accusarlo di cospirazione politica, ma padre Popieluszko non parla mai di politica.
La situazione sta per precipitare e la Chiesa prova a convincerlo di riparare a Roma, ma padre Popieluszko è cosciente della sua missione e va avanti, fiducioso, ubbidiente e fedele a Cristo.
Così il 19 ottobre 1984 di ritorno da un servizio pastorale da Bydgosszcz a Gorsk vicino a Torun viene rapito da tre funzionari del Ministero dell’Interno, selvaggiamente picchiato e seviziato.
Pur legato dentro al cofano dell’auto cerca di fuggire. I persecutori lo braccano, lo colpiscono ancora più violentemente, lo sfigurano, lo legano tra bocca e gambe, in modo che non possa distendersi senza soffocare. Gli stringono un masso ai piedi e lo buttano ancora vivo in un fiume. Aveva 37 anni.
Il regime pensa di aver messo a tacere il più coraggioso dei suoi oppositori, e invece è il segno della sua fine. Da lì a poco non solo la Polonia sarà liberata, ma l’intero sistema comunista collasserà.
Nonostante le minacce e la violenza, oltre mezzo milione di persone sfilò al funerale di padre Popieluszko.
Tra i giovani che sfilarono oranti dietro a quella bara, c’era il regista del film Rafał Wieczyński, il quale ha rivelato a Radio Vaticana: “avevo 16 anni quando partecipai ai funerali di padre Popiełuszko. Insieme a 600 mila persone riuscivo a percepire i sentimenti della gente in quel periodo. E’ diventato una sorta di maestro, una figura con la quale mi confrontavo e volevo che la nuova generazione provasse le sensazioni di quei tempi, quando la gente era unita fondandosi sui valori del Vangelo”.
Da allora la tomba di padre Popiełuszko che si trova accanto alla chiesa di San Stanislao Kostka, a Varsavia, è meta continua di pellegrinaggi di fedeli provenienti dalla Polonia e dal mondo intero.
Il 14 giugno 1987 Papa Giovanni Paolo II ha pregato sulla sua tomba, senza avere la possibilità di gridare al regime e al mondo le virtù e la grandezza di padre Popieluszko.
A tutt’oggi oltre 18 milioni si sono soffermati sulla tomba di padre Popieluszko, e domenica 6 giugno verrà proclamato Beato.
Intervistato da ZENIT, il regista del film ha rivelato che in Polonia “il film è stato visto da un milione e trecentomila persone. Molto importante il fatto che sia stato visto nelle scuole da studenti che non hanno mai saputo che cosa è stata la dittatura comunista”.
L’edizione italiana del film ha avuto poca pubblicità e solo in 15.000 lo hanno visto, ma l’edizione home video dell’opera sarà diffusa nelle edicole allegata alle riviste “Panorama”, “Tv Sorrisi e Canzoni” e “Ciak” da venerdì 4 giugno.
Prima della proiezione che è avvenuta nella Radio Vaticana, Hanna Suchocka, già Primo Ministro Polacco, membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e attuale Ambasciatore presso la Santa Sede ha spiegato che “nella Chiesa non sono mancati uomini e donne, che hanno testimoniato Cristo fino alla fine”. Ma la figura di padre Popiełuszko è tuttavia “eccezionale, perchè è un eroe contemporaneo che ha testimoniato come si può vincere il male con il bene” .
“Padre Jerzy Popiełuszko era soprattutto un testimone di Cristo – ha sottolineato la Suchocka, - un sacerdote che viveva e lavorava per gli uomini”.
“Forse adesso, - ha aggiunto - quando ci avviciniamo alla conclusione dell’Anno Sacerdotale, vale la pena di ricordare la figura di Popiełuszko come esempio spirituale di chi, nonostante la fragile salute, è rimasto grande nella sua capacita di accettare la grazia di Dio”.
L’Ambasciatore polacco ha voluto poi cogliere un altro aspetto della figura di padre Jerzy, affermando che “padre Popieluszko era una persona libera dentro, nonostante le pressioni che venivano esercitate nei suoi confronti dalle autorità, dal suo ambiente e dai suoi collaboratori”.
“Forse è questa libertà che i suoi carnefici volevano soffocare – ha aggiunto –. Ma il suo sacrificio non è stato invano, la Polonia è stata liberata e il suo ricordo è rimasto vivo nella memoria e nei cuori dei Polacchi”.
Nel film spezzoni di telegiornale in bianco e nero si alternano con le vicende di vita quotidiana. Pur non denunciando mai in forma esplicita la dittatura comunista, la pellicola è una delle testimonianze più forti circa la crudeltà e disumanità di quel regime.
Così, come il film “Schindler's list” ha denunciato l’orrore del regime nazista, il film “Popiełuszko. Non si può uccidere la speranza” mostra gli orrori dei regimi socialisti.
In entrambi i casi vince l’umanità che di fronte ai peggiori orrori della storia, riesce a sopravvivere credendo e confidando in Dio.


1033 bambini scomparsi nel 2009 - nel silenzio quasi generale…- Sono 1033 i minori scomparsi e ancora non ritrovati in Italia nel 2009. Questo il dato fornito dalla Direzione centrale anticrimine della polizia e diffuso nel corso del convegno ‘La scomparsa e lo sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti: quali strategie e interventi?’ organizzato dall’associazione Telefono Azzurro, in occasione della “Giornata internazionale dei bambini scomparsi”.
Dal primo gennaio al 4 marzo 2010 le segnalazioni sono state già 222. Il ministero dell’Interno ha calcolato che in Italia i minori scomparsi e ancora da rintracciare dal primo gennaio 1974 al 31 ottobre 2009 sono 10.768, di cui 1.994 italiani e 8.774 stranieri. E dal 2007 al 2009 si è verificato un costante incremento dei casi.
Dietro il fenomeno dei minori scomparsi in Italia potrebbe celarsi anche il traffico internazionale di organi, come l’anno scorso aveva denunciato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Un rischio evidenziato nuovamente anche in questi giorni dal presidente della Commissione parlamentare per l'Infanzia e l'adolescenza, Alessandra Mussolini.
Si tratta di un terribile dramma, ma purtroppo se ne parla un giorno, al massimo due, e poi cala uno strano silenzio…


I trapianti e i mille bimbi scomparsi

Caro Direttore,
permettimi di fare una brevissima aggiunta all’articolo sui trapianti che ha suscitato diverse reazioni negative come se il traffico di organi fosse una mia fissazione. Il ministero dell’Interno ha comunicato in questi giorni la cifra dei bambini scomparsi in Italia nel 2009: mille. Mille bambini, caro Direttore, non due o tre o dieci, che possono essere scappati da casa o aver perso la strada; e in Italia, non in qualche landa sperduta del terzo o quarto mondo. Nessuno, però, ha commentato un dato così sconvolgente, né ha fatto ipotesi o si è posto domande, mettendo in atto quell’abituale strategia del silenzio che denunciavo e che rappresenta di per sé una prova che ci troviamo nell’ambito dei trapianti. Perfino i Carabinieri non parlano. Eppure loro sanno. Qualcosa sicuramente sanno. Non possiamo credere che siano tanto bravi a correre dietro ai carichi di droga o alle tangenti degli appaltatori, e che viceversa non siano in grado di trovare neanche il più piccolo indizio sulla scomparsa di mille bambini. Neanche uno straccio di «intercettazione» da fornire a chi, come noi, è angosciato mille volte di più dal traffico di organi che non da quello delle escort. C’è qualcuno che impedisce loro di parlare? Vorrei saperlo.
di Ida Magli - Il Giornale domenica 30 maggio 2010

DATI FORNITI DAL MINISTERO DELL’INTERNO
Suddivisione regionale dei minori italiani e stranieri per i quali sono state attivate le segnalazioni di ricerca sul territorio.
Anno 2009
http://www.bambiniscomparsi.it/it_IT/PDF/MS_2009.pdf
Anno 2008
http://www.bambiniscomparsi.it/it_IT/PDF/MS_2008.pdf
Anno 2007
http://www.bambiniscomparsi.it/it_IT/PDF/MS_2007.pdf


