mercoledì 30 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La «libertas Ecclesiae», vero confine al totalitarismo moderno, di Mons. Luigi Negri
2) Il cambio di guardia al Campidoglio: i tanti significati di un risultato inatteso
3) Bologna, addio al progetto della nuova moschea
4) Leggere la Bibbia. Chi, quando, dove, come, perché
5) La Chiesa cattolica chiede il rispetto della libertà religiosa - Intervista al Direttore editoriale di "Mondo e Missione", Gerolamo Fazzini
6) EMERGENZA ALIMENTARE - NESSUNO ORMAI PUÒ FARE SOLO PER SÉ
7) Turco fa violenza alla legge 40?


La «libertas Ecclesiae», vero confine al totalitarismo moderno
Luigi Negri30/04/2008
Autore(i): Luigi Negri. Pubblicato il 30/04/2008 su IlSussidiario.net
La Chiesa ha maturato, nei vari secoli della sua storia e nelle circostanze più diverse, il concetto di libertas Ecclesiae non come una libertà da (non, ad esempio, come libertà dallo Stato), ma, fondamentalmente, come la possibilità di essere se stessa, di esprimere la sua originalità culturale ed etica, fino alle diverse conseguenze di carattere culturale, sociale e politico.
La libertà è caratteristica fondamentale della presenza della Chiesa e della sua missione, secondo la grande intuizione ambrosiana dell’«ubi fides, ibi libertas». In questo senso la libertà della Chiesa di essere se stessa, cioè di vivere la sua missione, rappresenta un grande fattore di inculturazione della fede e di creazione di una forma di società. Tale forma di società non si deduce meccanicamente dalla fede, ma è stata certamente, in alcuni momenti della storia della Chiesa, un'espressione significativa e singolare della novità dell'esperienza cristiana. Basti pensare allo straordinario insegnamento che Christopher Dawson ci ha lasciato sulla civiltà occidentale, che non è l'unica possibile civiltà cristiana, e non deve quindi essere né idealizzata né sacralizzata astrattamente, ma certamente è un'espressione particolarmente significativa e ben riuscita di una inculturazione della fede.
Da questo punto di vista, il concetto di libertas Ecclesiae è andato maturando lungo tutta la grande tradizione canonistica medioevale, fino ad arrivare all'inizio della società moderna. Allorquando lo Stato ha preteso di riprendersi una totalità di presenza nella vita della persona nella società, è proprio sul concetto di libertas Ecclesiae che la Chiesa ha ingaggiato la sua plurisecolare resistenza all'assolutismo e al totalitarismo moderno. Se la Chiesa deve essere libera di essere se stessa, e non può che tendere a questa libertà perché essa è condizione della sua presenza e della sua missione, allora è chiaro che deve denunciare tutti i tentativi che nel corso della storia si sono attuati per restringere questa libertà di missione: libertas Ecclesiae è sinonimo di libertà di missione, libertà di presenza.
La Chiesa attua questa sua libertà di presenza anche contestando quelli che essa ritiene non-valori, pur accettando che essi diventino operabili. I valori in quanto si negoziano in un dibattito politico o parlamentare, infatti, non ricevono da questo dibattito la loro validità, ma semplicemente la loro “operabilità” in un contesto. La positività o meno di un valore, sulla cui discussione si inserisce la libera azione di presenza e di testimonianza della Chiesa, è nella corrispondenza tra questo valore e la natura profonda dell’uomo.
Come già detto, la libertà nell'esperienza cattolica non è mai una libertà da, non è una libertà di fuga, ma una libertà di presenza. In che contesti questo concetto di libertas Ecclesiae è stato singolarmente sfidato, e quindi è maturato? Noi sappiamo, infatti, che le sfide della storia sono le sfide attraverso le quali un soggetto autenticamente storico matura, approfondisce la consapevolezza della sua identità e ne matura una capacità attuativa.
La sfida più grossa alla libertas Ecclesiae è venuta da quel fenomeno che globalmente possiamo chiamare totalitarismo moderno, da intendersi non come un modo di esercitare il potere, ma innanzitutto come un modo di concepire il potere. Nella civiltà occidentale cristiana, dominata dal concetto di libertas Ecclesiae, ci sono stati certamente dei modi autoritari di esercitare il potere, ma mai una concezione autoritaria del potere. Viceversa, nell'età moderna ci sono stati modi di pensare l'attuazione del potere singolarmente corretti dal punto di vista procedurale (ciò che Annah Arendt chiamava la "democrazia totalitaria"), ma la concezione del potere è, dall'età moderna in poi, una concezione totalitaria. Una concezione cioè secondo cui la società e quindi lo Stato si presentano come i valori definitivi della persona e della società stessa: la sintesi della personalità individuale, la sintesi dell'esperienza della socialità nella sua articolazione e variegazione trovano il loro contenuto definitivo nello Stato. È proprio a proposito di questo Stato autoritario che Pio IX, nel Sillabo, ebbe a dire che «lo Stato come fonte autonoma di tutti i diritti gode di un diritto che non conosce confini». Di fronte a questa concezione, la Chiesa ha affermato con forza che c'è un confine, che lo Stato non può superare: il confine della coscienza personale. E in questo senso è sorta una battaglia contro il totalitarismo di Stato o di partito.
Adesso, invece, la minaccia forse più grande è quella di un totalitarismo della tecnoscienza e della sua follia: la versione più terribile del totalitarismo di oggi (benché molti cattolici non se ne rendano conto) ha il volto terribile della follia della tecnoscienza.
Per questo come cattolici dobbiamo avere una grande gratitudine per Giuliano Ferrara; non perché ha presentato una lista (cosa che riguarda un aspetto tecnico-partitico che non intendo analizzare), ma perchè ha riproposto con chiarezza che l'attacco alla vita, e quindi l'attacco alla persona e alla sua libertà, oggi viene dalle follie della tecnoscienza.
Lavorando per la propria libertà, la Chiesa ha lavorato per la libertà di tutti, secondo l'espressione sintetica della Centesimus Annus fatta propria ripetutamente da Benedetto XVI. Se in Occidente, e non solo, si è salvata la libertà della coscienza e quindi la libertà dei popoli e delle nazioni contro questo totalitarismo omologatore di tutto ed eversore di tutte le differenze, è accaduto perchè la Chiesa ha difeso la sua libertà di essere Chiesa, cioè di non dover necessariamente confluire nel confine dello Stato, e di essere di fronte allo Stato una realtà non riducibile ad esso o in alternativa ad esso.
Quindi esiste una distinzione: ed è la Chiesa stessa, innanzitutto, a ritenere che Stato e Chiesa siano nel loro ordine «distinti e sovrani», come dice la Costituzione italiana, ripetendo peraltro una definizione data nel quinto secolo da Papa Gelasio. Ma proprio perché sono distinti c'è una irriducibilità per cui la Chiesa non diventa mai politica, e la politica non può mai diventare Chiesa. Nella sua essenza profonda, il ribadire che la Chiesa è e deve essere libera di esercitare una presenza missionaria nel mondo, ha significato anche affermare questo principio, poi ripreso dalla nostra Carta Costituzionale.


Il cambio di guardia al Campidoglio: i tanti significati di un risultato inatteso
Renato Farina29/04/2008
Pubblicato il 29/04/2008 – IlSussidiario.net
Quanti insegnamenti dalla vittoria a Roma di Alemanno. Li metto in fila, sicuro che altri potranno aggiungerne di più interessanti a mente meno agitata dalle emozioni.
1) Alemanno non ha impostato la sua proposta ai romani sull’ideologia, ma sull’unità tra le persone dinanzi ai problemi. Niente ideologia, molta presenza, e la proposta di un metodo. Si rifletta. I suoi avversari hanno visto in un successo di Alemanno la crescita della “marea nera”. Insomma, le persone che avessero votato il candidato del Pdl sarebbero nemici della libertà, complici di potenziali dittature, un fascio di interessi abietti. Anche Rutelli – persona per tanti versi stimabile – è caduta in questa trappola.
2) La paura. La partita si è giocata molto a proposito di questa parola. Alemanno ha spiegato che esiste il diritto a non avere paura, che la sicurezza è un bene che consente di vivere, ha chiamato tutti a collaborare ad una convivenza dove il nemico sia la violenza. Lo hanno accusato di cavalcare la paura, solo perché l’ha riconosciuta e offerto la possibilità di uscirne. Rutelli e i suoi compagni hanno invece individuato non una paura reale, e nemica della povera gente, ma la loro paura di perdere il potere. Indicare in Alemanno un uomo di cui avere paura in quanto esponente della “destra” è stato l’ultimo atto di una costruzione della realtà parametrata sugli interessi di quel giro di potere che tiene in mano Roma da 15 anni.
3) Interessante un fatto. Alemanno ha avuto la stampa contro, le televisioni contro. Nei duelli televisivi, a mio sommesso giudizio, ha pure perso le partite dal punto di vista dialettico: la tecnica di Rutelli era più affinata, eppure… Alla fine in questo mondo dominato da internet dove vince la legge della giungla e dell’etere e della carta stampata dove vince la cultura nichilista: ha vinto uno che è il loro bersaglio perfetto. Vuol dire che il potere non è onnipotente. Che esiste un potere dei senza potere, una serie di rapporti veri, di gente cui si suona il campanello, che è più forte e credibile del tam tam indistinto. Non è poca cosa. Dà speranza.
4) Adesso è il momento di una grande responsabilità. Occorre che la politica nel momento in cui s’insedia, s’incadrega, come si dice in Lombardia, non abbandoni il metodo che ha dato ragione al Popolo della libertà. Questo metodo è quello della fiducia in questi uomini che siamo noi italiani, noi romani, noi milanesi, noi palermitani. C’è qualcosa dentro di noi che desidera il bene. La tradizione cristiana di cui volenti o nolenti siamo figli, magari fedifraghi ma figli, è risuonata in questa campagna elettorale nella testimonianza di alcuni candidati, di alcuni leader. Essi – penso a Formigoni, ad Alemanno, anche in certi nuovi accenti di Berlusconi – non pretendono di essere i maghi che danno la felicità agli uomini e alle donne, ma persone che hanno fiducia nella capacità dei loro simili e del popolo di ricordarsi di quel desiderio originario che li porta a costruire qualcosa di buono.
5) Questa vittoria diventa una cosa seria se non creerà nuove camarille sul modello delle antiche, ma darà impulso alla risposta più necessaria che c’è: quella all’emergenza educativa. I sindaci sono importanti. Da certe parti si è passati dallo statalismo allo staterellismo. Anch’essi sono chiamati a lasciar spazio alle energie positive e finora soffocate che pur cercano di rialzarsi in questo disastrato Paese. Disastrato sì, ma con un desiderio magnifico di ripresa, di smettere di lamentarsi che anche le elezioni romane confermano.


Bologna, addio al progetto della nuova moschea
La nascita del centro era subordinata alla creazione di una fondazione e al distacco netto dall’Ucoii…
Dietro-front per il progetto della nuova moschea di Bologna, che da tempo ha provocato critiche e malumori in larga parte della cittadinanza. Il Centro di cultura islamica, l’ente che avrebbe dovuto gestire la struttura, ha infatti detto no alle due condizioni di trasparenza chieste dall’amministrazione comunale. Un doppio rifiuto che ha fatto dire all’assessore all’urbanistica Virginio Merola che «così viene meno la credibilità del nostro interlocutore. Per noi il progetto non esiste più». Merola aveva inviato, prima delle elezioni, una lettera al centro sollecitando la nascita della fondazione che avrebbe dovuto garantire la trasparenza dei fondi investiti nella moschea. L’idea, nata da Alleanza nazionale e appoggiata dal Comune, era stata condivisa anche dai cittadini del quartiere San Donato, dove la moschea sarebbe dovuta sorgere e che da tempo dibattevano la questione.
Inoltre l’assessore aveva chiesto al centro di tagliare ufficialmente i ponti con l’Ucoii.
Daniele Paracino, vicepresidente del centro islamico, ha confermato di non avere neanche risposto alla lettera di Merola. «I nostri rapporti con l’Ucoii non hanno niente a che vedere con questo progetto», ha spiegato, aggiungendo che, anche a riguardo della fondazione, il centro ha piani diversi: «Stiamo ragionando su una soluzione meno dolorosa dal punto di vista economico e più trasparente». Forse una Onlus, sicuramente non la fondazione richiesta dal Comune. Perentoria la reazione di Merola: «Se pensano che gli accordi raggiunti con i cittadini siano carta straccia, allora non siamo di fronte ad un interlocutore credibile».
Dunque, di fronte ad «una risposta così chiara», «non ci sono più le condizioni per andare avanti». E a Merola Cristina Marri, segretario provinciale dell’Udc, ricorda che le due condizioni – cioè rinnegare l’Ucoii e la fondazione – «non sono sufficienti perché lasciano irrisolto anche l’altro grande problema : quello della rappresentanza. Non si può pensare di realizzare un progetto come quello ipotizzato che resta, seppur ridimensionato, assolutamente ingiustificabile in un rapporto esclusivo con un interlocutore che non può certo essere rappresentativo del mondo musulmano». Da più parti si fa notare che la mossa dell’amministrazione comunale potrebbe essere legata alle prossime elezioni amministrative, e al timore di perdere consensi adottando una linea eccessivamente lassista.
Per Enzo Raisi, capogruppo di An al consiglio comunale di Bologna, «la richiesta della creazione di una fondazione per assicurare trasparenza nella provenienza dei fondi per costruire la moschea e quella circa un netto distacco dall’Ucoii erano proposte «di buon senso» che erano state formulate mesi fa come condizioni per avviare un percorso con la comunità islamica.
Avvenire 29 aprile 2008


Leggere la Bibbia. Chi, quando, dove, come, perché
Una grande inchiesta in tredici paesi del mondo. I primi risultati relativi a Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia. Il tutto in preparazione del prossimo sinodo dei vescovi

di Sandro Magister
ROMA, 30 aprile 2008 – Il sinodo dei vescovi che si terrà in Vaticano in ottobre avrà per tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Il precedente, nell'ottobre del 2005, aveva avuto per tema l'eucaristia.

In vista del prossimo sinodo la Federazione Biblica Cattolica ha promosso un'indagine in tredici paesi del globo su "La lettura delle Scritture". L'indagine è stata condotta da GFK-Eurisko e coordinata dal professor Luca Diotallevi, docente di sociologia all'Università di Roma 3.