Che cosa voglio di più - Curatore: Fortunato, Simone - Regista: Silvio Soldini - Voto: 6/10 - domenica 30 maggio 2010
Due amanti consumano il loro amore segreto in una Milano frenetica.
Sembra di essere in un carcere, e in uno dei più duri, dove però la cella è la tua casetta, il tuo mutuo, il lavoro massacrante, l’ansia di arrivare alla fine del mese, il capo con il braccino corto e il sabato sera davanti a un dvd a noleggio. E poi ci sono i figli che, va da sé, sono solo fatica. L’ultimo film di Soldini parla ancora di persone in trappola, come già in “, dove si seguivano, in un crescendo di ansia e speranze deluse, le disavventure di un uomo che aveva perduto il lavoro; così si segue, con altrettanto disagio, la parentesi, quasi una vacanza, sessuale dei due protagonisti, gli ottimi Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino. Il disagio è notevole e direttamente proporzionale al realismo anche nei dettagli più piccoli, con cui Soldini incornicia il suo dramma. E’ vero, è vita dura per la classe media sempre più fragile nei momenti di crisi: il lavoro che sembra non pagare mai, l’ansia da conto in rosso, la casa come un campo di battaglia in cui i figli sono spesso, inconsapevolmente, delle micce accese per l’incendio che verrà. E ancora: la famiglia un po’ ingombrante dei suoceri, il rapporto d’amicizia con i vicini di casa. Soldini, con poche parole e molti fatti, mostra una crisi evidente alla quale non c’è scampo, come ci ricorda un finale prevedibilmente cupo. Non c’è differenza tra la vita “normale” dei due protagonisti con i rispettivi compagni, e la parentesi sessuale che i due amanti si prendono strappandosi alla vita di tutti i giorni. E’ vita grigia, senza prospettive, forse anche squallida come sono i squallidi i motel a ore dove i due amanti si accucciano a cadenza settimanale. Non c’è rapporto che duri, né quello degli amanti, né quello dei coniugi. L’amore non regge perché non si intravvede nemmeno da lontano un orizzonte buono e positivo. Forse, a ben vedere, perché l’amore di solito è un “tu”, è un rapporto, e in Soldini invece diventa un affare solitario, da coltivare nel segreto della propria mente e da conservare nell’archivio della memoria del cellulare. E’ significativo a questo proposito che i due protagonisti non solo, letteralmente, girano a vuoto, non vanno da nessuna parte (compreso il viaggio in Egitto, di cui significativamente si vede poco o nulla), ma non hanno nessuno con cui dividere un giudizio, un’opinione, un riscontro su questo rapporto che nel bene e nel male è capitato, e con cui bisognerà pure fare i conti. E invece no: non un amico, non un conforto, con l’eccezione, piccola ma non banale, del suocero del protagonista. E’ una partita, quella dell’amore, da giocarsi in due, in coppia, tra le lenzuola calde di un albergo. Con l’esito, terribile, che in un rapporto diventi più necessaria la pillola anticoncezionale che il giudizio, magari inadeguato ma gratuito, di un amico. E allora: che cosa vogliamo di più ? Davvero, non il sesso selvaggio, non una casa più accogliente, nemmeno, forse una moglie più comprensiva o dei figli più tranquilli. No. Dateci un amico, un amico vero.


Responsabilità dei «magisteri paralleli» - Autore: Romano, Giovanni - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 30 maggio 2010

Caro Don Gabriele,

l’amico Gianfranco Amato mi ha proposto d’intervenire nel dibattito sui sondaggi e la bioetica. Non credo di essere particolarmente qualificato per intervenire ma seguendo il suo suggerimento vorrei rispondere sui punti che Lei ha sollevato.
1. C’è ben poco da aggiungere a quanto ha detto Lei e all’arido linguaggio delle cifre. Il fatto che dei cattolici praticanti e non solo anagrafici mostrino una tale distanza dall’insegnamento della Chiesa non è solo il sintomo di una grave approssimazione dottrinale nelle parrocchie, ma peggio ancora è la prova che a livello più alto esistono dei “magisteri paralleli” che consapevolmente censurano o distorcono il magistero del Papa. E’ la conseguenza, secondo me, di aver appiattito per troppi anni la dottrina della Chiesa in una dimensione intramondana dove la solidarietà per gli “ultimi” si colora abbondantemente di sentimentalismo, senza ancorarsi a nessun criterio oggettivo. Che cosa rende cattolico un pensiero o una posizione? La disponibilità a confrontarsi con il Magistero e agire di conseguenza.
2. L’appartenenza ecclesiale genera indubbiamente una posizione originale nei riguardi del “mondo”. Non è scontato, o non è più scontato, ad esempio, prendersi cura di una vita allo stadio terminale. Non è scontato stare di fronte a chi muore o a chi nasce con gravissime malformazioni se non si ha nulla cui fare riferimento. La caratteristica di una posizione di appartenenza dovrebbe essere appunto la capacità di non fuggire di fronte alla realtà.
3. Secondo me il denominatore comune tra ateismo e agnosticismo consiste nella pretesa di autosufficienza. Può variare il grado d’intensità e di militanza, ma la base è comune. Ciò non toglie che alcune posizioni siano più disposte al dialogo di altre.
4. Quali sono le condizioni di un vero dialogo? Non certo la rinuncia alle proprie posizioni ma al contrario la passione per quello che si è incontrato. Questo fa valorizzare ogni spunto di verità e di sincerità presente nell’altro. Mi è capitato di discutere accanitamente via Facebook con un amico molto ateo, e di restare a bocca aperta (letteralmente!) di fronte a una sua affermazione: “Da quando ti ho conosciuto, ho cancellato l’iscrizione a molti gruppi atei e anticlericali perché mi sono accorto di quanto fossero stupidi e volgari”. Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato! Noi cristiani non dovremmo mai sottovalutare il tesoro che portiamo nei nostri vasi di creta, guai a noi se lo annacquassimo! Quanto agli “atei devoti” prima di tutto bisognerebbe rifiutare questo termine spregiativo imposto dai media laici. Io parlerei di laici aperti alla fede. Certo c’è il rischio di strumentalizzare la religione, ma la loro posizione è degna della massima attenzione e rispetto. Senz’altro meglio di chi rifiuta la fede in quanto tale e le nega qualsiasi dignità.
5. “L’identità tra atto umano, atto morale e atto ragionevole ha ancora validità?”. Penso di sì, specialmente quando consideriamo che, ad esempio, creare una vita in laboratorio dove nulla è lasciato all’imprevedibile e alla gratuità, completamente finalizzata ai nostri scopi, sarebbe sentita come un atto assolutamente disumano. E’ umano, morale e ragionevole un gesto che lascia spazio a una dimensione oltre l’uomo, un gesto che non appartenga solo a una razionalità puramente strumentale.
6. Sull’intolleranza dell’UAAR non mi pronuncio. Se vogliono vivere sempre nel risentimento e se hanno sempre bisogno di un nemico è un problema loro.
7. “Le ragioni per difendere la vita sono universali?”. Agli occhi delle persone ragionevoli dovrebbero esserlo, pena l’estinzione della società in quanto tale. Ma siamo in una cultura dove l’ideologia è davvero diventata “l’intelligente destituzione del visibile”, come aveva intuito Hannah Arendt.
8. “La ragionevolezza di una posizione è determinata dalla educazione ricevuta e dalla tradizione in cui si è nati e cresciuti?”. Secondo me è un problema di libertà. L’appartenenza a una tradizione – specialmente quando viene assunta in modo acritico, come scriveva don Giussani – non è automaticamente indice di ragionevolezza. Certo una tradizione favorisce, ma in un’epoca che mette tutto in discussione occorre un lavoro per riscoprirne il valore e tornare a farla propria. Ancora Don Giussani citava questa splendida massima di Goethe: “Quel che hai ereditato dai tuoi padri riguadagnatelo per possederlo”.
9. Ai sondaggi, come agli exit-poll, si può far dire tutto e il contrario di tutto, e il modo di porre le domande è anche un modo di manipolare le risposte. Tuttavia credo che stavolta le cifre abbiano ragione. Il mondo cattolico è in una fase di grande confusione e disorientamento. Non è solo e nemmeno principalmente un problema di disciplina quanto di recupero della verità. Se i cattolici, specialmente i sacerdoti e i vescovi, pensassero di rendersi bene accetti al mondo dicendogli quel che gli piace sentirsi dire, tradirebbero non solo la Chiesa ma anche l’umanità, che da loro si aspetta “le risposte che non si trovano su Google”, e si condannerebbero all’irrilevanza e al disprezzo.


“Per i pedofili l’inferno sarà più duro” - GIACOMO GALEAZZI - CITTÀ DEL VATICANO - © Copyright La Stampa, 30 maggio 2010
Il Vangelo maledice i pedofili e l’inferno sarà ancora più duro per i preti che abusano dei minori. In un solenne atto penitenziale nella Basilica vaticana e in vista del monito che Benedetto XVI lancerà tra dieci giorni all’incontro mondiale del clero, Charles Scicluna, promotore di giustizia dell’ex Sant’Uffizio, trasforma in anatema la «preghiera di riparazione» a San Pietro: la peggiore dannazione attende i rappresentanti del clero che hanno violentato bambini.
Con parole pesanti come macigni, il pm che indaga i sacerdoti pedofili inquadra teologicamente la linea di «tolleranza zero» divenuta obbligatoria malgrado le resistenze di settori della gerarchia ecclesiastica. Il Pontefice persegue la «purificazione» della Chiesa dal «marciume» e nessuna omissione di vigilanza e di denuncia sarà più tollerata. Dopo i nuovi capi degli episcopati nazionali (Schönborn, Léonard, Zollitsch, Bagnasco) ieri è intervenuto un altro «ratzingeriano» che occupa un ruolo-chiave in Curia per marcare la netta discontinuità rispetto agli insabbiamenti e alle coperture del passato.
Quindi la Santa Sede dichiara ufficialmente che le pene dell’inferno aspettano tutti coloro che si sono macchiati del peccato di pedofilia, ma saranno ancora più dolorose per i religiosi che abusano dei minori. E a rilanciare la «terribile» condanna del Vangelo e dei Padri della Chiesa è stato, significativamente, il giudice ecclesiastico incaricato di seguire le denunce per pedofilia che giungono da tutto il mondo in Vaticano. Monsignor Scicluna ha preso spunto dal Vangelo di Marco in cui Gesù avverte che chi «scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare». Non a caso ha voluto commentare il brano attraverso la nettissima condanna di San Gregorio Magno.
«Chi dopo essersi portato ad una professione di santità distrugge altri tramite la parola, con l’esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare (ossia non religioso) piuttosto che il suo sacro ufficio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe, perché tendenzialmente se fosse caduto da solo il suo tormento nell’inferno sarebbe di qualità più sopportabile». Da stretto collaboratore del Papa, Scicluna ha evocato un’immagine degli inferi, la valle della Geenna dell’Antico Testamento, anche per mettere in guardia i religiosi di oggi dalle amicizie a dai legami che possono trasformarsi in peccato. «Se il mio amico, il mio compagno, la persona a me cara è per me occasione di peccato, è per me un inciampo nel mio peregrinare, io non ho altra scelta, secondo il criterio del Signore, se non di tagliare questo legame», avverte. «Chi negherebbe lo strazio di una tale scelta? Non è forse questa una crudele amputazione? Eppure il Signore è chiaro: è meglio per te entrare da solo nel Regno, senza una mano, senza un piede, senza un occhio, che con il mio amico andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile». Dunque è’«doloroso ma necessario» il «dovere dei vescovi di perseguire con assoluta severità gli abusi sessuali del clero, escludendo i colpevoli dal ministero sacerdotale e deferendoli ai giudici competenti».
© Copyright La Stampa, 30 maggio 2010


IL CASO - UNA DELIBERA ELENCA TRA LE CONTROINDICAZIONI UN QI INFERIORE A 70 - Disabili mentali discriminati - «Niente trapianti in Veneto» - L’attacco di tre esperti su una rivista americana L’assessore Coletto: per loro solo più attenzioni - In sala operatoria Nel 2009 il Veneto ha eseguito 438 trapianti - http://corrieredelveneto.corriere.it - Michela Nicolussi Moro - 29 maggio 2010
VENEZIA—Proprio alla vigilia della «XII Giornata nazionale della donazione» di scena domani e dopo il «sì» del ministero della Salute ai donatori samaritani, il Veneto — che nel 2009 ha già visto aumentare dal 21,6% al 27,3% i rifiuti al prelievo di organi — si ritrova al centro di una bufera internazionale perchè accusato di discriminare i pazienti candidati al trapianto. L’attacco parte dai professori Nicola Panocchia e Maurizio Bossola, nefrologi del «Gemelli» di Roma, e da Giacomo Vivanti, psicologo dell’Università della California, che in un articolo pubblicato sull’ «American Journal of Transplantation » denunciano: «Le linee guida della Regione Veneto indicano il ritardo mentale come una controindicazione al trapianto e di fatto escludono pazienti con disabilità intellettiva da questa procedura salvavita». «Tali disposizioni—affermano i medici — non trovano nessuna giustificazione di tipo etico, clinico o giuridico. Che il ritardo mentale medio o grave sia una controindicazione al trapianto è una disposizione discriminatoria priva di logica e tanto più grave se perpetrata da un’istituzione pubblica. Non c’è nessuna prova scientifica che giustifichi l’esclusione dei disabili intellettivi». Specifica Bossola: «Tutte le Regioni adottano dei criteri per l’inserimento dei pazienti in lista d’attesa ma il criterio di esclusione è una malattia psichiatrica grave, che ridurrebbe la possibilità di adesione alle terapie antirigetto. Invece nelle linee guida del Veneto c’è un criterio di controindicazione assoluta all’inserimento di persone con ritardo mentale, stimato peraltro usando una misura grossolana, quella del quoziente intellettivo».

Tra gli esclusi, avverte il nefrologo, finirebbero bimbi Down o autistici. Il j’accuse si riferisce all’allegato A della delibera 851 del 31 marzo 2009, che recita: «L’esperienza clinica degli ultimi anni ha messo in luce la necessità di individuare le problematiche psichiche e sociali del paziente candidato al trapianto d’organi, al fine di prevenire o arginare eventuali complicanze psichiche post-trapianto». Seguono due elenchi. Il primo nelle «controindicazioni assolute» indica anche il «ritardo mentale con QI inferiore a 50»; il secondo nelle «controindicazioni relative» (richiedono «attenta valutazione psichica del paziente e del sistema sociofamiliare in cui è inserito») include il «ritardo mentale con QI inferiore a 70». Il tutto, agli occhi dei critici, aggravato dalla seguente frase inserita in delibera: «La possibilità di usufruire del trapianto trova ancora una limitazione nella scarsità di organi disponibili. Ciò rende assolutamente necessario prestare particolare attenzione alla selezione dei pazienti». Apriti cielo. «Le discriminazioni in base a criteri psichici sono ingiuste come quelle basate su sesso, età, etnia e vanno eliminate», tuona Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica.

Immediata la reazione dell’assessore veneto alla Sanità, Luca Coletto: «Abbiamo il dovere di porci tutti i problemi che possano portare al fallimento di un trapianto, anche perchè nessuno al mondo dispone di tanti organi quanti sono i richiedenti. Nel caso di soggetti con ritardo mentale il Veneto si rifà alla letteratura scientifica internazionale, che definisce quelli con QI inferiore a 70 pazienti non da escludere ma ai quali porre particolare attenzione, perché presentano controindicazioni da valutare attentamente. Si tratta di capire se siano in grado di seguire le complicate terapie post-intervento — prosegue Coletto — se abbiano una famiglia che li assista, se i comportamenti legati alla loro condizione possano nuocere al buon esito del trapianto nel tempo. Porterò il tema al Coordinamento degli assessori alla Sanità delle Regioni, per giungere ad una condivisione ». Un salvagente lo lancia intanto Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale Trapianti: «Posso garantire che nel Veneto, regione capofila, a nessun paziente con ritardo mentale è stato mai negato l’intervento. Anche i disabili, mentali o fisici, hanno pari diritto al trapianto se possono beneficiare dell’organo donato sia in termini di attesa di vita sia perchè in grado, in autonomia o con adeguata assistenza, di fruirne al meglio. Le linee guida venete, documento corretto e dettagliato, citano studi internazionali per dire che il problema esiste, ma le tabelle riportate non hanno valore operativo di screening dei candidati al trapianto».
Michela Nicolussi Moro - 29 maggio 2010