I primi dati, relativi a nove dei tredici paesi esaminati, sono stati presentati il 28 aprile nella sala stampa vaticana dallo stesso Diotallevi, dal vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Federazione Biblica Cattolica, e dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, biblista di fama mondiale e presidente del pontificio consiglio della cultura.

I dati sono stati ricavati da 13 mila interviste condotte negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia. Riguardano l'insieme della popolazione adulta. I dati riguardanti i soli cattolici saranno resi noti in un secondo tempo.

I quattro paesi nei quali l'indagine è ancora in corso sono Argentina, Sudafrica, Filippine e Australia.

* * *

Una prima considerazione che emerge è che in Nordamerica e in Europa la Bibbia non è soltanto il libro di un particolare gruppo religioso, ma un testo di riferimento capitale per tutti.

Non in tutte le nazioni, però, la Bibbia è presente e incide allo stesso modo. L'ondata secolarizzante produce effetti molto differenziati da regione a regione. Negli Stati Uniti e in Italia tali effetti appaiono più contenuti che in altri paesi dell'Europa Occidentale, tra i quali la Francia risulta essere la nazione più scristianizzata. E poi c'è l'Europa Orientale, con i casi a loro volta distinti della Polonia e della Russia. Ogni paese, inoltre, ha una sua storia e un suo profilo religiosi.

Per questo, raramente le risposte all'indagine coincidono tra paese e paese.

Ad esempio, tranne che in Francia dove meno della metà hanno in casa una Bibbia, negli altri paesi la grande maggioranza della popolazione ne possiede una copia. In Italia il 75 per cento e negli Stati Uniti addirittura il 93 per cento.

Ma alla richiesta di dire se si è letto un brano della Bibbia negli ultimi dodici mesi, solo negli Stati Uniti le risposte sono diffusamente affermative. Lì i sì sono il 75 per cento, mentre in Italia scendono al 27 per cento e in Spagna al 20.

Alla lettura personale della Bibbia, in Germania, in Italia e in Polonia rispondono che preferiscono ascoltare un'omelia. In effetti, la partecipazione alla messa è per molti l'unico momento di contatto con le Sacre Scritture che vi vengono lette.

Anche il pregare utilizzando la Bibbia risulta più frequente negli Stati Uniti, col 37 per cento di risposte positive. E così in Polonia, col 32 per cento. Mentre in Italia si cala al 10 per cento e in Spagna all'8.

In genere, leggono di più la Bibbia coloro che partecipano a riti e gruppi che già praticano tale comportamento, E a sua volta chi legge personalmente la Bibbia è più portato a partecipare a tali riti e gruppi.

Alle domande se la Bibbia è vera o falsa, reale o astratta, interessante o noiosa, le risposte sono per lo più positive. Persino nella scristianizzata Francia il 62 per cento ritiene vero il contenuto delle Sacre Scritture. La tabella completa è riportata più sotto.

Quasi dovunque, però, la Bibbia è anche considerata un libro "difficile". Che quindi richiede di essere accompagnato e spiegato nella lettura.

Ai fini dell'interpretazione della Bibbia, la definizione più condivisa dappertutto – anche in Francia – è che essa è "parola ispirata da Dio, ma non tutto in essa deve essere interpretato alla lettera, parola per parola".

Subito dopo c'è chi dice che la Bibbia è solo "un antico libro di leggende, fatti storici e insegnamenti scritti dall'uomo" . A tale definizione i consensi più bassi sono in Italia e negli Stati Uniti.

Molti meno sono quelli che definiscono la Bibbia "parola diretta di Dio, che deve essere interpretata alla lettera, parola per parola". Tale definizione "fondamentalista" ha un seguito ovunque scarso, tranne che in Polonia, col 34 per cento, e negli Stati Uniti, col 27 per cento.

Circa la conoscenza di nozioni elementari riguardanti la Sacra Scrittura, i record di ignoranza se li aggiudicano la Russia e la Spagna. Mentre i punteggi migliori vanno a Germania, Polonia, Italia e Stati Uniti. Qui più di un terzo della popolazione adulta risponde correttamente che i Vangeli sono una parte della Bibbia, che Gesù non ha scritto alcun libro, che Mosè è un personaggio dell'Antico Testamento e che Paolo e Pietro non sono autori di Vangeli.

Curiosamente, i fondamentalisti mostrano di conoscere la Bibbia meno di quelli che la interpretano con spirito più critico.

Un'altra sorpresa data dall'indagine è il largo e quasi universale consenso all'idea che "nelle scuole si dovrebbe studiare la Bibbia", così come si studiano i grandi classici della letteratura. In Russia, ad esempio, i favorevoli sono il 63 per cento, in Italia il 62, nel Regno Unito il 60, in Germania il 56, mentre i contrari sono rispettivamente il 30 per cento, il 26, il 30 e il 27. L'unico paese in cui le posizioni si rovesciano è la Francia, dove i favorevoli sono il 24 per cento e i contrari il 60.

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Tutto vero, reale e interessante. Ma anche difficile

Dall'indagine SKA-Eurisko su "La lettura delle Scritture". Risposte in percentuale


PER LEI IL CONTENUTO DELLA BIBBIA È VERO O FALSO?

STATI UNITI – 88 vero 12 falso

REGNO UNITO – 66 vero 34 falso
OLANDA – 59 vero 41 falso
GERMANIA – 72 vero 28 falso
FRANCIA – 62 vero 38 falso
SPAGNA – 67 vero 33 falso

ITALIA – 86 vero 14 falso

POLONIA – 93 vero 7 falso
RUSSIA – 90 vero 10 falso


È REALE O ASTRATTO?

STATI UNITI – 75 reale 25 astratto

REGNO UNITO – 51 reale 49 astratto
OLANDA – 35 reale 64 astratto
GERMANIA – 59 reale 41 astratto
FRANCIA – 36 reale 64 astratto
SPAGNA – 39 reale 61 astratto

ITALIA – 64 reale 36 astratto

POLONIA – 66 reale 34 astratto
RUSSIA – 61 reale 39 astratto


È INTERESSANTE O NOIOSO?

STATI UNITI – 95 interessante 5 noioso

REGNO UNITO – 75 interessante 25 noioso
OLANDA – 66 interessante 34 noioso
GERMANIA – 83 interessante 17 noioso
FRANCIA – 75 interessante 25 noioso
SPAGNA – 74 interessante 26 noioso

ITALIA – 86 interessante 14 noioso

POLONIA – 91 interessante 9 noioso
RUSSIA – 81 interessante 19 noioso


È FACILE O DIFFICILE?

STATI UNITI – 44 facile 56 difficile

REGNO UNITO – 36 facile 64 difficile
OLANDA – 36 facile 64 difficile
GERMANIA – 30 facile 70 difficile
FRANCIA – 35 facile 65 difficile
SPAGNA – 39 facile 61 difficile

ITALIA – 38 facile 62 difficile

POLONIA – 32 facile 68 difficile
RUSSIA – 34 facile 66 difficile


La Chiesa cattolica chiede il rispetto della libertà religiosa - Intervista al Direttore editoriale di "Mondo e Missione", Gerolamo Fazzini
di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 29 aprile 2008 (ZENIT.org).- Il numero di aprile di “Mondo e Missione”, il mensile del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) dedica un servizio speciale di 16 pagine al tema della libertà religiosa, intitolato “Diritto di credere, diritto di vivere. La libertà religiosa sfida la politica”.
Utilizzando i dati forniti delle Nazioni Unite e dal Dipartimento di Stato americano, la rivista del PIME ha stilato una “Classifica sulla libertà religiosa negata”.
Iran, Arabia Saudita, Afghanistan e Pakistan, sono i 4 Paesi musulmani in testa alla poco onorevole classifica degli Stati nemici della libertà religiosa nel mondo.
Tra gli altri 10 Paesi più contrari alla libertà religiosa spiccano – oltre ad altri Stati a maggioranza islamica, come Bangladesh, Egitto, Turchia e Nigeria – una serie di Stati a guida comunista o socialista come Cina, Laos, Myanmar e Corea del Nord.
Per meglio comprendere i criteri e le ragioni che stanno alla base dello studio condotto da “Mondo e Missione”, ZENIT ha intervistato il Direttore editoriale, Gerolamo Fazzini, che è anche Coordinatore della FESMI (Federazione stampa missionaria italiana).
Qual è la situazione dei cristiani nei Paesi dove sono maggiori le violazioni alla libertà religiosa?
Fazzini: Difficile riassumere in poche parole una situazione complessa. Sinteticamente possiamo parlare, per quanto concerne i Paesi musulmani (Iran, Arabia Saudita, Afghanistan e Pakistan), di una condizione che oscilla fra l’esplicita persecuzione, a livello pratico, e la pesante discriminazione, sancita dalla legge.
I Paesi socialisti e comunisti (Cina, Corea del Nord, Myanmar e Laos), dal canto loro, in comune hanno normative assai rigide, che considerano la libertà di esprimere la propria fede pubblicamente come una concessione dello Stato e non come un diritto originario della persona.
Aggiungo che i cristiani sono vittime di un ostracismo culturale, legato a filo doppio alle vicende politiche (la guerra in Iraq e il conflitto israelo-palestinese): in molti contesti islamici, infatti, essi sono considerati strumentalmente dalle autorità nemici dell’islam in quanto “occidentali” o “crociati”; generalmente - invece - tra la gente comune i rapporti sono di tutt’altro segno.
Nel caso della Cina resiste, purtroppo, un pregiudizio anti-cristiano che considera il Vangelo una sorta di “prodotto di importazione” arrivato dall’Occidente non più di 400 anni fa (con Matteo Ricci), mentre è risaputo che la presenza di missionari cristiani in Cina è attestata fin dall’VIII secolo d.C.
In che modo le istituzioni internazionali ed il mondo che condivide e difende i diritti umani così come presentati dalla Dichiarazione universale del 1948 possono intervenire per difendere persone, famiglie e popoli i cui diritti sono violati, anche in ambito religioso?
Fazzini: Le istituzioni internazionali da tempo hanno cominciato a interessarsi di libertà religiosa, ma occorre che lo facciano con maggior convinzione e in maniera più sistematica, a partire dal presupposto che la libertà religiosa è un diritto umano fondamentale.
Attualmente esiste un “incaricato speciale” Onu che ha il compito di segnalare ai rispettivi governi le violazioni dei diritti in materia di fede che vengono compiute in un Paese determinato.
A mio parere un’evoluzione possibile di quest’azione potrebbe essere l’adozione di sanzioni economiche o di provvedimenti significativi di altro genere contro i Paesi che si macchiano di reati pesanti in questo campo.
Se ci si limita a deplorare, auspicando futuri cambiamenti di regimi tutt’altro che liberali, temo che il tempo non giocherà a favore di quanti hanno a cuore i diritti globali della persona.
La visita negli USA di Benedetto XVI è stata definita storica. Quali sono, secondo lei, i risultati dal punto di vista della difesa dei diritti umani e della libertà religiosa?
Fazzini: Dalla tribuna politica più prestigiosa del mondo, il Papa ha riaffermato un messaggio chiaro e inequivocabile: la libertà religiosa fa parte a pieno titolo dei diritti umani fondamentali e va garantita perché si possa parlare di vera civiltà.
“È inconcepibile, ha spiegato Benedetto XVI, che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.
Ancora: il Papa rivendica con forza il ruolo sociale dei credenti, a beneficio dell’intera società: “Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale”.
Cosa può fare la Chiesa di più e meglio su questo fronte?
Fazzini: A mio avviso c’è ancora molto da lavorare perché sia chiaro a tutti i credenti che difendere la libertà religiosa è una battaglia culturale e non una rivendicazione confessionale. Cito ancora il Papa: “Il diritto di libertà religiosa (va) compreso come espressione di una dimensione che è al tempo stesso individuale e comunitaria, una visione che manifesta l’unità della persona, pur distinguendo chiaramente fra la dimensione di cittadino e quella di credente”.
Una filosofa americana laica, Matha Nussbaum, in una recentissima intervista all’insospettabile “Repubblica”, dice: “Limitare l’espressione religiosa equivale ad uno stupro dell’anima. Perché dico questo? Perché legittimo e doveroso prendersi cura dei cristiani perseguitati, ma non basta”.
Lo ricordava anche il presidente uscente di “Aiuto alla Chiesa che soffre” in una recente intervista proprio a “Mondo e Missione”. “Quanto più saremo capaci di farci carico della situazione globale dei credenti cui è negato il diritto a esprimere la loro fede, tanto più saremo credibili nella nostra richiesta di aiuto ai cattolici cinesi, ai cristiani d’Iraq e via dicendo”.
Sogno una campagna di sensibilizzazione promossa da cristiani delle varie denominazioni in difesa delle minoranze islamiche discriminate dai regimi musulmani al potere, come accade in vari Paesi.
Lei coordina la Federazione stampa missionaria italiana (Fesmi), che raduna una quarantina di testate. Ritiene che i missionari stiano facendo la loro parte su questo specifico tema?
Fazzini: Se ci sono testate attente alla questione della libertà religiosa queste sono le riviste e le agenzie legate a istituti missionari (penso ad Asia News del Pime, che fa un lavoro egregio su questo versante).
Ma non esiterei ad affermare che si tratta di un impegno che andrebbe ulteriormente rafforzato ed esplicitato. Se, cioè, le varie realtà missionarie provassero a unirsi per lanciare un messaggio forte su questo tema, come è accaduto in vari altri momenti per denunciare le storture della globalizzazione, il debito estero ecc, tale presa di posizione avrebbe un effetto molto maggiore di quanto non accada oggi.
Per farlo, però, occorre vincere un residuo di pregiudizio, che vuole il tema della libertà religiosa come qualcosa di vetusto o, peggio, connotato ideologicamente. Non è affatto così. Una volta di più Benedetto XVI ce lo ha ricordato.