Un fatto inaudito - Pigi Colognesi - lunedì 31 maggio 2010 – ilsussidiario.net
Fin dall’ultima settimana di aprile avevo pensato che uno dei successivi editoriali l’avrei dedicato a Maria, ricordata con specialissima intensità e tenerezza durante il mese di maggio. Ma poi non mi veniva lo spunto, ogni idea mi sembrava banale e mi sono ridotto a sfruttare l’ultimo giorno utile. Il materiale a disposizione era in realtà pressoché infinito: bastava dare un’occhiata alla storia dell’arte, sfogliare qualche antologia letteraria, fare un giro fra città, campagne e vallate strapiene di segni di devozione alla Madonna. O passare una domenica in qualche santuario mariano, dove un popolo fatto di gente normale si rivolge fiducioso alla Madre del cielo.
Eppure qualcosa non andava. Ho dovuto così ammettere di essere lontano dalla semplicità di quel popolo, dalla carnale confidenza che ha costruito i capolavori d’arte, dettato le pagine di poesia, suscitato le note degli infiniti canti popolari. Subisco la tentazione di un cristianesimo intellettuale, dove prevale la teoria, l’analisi, il discorso. Invece in quella giovane ragazza si è trattato solo di fatti, di cose e di accadimenti.
Quando la civiltà non era ancora intaccata dal tarlo dell’intellettualismo si dava privilegio ai fatti; per questo i medievali amavano così tanto le reliquie. Comprese quelle della Madonna.
Naturalmente non si trattava del suo corpo, assunto in cielo, ma di oggetti a lei legati. Come il velo che portava quando è nato Gesù e che l’imperatore Carlo il Calvo nell’876 donò alla Chiesa di Chartres.
Vescovo, clero e popolo ingrandirono a più riprese la vecchia cattedrale per onorare una reliquia così importante; fino alla maestosa costruzione romanica dell’inizio dell’anno mille.
Ma nel 1194 un disastroso incendio distrusse il magnifico edificio.
Persino la preziosissima reliquia sembrava perduta. Il senso cristiano dei fedeli capì subito che la disgrazia era un segno del cielo che invitava alla conversione. E grandissima fu la gioia quando, tra le macerie, fu ritrovato il santo velo. Iniziò allora l’opera di ricostruzione. Ha scritto Huysmans: «In Francia a quei tempi la Madonna era amata: come si ama colei che ci ha partorito, come si ama un’autentica madre. Alla notizia che Lei, scacciata dall’incendio, è costretta ad errare in cerca di un rifugio, tutti si affliggono, scoppiano in pianto sconvolti; le popolazioni lasciano a mezzo i loro affari, abbandonano le loro case per correre in suo soccorso».
E in pochi decenni sorse la nuova, splendida cattedrale, coi suoi magnifici portali zeppi di statue, con le sue vetrate nelle quali ogni corporazione di mestieri ricollegava il proprio lavoro alla storia sacra, con le sue guglie inconfondibili, che da lontano salutano il pellegrino. La reliquia della Madonna aveva ritrovato la sua degna dimora.
Ma poi è venuto il cristianesimo intellettuale. Quando ho visitato Chartres il velo della Vergine se ne stava dimenticato in una cappella laterale, scura, un po’ polverosa, con un cartello esplicativo che parlava di vecchie credenze e di leggende medievali. Le guide turistiche si concentravano piuttosto sulle innovazioni formali del gotico francese o sulle tecniche usate dai mastri vetrai. Come se quella gente avesse fatto il capolavoro della cattedrale per solleticare i gusti estetici dei loro pronipoti o le ambizioni intellettuali dei turisti. Invece l’hanno edificata per una “cosa”, il velo della Madre di Dio, piccolo segno di un fatto inaudito.
E se anche fosse stata una reliquia inventata, oltre mille anni di preghiera la rendono più significativa di tutte le nostre elucubrazioni.





domenica 30 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 30/05/2010 – VATICANO - Papa: La Trinità abita in noi dal giorno del Battesimo, con l’aiuto del sacerdote - Dopo mesi in cui si parla dei sacerdoti solo per la questione dei preti pedofili, Benedetto XVI ricorda il valore del sacerdote nell’introdurre i fedeli e nel far crescere in loro la vita cristiana. Una nuova beatificazione. La richiesta di preghiere per il suo viaggio a Cipro, dove presenterà l’Instrumentum laboris per il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Un libro del card. Celso Costantini.
2) L'educazione antiautoritaria non è educazione - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 28 maggio 2010
3) Dio aiuti il Papa a convertire i vescovi – di Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010
4) Radio Vaticana - 29/05/2010 – Preghiera in San Pietro per l'espiazione degli abusi commessi da sacerdoti
5) Comunione materiale e comunione spirituale - In attesa di mangiare come gli angeli - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
6) Un lungimirante scritto del 1906 - Le carrube amare del socialismo reale - Anticipiamo un articolo che sarà pubblicato sul numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". Si tratta di un'opera giovanile di Sergej Bulgakov, scritta nel 1906 e pubblicata prima della rivoluzione. Proprio perché, a ragione della giovane età, manca ancora all'autore lo spessore doloroso dell'esperienza, stupisce la lucidità con cui coglie l'origine della crisi incombente. - di Sergej Bulgakov - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
7) Con la crisi della secolarizzazione ritorna la teologia politica - Nuove maschere del superuomo - di Paolo Becchi - Università di Genova - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
8) MESE MARIANO, LEZIONE DI UMANITÀ - DAVANTI ALLA MADRE SI TORNA A DOMANDARE - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 maggio 2010


30/05/2010 – VATICANO - Papa: La Trinità abita in noi dal giorno del Battesimo, con l’aiuto del sacerdote - Dopo mesi in cui si parla dei sacerdoti solo per la questione dei preti pedofili, Benedetto XVI ricorda il valore del sacerdote nell’introdurre i fedeli e nel far crescere in loro la vita cristiana. Una nuova beatificazione. La richiesta di preghiere per il suo viaggio a Cipro, dove presenterà l’Instrumentum laboris per il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Un libro del card. Celso Costantini.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “La Trinità divina.. prende dimora in noi nel giorno del Battesimo: ‘Io ti battezzo – dice il ministro – nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’”. Nella domenica della Trinità, tema della sua riflessione all’Angelus di oggi in piazza san Pietro, Benedetto XVI non ha cercato di spiegare il mistero di Dio con riflessioni teologiche o filosofiche, ma , come i Padri della Chiesa, ne ha indicato la presenza nella esistenza del cristiano. “La mente e il linguaggio umani – ha detto il papa - sono inadeguati a spiegare la relazione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
Ogni volta che tracciamo il segno della croce, egli ha aggiunto, noi ricordiamo “il nome di Dio nel quale siamo stati battezzati”. Il pontefice ha citato il teologo Romano Guardini, che a proposito del segno della croce, osserva: “lo facciamo prima della preghiera, affinché … ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato … Esso abbraccia tutto l’essere, corpo e anima, … e tutto diviene consacrato nel nome del Dio uno e trino” (Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia 2000, 125-126).
La coscienza e l’esperienza della Trinità si approfondisce grazie al sacerdote. Dopo mesi in cui si dibatte nei media solo il problema dei preti pedofili, il pontefice offre alcuni spunti positivi dell’opera dei sacerdoti nella Chiesa. Riferendosi al vangelo di oggi, in cui Gesù promette agli Apostoli che “quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13), il papa ha aggiunto: “Così avviene nella liturgia domenicale, quando i sacerdoti dispensano, di settimana in settimana, il pane della Parola e dell’Eucaristia. Anche il santo Curato d’Ars lo ricordava ai suoi fedeli: ‘Chi ha accolto la vostra anima – diceva – al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? … sempre il sacerdote’(Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale)”.
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI, ha ricordato che oggi, nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma è avvenuta la beatificazione di Maria Pierina De Micheli, religiosa dell’Istituto delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires: “Giuseppina – questo il suo nome di Battesimo – nacque nel 1890 a Milano, in una famiglia profondamente religiosa, dove fiorirono diverse vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. A 23 anni anche lei imboccò questa strada dedicandosi con passione al servizio educativo, in Argentina e in Italia. Il Signore le donò una straordinaria devozione al suo Santo Volto, che la sostenne sempre nelle prove e nella malattia. Morì nel 1945 e le sue spoglie riposano a Roma nell’Istituto Spirito Santo”.
Salutando poi i pellegrini di lingua francese, ha chiesto loro preghiere per la sua visita apostolica a Cipro dal 4 al 6 giugno prossimi, dove egli presenterà lo strumento di lavoro (Instrumentum laboris) in preparazione al Sinodo delle Chiese del Medio oriente il prossimo ottobre.
Infine, nei saluti ai pellegrini di lingua italiana, egli ha ricordato il gruppo di fedeli provenienti da Pordenone, giunti a Roma per onorare la memoria del card. Celso Costantini, del quale è stato presentato due giorni fa a Roma il volume del Diario, dal titolo Ai margini della guerra (1938-1947). “Questa pubblicazione – ha spiegato il papa - è di grande interesse storico. Il Cardinale Costantini, molto legato al Papa Pio XII, la scrisse quando era Segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Il suo Diario testimonia l’immensa opera compiuta dalla Santa Sede in quegli anni drammatici per favorire la pace e soccorrere tutti i bisognosi”. Il card. Costantini è stato nunzio in Cina dal 1922 al 1934.


L'educazione antiautoritaria non è educazione - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 28 maggio 2010
Occorre sottolineare sia la “passione dell’io per il tu, per il noi, per Dio”, sia il “linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione”
Sul blog “Settimo cielo” e sul sito “www.chiesa” di Sandro Magister del 28 maggio 2010 viene riportato che Benedetto XVI, arrivato a parlare della “emergenza educativa” quale tema centrale del programma della CEI dei prossimi dieci anni, ha interrotto la lettura del suo discorso, ha girato il foglio, sul cui retro aveva scritto a mano degli appunti, e così ha proseguito a braccio:
«Mi sembra necessario andare fino alle radici di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida. Io ne vedo soprattutto due.
- Una radice essenziale consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo auto sviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’”io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’“io” a se stesso. Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un “io” completo in se stesso, mentre diventa “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”.
- L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura e la seconda fonte la Rivelazione. Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso. La Rivelazione viene considerata come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o – si dice – forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro.
Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero di natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri. E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare. Così, in questo “concerto” – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’“io” al “tu”, al “noi” e al “Tu” di Dio.
La domanda educativa esige di farsi carico delle nuove generazioni con un’opera di testimonianza unitaria, integrale e sinergica, che aiuti a pensare, a proporre e a vivere la verità, la bellezza e la bontà dell’esperienza cristiana. Non viene certo dallo Spirito Santo la tentazione che, a volte, induce genitori, insegnanti, catechisti e sacerdoti ad affievolire l’impegno educativo. Sono i momenti in cui sembrano prevalere la stanchezza, il senso di inadeguatezza e di inefficacia, l’affanno di fronte a ritmi di vita sempre più incalzanti. Un simile contesto culturale mette spesso in dubbio anche la dignità di ogni persona, la bontà di ogni vita, il significato stesso della verità e del bene. In effetti, quando al di là dell’individuo nulla è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei suoi bisogni immediati. Si fa, allora, ardua e improbabile la proposta alle nuove generazioni del “pane” della verità, per il quale valga la pena spendere la vita, accettando, quando necessario, il rigore della disciplina e la fatica dell’impegno».


Dio aiuti il Papa a convertire i vescovi – di Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010
La Chiesa è una cosa troppo importante (e troppo preziosa) per essere lasciata a preti, vescovi e prelati. Ci pensavo partecipando a una recente puntata di “Annozero” dove si parlava degli scandali della pedofilia (del clero) e un vescovo, mandato dalla Cei, ha fatto, poveretto, una figura desolante.

Non ha saputo rispondere alle domande più ovvie, appariva palesemente impreparato quando si trattava di difendere il papa e la Chiesa da accuse ingiuste, e non ha saputo dire parole cristiane a chi è stato vittima di abusi. Eppure gli bastava ripetere sinceramente le cose grandi e umili che ha detto Benedetto XVI.

Ma non voglio colpevolizzare il povero monsignore di Palestrina, fin troppo biasimato in questi giorni dai suoi confratelli che lo hanno mandato allo sbaraglio e che lì, nella fossa dei leoni, ha pensato di cavarsela distribuendo maldestre risate.

Non sono abituati, molti di loro, a esporre la faccia alle cannonate. Hanno vissuto sempre in sacrestia e non hanno mai rischiato qualche sprangata per annunciare Gesù Cristo. Non sanno dare ragioni.

Ma quel che è peggio pochi – fra i prelati – sembrano voler capire quello che il Papa sta dicendo, sta facendo e sta chiedendo. Molti sembrano intenzionati a far finta di nulla. Ignorando questa sua rivoluzione pericolosa per le loro poltrone e le loro ambizioni.

Dunque (lo dico da cattolico, da militante cattolico che è pronto a dare anche la vita per Gesù Cristo e per la Chiesa) non lasciamo la Chiesa nelle mani di una gerarchia oggi largamente inadeguata al momento grande e drammatico che viviamo.

Non è un caso che Benedetto XVI abbia messo la Chiesa nelle mani della Madonna a Fatima e che in un precedente viaggio in Australia abbia chiesto ai laici, al popolo cristiano, di aiutarlo a estirpare dalla Chiesa il cancro marcio della pedofilia del clero e degli abusi sessuali.

Che non sono un dramma a sé, ma sono la punta dell’iceberg di uno smarrimento generale, di un peccato che comprende tante altre cose. Come quell’ “abuso di autorità” e quel “carrierismo” che il Papa ha denunciato il 26 maggio scorso e che storicamente (anche nei nostri tempi) ha caratterizzato notevole parte della gerarchia.

Rivoluzione

E’ una vera rivoluzione quella che Ratzinger sta cercando di fare. Una declericalizzazione che vuole far risplendere la bellezza del volto di Gesù.

Oggi più che mai perciò è necessario aiutare il Papa che quasi ogni giorno tuona, chiedendo ai prelati e ai preti “penitenza e purificazione”, sottolineando la necessità di sradicare il “carrierismo” e ripetendo “la necessità della giustizia” per le vittime che hanno subito violenze da preti.

Si tratta di aiutare il Papa perché nella Curia romana e fra i vescovi non sembra di vedere schiere di penitenti vestiti di sacco con la cenere sulla testa. O almeno disposti a mettere in discussione seriamente se stessi e le proprie “ambizioni”.

Fra le poche eccezioni c’è il cardinale Bagnasco che nella sua prolusione alla Cei di tre giorni fa ha avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga.

E ieri, dopo l’ennesimo richiamo del Santo Padre, ha osato affermare che in Italia vi è “la possibilità” che ci siano state coperture anche di qualche vescovo su casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti. “Si tratta – ha detto – di una cosa sbagliata, che va corretta e superata”.

Il linguaggio ovattato e curiale può dar fastidio. Ma la prudenza stessa di questo inedito pronunciamento fa capire quanto forte sia la resistenza a questo umile riconoscimento.

E a questa sacrosanta necessità di fare giustizia. Che, fra l’altro, è il solo atteggiamento che rende poi credibili nel difendere altri preti che magari sono stati calunniati ingiustamente.

Ovviamente adesso si aspettano i fatti. Dovranno essere i vescovi a mostrare cosa significa seguire il papa e a chi si riferisce Bagnasco. Nell’attesa – che ci si augura breve – ci si può cimentare però con i casi già noti. Come quello di Firenze su cui un pronunciamento – e durissimo – della Santa Sede, che ha ridotto allo stato laicale quel personaggio, don Cantini, c’è già.

Scandalo fiorentino

Pronunciamento, arrivato nel 2008, che è anche un pesante giudizio su come ha agito la Curia fiorentina almeno dal 2004.

Eppure non risulta che vi sia mai stato – anche dopo la sentenza di Roma – un umile riconoscimento della propria inadeguatezza (per così dire, con un eufemismo) da parte del cardinale Antonelli che se n’è andato per limiti di età, mentre il vescovo ausiliario Maniago è ancora – incredibilmente – al suo posto.

Non risulta che la Curia di Firenze – le cui gerarchie hanno ripetutamente solidarizzato con se stesse – abbia mai chiesto ufficialmente e solennemente “perdono” alle vittime per quello che hanno subito da un prete.

Vittime che peraltro mostrano una coscienza cristiana commovente: per la loro sconvolgente capacità di perdono e per aver continuato a chiedere provvedimenti seri alla Chiesa come si fa con una madre, senza mai intentare cause civili miliardarie, come è stato fatto in altri Paesi.

Dobbiamo forse sospettare che sia proprio questa loro bontà ad aver provocato la sordità di coloro che dovevano intervenire subito? Si aspettano risposte serie.

Ma ora occorre dar seguito a ciò che Roma ha decretato, chiedendo oltretutto di aver cura materna delle vittime, che invece sembrano ancora essere considerate “nemiche”.

Occorre un grande atto di umiltà. Vorremmo vedere vescovi e cardinali capaci di gesti che la cristianità dei secoli passati sapeva fare (magari anche facendosi da parte: andando a servire in un lebbrosario del Terzo Mondo).

Vorremmo vederli piangere con chi piange, come il Papa a Malta, e inginocchiarsi davanti a coloro che, da bambini, subirono un orrore che portano ancora addosso e che vanno riconosciuti finalmente come il vero volto di Cristo crocifisso e non come nemici.


E’ stato il papa stesso, a Fatima, a dire che le loro sofferenze rappresentano la peggior persecuzione subita dalla Chiesa.

Il Re in ginocchio

Sarebbe bello che questa purificazione penitenziale cominciasse proprio da Firenze, una città di cui Gesù Cristo è stato dichiarato Re, dal Comune, molti secoli fa.

Perché lui, Gesù, il Nazareno, espresse la sua “regalità” proprio così: inginocchiandosi davanti a quei dodici esseri umani che aveva davanti, cioè davanti a ognuno di noi, indegnissimi peccatori. Inginocchiandosi – Lui, il Re dell’universo – davanti a ognuno di noi e lavando a ciascuno i piedi, come – a quel tempo – facevano gli schiavi.

Gesù comandò di essere come il Figlio di Dio “che non è venuto per farsi servire, ma per servire”.

Non è un’esagerazione evocare questo sconvolgente passo del Vangelo perché è stato il Papa stesso, nel discorso del 26 maggio, a citarlo per ribaltare il concetto di “gerarchia” e per rivoluzionare la Chiesa purificandola e rinnovandola.

“Gerarchia”, ha detto il Papa, in genere viene inteso in senso giuridico, come potere e questo – ha detto – è stato “storicamente causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso dell’autorità gerarchica”.

Il suo significato vero sta proprio in quel gesto di Gesù, nel “servire”. Preti, vescovi, cardinali dovrebbero cominciare a concepirsi come “servi”, non come padroni della fede e della Chiesa.

Il Papa e noi, popolo cristiano, li vorremmo finalmente umili, distaccati da ambizioni, soldi e potere.