EMERGENZA ALIMENTARE - NESSUNO ORMAI PUÒ FARE SOLO PER SÉ
Avvenire, 30 aprile 2008
FULVIO SCAGLIONE
È in crisi, lo abbiamo detto mille vol­te. Ha dei leader che non sempre brillano per audacia e creatività, e an­che questo è noto. Ma in certi mo­menti e su certi problemi tocca sem­pre all’Onu battere il primo colpo di u­na vera azione collettiva. È successo di nuovo proprio ieri, quando Ban Ki­moon, il segretario generale delle Na­zioni Unite, ha annunciato un piano d’azione per affrontare su un piano globale l’emergenza-cibo che nei soli ultimi due anni ha respinto 100 mi­lioni di persone nella povertà totale (ovvero, vivere con 1 dollaro al giorno) da cui si erano con lunghi e faticosi sforzi sollevate. Questo dopo settima­ne in cui tutti i Paesi interessati, dagli Usa che razionano il riso nei super­market ai produttori come l’India che ne bloccano l’esportazione, dall’Egit­to degli assalti ai forni respinti dall’e­sercito alla Russia del blocco dei prez­zi dei generi di prima necessità, sem­bravano decisi a correre ognuno per sé. Come se questo, tra l’altro, fosse ancora possibile in un mondo in cui le frontiere economiche sono ormai quasi solo un ricordo.
Il piano dell’Onu fa ben sperare pro­prio perché non promette miracoli, ma chiede (e non auspica) una presa di coscienza politica che comporta sa­crifici. Non quelli dell’intervento d’ur­genza, i 755 milioni di dollari da inve­stire nel Programma alimentare mon­diale per scongiurare una carestia pla­netaria. E nemmeno i quasi 2 miliar­di di dollari che bisognerà trovare per consentire alla Fao (l’agenzia dell’Onu per il Cibo e l’Agricoltura) di stimola­re la reale messa a profitto dei campi nei Paesi in via di sviluppo. Tutto que­sto è solo denaro, basterà aprire il por­tafogli. Bisognerà invece aprire la mente e la coscienza quando, come prevede la terza fase del Piano, l’Or­ganizzazione mondiale del commer­cio ( Wto) dovrà ridiscutere le regole in merito soprattutto ai sussidi che i Paesi sviluppati (Europa e Usa per pri­mi) concedono con larghezza agli a­gricoltori, impedendo il decollo di al­tre aree del pianeta e relegando le lo­ro popolazioni nella povertà perma­nente.
Ban Ki-moon ha ricordato che già og­gi, quando cioè la portata di questa crisi non è stata fino in fondo misura­ta, 3 milioni e mezzo di bambini l’an­no muoiono di fame. Ed è giusto ri­cordarlo per una questione morale ma anche per una questione economica. La crisi ha colpito una sessantina di Paesi, e nessuno di essi è noto per le sue carestie. In altre parole: il cibo c’è, sono le distorsioni del mercato, le biz­zarrie del clima (per esempio la siccità che ha colpito l’Australia, che produ­ce il 16% di tutto il grano del mondo), le speculazioni e l’impiego sempre più massiccio di cereali per biocarburan­ti a renderlo una merce meno libera e disponibile. Il che, da un certo punto di vista, può consolare: si può rime­diare, ma bisogna volerlo fare e saperlo fare in fretta.
Dei propositi dell’Onu lascia semmai perplessi la folla di organizzazioni, ben 27, a cui essi vengono affidati. È una questione da non sottovalutare, come insegna uno studio realizzato da Ho­mi Karas e Abdul Malik per la Brookings Institution. Intanto nel 2007, per la prima volta in 10 anni, gli aiuti allo sviluppo sono diminuiti, fer­mandosi a 103,7 miliardi di dollari. Di questi 103,7 miliardi, solo 48 sono an­dati in piani di sviluppo strutturali; di questi 48 miliardi, solo la metà è arri­vata alle popolazioni, il resto si è 'di­sperso' (eufemismo) per via. In più, gli aiuti sono troppo frammentati: nel 1997 il finanziamento medio per pro­getto era di 2,5 milioni di dollari, nel 2004 di 1,5. In sintesi: troppi piccoli donatori e troppe agenzie che lottano per i fondi. Speriamo che la gravità del­la situazione induca a una migliore e più seria divisione di risorse e ruoli.


Turco fa violenza alla legge 40?
Avvenire, 30 aprile 2008
Ci sono atti politici che qualificano in modo indelebile chi li compie. Quello che starebbe per compiere il ministro dimissionario della Salute Livia Turco è indubbiamente, e gravemente, un gesto di questo tipo. Il condizionale è d’obbligo, ma le voci sono insistenti e circostanziate.
Il ministro uscente della Salute, come ogni altro membro del governo senza fiducia di cui fa parte, è tenuto ad agire solo per l’ordinaria amministrazione. E, invece, avrebbe deciso di emanare linee guida per l’applicazione di una normativa. E non di una normativa qualunque, ma di quella importantissima legge 40 sulla fecondazione artificiale che ha posto fine all’era di 'provetta selvaggia', che lei – Livia Turco – aveva apertamente avversato ripromettendosi di riscriverla, ma che poi – a governo ancora nei suoi pieni poteri – non aveva potuto permettersi di manomettere o di aggirare. Si sarebbe impegnata a farlo adesso: fuori tempo massimo. E fuori da ogni regola, sia sul piano della responsabilità politica sia su quello, delicatissimo, della deontologia ministeriale. Ma c’è di più. Risulterebbe, infatti, che il testo delle linee guida sarebbe stato firmato già da qualche giorno; e non in un momento qualsiasi, ma l’11 aprile scorso, data di chiusura della campagna elettorale per il nuovo Parlamento e il nuovo Governo. Mentre la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale sarebbe stata disposta per le prossime ore, evidentemente all’indomani dell’esaurimento del secondo turno di ballottaggio a Roma e nelle altre realtà amministrative locali. Voci assai dettagliate, come si vede. E circostanze che parlano da sole. Anzi gridano.
Oggi, probabilmente, ne sapremo di più. E osiamo ancora sperare – per amore alle istituzioni e alla buona politica – che si tratti di boatos senza fondamento.

lunedì 28 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Un errore emarginare i cattolici dalla politica
2) Christ our hope – nostra speranza
3) Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)
4) «Così do un nome alle vittime dei Gulag»


Un errore emarginare i cattolici dalla politica
IlSussidiario.net
Giorgio Vittadini28/04/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 28/04/2008 - Letto 157
Il Papa, nell’omelia di domenica 20 aprile allo Yankee Stadium di New York, è tornato a sottolineare il grande contributo che i cattolici possono dare alla costruzione della vita pubblica e del bene comune. "In questa terra di libertà e di opportunità, la Chiesa ha unito greggi molto diversi nella professione di fede e, attraverso le sue molte opere educative, caritative e sociali, ha contribuito in modo significativo anche alla crescita della società americana nel suo insieme… In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede, ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica".
L’apporto dei cattolici alla vita pubblica non è difesa corporativa di interessi particolari, ma è possibilità di costruire opere che rispondano al desiderio non ridotto di tutti gli uomini e di concepire una politica che sia fatta per la difesa e lo sviluppo di questa operatività sociale e quindi per un incremento del bene comune. E’ lo stesso tema toccato nell’intervento del cardinale Scola in Università Cattolica nell’incontro promosso giovedì 18 aprile dalla Fondazione Europa e Civiltà sul concetto di laicità. E' un tema di stretta attualità, anche politica, perché i cattolici rischiano di essere emarginati dalla vita politica italiana. Nello schieramento di centro sinistra l'indifferenza e, in certi casi, l'ostilità verso i principi non negoziabili ha emarginato contenuti e persone di orientamento cattolico. Il centro si pone in alternativa rispetto allo schieramento, più che per il contenuto originale. Il centro destra può correre il rischio di privilegiare le sue componenti più “muscolari” non valorizzando chi, proprio in nome di una esperienza cattolica, ha mostrato esempi di buongoverno. Tuttavia, se questo avvenisse, ci perderebbe di più proprio chi potrebbe avvalersi di questo apporto. Se si consolidasse questa tendenza, sarebbe sempre più fragile e vecchia la politica italiana nel suo complesso, come dimostra la crisi dei partiti di centro destra ormai culturalmente laicisti come il Partito popolare spagnolo.
L’emarginazione dei cattolici dalla politica non sarebbe tuttavia il male peggiore. Infatti, più che un potere non intelligente ciò che sarebbe negativo è, nel lungo periodo, la perdita di originalità, quella che ha reso certi cattolici insipidi e clientelari ai tempi della DC, altri, cattocomunisti, ridotti a stampella morale della sinistra, e altri ancora, liberisti senza spessore nel centro destra. Se, invece, pur di fronte a un potere che non dà spazio, si continua a costruire in laboratori locali in collaborazione con altre realtà culturali e politiche mosse dalla sussidiarietà, dal rispetto della persona, dalla ricerca del bene comune, in stretta connessione e al servizio di realtà sociali, produttive, movimenti, luoghi di creazione di un nuovo sapere, il tempo giocherà a favore. L'esempio virtuoso delle aree più sviluppate del Paese e una nuova classe di politici idealmente motivati potrà contribuire a risolvere la grave crisi del Paese che nessun mediocre yes man potrà risolvere.


Christ our hope – nostra speranza
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
domenica 27 aprile 2008
Sono tante le immagini rimaste in cuore di questo bellissimo viaggio del Papa in terra americana. Dall’inginocchiatoio bianco nel silenzio carico della presenza del “Dio dell’amore, della compassione e della riconciliazione” invocato a Ground Zero, all’agitarsi commosso delle folle nei due stadi che hanno ospitato le celebrazioni liturgiche, ai 3000 delegati dell’ONU in piedi ad applaudire il suo discorso. Benedetto XVI non ha tradito nessuna delle aspettative che potevano riversarsi su questo viaggio ma ancora una volta le ha superate. Umile e determinato, ha abbracciato con lo sguardo della sua fede i problemi e gli scandali vissuti dalla Chiesa. “È nel contesto della speranza nata dall’amore e dalla fedeltà di Dio che io prendo atto del dolore che la Chiesa in America ha provato come conseguenza dell’abuso sessuale di minorenni”, ha detto a Washington nell’omelia, davanti a 50.000 persone. Ha ribadito che solo l’amore di Dio può sanare le ferite, ha incoraggiato chi ha compiuto e compie grandi sforzi per affrontare questa tragica situazione, per proteggere i bambini “che sono il nostro tesoro più grande”. Nessuna paura di fronte al male ma la certezza che è già stato sconfitto. Ai giovani e ai seminaristi a New York ha parlato delle tenebre che si oppongono alla speranza. La droga, la violenza, la povertà e la degradazione “che hanno in comune un atteggiamento mentale avvelenato che si manifesta nel trattare le persone come oggetti, che porta a deridere la dignità data da Dio ad ogni persona umana”. O le tenebre frutto di una manipolazione della verità che distorce la nostra percezione della realtà. Il Papa invita i giovani a riflettere: “avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta senza mai fare riferimento alla verità della persona umana?” E spiega, questo papa non più giovane che conosce la giovinezza del cuore, quella della preghiera che il sacerdote recitava salendo all’altare, “al Dio che allieta la mia giovinezza”. Spiega loro il relativismo che considera la verità fonte di divisioni, che svincola la libertà dalla coscienza. La verità “è la scoperta di Uno che non tradisce mai, di Uno di cui possiamo fidarci sempre. È una persona: Gesù Cristo. Per questo la libertà è una scelta di impegno”. Ed è un grande impegno quello chiesto all’ ONU. Ha ancorato i diritti umani alla legge naturale scritta nei cuori “ e presente nelle diverse culture e civiltà”, superiore ai diritti positivi e alle leggi dei singoli stati. I diritti “si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.” Universalità dei diritti e della persona, “soggetto di questi diritti”. Promuovere i diritti umani è per il Papa la strategia migliore per rimuovere le diseguaglianze. Infine un’indicazione: “il rinnovamento della chiesa in America e nel mondo dipende dal rinnovamento della prassi della penitenza e dalla crescita nella santità: ambedue vengono ispirate e realizzate da questo Sacramento” (Washington, omelia al National Stadium).


27 aprile 2008
Tempi lombardi
Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)

La Lega, a oggi, non è la soluzione, ma parte del problema Nord. Nonostante il suo notevole radicamento e un personale politico in crescendo, la sua specializzazione nella difesa del territorio, il suo etnocentrismo, il suo colorito e franco linguaggio, la sua lotta all’immigrazione e i muscoli delle ronde e guardie padane, tutto ciò è anche il suo limite. In realtà il fenomeno leghista non ha nulla della storica svolta thatcheriana e reaganiana. E’ stata la pazzesca politica antinordista di Vincenzo Visco e Giuliano Amato, oltre che l’astuzia strategica di Umberto Bossi, la sua sincera identificazione di leader tra il popolo e per il popolo, a rompere la diga che conteneva il perenne malumore zittito dal tirare la carretta tanto dell’operaio quanto del piccolo e medio imprenditore lombardo-veneto. Parla come mangia, il Senatur, e i sui più grandi alleati sono stati Romano Prodi, il cattolicesimo disincarnato e, al di là delle buona fede, devastante per la vita, di quell’eroe della zona grigia che è il cardinale Carlo Maria Martini. Il quale ha guidato una diocesi – la più grande del mondo – dove il concetto di Benedetto XVI, che tra fede e vita, fede e politica non ci può essere dicotomia, è corso nel sangue delle sue genti per secoli, prima di essere snobbato per più di vent’anni da un’impostazione pastorale che nemmeno Karl Barth avrebbe condiviso. Arrivando poi il cardinale Dionigi Tettamanzi, né più e né meno, a ereditare l’identitico retroterra curiale, oggi responsabile di scelte inopinate, come quella di radicare i seminari nella sociologia e nella parola, fumogeni di una storia che, basta leggere le memorie del cardinale Giacomo Biffi, non lascia né passato dietro di sé, né prepara un futuro davanti.
Una cosa giusta l’ha detta Adriano Sofri – di cui non condivido quasi niente del suo estatico pensiero e la strana sonorità femminile espressi in una lingua sfavillante e microparticolarissima – l’idea, mi metteva in guardia Adriano in un lontano colloquio in carcere, della protestatizzazione avanzante col leghismo. “Mi pare che i leghisti peschino esattamente nelle parrocchie, in quel tipo umano lì. State attenti è il contrario del cattolicesimo giussaniano e non faranno del bene all’Italia”. E infatti le parrocchie lombarde, in cui s’è diffuso il verbo martiniano e che in questi vent’anni hanno continuato a produrre quel genere di prete moralista e innocuo, poco pratico di gioventù e senz’altro più attivo nella pubblicistica, sono oggi profondamente divise. Tra il declinante cattolico buonista e l’incazzato leghista. Figure di un medesimo equivoco e, soprattutto, della debolezza di un pensiero che, grazie al cardinale Camillo Ruini, per esempio, non ha influenzato il cattolico capitolino, nemmeno nelle sue punte, vedi Sant’Egidio, apparentemente più legate alla teologia martiniana. Ne ha ben donde però il parrocchiano. Dopo che sentì parlare per anni di un Gesù da papiro egizio e di poveri come trauma universale, adesso che ci si accorge che pure i poveri, nel loro piccolo, non sono né angeli né creature in cui si specchia il nostro narcisismo, ma possono essere demoni e abbassarsi alla disumanità come noi; adesso che almeno si capisce un po’ di più perché Gesù diceva: “I poveri li avrete sempre con voi”, adesso che i poveri sono rom o albanesi, i parrocchiani passano di punto in bianco dalla Caritas di don Virgilio Colmegna alle guardie padane di Bossi.