Capaci di riconoscere i propri errori e di chiedere perdono. Uomini che puntano alla santità – come ha ripetuto il Papa – non a conservare o conquistare una miserabile poltrona, la cui sciocca gloria dura un attimo e poi è divorata dalle tarme.

Come diceva il grande Tommaso Moro: “è già un pessimo affare dare la propria anima per il mondo intero, figurarsi per la Cornovaglia…”.
Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010


Radio Vaticana - 29/05/2010 – Preghiera in San Pietro per l'espiazione degli abusi commessi da sacerdoti
Una mattina di adorazione eucaristica e di preghiera per l'espiazione degli abusi commessi da alcuni sacerdoti si è svolta questa mattina all'altare della Cattedra in San Pietro. Promossa dagli studenti delle università pontificie a Roma, come gesto di solidarietà nei confronti di Benedetto XVI, l'iniziativa è stata patrocinata dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica e vicario generale del Papa per lo Stato della Città del Vaticano. All’adorazione eucaristica è seguita la meditazione guidata da mons. Charles J. Scicluna, promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, che è partito dal duro monito di Gesù, come riportato dal Vangelo di Marco: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare”. Mons. Scicluna ha riproposto l'interpretazione che del passo diede San Gregorio Magno nella Regola Pastorale, al secondo capitolo della parte prima, dedicata ai “Requisiti del pastore d’anime”, e intitolato “Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio”. Nel commentare la frase di Gesù, San Gregorio Magno scriveva: “La macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile”.


Comunione materiale e comunione spirituale - In attesa di mangiare come gli angeli - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Il significato dell'Ultima Cena si trova ampiamente illustrato e approfondito nella grande "teologia" e catechesi eucaristica del sesto capitolo del vangelo di Giovanni. "Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me" (Giovanni, 6, 51-57, passim). È il frutto dell'Eucaristia: la comunione di vita con Gesù Cristo, in una vicendevole "immanenza".
Ma occorre comprendere esattamente che cosa significhi "mangiare" il corpo e "bere" il sangue di Cristo. Con questo atto non viene materialmente divorata la carne del Signore e consumato il suo sangue. E infatti meno appropriatamente, nella professione di fede prescritta nel 1059 a Berengario di Tours, si parlava del corpo di Cristo che "veramente e sensibilmente, e non solo sacramentalmente, viene toccato e spezzato dalle mani del sacerdote, e masticato dai denti dei fedeli". Tommaso d'Aquino chiarirà che Cristo è realmente presente nell'Eucaristia, ma nella modalità della "sostanza" (Summa Theologiae, iii, 75, 1, c; 76, 1, 3m). Cristo - egli scrive - è presente "spiritualmente" cioè "invisibilmente e in virtù dello Spirito" e "viene mangiato con una modalità spirituale e divina" (Super Ioannem, vi, viii, iv, n. 992).
Nel contesto eucaristico il "mangiare" e il "bere" assumono, di conseguenza, un'accezione affatto unica e singolare: significano, cioè, una comunione "spirituale", intendendo "spirituale" non come alternativo ma inclusivo del sacramento, che veramente contiene il Corpo e il Sangue del Signore. La conseguenza è evidente: solo una comunione in questo senso "spirituale" è destinata a "riuscire", mentre una comunione solamente "materiale", o "carnale", per quanto spesso ripetuta, non può essere efficace.
Va però anzitutto rilevato che il principio di questa comunione è l'amore offerto da Cristo, ossia il dono che egli fa della propria vita, proseguendo la "tradizione" della Croce. "Nel sacramento - insegna ancora Tommaso - mediante la verità del suo corpo e del suo sangue, egli ci congiunge a sé" (Summa Theologiae, iii, 75, 1, c). Ecco perché, sempre secondo l'Angelico, l'Eucaristia appare "il segno della più grande carità" e dell'"unione più familiare" di Cristo con noi (ibidem), col risultato di una adesione di vita: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue - sono le parole di Gesù, già sopra citate - rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me".
Ma, proprio perché comunione "spirituale", occorre in chi riceve l'Eucaristia la corrispondenza della fede e della carità, che, per l'opera dello Spirito Santo, dispongono il credente a ricevere il dono che Cristo fa della sua vita e della vita del Padre suo. Se manca questa adesione e accoglienza intima, il sacramento è destinato a non riuscire. L'indifferenza e la diffidenza rendono vana e inefficace la pura manducazione "carnale" del Corpo di Gesù.
San Tommaso insiste sulla necessità che la comunione sacramentale si risolva in comunione spirituale. Ci sono, infatti, due modi di ricevere il corpo e il sangue di Cristo, l'uno puramente sacramentale, l'altro anche spirituale. Col primo si riceve "solo il sacramento, senza il suo effetto"; col secondo si assume il sacramento e la sua realtà profonda, la sua res: allora abbiamo la "manducazione spirituale nella quale si percepisce l'effetto di questo sacramento, consistente nell'unione con Cristo attraverso la fede e la carità" (ibidem, iii, 80, 1, c). Diversamente, avremmo una comunione imperfetta e incompiuta: l'intenzione del sacramento resterebbe come innaturalmente monca e sospesa.
D'altra parte, quest'ultima è possibile anche attraverso il suo desiderio: "Ci sono alcuni - dichiara ancora Tommaso - che mangiano questo sacramento spiritualmente, prima di assumerlo sacramentalmente". Avviene - e vale anche per il Battesimo - quando ci sia il desiderio di ricevere l'Eucaristia; anche già prima della sua istituzione era però possibile comunicarsi a essa spiritualmente, secondo la dottrina di Paolo (1 Corinzi, 10, 2) sui Padri che hanno mangiato il "cibo spirituale" e bevuto la "bevanda spirituale" (Summa Theologiae, iii, 80, 1, 3m).
Certo, il Dottore angelico ha un concetto forte di desiderio, ben altro che una vaga e superficiale aspirazione. Ecco perché può affermare: "Tutti sono tenuti a mangiare almeno spiritualmente, dal momento che questo significa essere incorporati a Cristo. Senza il voto di ricevere questo sacramento non ci può essere salvezza per l'uomo" (ibidem, 11, c).
Tommaso si chiede persino se gli angeli assumano spiritualmente questo sacramento e risponde che vi è una "manducazione spirituale" non mediata dal sacramento e dalla fede e consistente nell'unione con Cristo attraverso la carità perfetta e la sua visione immediata: e questa è la manducazione spirituale degli angeli, non la nostra: "noi un pane simile lo aspettiamo nella patria" (ibidem, 2, c). Ma se è vero che gli angeli spiritualmente mangiano Cristo la manducazione spirituale che loro compete non è quella che avviene col desiderio del sacramento, com'è per noi.
Senza dubbio "alla comunità del Corpo mistico appartengono sia gli uomini sia gli angeli", ma questi "nell'aperta visione", quelli invece "nella fede", "che vede la verità "come in uno specchio e in maniera confusa" e a cui sono consoni i sacramenti (ibidem, 2m). Dove c'è la visione non c'è la mediazione della fede e del sacramento e quindi una manducazione spirituale di Cristo che avvenga col desiderio dell'Eucaristia. Ma un'altra considerazione di Tommaso è particolarmente originale e illuminante, quella in cui attribuisce alla manducazione spirituale di Cristo fruita dagli angeli la funzione di modello rispetto alla nostra manducazione sacramentale. La comunione eucaristica sacramentale - egli osserva - è ordinata, come a fine, alla comunione celeste con Cristo, già goduta dagli angeli.
Ecco, allora, che "la manducazione di Cristo con la quale lo assumiamo in questo sacramento in certo modo deriva dalla manducazione di Cristo di cui beneficiano gli angeli in patria. Perciò si dice che l'uomo mangia "il pane degli angeli"" (ibidem, 3m): questo, infatti, anzitutto e originariamente, riguarda gli angeli, che ne fruiscono secondo il suo aspetto proprio; è invece derivatamente pane degli uomini, che ricevono Cristo nella forma del sacramento (ibidem, 2, 1m). Quaggiù gli uomini colgono la presenza di Cristo mediante la fede; gli angeli lo avvertono presente con la visione immediata (ibidem).
Un primo punto interessante di questa dottrina è la natura cristologica della beatitudine degli angeli e quindi la loro aspirazione a lui: anch'essi sono saziati e appagati dalla visione di Gesù Cristo. Cristo è il Pane di tutti. Non vi è felicità che possa prescindere da lui o desiderio che non ne sia l'aspirazione. Un secondo punto è il carattere transitorio del sacramento eucaristico, che contiene realmente il Corpo e il Sangue di Cristo, ma come in uno stato di provvisorietà e di precarietà, "fin che venga" (1 Corinzi, 11, 26), in attesa cioè che la realtà del Signore e la comunione con lui (res del sacramento), da celate divengano manifeste, convertendosi in esauriente visione.
(©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010)