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Il Veneto è più ruspante, ma comunque collegato all’esperienza del cattolicesimo lombardo. Ce lo ha spiegato con intelligenza storica il notaio Giuseppe Camadini, quando ad esempio con la Cattolica Assicurazioni, alla fine del Diciottesimo secolo per una volta lombardo-veneti ed emiliano-romagnoli fecero insieme. Anche oggi questo sodalizio tra lombardi e veneti prosegue. Fatto salvo che il centro rimane Milano, non Venezia. I veneti hanno quel più di inventiva e laboriosità. Piantano capannoni in capo alla campagna più remota e ci producono cose che arrivano alla Nasa. Ne sappiamo qualcosa noi di Tempi che ogni settimana raccontiamo l’Italia che lavora. Ma la Lombardia, a cominciare da Brescia, rimane il centro del motore di sviluppo. Se adesso, come ci diceva un grande imprenditore padovano, c’è un treno che in novanta minuti collega a Milano, senza fermate intermedie, è normale che le aziende lascino le attività produttive in loco e trasferiscano i quartieri generali, marketing, commerciale, sviluppo qui a Milano. Ancor di più nella prospettiva dell’Expo 2015 e delle grandi opere infrastrutturali previste.

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Per venire al caso Formigoni. Tatticamente parlando è tutto chiaro. Conviene a Silvio Berlusocni non lasciare sguarnita la castellanìa che domina il paesaggio italiano e che rappresenta la sua personale ricchezza. Conviene alla Lega aspettare che si liberi il posto di governatore e non provocare elezioni anticipate. Politicamente parlando invece, non è da poco non portare a Roma l’unico protagonista della novità che è andata avanti sotto i bombardamenti di tangentopoli e che ha costitutivo un modello straordinario. Se fosse uno stato indipendente la Lombardia avrebbe le sue belle dimensioni. Altro che Slovacchia o Slovenia. Sarebbe il numero otto in Europa per popolazione e superficie. E darebbe la birra a parecchi in termini di produzione, servizi eccetera. Dunque Berlusconi avrebbe bisogno come il pane di un’esperienza così. Con tutto il rispetto per gli Angelino Alfano e gli Elio Vito, non ne ha un altro, così che gli porterebbe in dote un’esperienza di amministrazione movimentista che è di lungo corso. Giustamente è stato detto che Roberto Formigoni ha sessant’anni ed era troppo giovane per i tempi della Dc; per il Pdl, tra tre anni potrebbe essere troppo vecchio. Non solo, la delusione covata nell’animo potrebbe amareggiarlo e sospingerlo a diventare, con tutto il rispetto, un Galan qualsiasi. Non vogliamo apparire, come dice quel giornale un po’ troppo fricchettone che è Libero, copertura di Roberto. Gli siamo amici da trent’anni, personalmente amici, che non esiste apparire cortigiani (per di più a Libero dovrebbero essere più precisi quando confondono Antonio Intiglietta con Massimo Ferlini) che lo coprono. In un nostro calcolo egoistico – sentito fare da tanti amici professionisti che sono la base sociale e, al tempo stesso, la base operativa del miracolo lombardo, ci sta assolutamente bene che Formigoni rimanga al suo posto. Eviteremo di fare i conti con i metodi spicci della Lega e, con buona pace di Bossi, con la sua aggressiva politica di occupazione delle poltrone a cui corrisponde, talvolta e anche spesso, un legame non molto sano con il capo. A un cenno del quale, come un leader barbarico, si annientano carriere e si alzano sugli scudi bottini e teste (chiedete ad Alessandro Cè, ad Alberto Brambilla o a Domenico Comino che fine si fa, dalle stelle alle stalle). Dunque non è una bella prospettiva mettersi nelle mani di un partito ubriaco dei propri successi e, come dice Sofri, protestante e tendenzialmente anticattolico. E sostanzialmente astuto ma che dovrebbe sgonfiarsi una volta che l’emergenza sicurezza e immigrati dovesse rientrare. La Lega, infatti è un fenomeno, di per sé positivo, che urge alla modernizzazione del paese. Una volta raggiunto il federalismo fiscale rimarrebbero due strade: o quella della liberazione delle energie della società, la sussidiarietà, una democrazia più matura, all’americana; o, pericolo non da escludere, il rischio di un indurimento dirigista statalista, questa volta non più sotto il tallone di Roma, come piace dire ai leghisti, ma sotto il tallone di sindaci e amministratori dell’ideologia etnocentrica. Il che sarebbe addirittura peggio. Perché, come sanno gli imprenditori del Nord, fino a che Roma è lontana, poco male. Non è la lontananza o l’indifferenza di Roma che ha fatto perdere la sinistra. E’ che, con Prodi e Visco, Roma è apparsa per la prima volta ostile. E’ questo che ha fatto vincere il leghismo. Ora, aspettandosi un ritorno alla normalizzazione e considerato che alla sinistra occorrerano dei begli anni per capire che cosa è successo (Filippo Penati è bravo, ma, come si vede, Walter Veltroni da questo orecchio proprio non ci sente), Bossi che non è fesso avrà capito che deve radicarsi nelle istituzioni e che solo così il suo movimento avrà un futuro. Cosa non facile. Primo perché essendo la Lega un fenomeno politico per eccellenza, fondato sul carisma del capo, la guerra e la distribuzione del bottino, come direbbe Gianfranco Miglio, che le diede manforte ideologica e da cui Bossi deve aver imparato molto. In realtà poi Miglio si disse deluso da Cl perché pensava che fosse proprio il movimento di don Giussani la vera lega del nord. “Avete un’educazione e una cultura di livello. Sapete stare al mondo. Siete ortodossi e la chiesa vi riconoscerà presto come suoi figli prediletti. Vedo per voi un futuro di classe dirigente e avanguardie che, superata la Dc, guideranno l’Italia. Però dovete entrare in politica e dare battaglia”. Su questo si ruppe il rapporto con don Giussani. Poiché il prete di Desio pur comprendendo bene l’urgenza e pur essendo stato lui il primo che negli anni Sessanta raccomandava ai suoi di farsi strada nella politica e segnalandoli ad Amintore Fanfani (anni Sessanta) piuttosto che ad Aldo Moro (anni Settanta), non acconsentì mai che il caso Formigoni divenisse norma.
Formigoni veniva da lontano, se l’era trovato come vocazione acquisita. Aveva studiato alla Sorbona e nei primi anni Settanta aveva dato vita all’organizzazione di base utopico-politica del movimento. La sua prima foto pubblica – e non so se questo è uno scoop – lo ritrae in conferenza stampa (1972) in un posto sconosciuto in compagnia di quelli che diventeranno i maggiori gruppi terroristici europei. Ira, Eta e separatisti di tutta Europa convenuti. Formigoni era l’unico a non essere incappucciato. Era fratello di sangue di Sante Bagnoli, l’editore simil Feltrinelli che ha stampato il primo libro (“Noi accusiamo”, Vincenzo Nardella) che già nel gennaio 1970, tre mesi dopo piazza Fontana, parlava di strage di stato; che aveva rapporti unici, come nessuno allora al mondo, con i baathisti di Saddam Hussein e il libico Gheddafi, con l’Mpla angolano e Kim il Sung in Corea del Nord, con Fidel Castro e i Tupamaros. Insomma Formigoni era un antiamericano di primo pelo, che volantinava contro l’agente dell’imperialismo Henry Kissinger e con Nicola Zitara parlava del colonialismo piemontese al Sud. Insomma un caposcuola di tutto l’internazionalismo, che faceva impallidire i cretinetti di Mario Capanna, ancorché nelle manifestazione del primo maggio aggredissero noi di Cl. Per non parlare degli autonomi che facevano piangere al Palalido Francesco De Gregori ma anche il nostro Alan Stivell, cantautore nordirlandese. Dunque se la Cia mise qualche zampino, non lo mise certo per il movimento a cui apparteneva Formigoni, ma, forse, per altri movimenti a lui ostili. In effetti si seppe dopo che non la Cia, ma forse il Kgb era implicato nella campagna di delegittimazione e attacco a Cl. Sì, perché l’internazionalismo formigoniano non era affatto monodimensionale, era davvero libertario. E, fatta evidentemente salva la buona fede, non frequentò il marxismo rivoluzionario se non per superarlo a sinistra, come si vede dall’enorme ingaggio che ebbe con la dissidenza dell’Est Europa ben prima che ci arrivassero i socialisti italiani assieme a quelli francesi e ai nouveau filosophe parigini di stampo solgenitziano. Vaclav Havel (futuro presidente cecoslovacco) fu pubblicato e aiutato da Cl. Così la rivoluzione di Solidarnosc ebbe in Cl un valido apporto (ancorché poi Giovanni Paolo II si mise in prima linea). E se il Papa polacco venne a Rimini e si prese la briga di sdoganare defintitivamente Cl, se poi a lui seguì Lech Walesa, sempre al Meeting di Rimini, è perché entrambi riconobbero in Cl una possente forza cattolica (forse l’unica) che aveva capito “Il potere dei senza potere” (così si intitolava il libro di Havel). Capito e dato manforte, fatto circolare i libri, aiutato le persone, accolto i figli in fuga.
Formigoni viene da quel lungo apprendistato in trincea, sulle piazze, nella guerra ideologica e delle manifestazioni. E’ vero che don Giussani rientrò di corsa alla guida di Cl dopo che Formigoni e Angelo Scola l’avevavano guidata per un buon triennio (tra il 31 marzo 1973, giorno di nascita ufficiale della sigla Comunione e liberazione al Palalido di Milano, in prima fila c’era Aldo Moro, e il 1976, giorni di lutto e guerra civile). Vi rientrò perché pur riconoscendo a quei due la stoffa dei leader (Scola è l’attuale Patriarca di Venezia) e valorizzandone l’apporto di intelligenza e generosità, vi aveva scorto una pratica deriva verso la politica. Pose la questione della presenza contro l’utopia, piantò i suoi giovani “islamici” nelle scuole e nelle università contribuendo a salvare la democrazia in Italia (i soliti Bocca e Scalfari ci odiano da allora) e gridò alle gerarchie la richiesta di una copertura. Paolo VI ebbe parole di conforto e stese il suo manto. Intanto il cattolicesimo progressista si faceva dirigere e digerire dal Pci e cominciava la lunga parabola del cattolicesimo democratico, che si concluderà il 15 aprile 2008 (non si dimenticherà mai che i giovani aclisti intervenivano nelle assemblee per fiancheggiare l’estremismo di sinistra e ci fu almeno un caso, il mio all’istituto Ettore Molinari di Milano, dove i ciellini vennero stesi a cazzotti, a dozzine contro due, proprio sull’onda dell’interveto di un giovane aclino che vendette i suoi confratelli per “fascisti” durante una tumultuosa assemblea).
Ecco, in quegli anni don Giussani imprimerà a Cl una rotta diversa da quella dell’oggi cardinal Scola e dell’oggi governatore Formigoni, ma i due rimasero suoi prediletti. E da allora non ci fu incoerenza o critica che potesse essere mossa a Formigoni che non trovasse don Giussani schierato a difesa totale del “nostro Roberto”.
Dunque Formigoni fu un lusso per la Dc. Un lusso per il Parlamento europeo di cui divenne vicepresidente negli anni Ottanta e che lo vide protagonista fino alla prima guerra del Golfo di Bush senior, con la famosa vicenda degli ostaggi che lui andò a recuperare a Baghdad grazie alle amicizie che aveva da un ventennio. Altro che Oil for food. Pensare che ci fosse un sottofondo di interesse bieco, questo lo lasciamo dire a certi americani. Quelli che, in effetti, come il buon Kissinger, conoscono a menadito la doppiezza nel fare il mestiere. O è forse un caso che durante la prima guerra del Golfo gli americani si siano fermati sotto il 33° parallelo e non siano entrati a Baghdad per spodestare il tiranno? Scrissi allora un pezzo per il Sabato, dopo un viaggio di Natale e Capodanno tra Baghdad e Bassora, che c’era sì la fame, l’embargo, le malattie e la mancanza di medicine. Ma la Baghdad in cui i dollari e il lusso si sprecavano, la Baghdad ricca dei commercianti e della casta militare, delle lunghe file di camion che violavano l’embargo Onu e che avevo visto con occhi miei alla frontiera tra Iraq e Giordania, non la raccontava troppo giusta sull’inimicizia radicale tra Bush I e Saddam. Doveva essere successo qualcosa tra la garanzia kissingeriana a Saddam e la successiva risolutezza bushiana, E’ un fatto comunque che si è resa necessaria una seconda guerra. Quando, giusta o non giusta, ne sarebbe bastata una sola per spazzare via il dittatore.