Un lungimirante scritto del 1906 - Le carrube amare del socialismo reale - Anticipiamo un articolo che sarà pubblicato sul numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". Si tratta di un'opera giovanile di Sergej Bulgakov, scritta nel 1906 e pubblicata prima della rivoluzione. Proprio perché, a ragione della giovane età, manca ancora all'autore lo spessore doloroso dell'esperienza, stupisce la lucidità con cui coglie l'origine della crisi incombente. - di Sergej Bulgakov - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Chi è abituato a considerare in modo riflessivo la realtà che lo circonda e a prestare ascolto all'autentica voce della vita, al suo sussurro segreto e intimo che di solito, all'orecchio distratto, viene coperto dal rumore e dal baccano della piazza, difficilmente troverà inattesa e discutibile l'affermazione che nell'esistenza spirituale dell'uomo moderno ormai da lungo tempo c'è qualcosa che non va, sta maturando una crisi che forse è presagio di una svolta brusca e imminente. Questa crisi è stata preparata da tutta la storia moderna. A partire dalla fine del Medioevo la vita spirituale dell'umanità, che ha operato prodigi mai visti storicamente nel campo della tecnica e della cultura materiale in genere, che ha sviluppato a un livello senza precedenti il sapere scientifico, in particolare le scienze esatte, che ha manifestato una creatività sociale su scala mai vista, che ha portato il pensiero filosofico a vette di acume e di finezza mai raggiunte prima, che ha creato un'arte poderosa in tutte le sue diverse ramificazioni, tutta questa vita spirituale si è sviluppata sotto il segno di un principio di vita laico, extrareligioso e persino antireligioso, ha affermato un principio esclusivamente umano, antidivino, ha coltivato i precetti di un umanesimo unilaterale o astratto. In questo senso, a tutta la cosiddetta era moderna andrebbe attribuito il nome che è stato dato a una sola delle sue epoche iniziali: il secolo dell'umanesimo nel senso puramente naturalistico, pagano, nel senso della rivolta di un'umanità divenuta consapevole delle proprie forze, contro la visione del mondo ascetica medievale, erroneamente confusa con il cristianesimo autentico, cioè universale, contro il clericalismo medievale dell'inquisizione, erroneamente scambiato per la Chiesa di Cristo. Per la nostra patria l'epoca dell'umanesimo arriva solo nel xix secolo, soprattutto nella sua seconda metà: in parte come naturale riflesso dell'umanesimo occidentale, in parte, invece, come inevitabile protesta contro il catechismo di Filaret, scambiato per una descrizione precisa ed esauriente della dottrina cristiana, e contro il clericalismo poliziesco alla Pobedonoscevz, confuso con la vera vita della Chiesa. L'umanità ha rotto con la tutela patriarcale e ha abbandonato per sempre le volte opprimenti, ancorché maestose, del gotico medievale. Il figlio prende la sua parte di eredità e lascia la casa del padre, parte per un "paese lontano", per vivere in libertà.
Ed ecco che la libertà è gustata, la maturità spirituale acquisita con l'esperienza è raggiunta, ma la parte di eredità portata via da casa già si sta esaurendo, comincia il tempo delle carrube amare e della fame spirituale, nel quale affiora involontariamente alla memoria la casa del padre abbandonata. Il figlio prodigo dei nostri giorni sta appena cominciando, in segreto, nel profondo dell'anima, a sospirare la patria che ha lasciato, e forse non è ancora vicino il tempo in cui compirà l'atto di rinuncia a se stesso, vincerà l'esasperata affermazione di sé e dirà: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di Te".
Ma già da ora è fuori dubbio che l'umanità odierna non si nutre spiritualmente delle ricche vivande che si aspettava, bensì di carrube amare e indigeste, che danno solo un'illusione di sazietà senza placare la fame. "Angoscia di popoli in ansia" (Luca, 25-26): questo, per ora, l'esito finale della cultura contemporanea, che si imprime invisibilmente nella vita intima, nel punto più profondo della coscienza di tutta l'umanità. Basti solo pensare ai valori supremi e ultimi che la nostra epoca compiaciuta di sé eppure smarrita continua a riconsiderare. Non sono forse carrube amare l'impotenza del pensiero filosofico contemporaneo, ridottosi a un formale lavoro scolastico; oppure l'inguaribile nevrastenia intellettuale e morale dei suoi rappresentanti più esigenti, come Nietzsche, con il suo adogmatismo scettico elevato a dogma, con l'amoralismo trasformato in sistema morale; o, infine, lo scetticismo leggero e baldanzoso in salsa estetico-religiosa di Renan, con un romanzo d'appendice al posto del Vangelo? Anche la scienza moderna ha acuito straordinariamente la vista spirituale dell'umanità su tutto ciò che riguarda la scorza esteriore dei fenomeni, tuttavia, non ha sollevato di un pollice il velo di Iside, che cela la natura dei fenomeni stessi. La tecnica odierna ha reso l'uomo uno splendido artigiano, ha perfezionato e affinato il suo strumento di lavoro, ma l'uomo che vive in questo artigiano resta, come prima, con la mano tesa. L'arte contemporanea, con tutta la ricchezza e lo sfarzo delle nuove forme della tecnica artistica, si abbassa sino al morto naturalismo o a una tendenziosità suicida; mistica per sua natura, l'arte soffre soprattutto per lo sradicamento religioso che caratterizza quest'epoca. Tutta la cultura contemporanea, cresciuta come un albero rigoglioso e possente, sta cominciando ad avvizzire e a sbiadire per mancanza di alimento mistico e religioso. È nei rapporti vicendevoli che l'uomo contemporaneo ha dovuto assaggiare la maggiore amarezza. L'epoca dell'umanesimo ha messo in campo i grandi precetti cristiani, l'antica eredità paterna: gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, ma li ha messi in campo come una sua creazione e una sua proprietà, strappando questo splendido fiore dal suo stelo d'origine. Per incarnare questo ideale ha mobilitato enormi forze sociali, raccogliendo tutta l'armata internazionale del socialismo, che sta ingaggiando con successo una giusta lotta per questi stessi ideali. Vengono create nuove forme, sempre più perfette, di comunicazione e di aggregazione esterna fra le persone; nella costruzione del socialismo, dalle mura si è arrivati al tetto e non è lontano il tempo in cui la vittoria dei suoi principi diventerà (e già lo sta diventando) un fatto compiuto, e il mondo capitalista crollerà, per lasciare il posto a quello socialista. Ma ecco affiorare alla coscienza dell'uomo una domanda fatale e terribile: i frutti di questa vittoria non saranno anch'essi solo delle carrube amare? La vittoria esteriore del socialismo creerà davvero la solidarietà tra gli uomini? Le persone saranno più vicine fra loro? Si instaurerà fra loro non solo l'uguaglianza ma la fraternità? Crescerà l'amore sulla terra? Saranno veramente uniti da un legame interiore più forte coloro che appartengono a una sola unione, a un solo partito, e che si assumono il compito di fare del bene all'umanità tramite riforme esteriori? Pensiamo che una risposta sincera e onesta a questa domanda non possa essere positiva. Non è il riavvicinamento fra persone, sia pure unite esteriormente, a caratterizzare la nostra epoca, bensì l'isolamento e la solitudine: una sorta di parete di vetro, trasparente ma percettibile, separa i cuori umani. Pur con tutta la solidarietà esteriore predomina la solitudine spirituale, non abbiamo la fraternità ma un individualismo micidiale, senza vie d'uscita, e non abbiamo l'uguaglianza basata sull'umiltà interiore delle singole persone, ma la presunzione e la volontà di potenza (Wille zur Macht!): questa è la vera situazione spirituale dell'umanità.


Con la crisi della secolarizzazione ritorna la teologia politica - Nuove maschere del superuomo - di Paolo Becchi - Università di Genova - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Una delle grandi narrazioni su cui si è fondato l'Occidente moderno è quella che è stata presentata esemplarmente da Max Weber come il processo di razionalizzazione e disincantamento del mondo. Questo modello di auto comprensione secolare della modernità ha comportato come risultato non solo il dissolversi della metafisica nelle scienze particolari, ma altresì la riduzione della religione, e più in generale dei valori e delle norme morali, alla sfera privata della coscienza individuale. Al positivismo scientistico orientato al paradigma di razionalità di una scienza neutrale rispetto ai valori, ha fatto così da pendant la perdita della dimensione pubblica della religione, ridotta, in modo analogo all'etica, a questione privata. Di contro alla razionalità tecnico-scientifica, le scelte etiche e religiose erano decisioni individuali, frutto di sentimenti personali, in ultima istanza irrazionali.
Da tempo l'etica cerca di affrancarsi da questo schema. Sia sufficiente qui richiamare i tentativi posti in essere da John Rawls con la sua teoria della giustizia, da Hans Jonas con il suo principio di responsabilità, per giungere sino all'etica del discorso di Karl-Otto Apel, dove massimo è lo sforzo per sviluppare una fondazione ultima razionale dell'etica. Questi tentativi di "stabilizzazione della filosofia pratica" (con la parziale eccezione di Jonas) si stagliano in un orizzonte privo di presupposti trascendenti. Il buon Dio sembrava così continuare ad aver esaurito la sua funzione e il paradigma weberiano a non essere revocato in dubbio almeno per quel che riguardava la religione. L'etica poteva pure diventare pubblica, ma la religione restava confinata alla sfera privata.
Il fatto incontrovertibile dell'irruzione della religiosità che, in forme diverse, sperimentiamo negli ultimi anni sulla scena pubblica, ha messo in crisi questo modo di pensare. Da questo nuovo fenomeno scaturisce quella che si potrebbe definire la "riabilitazione della teologia politica". Per molti questo significa un pericoloso ritorno al passato e addirittura un grosso rischio per la democrazia. A dire il vero, credo che altri siano i rischi per la democrazia, se è appena sufficiente che un'agenzia di rating americana alzi un po' la voce per mettere in ginocchio l'Unione degli Stati europei. Come che sia, non passa quasi giorno che sui giornali non appaia un appello a favore della ragione laica, dove si rispolverano in senso neoilluministico cianfrusaglie ideologiche del tutto inadeguate a cogliere la realtà che abbiamo di fronte.
La questione cruciale può essere così formulata: l'Occidente è minacciato da questo ritorno della teologia politica o non è piuttosto il paradigma della secolarizzazione che spinto all'estremo rischia di collassare? Proponiamo un tentativo, sia pure soltanto abbozzato, di risposta. Si vuol riempire l'assenza di Dio, o quantomeno il suo ritrarsi dalle vicende umane, trasferendo la sua (perduta) onnipotenza all'homo creator. Questo è l'ultimo ardito passo della secolarizzazione. La volontà umana diventa la controfigura di quella divina. La liberazione della libertà da ogni dipendenza esteriore che la modernità ha tenacemente perseguito si rivela, nella tarda modernità in cui stiamo vivendo, come il delirio di una libertà assoluta che genera i mostri di una volontà di potenza nei confronti non più soltanto della natura esterna, ma persino di quella interna, della natura umana.
L'affrancamento dalla trascendenza, l'assolutizzazione dell'immanente, sta avendo come paradossale conseguenza il rimpicciolimento dell'uomo: per dirla con Nietzsche, "l'uomo è finito su un piano inclinato e ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale". Da soggetto di dominio l'uomo è divenuto oggetto del dominio, strumento passivo e inerte di sperimentazioni tecniche sempre più raffinate e sconvolgenti. Questo è il programma dell'ingegneria genetica e dei suoi molti adulatori, ed è questo il rischio più grande del nostro tempo, quello che mette seriamente a repentaglio la sopravvivenza dell'uomo sulla terra.
Siamo tutti in rete, ma anche tutti intrappolati nella rete. Dappertutto e in nessun luogo, abbiamo già perso la cognizione dello spazio. E ora stiamo rischiando di perdere anche la cognizione del tempo. La specie umana sembra arrivata al capolinea della sua evoluzione e già si delinea all'orizzonte una nuova realtà: il post-umano, la creazione di una nuova specie mediante l'intervento diretto sul codice genetico di quella esistente.
È possibile contrastare questa folle corsa verso il nulla? L'etica e il diritto dimostrano, al riguardo, tutta la loro fragilità: con il "patriottismo costituzionale" possiamo soltanto fare degli impacchi a un malato di cancro. Di fronte al pericolo estremo, infatti, c'è bisogno di un antidoto più efficace. L'apertura alla trascendenza, un rimosso in fondo sempre presente, non può forse di nuovo ritornare a offrire una importante risorsa motivazionale? Come fondare l'indisponibilità dell'integrità umana, se non recuperando, al limite nella forma di una teologia negativa, quella categoria del sacro troppo frettolosamente data per spacciata? Prima di assurgere a soggetto con Cartesio, l'uomo non ha mai trovato in sé, nel fundamentum inconcussum della propria certezza di sé, la misura che lo costituisce: l'ha trovata soltanto nello spazio religioso. Per impedire, oggi, che il processo di assolutizzazione dell'uomo, il mito del superuomo, paradossalmente si rovesci nel suo totale annichilimento, occorre recuperare il senso religioso del limite, riscoprire il brivido del sacro, come orizzonte ultimo di senso.
E il senso del sacro, per l'occidente giudaico-cristiano, comincia con Dio che crea l'uomo "a sua immagine", dotandoci in questo modo di una dignitas trascendente, che ci colloca in una posizione speciale nella natura. Il richiamo a questo residuo punto religioso può essere la nostra salvezza. La razionalità da sola non basta, ha bisogno di nutrirsi di sostanze che non riesce a generare da sé. Hic Rhodus, hic saltus!
(©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010)


MESE MARIANO, LEZIONE DI UMANITÀ - DAVANTI ALLA MADRE SI TORNA A DOMANDARE - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 maggio 2010
Finisce maggio, quello che una volta era il mese dei Rosari nelle corti della cascine, la sera. Delle processioni dietro alle Madonne di gesso, portate come in trionfo per le strade mentre la gente sulle soglie delle case si se­gnava. Solo memorie del passato? In un con vegno internazionale a Oropa e Crea si è par lato di Madonne nere: quelle icone dal volto negro diffusamente venerate, da Czestochowa a Montserrat. Ben 745 Madonne nere in Euro pa, o almeno quelle finora censite: una schie ra, una costellazione nascosta. Ma, e questa è la notizia che colpisce il profano, le Madonne non erano originariamente negre: lo sono di ventate per la lunga esposizione ai fumi delle candele e delle lampade votive. Quel colore bruno, è il deposito di secoli di devozione.

Un tempo rosee, le Madonne si sono andate scurendo nella umidità, nella polvere, nel fia to dei fedeli che andavano a implorarle, a ca rezzarle con la mano; nell’ardere tremolante delle fiamme dei ceri accesi a chiedere una guarigione, o il ritorno di un figlio dal fronte. Nere di preghiere le icone che secondo alcuni studiosi indicavano invece la commistione con antichi culti pagani, o esoterici. Macché, di cono gli esperti convenuti a Oropa e Crea: è sta ta una secolare, tenace devozione a imbruni re i volti antichi di una donna, e un bambino. E quando quelle immagini venivano copiate, magari per emigrare oltreoceano, venivano di pinte nere: perché quella era il volto stampa to nella memoria del popolo, che non poteva essere tradita.

È una notizia, la origine di quel colore nero, che commuove. Settecento Madonne nere, dalla Lettonia alla Spagna all’Irlanda; in Fran cia, numerosissime; più frequenti là dove la Rivoluzione non ha annientato ogni segno cri stiano (la mappa delle Madonne nere soprav vissute potrebbe raccontare una sua storia di Francia). E proprio l’ombra scura su quei vol ti testimonia il pellegrinaggio, una generazio ne dopo l’altra, di cristiani: il tenace ritorno al la madre. Quanti milioni di mani, di sguardi imploranti si sono posati su quelle Madonne? Nell’ombra dei loro volti, il distillato di una fe de popolare. Umile come una mano tesa di mendicante.

Già: umile. Da sempre la Madonna è cara ai cri stiani semplici, a quelli che non sanno di teo logia, che non si vantano di una fede 'raffina ta'. Ma vanno a domandare: una speranza, u na quiete nel dolore - una misericordia. ('Me­morare, o piissima Virgo Maria, a saecula non esse auditum quemquam ad tua currentem praesidia, tua implorantem auxilia, tua pe tentem suffragia esse derelictum', dice, e qua si intima, la preghiera di san Bernardo: ricor dati che non si è mai sentito che qualcuno che ha domandato il tuo aiuto sia stato abbando nato).

L’umiltà di secoli di domanda rappresi in una patina nera è un capitolo muto della nostra storia, una radice ignorata ma forte di questa Europa che delle sue radici dubita. Perché pro prio l’attitudine semplice del domandare - e non pretendere, manipolare, possedere - è ciò che oggi ci manca. Il disarmato domandare da figli - figli magari anche indegni, disonesti, bu giardi, e però fiduciosi in una madre - è un ge sto inammissibile, per chi non riconosce pa­dri. Non è, il domandare, roba da uomini - per chi del mondo si sente padrone.

E quindi non ci saranno più Madonne nere di fumo e di carezze. O forse sì: nei santuari, do ve sui muri allineano colonne di ex voto con scritto: grazie. Perché nel momento del dolo re, ancora, gli uomini 'raffinati' tornano sem plici, e vanno a domandare. Dal dolore ricon dotti a ciò che sono: figli. Ultimi di quelle schie­re infinite passate davanti alle Madonne nere d’Europa. Pezzo di un’altra storia, che sui libri di scuola non è raccontata.