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Conclusa la Prima Repubblica nel modo barbaro e manomesso com’è s’è conclusa (e Veltroni è ancora lì a onorare a Tonino Di Pietro una cambiale che invece sarebbe dovuta scadere da un pezzo, dopo quello che si è visto dal 1996 ad oggi), Formigoni partecipa al drammatico de profundis della Dc, transitata dall’ultimo segretario, Mino Martinazzoli, non proprio un tulipano, in due tronconi cattolicodemocratico, o cattocomunista come dice il volgo, e doroteo (Cdu), col povero Rocco Buttiglione che inciampa nella conta delle tessere e via via negli spezzettamenti successivi. Poi Formigoni si affrancherà anche dall’amico Rocco per approdare al vecchio amico Berlusconi, ora sceso in politica.
Qui si dovrebbe aprire la lunga parentesi. In raltà i due si conoscono e si stimano da almeno trentadue anni. Fu Berlusconi che finanziò il primo Sabato, che diede spazio e strumenti al Movimento popolare, che ebbe con Formigoni un’immediata simpatia e consentaneità per il suo impegno politico. Quando Berlusconi scese in campo fu normale che Formigoni guardasse lui. Da lì cominciarono gli anni di presidenza della Lombardia. Non un accrocchio di potere come il giornalismo interessato e sciacquino racconta. Non per piazzare i propri uomini dappertutto. Non per costruire la roccaforte dei dollari. Fosse stato così oggi di ciellini in politica sarebbe piena l’Italia. E invece no. Come sa tutta la burocrazia, al Pirellone Formigoni non inaugurò lo spoyls sistem. Né fu una continuazione con altre armi della politica democristiana che ebbe in Bruno Tabacci, ultimo presidente dc al pirellone, l’epilogo più trasformista e intruppato col potere reale. No, di Formigoni tutti possono ricordare che prospettò chiaramente alla sua burocrazia, fosse di Rifondazione o fascista, che il suo metodo erano i risultati per il bene comune. Chi lavorava avrebbe preso di più. Chi no si sarebbe convinto che quello non era il suo posto. E così accadde. Formigoni ha ridotto la burocrazia della regione Lombardia da 6.000 a 3.500 dipendenti. Ha fatto questo e quello. Non stiamo qui a ripetere, dovremmo citarvi gli ultimi venti numeri di Tempi. Ha fatto grande la Lombardia, con cose che non esistono neanche in Svezia, il buono e la dote scuola, per esempio. Il mix statale privato sociale non solo in sanità, ma anche nell’assistenza degli anziani. Tante cose, insomma, non con colpi di mano o brusche rivoluzioni. Ma con la paziente tessitura di un dialogo e con un fondamentale amore e buon umore come metodo di lavoro. Con dimensioni non politichesi strette, di tessere e coagulo di clientele (come a tutt’oggi funziona qualunque ente, comune, provincia e regione italiana), ma portando la positività di un lavoro.
Non sono certo tutte rose e fiori dal 1994 a oggi. Non è vero che Formigoni è il cavaliere senza macchia e senza paura. Ha i suoi limiti, come una certa propensione al fighettismo, o un certo limite lecchese di freddezza nei rapporti, o certa sua generosità che poi viene riempita di calcolo altrui. O il non aver ampliato la cerchia degli amici fidandosi non soltanto dei coscritti. I suoi limiti ci sono tutti. Però è anche simbolo di un’impresa, dello sviluppo e della maturazione in senso moderno, sussidiario, non grettamente imitatore dello stile City applicato all’amministrazione di cui una volta si vantarono gli yuppisti falliti degli anni Ottanta e in cui oggi ricascano i sostenitori acritici di un modello per cui se non hai studiato alla Columbia o alla London School, non puoi mica fare le riforme che necessitano al paese. In questo Formigoni si differenzia dal processo di crescita del partito di Bossi, venuto su dal varesotto e dalle valli bergamasche in perfetto stile comunista (come d’altronde era Bossi prima di inventarsi la Lega) e venuto su con ostinazione e tenacia, grazie anche al contributo di visione del già citato Miglio.
Ci fu un momento, come dicevamo, in cui Miglio vide bene che Lega e Cl si fondessero insieme, almeno sul versante dell’impresa politica, almeno per salvare il salvabile della Dc agonizzante e venduta a Eugenio Scalfari da Ciriaco De Mita. Ma il risoluto diniego di don Giussani e, certamente, l’indifferenza totale di Bossi (che la cattolicità a lui dice tutt’al più lo schema Federico Barbarossa alleato col Papa romano) non se ne fece niente. A tal punto che la Lega, anzi prese una strada che la portò prima verso l’invenzione (a mo’ dei baschi) delle radici mitico-celtiche e all’adorazione del dio Po, e poi, visto che la realtà è testarda e Bossi capisce al volo l’antifona, a una svolta più ragionevole. Quella che ha fatto resistere Lega durante gli anni del dopo ribaltone, mantenere le sedi con militanza tenace e, alla fine della traversata nel deserto in cui già si vedeva tramontare all’orizzonte come l’ultimo ciack, fare bingo con lo sprovveduto e afasico governo Prodi. Un governo che sembrava fatto apposta per reinventersi il leghismo e, come avvertirono inutilmente i libri di Ricolfi, Illy e Diamanti, per perdere definitivamente il Nord Italia.
C’è stato un epilogo interessante nella lunga cavalcata formigoniana che ora sembra fermarsi ad Arcore. Ed è la vicenda della lista Ferrara. Che come ha ricordato il direttore del Foglio è stata lì lì per diventare una lista vera, non con una sigla dura e incomprensibile all’elettore d’oggi (come s’è visto) di un “Aborto? No, grazie”. Come ha scritto Ferrara, se Formigoni avesse confermato la sua implicazione, come sulle prime aveva fatto, chiaramente la lista si sarebbe allargata ad altre tematiche e avrebbe avuto i connotati anche grafico-simbolici di una formazione pro life liberale movimentista, inclusiva di tematiche che vanno dall’aborto, appunto, alla sussidiarietà, alla scuola eccetera. Insomma nel segno di un riformismo illuminato e libero dalle vischiosità vecchie e clientelari dell’ultima sfortunata e accattona Udc. Sarebbe stata allora una formazione che, Formigoni leader e Ferrara ideologo e speaker, avrebbe potuto mietere consensi non irrilevanti, almeno così pensiamo, e con cui certamente Berlusconi non avrebbe potuto evitare di apparentarsi. Vi immaginate allora un Pdl vincente apparentato con Lega e una Lista ForFe? Crediamo che certamente in Lombardia (ma anche in Veneto) avrebbe ridimensionato il successo della Lega e avrebbe dato oggi a Formigoni uno strumento di formidabile pressione (non diciamo di ricatto perché i due si vogliono troppo bene) sul Berlusconi. Ma siccome il Cavaliere è l’uomo più brillante e furbo che c’è, insieme a quell’astuto di Bossi si sono messi a brindare per l’ennesima volta sullo scalpo del governatore (la prima volta fu tre anni fa, quando in occasione delle elezioni per il rinnovo del suo quarto mandato in Lombardia, Formigoni si vide dire no al suo listino riformista che, legato al suo nome, prometteva di allargare la maggioranza della regione ai riformisti di sinistra).
Cosa fatta, capo ha. Sfumata l’occasione ora Formigoni si ritrova senza sue truppe e, come dice la Bibbia, con il passato steso davanti ai suoi occhi. Non ha perduto nulla, in verità. Ha sessant’anni e Berlusconi settantuno. I suoi concorrenti possono essere quanto di più giovane possa esistere, ma una leadership non ce la si inventa dal nulla. Non si inventa la trincea, i paesi baschi, i tupamaros, Saddam, Kissinger, la vicepresidenza del Parlamento europeo, un movimento di persone e la maggioranza dei lombardi che ti riconosce come sua guida, e ti vuole bene. Bisogna tenere la barra diritta e, forse, solo limare un po’ il carattere fighettista. Gli attributi ci sono, gli amici pure. Se scende un attimo dal palco della storia e si arrischia di imbossire un po’, vedrete che non ce ne sarà per nessuno. Dopo Berlusconi, a Dio e alla Fortuna piacendo, c’è solo il ragazzo di Lecco.
di Luigi Amicone




«Così do un nome alle vittime dei Gulag»
Intervista ad Anatolij Razumov, l’uomo che in vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dalla repressione stalinista…

«Avrei voluto chiamarle tutte per nome». Questo verso di Anna Achmatova, riferito alle vittime del regime sovietico, probabilmente è scolpito a caratteri cubitali nel cuore di Anatolij Razumov, direttore del Centro «Nomi restituiti» di San Pietroburgo e animatore del cimitero-memoriale di Levašovo. In quasi vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato - praticamente da solo - i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dagli ingranaggi della macchina repressiva. Un’impresa immane: tutte queste storie sono confluite in otto «volumi della memoria» (ma il progetto prevede di arrivare a quindici entro i prossimi anni), ognuno dei quali conta quasi mille pagine. Non è un caso se recentemente Solgenicyn, preparando una nuova edizione del suo Arcipelago Gulag con l’aggiunta (per la prima volta) dell’indice dei nomi, si è rivolto proprio a Razumov. Col materiale da lui raccolto è stato lanciato anche un vero e proprio «libro elettronico della memoria», consultabile sul sito «Nomi restituiti» (www.vi.krsk.ru, purtroppo per ora solo in russo), che in tre anni ha visto triplicare il numero di visitatori.
Nei giorni scorsi Anatolij Razumov era in Italia per un ciclo di incontri e convegni sulla memoria dei Giusti, invitato dallo scrittore Gabriele Nissim. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare che cosa lo spinge oggi, in una Russia che vede il proprio passato come un pericoloso scheletro nell’armadio, a combattere perché la memoria rimanga viva.
Che cosa l’ha portata a questo progetto?
«Fin da giovane mi ha sempre appassionato la storia del periodo sovietico. Pur essendo originario della Bielorussia, ho voluto trasferirmi nel 1972 a Leningrado per frequentare la facoltà di storia dell’Università. Quel che m’ha mosso è stata proprio la crescita di un’autocoscienza, il rifiuto interiore di ogni forma di violenza e il desiderio di poter rispondere alle tante domande che avevo: perché, a esempio, nella società sovietica si pensa una cosa e se ne afferma un’altra?».
Come le è venuta l’idea di un libro della memoria?
«Dopo la laurea sono stato assunto alla Biblioteca Nazionale, dove lavoro da trent’anni. Quando è salito al potere Gorbacëv si è aperto uno spiraglio e i giornali hanno potuto pubblicare gli elenchi dei condannati; abituato a lavorare coi libri, ho iniziato giorno dopo giorno a raccogliere questi ritagli costruendomi un archivio personale. È nata così l’idea di un libro che raccogliesse le storie di tutte le vittime. Un’impresa quasi disperata, visto che fino al 1995 non avevo nemmeno un computer! Ho avuto subito chiaro che questo libro non avrebbe avuto un unico autore, ma sarebbe stato un libro corale della memoria, scritto in nome di tutto un popolo. In Urss si parlava sempre delle centinaia di milioni di cittadini sovietici, ma nessuno ha potuto evitare che fossero sterminati. Vorrei che si salvasse almeno la memoria del nome di queste persone, o una loro parola».
Il Kgb le avrà messo i bastoni tra le ruote...
«In realtà ormai aveva capito che era arrivato il momento di uscire allo scoperto. Nel 1989 il governo sovietico ha deciso che bisognava rendere pubbliche le liste delle fucilazioni di massa. Così dal gennaio 1990 il giornale Vecernyj Leningrad iniziò a ospitare una colonna dedicata alle liste dei fucilati, dal titolo “Il martirologio di Levašovo”. Spettava agli archivi del Kgb fornire ai quotidiani i nomi da pubblicare di volta in volta... Naturalmente gli elenchi erano incompleti, riportavano solo nome, cognome, patronimico, anno di nascita, professione e il fatidico “fucilato”. Non si diceva chi e quando aveva eseguito la condanna, dove era avvenuta, chi aveva emesso il verdetto, in base a quale articolo... Inoltre le liste partivano dal 1937, anno di inizio del Grande Terrore, ma che fine avevano fatto le vittime precedenti?».
Nell’autunno del 1991 lei è stato uno dei primi in Russia a entrare negli archivi del Kgb, che fino allora erano rimasti top secret...
«Quel giorno ho avuto per la prima volta in mano il dossier di un condannato. Sono rimasto così impressionato che non sono riuscito ad aprire nessun’altra cartella. Quando sfoglio i dossier ho davanti a me delle persone vive, con tutto il loro destino: fra i dati asettici che venivano pubblicati e la tragedia che ognuna di queste persone ha vissuto, c’è un abisso».
In questi giorni sta ultimando l’ottavo volume dei suoi libri della memoria, dedicato a sei mesi del 1938 (le vittime del Grande Terrore sono così tante, che il solo 1938 occupa due volumi della serie). Quali scoperte ha fatto?
«Ho raccolto le prove di un’estrema crudeltà, che documentano tante situazioni paragonabili al totalitarismo nazista. I condannati venivano condotti praticamente senza sensi alle fosse dove avvenivano le fucilazioni. A Mosca, per esempio, i sovietici avevano ideato delle specie di “camere a gas”: i detenuti, trasportati in furgoni appositi, soffocavano respirando i fumi del tubo di scappamento deviati all’interno. Ecco perché, durante gli scavi nel poligono di Butovo (il territorio nei sobborghi di Mosca adibito dal Kgb alle fucilazioni di massa, ndr), in una fossa comune abbiamo ritrovato circa 50 crani di cui solo tre forati dalla pallottola: se i condannati arrivavano già morti, infatti, che bisogno c’era di sprecare proiettili? Abbiamo inoltre trovato delle prove di torture non solo durante gli interrogatori, ma anche nei confronti di chi era stato già condannato e avrebbe dovuto essere solo fucilato. Questi episodi di sadismo sono il vero motivo dell’incompletezza delle schede rese pubbliche: dietro l’impressione di “legalità” dei dati riportati dalle liste, ci sono atrocità addirittura maggiori di quelle del nazismo».
Il suo lavoro ha un valore inestimabile non solo per la documentazione storica: è vero che tanti la cercano per avere notizie dei propri cari?
«Tanti non sanno ancora dove sono sepolti i loro familiari, così mi scrivono (a decine, ogni giorno) chiedendo qualche informazione. In Russia oggi si pensa che il tema della memoria non sia più attuale, mentre io vedo in continuazione quanto sia importante e necessario per il nostro futuro. Il mio lavoro può aiutare i russi a comprendere il proprio passato, offrendo un contributo importante per la coscienza della società. Io e i miei colleghi non ci chiediamo se il nostro lavoro è utile, non stiamo nemmeno a guardare quanti ostacoli troviamo... Continuiamo solo ad andare avanti, cercando di fare il più possibile; il resto non conta. Ecco il mio credo».
Il Giornale n. 100 del 2008-04-26


domenica 27 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
2) «Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
3) La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
4) «Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
5) SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
6) Mario Canessa, giusto tra le nazioni
7) Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara


27/04/2008 12:32 VATICANO
Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
Un appello di Benedetto XVI per Somalia, Darfur e Burundi, il ricordo dell’appena compiuto viaggio negli Stati Uniti e gli auguri agli ortodossi che oggi celebrano la Pasqua
Città del Vaticano (AsiaNews) – La gioia che è insita nell’ordinazione di ogni nuovo sacerdote ed il dolore per le notizie di violenze che continuano ad arrivare dal’Africa tormentata hanno segnao l’odierna giornata di Benedetto XVI che stamattina nella basilica di San Pietro ha conferito l’ordinazione a 29 diaconi della diocesi di Roma. Del rito il Papa ha poi parlato prima della recita del Regina Caeli, quando ha anche lanciato un appello per la Somalia, il Darfur ed il Burundi. Benedetto XVI ha anche ricordato la “missione” compiuta negli Statai Uniti ed ha inviato gli auguri per la Pasqua che gli ortodossi celebrano oggi, rinnovando la speranza di una piena unità.
“Dove Cristo è predicato con la forza dello Spirito Santo ed è accolto con animo aperto, la società, pur piena di tanti problemi, diventa "città della gioia" – come suona il titolo di un celebre libro riferito all’opera di Madre Teresa a Calcutta”. Questo l’augurio Benedetto XVI ha rivolto ai preti novelli ed anche il tema centrale della sua omelia, ricordata poi alle 40mila persone presenti in piazza San Pietro per la recita del Regina Caeli, prendendo spunto dal capitolo VIII degli Atti degli Apostoli che narra la missione del diacono Filippo in Samaria, là dove di parla di “grande gioia in quella città” (At 8,8), convertitasi alla nuova fede.
“Cari amici – ha detto ai 29 diaconi - questa è anche la vostra missione: recare il Vangelo a tutti, perché tutti sperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della vostra missione”.
Il Papa si è poi soffermato sul gesto della imposizione delle mani, che si compie durante il rito. “E’ – ha sottolineato - un segno inseparabile dalla preghiera, della quale costituisce un prolungamento silenzioso. Senza dire parole, il vescovo consacrante e dopo di lui gli altri sacerdoti pongono le mani sul capo degli ordinandi, esprimendo così l’invocazione a Dio perché effonda il suo Spirito su di loro e li trasformi rendendoli partecipi del Sacerdozio di Cristo. Si tratta di pochi secondi, un tempo brevissimo, ma carico di straordinaria densità spirituale”. “In quella preghiera silenziosa – ha aggiunto - avviene l’incontro tra due libertà: la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo”.
Una ultima sottolieatura il Papa ha dedicato alla frase evangelica "Se mi amate". “Cari amici – ha detto - queste parole Gesù le ha pronunciate durante l’Ultima Cena nel momento in cui contestualmente istituiva l’Eucaristia e il Sacerdozio. Pur rivolte agli Apostoli, esse, in un certo senso, sono indirizzate a tutti i loro successori e ai sacerdoti, che sono i più stretti collaboratori dei successori degli Apostoli. Noi le riascoltiamo quest’oggi come un invito a vivere sempre più coerentemente la nostra vocazione nella Chiesa: voi, cari Ordinandi, le ascoltate con particolare emozione, perché proprio oggi Cristo vi rende partecipi del suo Sacerdozio. Accoglietele con fede e con amore! Lasciate che si imprimano nel vostro cuore, lasciate che vi accompagnino lungo il cammino dell’intera vostra esistenza. Non dimenticatele, non smarritele per la strada! Rileggetele, meditatele spesso e soprattutto pregateci su. Rimarrete così fedeli all’amore di Cristo e vi accorgerete con gioia sempre nuova di come questa sua divina Parola "camminerà" con voi e "crescerà" in voi”.
“Carissimi – ha concluso - ecco il mio augurio in questo giorno per voi tanto significativo: che la speranza radicata nella fede possa diventare sempre più vostra! E possiate voi esserne sempre testimoni e dispensatori saggi e generosi, dolci e forti, rispettosi e convinti”.
Alla folla riunita in piazza San Pietro, poco dopo, il Papa ha ricordato che “oggi molte Chiese Orientali celebrano, secondo il calendario giuliano, la grande solennità della Pasqua. Desidero esprimere a questi nostri fratelli e sorelle la mia fraterna vicinanza spirituale. Li saluto cordialmente, pregando il Dio uno e trino di confermarli nella fede, di riempirli della luce splendente che emana dalla risurrezione del Signore e di confortarli nelle non facili situazioni in cui spesso devono vivere e testimoniare il Vangelo. Invito tutti ad unirvi a me nell'invocare la Madre di Dio, affinché la strada da tempo intrapresa del dialogo e della collaborazione porti presto ad una più completa comunione tra tutti i discepoli di Cristo, perché siano un segno sempre più luminoso di speranza per tutta l'umanità”.
L’appello per i drammi africani ha concluso la lunga mattina del Papa. “Le notizie che giungono da alcuni Paesi africani – ha detto - continuano a essere motivo di profonda sofferenza e viva preoccupazione. Vi chiedo di non dimenticare queste tragiche vicende e i fratelli e le sorelle che vi sono coinvolti! Vi chiedo di pregare per loro e di farvi loro voce! In Somalia, specialmente a Mogadiscio, aspri scontri armati rendono sempre più drammatica la situazione umanitaria di quella cara popolazione, da troppi anni oppressa sotto il peso della brutalità e della miseria. Il Darfur, nonostante qualche momentaneo spiraglio, rimane una tragedia senza fine per centinaia di migliaia di persone indifese e abbandonate a sé stesse. Infine il Burundi. Dopo i bombardamenti dei giorni scorsi che hanno colpito e terrorizzato gli abitanti della capitale Bujumbura e raggiunto anche la sede della Nunziatura Apostolica, e di fronte al rischio di una nuova guerra civile, invito tutte le parti in causa a riprendere senza indugio la via del dialogo e della riconciliazione. Confido che le Autorità politiche locali, i responsabili della comunità internazionale e ogni persona di buona volontà non tralasceranno sforzi per far cessare la violenza e onorare gli impegni presi, in modo da porre solide fondamenta alla pace e allo sviluppo. Affidiamo le nostre intenzioni – ha concluso - a Maria, Regina dell'Africa”.



Scola: attrezzarsi a un tempo di svolta
Avvenire, 27 aprile 2008
Un cristianesimo capace di superare il dualismo tra fede e pensiero e di mettere in gioco nella storia la propria libertà. Facendo proprio il «pensiero di Cristo», per essere «testimoni, non militanti»: è l’invito rivolto ieri dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, ai partecipanti al primo «Forum nazionale degli animatori della cultura e della comunicazione» che si chiude oggi a Bibione
«Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
«Siete giornalisti e voglio proprio ve­dere cosa scriverete domani, per­ché anche noi cristiani a volte ci chiediamo cosa mai interessi al lettore la Tri­nità ». Il ragionamento è iperbolico, visto che a ragionare con i portaparola, ieri mattina, e­ra il cardinale Angelo Scola. Il patriarca di Ve­nezia ha proposto a Bibione un efficacissimo spaccato teologico su «problemi comuni e giu­dizio cristiano» da cui emerge che la teologia appassiona, almeno a giudicare dall’intensità degli applausi raccolti, e che, contrariamente a quel che si pensa, la Trinità entra nella vita di tutti i giorni, dandoci più che un motivo per accettare le differenze culturali e religiose co­me per considerare «insuperabile» la differen­za sessuale tra uomo e donna… Vediamo per­ché.
Transizione e pensiero di Cristo. Scola parte da vicino: «le elezioni rivelano che è in atto u­na svolta culturale decisiva» e se la tentazione può essere quella di liquidare la memoria, al contrario, dice il patriarca, «per affrontare u­na nuova fase bisogna farne la bussola». Solo così, «la Chiesa può essere un attore decisivo del cambiamento: a condizione di vivere la memoria nella sua verità eucaristica. Non cioè come ricordo e ripetitività, ma presenza che continua a trapiantare l’essenza dell’antico sul nuovo».
Il cardinale sollecita una «forma eucaristica» dell’esistenza cristiana che annunci (primo mandato per i portaparola ndr) che «non c’è dualismo o giustapposizione tra fede e vita». Ma occorre avere il pensiero di Cristo – ossia «essere in rapporto con tutta la realtà a parti­re dall’incontro personale con Gesù nella co­munità, cercando di immedesimarsi col suo stile di rapportarsi alle cose, quello del pos­sesso nel distacco» – ed esistono tre condi­zioni per averlo. La prima è «immergersi nel­la Traditio, stando dentro la comunità cristia­na dove Gesù è reperibile per tutti e rispetto al­la quale io devo poter dire a chiunque: vieni e vedi». Non si pensa come Cristo se non si vi­vono in profondità Eucaristia e sacramenti, in un’esperienza personale e comunitaria, in cui l’appartenenza precede la competenza e la proposta è rivolta «a tutti, instancabilmente» anche se solo «con quelli che rispondono» si può «andare a fondo delle dimensioni della vi­ta cristiana». Seconda condizione per avere il pensiero di Cristo: «riconoscere che non c’è contrapposizione tra esperienza e pensiero.
Quando l’uomo separa il sapere dall’espe­rienza, parte per la tangente dell’intellettuali­smo ed è vittima di un dualismo». Terza con­dizione: che il cammino del cristiano sia so­stenuto dal paragone a 360° di tutto l’io con tutta la realtà. Chi ha il pensiero di Cristo par­te «dai problemi comuni, come ha fatto Gesù. Con lo stile del discepolo di Cristo che valuta ogni cosa e trattiene ciò che è buono, che non si conforma alla mentalità dominante, ma a­ma la persona che ha davanti».
Mistero e implicazione. Per offrire ai cristiani la possibilità di «avere il pensiero di Cristo», o­gni comunità «deve essere àmbito in cui i mi­steri della vita di Cristo siano assimilati fino a scoprire le loro implicazioni nell’u­mana esistenza. Qui sta la radice profonda del progetto culturale – commenta il porporato ricordando che «parlare dei problemi comuni con un giudizio cristiano implica il saper ve­dere il nesso tra i misteri della vita di Cristo e l’umana esperienza sempre storicamente si­tuata e perciò non dominabile. Questo lavoro chiama in causa la libertà. Il vostro lavoro (se­condo mandato ai portaparola ndr) risulta dal­l’insieme di questi tre pilastri: l’annuncio del mistero, l’assunzione delle sue implicazioni e il gioco della libertà. Ci vogliono tutti e tre».
L’interpretazione culturale della fede è inevi- tabile, ma «lavorare sulle implicazioni dei mi­steri cristiani significa proporre una interpre­tazione della fede che non cade né nella reli­gione civile, né nella cripto-diaspora» spiega il cardinale, che fa dell’implicazione il bari­centro del suo ragionamento. Se infatti «l’atto di fede non si ferma all’enunciazione ma de­ve raggiungere la realtà» se «la res dell’Eucari­stia è la comunità cristiana», che «l’Eucaristia tende a generare» e se «la comunità cristiana nasce dalla forma eucaristica della mia vita» al­lora «il senso dell’Eucaristia domenicale è che io impari lì la logike latreia (il culto ragionevo­le - Rm 12, 2) modulata sul dono che Cristo fa di sé. Il culto ragionevole è affrontare tutta la vita donando tutto me stesso; e questo gene­ra la comunità cristiana».
Aderire al mistero eucaristico implica che «la mia libertà si giochi nella storia, rischiando nel qui ed ora, con i miei fratelli», con forti impli­cazioni antropologiche. «Se io vivo fino in fon­do il mistero della Trinità divento consapevo­le che mai in sé e per sé la differenza è un ne­gativo. Per il cristianesimo non c’è contraddi­zione tra identità e differenza e la differenza è un positivo». Come respingere l’immigrato quando «la differenza massima esiste in Dio?». E la differenza sessuale? «Insuperabile» per Scola: «Riflettiamo sulla nostra nascita, sul sen­so originario della relazione di paternità e di maternità, per capire come l’uomo-donna è l’accesso più immediato e più naturale all’al­tro come costitutivo dell’io. Ma questa rela­zione altro non è se non il riflesso della gran­de relazione che vive in sé la Trinità. Anche lì c’è l’uno e l’altro (il Padre e il Figlio) e l’unità dei due (lo Spirito Santo). C’è quindi una dif­ferenza nell’unità che si esplica nel dono tota­le di sé aperto alla vita: la triade costitutiva del mistero nuziale si trova già nel mistero trini­tario ».
Ideale e testimonianza. Il pensiero di Cristo si accompagna ad alcuni atteggiamenti. Il pri­mo è un’educazione all’ideale e non all’uto­pia, «il nemico più subdolo di un cristiano». L’ideale invece «è la verità del reale, è rintrac­ciabile nell’esperienza dell’uomo, in forma in­compiuta, frammentaria, ma esiste. Se corret­tamente perseguito potrà realizzarsi sempre di più». Il cristiano di Scola è «un soggetto in­tegrale – personale e sociale – in azione con u­miltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche» che «sce­glie l’ideale della vita buona e non cade nella tentazione dell’egemonia sociale». Ed è «qua­litativamente un’altra cosa rispetto al cristia­no militante» perché la testimonianza è «gra­tuito e spontaneo comunicarsi di una vita cam­biata per grazia. È la missione che implica par­resìa di dottrina e di azione».


La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
L'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha approvato il 16 aprile scorso la risoluzione 1607 che invita i 47 Stati membri a orientare, laddove necessario, la propria legislazione in maniera da garantire effettivamente alle donne "il diritto di accesso all'aborto sicuro e legale". Il documento è stato approvato con 102 voti a favore, 69 contrari e 14 astenuti, dopo un lungo dibattito che ha deciso sull'inclusione nel testo provvisorio di ben 72 emendamenti proposti in precedenza.
La risoluzione approvata inizia ribadendo il principio che in nessuna circostanza l'aborto deve essere inteso come un mezzo di pianificazione familiare e che, nei limiti del possibile, esso deve essere evitato (cfr n. 1). A tal fine, la risoluzione raccomanda che sia messo in atto ogni mezzo, purché compatibile con i diritti delle donne, per ridurre sia le gravidanze indesiderate che gli aborti stessi. Sembra dunque che, almeno in linea di principio, l'introduzione del documento riconosca e affermi chiaramente che l'aborto è una realtà in se stessa negativa, da evitare nei limiti del possibile con ogni sforzo.
Nel testo viene poi ricordata la presenza nella maggior parte degli Stati membri di dispositivi di legge che, sotto precise condizioni e circostanze, "permettono" l'aborto nei casi previsti. È qui che la risoluzione manifesta una preoccupazione concreta: il pericolo che in alcuni dei Paesi del Consiglio europeo dove l'aborto è permesso, di fatto, non possa essere garantito alle donne che lo richiedessero "un effettivo accesso ai servizi per l'aborto che siano sicuri, sostenibili, accettabili ed appropriati" (n. 2), e ciò a causa di condizioni eccessivamente restrittive previste dalle apposite disposizioni legislative, che finirebbero per provocare effetti discriminatori tra le donne.
Ed è proprio a questo punto che nel testo spunta la parola "diritto", riferito all'effettivo accesso all'aborto. Ciò stupisce in quanto è la prima volta che in un documento ufficiale del Consiglio d'Europa - così come in quelli delle Nazioni Unite - si parla dell'aborto come di un "diritto". Dal punto di vista legislativo, infatti, una cosa è permettere o depenalizzare l'aborto effettuato in determinate circostanze, altro è definirlo come un "diritto", a cui dovrebbe logicamente corrispondere anche un "dovere" di tutela del medesimo. Ma è davvero possibile postulare fondatamente un "diritto all'aborto"? Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso? A meno di adottare criteri antropologici discriminatori e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere umano uguale dignità e diritti fondamentali, questa pretesa è del tutto infondata e arrogante; essa può essere giustificata solo da impostazioni di pensiero fortemente ideologiche e parziali, che non pongono la persona umana - o almeno, non ogni singola persona umana - come fine ultimo e misura della vita sociale, e quindi della regolazione legislativa.
Anche l'affermazione che "l'aborto non deve essere vietato entro limiti gestazionali ragionevoli" (n. 4) suscita domande e perplessità. La ragionevolezza cui si fa riferimento, infatti, sembra essere commisurata su motivi riguardanti esclusivamente la salute della donna ed i costi sociali. Nulla si dice invece sulla realtà dell'essere umano (embrione) da abortire, la cui dignità essenziale è legata alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo biologico. In relazione al suo "diritto" di tutela della vita, dunque, non esistono e non possono esistere "limiti gestazionali ragionevoli" entro i quali sia possibile derogare a tale diritto fondamentale, poiché la vita umana individuale possiede il suo valore peculiare ed inalienabile in ogni momento della sua storia personale.
Nella stessa direzione, proseguendo nella lettura della risoluzione 1607, un altro elemento crea forti perplessità; si tratta della riaffermazione (cfr n. 6), di per sé opportuna e giusta, del diritto di ogni essere umano - e non si capisce perché il testo senta il bisogno di specificare "incluse le donne", cosa che appare del tutto scontata e, quindi, offensiva nei confronti delle donne stesse - al rispetto della propria integrità fisica e alla libertà della gestione del proprio corpo. Sulla base di questa affermazione, il testo conclude che "la decisione ultima di ricorrere o no all'aborto è una questione che appartiene alla donna interessata, la quale deve avere i mezzi per esercitare questo diritto in maniera efficace". La conclusione non sembra del tutto coerente con l'affermazione di principio iniziale. Se, infatti, viene riconosciuto il diritto alla tutela dell'integrità corporea di ogni essere umano, ciò va rivendicato appunto per tutti gli esseri umani, senza distinzione; ora, nel caso dell'aborto, la donna è solo uno degli esseri umani direttamente coinvolti, non l'unico. Anche il figlio, embrione o feto, lo è. Se è sacrosanto rivendicare il rispetto per l'integrità corporea della madre, altrettanto lo è affermare e rivendicare quella del figlio, tanto più che quest'ultimo non è in condizioni di reclamare e difendere da solo i propri interessi. Nel caso dell'aborto, da questo punto di vista vi sono due fronti d'interesse da far convergere e tutelare insieme: la salute della madre e quella del figlio. Il concepito non può certo essere ridotto a "parte del corpo della donna gravida", come ormai dimostra senza alcuna ragionevole incertezza la più moderna embriologia. La risoluzione 1607 glissa troppo velocemente su questo fondamentale aspetto, tentando di far passare come del tutto scontate affermazioni di significato antropologico e valoriale che sono invece del tutto discutibili, se non altro in nome di quel pluralismo di pensiero tanto rivendicato proprio dai sostenitori di queste affermazioni. Di conseguenza, è del tutto artificiale e "populistica" la reiterata accusa, mossa alla Chiesa cattolica da parte di alcuni parlamentari in sede di discussione del documento, di agire e parlare col fine di "privare le donne del loro diritto più fondamentale: quello di disporre del loro corpo". Un'idea del genere è assolutamente estranea all'insegnamento e agli intenti della Chiesa, ma soprattutto rappresenta una palese riduzione distorsiva della realtà: l'aborto volontario non può essere ridotto a una mera questione di gestione del corpo della donna; esso, infatti, include allo stesso tempo la drammatica scelta di distruggere una vita umana, quella del figlio, il cui valore di fondo è pari a quello della madre.
Un ultimo rilievo bisogna fare circa le possibili soluzioni che il documento prospetta per eliminare il più possibile il fenomeno dell'aborto. A tal fine si fa riferimento ad appropriate politiche di "salute sessuale e riproduttiva", ma soprattutto all'esigenza di rendere "obbligatoria" una educazione sessuale e relazionale (modulata sull'età e sul "genere" del soggetto) rivolta ai giovani. L'offerta di una proposta educativa sul piano della sessualità e della relazionalità è senz'altro un valore, che costituisce peraltro un dovere degli adulti nei confronti dei più giovani, soprattutto da parte dei genitori nei confronti dei propri figli; allo stesso tempo, per i genitori questo impegno rappresenta anche un diritto, da esercitare nella libertà di scelta dei valori e dei significati da trasmettere alla propria discendenza. Sembra invece molto difficile immaginare che possa essere la società nel suo insieme - la scuola? altre strutture? - a svolgere questo tipo di funzione educativa, poiché occorrerebbe scegliere e inevitabilmente imporre un modello valoriale e interpretativo, violando la libertà di scelta dei genitori stessi. Oppure pensare, come fa un po' "ingenuamente" la risoluzione 1607, che sia possibile dare su tali fondamentali tematiche semplici informazioni "neutre", senza valori etici, senza punti di riferimento antropologici. Non a caso, infatti, il documento riafferma l'importanza di diffondere in larga misura conoscenze e strumenti di contraccezione tra le popolazioni, con la convinzione che così facendo si otterrà una forte diminuzione del fenomeno dell'aborto. Sulla base di statistiche ufficiali e convincimenti antropologici del tutto diversi, riteniamo di dover riproporre la via dell'impegno per un'integrale educazione al valore della vita umana, all'amore e all'affettività (che comprende anche la sessualità), soprattutto a carico dei genitori verso i figli, come principale ed efficace strada per allontanare la piaga dell'aborto, legale o clandestino che sia. Pensiamo anche che la società tutta, e in particolare coloro che ne portano la responsabilità di guida, debbano agire efficacemente per tentare di rimuovere ogni difficoltà concreta (materiale, sanitaria, psicologica, economica, sociale e così via) che spinga una donna a ricorrere all'aborto.
Concludendo, l'affermazione relativa al "diritto di aborto" introdotta contro la logica della prevenzione e dell'educazione, verrebbe in ogni caso ad annullare il diritto alla vita del bambino concepito e rappresenta un'interpretazione selettiva e soggettivistica del diritto stesso, contraria all'originaria accezione dei diritti umani in cui il diritto alla vita è originario, fondamentale e preliminare rispetto a tutti gli altri diritti dell'uomo.
(©L'Osservatore Romano - 27 aprile 2008)



«Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
DI ANDREA GALLI
Un libro di Roberto Beretta sul ruolo dei cattolici negli anni della protesta e nel movimento studentesco
Certo, che la scintilla decisiva per la contestazione sia par­tita dall’Università Cattolica, che Mario Capanna fosse arrivato dall’Umbria nell’ateneo milanese con lettera di raccomandazione del vescovo, monsignor Luigi Ciccutini, e del parroco (che in un’intervista descrisse il suo pupillo come «il mi­gliore della parrocchia, una fede co­me pochi altri»), che Margherita Ca­gol detta Mara, moglie di Renato Curcio e morta da guerrigliera in un violentissimo scontro a fuoco coi ca­rabinieri, il 5 giugno del ’75, avesse un curriculum fatto di scoutismo, gruppo missionario Mani Tese e a­nimazione delle Messe post-conci­­liari, certo, sono cose note. Ma proprio per questo è curioso che gli studi sul lato pret­tamente cattolico del Sessantotto – e sul Sessantotto si è detto e scritto di tutto – sia­no assai pochi.
Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei catto­lici (Piemme, pagine 222, euro 13,50) del giornalista di Av­venire Roberto Beretta ha il merito, in questo quarantennale di rievoca­zioni, di colmare un po’ il vuoto in materia. La sua è una rivisitazione dove il piano ecclesiale, con il fer­mento del post-Concilio, e quello politico, con l’influenza del marxi­smo e delle ideologie liberazioniste, si sovrappongono fino a risultare spesso inseparabili. E dove una del­le varie angolature scelte, e tra le più efficaci, per comprendere il bailam­me cattolico di quegli anni è quella di seguire il comportamento del Pontefice stesso. Paolo VI che osser­va con attenzione i fatti della Catto­lica e pensa di scendere a Milano per parlare direttamente con quei gio­vani surriscaldati (viene poi sconsi­gliato dal farlo per timore di un cla­moroso oltraggio al Vicario di Cri­sto).
Paolo VI che il 20 dicembre del ’68 invia una lettera autografa a don Enzo Mazzi, leader della rivolta del­­l’Isolotto, il quartiere popolare di Fi­renze, invitandolo a cercare una ri­conciliazione con l’arcivescovo, il cardinale Ermenegildo Florit. Paolo VI che tra il dicembre ’67 e il maggio ’70 scrive ben sessantanove discor­si sulla contestazione nella Chiesa, con un crescendo di intransigenza che arriverà all’ipotesi, confidata in un colloquio a monsignor Ferdi­nando Antonelli, di chiudere per sempre l’Università Cattolica, e so­prattutto al famoso discorso sul «fu­mo di Satana» entrato nel Tempio di Dio, nel giugno del ’72.
Vicende tormentate quelle del Ses­santotto «bianco», i cui danni – per­dita di fede di innu­merevoli protago­nisti, anche clerica­li, impazzimento dottrinale, fine tra­gica nella lotta ar­mata per alcuni – furono grandi. È però anche vero, come fa notare Be­retta, ed è una delle tesi portanti del li­bro, che il Sessantotto cattolico non fu solo apologia di Camillo Torres, il mitologico prete col mitra, ubriaca­tura di teologia della liberazione in salsa cinese, liturgie blasfeme e ca­techismo olandese. Fu anche una «rottura» da cui nacquero o matu­rarono realtà come Comunione e Li­berazione, Bose, Sant’Egidio, nu­merose comunità di accoglienza, dalla Comunità di Capodarco al Ceis di don Mario Picchi, in un certo sen­so anche la comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Per cui oggi ci sarebbe lo spazio, volendo, dopo u­na dovuta e impietosa analisi delle derive, per una riflessione sul posi­tivo che venne da quegli anni «for­midabili ». E su ciò che si sarebbe po­tuto o dovuto salvare in quel vocia­re esaltato di «protagonismo dei lai­ci » e «purificazione della Chiesa».
Avvenire 24-4-2008


SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
IlSussidiario.net
Vincenzo Silvano26/04/2008
Autore(i): Vincenzo Silvano. Pubblicato il 26/04/2008 - Letto 82
In un mio precedente intervento mi sono soffermato sui meriti e le difficoltà della Dote, sistema geniale ed innovativo introdotto dalla Regione Lombardia per il sostegno del sistema di istruzione e della Formazione Professionale. Alcuni commenti all’articolo inseriti da lettori, come pure numerosi dialoghi informali di questi giorni sull’argomento, mi spingono ora a lanciare una proposta che riguarda non più solo la regione lombarda, ma tutto il territorio nazionale. È evidente, infatti, che la Dote costituisce una innovazione positiva sotto molteplici profili; tuttavia, come un fenomenale corridore che lascia il vuoto dietro di sé, accresce anche la già enorme distanza che caratterizza il confronto fra la Lombardia e le altre regioni italiane.
Se le famiglie e le scuole della Lombardia possono (e devono) sicuramente rallegrarsi per il nuovo passo in avanti fatto dalla Regione in materia di servizi alla società civile, realizzato nell’ottica di un welfare state attento al principio della sussidiarietà, che ne sarà della scuola paritaria (e quindi della libertà di educazione) in quelle aree del Paese governate da maggioranze poco sensibili a questi temi?
Per tentare di sanare questa palese (e radicata) ingiustizia, partiamo dalla normativa vigente. L’articolo 29 della Costituzione riconosce i diritti della famiglia dettando prioritariamente il dovere e il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, prevedendo sussidiariamente, all’articolo 30, che solo in caso di incapacità dei genitori la legge provveda a che siano assolti i loro compiti; l’articolo 33 riconosce anche il diritto di enti e di privati a istituire scuole e istituti di educazione e, nell’articolo 34, si afferma che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e connette l’esercizio effettivo del diritto all’istruzione al conferimento di borse di studio, di assegni alle famiglie e di altre provvidenze da attribuirsi per concorso. Ritengo che lo Stato, nel rispetto della Costituzione debba legiferare per garantire a tutti il godimento di diritti costituzionalmente garantiti. Il fatto che non l’abbia fatto fino ad oggi non l’esonera dal farlo per il futuro, anzi….
Nell’attuale congiuntura politica e finanziaria, una ricerca realistica della soluzione più adeguata che consenta a tutti di godere di sgravi e/o benefit per i servizi scolastici, suggerisce di concentrarsi sullo strumento della detraibilità fiscale. Se la dote è e resta, per sua natura, un provvedimento di competenza regionale, la detraibilità fiscale, riguardando l’intera popolazione italiana in materia di fisco, è materia di competenza del Ministero delle Finanze, e potrebbe davvero rappresentare la soluzione dell’annoso problema.
Presentarla come proposta innovativa è un po’ azzardato: già quasi 15 anni fa fu presa in esame dal primo governo Berlusconi, ma provocò immediate reazioni ostili in quei settori del mondo politico, della burocrazia scolastica e del movimento studentesco, che scorsero in questa possibile riforma un attacco alle "conquiste del ’68". E così fu accantonata. Oggi osiamo riproporla, nella speranza che gli sfasci prodotti sulla scuola italiana dal ’68 e l’emergenza educativa conseguente abbiano reso più ragionevoli anche i dinosauri della protesta sessantottina (che, ricordiamo, oggi sono ritornati ad essere extraparlamentari!)
A onor del vero, per la piena realizzazione di tale obiettivo era essenziale il formale riconoscimento del servizio pubblico reso dalla scuola non statale paritaria, che nel 1994 ancora non era avvenuto. La Legge 62/2000 l’ha finalmente sancito, anche se resta colpevolmente carente l’ attuazione proprio sotto il profilo economico… Possiamo e dobbiamo procedere dunque nella direzione della totale parità, studiando concretamente tutti i possibili strumenti di sostegno economico, diretto o indiretto, sia a favore degli istituti scolastici non statali sia a favore delle famiglie.
La detraibilità si potrebbe realizzare con la semplice modifica della lettera e) dell’articolo 15 (13 bis), Detrazioni per oneri, del Testo Unico delle imposte sul reddito, D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 e successive modificazioni. Tale disposizione contempla "le spese per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore a quella stabilita per le tasse e i contributi degli istituti statali". La citata locuzione potrebbe essere sostituita con la seguente: "le spese per frequenza di corsi di istruzione primaria, secondaria e universitaria".
Per non risultare irrilevante, dovrebbe essere detraibile dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche un importo pari almeno al 50% dell’onere sostenuto; questa percentuale, che dunque dovrà essere più alta di quanto previsto a norma del primo comma dell’art. 15 [13-bis] della citata legge, è fissa; pertanto, essa non favorisce maggiormente i titolari di redditi più elevati, ma tutti in uguale misura. Per completezza di informazione si può ancora ricordare che in Italia il contribuente può già detrarre dalle imposte dovute il 19% di alcune spese “sociali” sostenute: per sanità (comprese le spese per il veterinario!), assistenza e, di recente, anche per asili nido, attività sportiva dei figli ed altro…..Non costituirebbe dunque una forzatura l’inserimento in questa disciplina delle rette scolastiche, sia pure con una percentuale maggiore di detrazione. Si tratta davvero di un sistema semplice e non discriminatorio, sia dal punto di vista territoriale, sia sotto il profilo della giustizia fiscale, e rientra a pieno titolo nell’alveo di una più ampia riforma del fisco a favore della famiglia, richiesta da più parti politiche durante la recente campagna elettorale.
La detraibilità fiscale delle rette scolastiche non esclude, per sua natura, provvidenze di competenza regionale come la dote o il buono scuola. In una possibile diversificazione ed integrazione delle provvidenze, l’importante è che ci sia davvero, per tutte le famiglie, la possibilità di scegliere liberamente il proprio partner nell’educazione/istruzione dei figli, senza essere costretti ad esborsi ingiusti (incostituzionali) e gravosi, quando addirittura non sostenibili. La detraibilità può essere un ulteriore passo verso la piena parità ed è, nel contempo, rispettosa delle difficoltà economiche del tempo presente. I legislatori abbiano il coraggio di tenerne finalmente conto, infischiandosene delle prevedibili ostilità e lasciando nel proprio jurassic park chi si ostina a proporre modelli sociali ampiamente smentiti dalla storia.


Mario Canessa, giusto tra le nazioni
Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
sabato 26 aprile 2008
La storia dei giusti è spesso una storia particolare per non dire strana. E quella di Mario Canessa non sfugge alla regola. A 91 anni riceve dallo Stato di Israele il riconoscimento di “Giusto fra le Nazioni”, il più alto dello Stato ebraico, e dallo Stato italiano, direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor civile. Forse come appartenente alla Polizia di Stato gli poteva essere riconosciuta quella al valor militare.
I fatti per cui gli è stato concesso questo riconoscimento risalgono ad oltre 60 anni fa, quando Mario Canessa, agente di Pubblica Sicurezza, nel 1943 aiutò un gruppo di ebrei, in Valtellina, mettendo a rischio la propria vita, a fuggire in Svizzera. Alcuni di questi ebrei sono ancora vivi e venuti a conoscenza che il loro salvatore era ancora vivo lo hanno voluto incontrare e ringraziare. Tra questi Lino De Benedetti che all’epoca aveva 9 anni e Noemi Gallia, allora sedicenne. Ma anche nel volterrano, città in cui Mario Canessa è nato, anche se è livornese di adozione, ebbe modo di mettere al sicuro il dottor Emerico Lukacs, di origine ungherese, il cui figlio Vittorio vive ancora a Pontedera, dove dirige un avviato studio di architettura.
Per valutare appieno il comportamento di Mario Canessa bisogna ricordare che contemporaneamente alla sua azione di salvataggio, suo fratello si trovava prigioniero in Germania. Se avesse consegnato ai tedeschi uno o più ebrei suo fratello sarebbe stato rimesso in libertà; Mario Canessa questa possibilità non la prese neppure in considerazione. “Sa - mi ha detto – io sono molto religioso, così come lo era mia madre; non dissi nulla neppure a lei, tanto sapevo quali erano le sue idee e quale sarebbe stata la sua reazione”. In Mario Canessa prevalse l’imperativo categorico su quello ipotetico, l’etica delle intenzioni e della purezza su quella delle conseguenze e della convenienza. Egli è uno di quei giusti su cui si regge la salvezza del mondo, e come tale lo dobbiamo onorare.
Finita la guerra Mario Canessa si laureò in Scienze Politiche, divenne funzionario della Polizia di Stato ed arrivò ai vertici della carriera con la carica di Dirigente Generale al Ministero degli Interni: di quello che aveva fatto si dimenticò.
Nel giardino dei giusti a Gerusalemme, nel museo Yad Vashem, ora che il ricordo è riemerso, a Mario Canessa sarà dedicato un albero e una targa a perpetuo ricordo di ciò che ha fatto; lì sarà in buona compagnia: 22.000 giusti di tutto il mondo fra cui circa 500 italiani. Fra essi molti sacerdoti e membri delle forze armate italiane: carabinieri e poliziotti che agirono secondo coscienza, sollecitudine e amore fraterno verso il prossimo, contravvenendo le leggi dello stato fascista. Fra i più famosi Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci, per il quale è in corso una causa di beatificazione.
Mi auguro che Mario Canessa integri queste mie parole con il racconto diretto di ciò che fece a quel tempo.
Io vorrei invece fare alcune considerazioni più generali.
Mario Canessa è un uomo profondamente religioso, che pratica quella grande, somma virtù che, per la tradizione giudaica e cristiana è l’umiltà. Di quello che aveva fatto, che gli era capitato di fare non aveva mai parlato con nessuno. Probabilmente, come ebbe a dire Giorgio Perlasca, di fronte ad uomini trattati peggio di bestie, gli era sembrato naturale aiutarli, non si era posto troppe domande sulle leggi dello Stato, sulle conseguenze dei suoi comportamenti.
Mario Canessa, come ho detto è profondamente credente, cattolico, cavaliere del Santo Sepolcro. Può avere influito questo nel suo comportamento?
Il 14 marzo del 1937 (Se non sbaglio all’epoca Mario aveva 20 anni) Pio XI promulgò una lettera enciclica, indirizzata ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania. Questa enciclica, eccezionalmente scritta in tedesco, anziché in latino, era la “Mit brennender sorge”, che possiamo tradurre “Con viva (letteralmente bruciante) ansia” Nel capitolo 8 “Riconoscimento del diritto naturale” si afferma che “E’ una caratteristica nefasta del tempo presente il voler distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina…Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna”. Più sotto conclude: “ Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale”.
Sono parole inequivocabili, su cui ancora oggi, farebbero bene a riflettere quanti criticano il ricorso di Benedetto XVI al rispetto del diritto naturale, che per il mondo ebraico sono i sette comandamenti noachici, la prima alleanza dopo il Diluvio universale con Noach, che si possono riassumere nell’istituzione di magistrati, e nella probizione del sacrilegio, del politeismo, dell’incesto, dell’omicidio, del furto, dell’uso delle membra di un animale vivo (Sanhedrin 56 b).
Mario Canessa molto probabilmente non conosceva l’enciclica papale (aveva solo 20 anni) all’epoca della sua promulgazione; ma qualche anno dopo di fronte all’alternativa se obbedire ad una legge ingiusta, oppure alla legge naturale o di Dio, non ebbe il benché minimo dubbio. Nel contrasto fra l’uomo e Dio la tradizione e l’insegnamento religioso prevedono esplicitamente la disubbidienza. Ecco perché sono convinto che la sua fede lo abbia indirizzato naturalmente e senza tentennamenti a testimoniare il bene e a contravvenire ad una legge malvagia.
Erano quelli momenti terribili nei quali non era più possibile non capire, sfuggire ad una scelta; girare la testa da un’altra parte era già uno scegliere. Dice il Talmud che chi salva una vita salva il mondo; salvando una vita non si salva solo la persona ma anche coloro che discenderanno nelle generazioni future. Nel memoriale di Yad Vashem fra i 6 milioni di vittime innocenti è ricordata la morte di un milione e cin- quecentomila bambini. Mario Canessa appartiene perciò a quella schiera di giusti, la cui esistenza assicura la salvezza del mondo.
Ora due parole su che cosa è il riconoscimento di giusto tra le nazioni e la sua straordinaria importanza.
Presso il Memoriale di Yad Vascem a Gerusalemme è insediata la Commissione dei Giusti, il primo organismo del Novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Moshé Bejski, che ne era il presidente, ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista. Ripeteva con ossessione agli amici: “non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei”.
In realtà non era interessato alla perfezione degli esseri umani, alle motivazioni che li avevano spinti a salvare i loro simili. Voleva solo ricordare chi aveva tentato, di fronte ad un male estremo, autorizzato dalla legge degli uomini, di salvare anche una sola vita, chi era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Moshè amava gli uomini, non cercava i “santi”.
Era uno dei 1.200 inseriti nella famosa lista di Schindler. Questo legame fra Bejski e Schindler sta a fondamento dell’elaborazione di un concetto totalmente nuovo: la memoria del bene durante un genocidio.
Moshè era inquieto perché temeva che si ripetesse la solitudine in cui era sta lasciato chi aveva saputo sfidare le leggi del male. Forse troppi ebrei si erano dimenticati di chi li aveva salvati. Temeva la ingratitudine dei sopravvissuti, la leggerezza della memoria. Non poteva accettare che ciò accadesse. Aveva capito che l’esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle, salvando nel contempo l’uomo universale, creatura divina. Ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va salvato dall’oblio, difeso nella memoria.
Recentemente, al Meeting di Rimini, un sacerdote milanese, don Giovanni Barbareschi, di poco più giovane di Mario Canessa, anche lui “Giusto fra le Nazioni”, allievo del Beato Ildebrando Schuster, cardinale di Milano, ebbe a dire. “A differenza di molti che hanno combattuto, anch’io ho fatto la Resistenza, ma l’ho fatta salvando delle vite anziché distruggerle” Non voglio dare giudizi su chi abbia adempiuto meglio al proprio dovere. Poiché personalmente propendo per la vita e per la sua sacralità assoluta mi piacciono molto di più quei resistenti che come Mario Canessa ha scelto di salvare la vita.
Ho seguito l’insegnamento di Moshè Bejnski: “non un solo giusto deve essere dimenticato”. E, con la stessa umiltà di Mario, ho trasmesso alle autorità dello Yad Vashem i documenti che hanno consentito di ricordare anche questo “Giusto”.
I documenti che pochi anni fa Mario Canessa, che in tutti questi anni si era confidato solo con il suo amico Raul Orvieto, aveva tenuto gelosamente nascosti.


26 aprile 2008
Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara
Dal Foglio.it
A Torino il trionfo del qualunquismo nella forma spettacolare e come al solito di grande successo della ciarlataneria, che fa ombra sulla cerimonia istituzionale, composta come in una bara su altra piazza, mentre echeggiano gli insulti al sindaco e al presidente della Repubblica. A Genova i fischi all’arcivescovo Angelo Bagnasco, un sereno uomo di chiesa travolto dall’intolleranza che si traveste da resistenza laica. A Milano polemiche belluine per l’assenza del sindaco Letizia Moratti, maltrattata la volta scorsa insieme con il padre invalido: con quella sciagura da Nobel della famiglia Fo-Rame in lacrime di disperazione per la vittoria di Berlusconi. A Roma i fischi toccano al deportato Piero Terracina, perché la comunità ebraica non sarebbe stata abbastanza vivace e ardente nell’opposizione alla candidatura di Gianni Alemanno. E su tutto l’oscena commistione di liturgia repubblicana e politica elettorale, tra nostalgie per il voto che non fu e inquiete premonizioni intorno al voto che sarà. Una secessione dietro l’altra, secessioni fatte in serie per la giornata della Liberazione. I dementi di sinistra che quindici anni fa hanno preso il posto delle tricoteuses mentre veniva abbattuta la Repubblica dei partiti, e hanno fatto la maglia sotto il patibolo su cui magistrati codini immolavano le classi dirigenti che avevano firmato la Costituzione, provocando valanghe di giustizialismo con argomenti alla Beppe Grillo, ora si lamentano per l’offesa alla memoria nazionale, per la trasformazione ineluttabile di una giornata di festa nazionale in un incubo di divisione nazionale. Occorreva difendere con sapienza una memoria, elaborandola come storia e purgandola delle sue asprezze, e invece piano piano il 25 aprile, tra un’aggressione e un’intimidazione, tra cento mistificazioni di bottega culturale ed elettorale, è stato ridotto a quello straccio che ieri s’è visto. Ciò che con il tempo doveva allargarsi a tutti gli italiani, compresi i leghisti e i fascisti, è stato sequestrato da pochi capifazione ed espulso dal cuore maggioritario del paese, indotto a diffidare di un calendario della patria al servizio di un vecchio ciarpame ideologico. I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.