venerdì 27 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Comunicato stampa - CL: sul “fine vita” siamo col cardinale Bagnasco
2) Papa Benedetto è nell’occhio del ciclone - Il Giornale 26 febbraio 2009 - Critiche e attacchi non sono mai mancati ai Papi e a Papa Ratzinger: oggi però queste critiche e questi attacchi non provengono soltanto dai tradizionali pulpiti del dissenso, da teologi come Hans Küng o come Vito Mancuso, ma anche da alcuni esponenti dell’episcopato tradizionalmente più vicini a Benedetto XVI… - di Andrea Tornielli
3) Benedetto XVI: alla radice della crisi economica vi è l'egoismo - Durante l'incontro con i parroci e i sacerdoti di Roma
4) Küng e Mancuso: il fumo di Satana? - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009
5) 27/02/2009 11:32 - INDIA – VATICANO - Kashmir: giovani convertite dall’Islam pregano per Benedetto XVI - di Nirmala Carvalho - Dopo un gruppo di musulmani dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, anche giovani convertite dal Kashmir aderiscono alla preghiera per il Papa, lanciata da AsiaNews per questa Quaresima. Le tre convertite offrono le loro sofferenze ed emarginazioni, insieme al sacrificio del loro padre Bashir, assassinato da estremisti musulmani perché convertitosi al cristianesimo. Adesioni anche dall’Italia, dove si ricordano pure le umiliazioni subite da Giovanni Paolo II.
6) L’Oscar Wilde nascosto da Benigni - Pigi Colognesi - venerdì 27 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
7) CRISTIANESIMO/ John Henry Newman, la storia di una conversione - Redazione - venerdì 27 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
8) IN GIOCO LO SGUARDO SULLA VITA FERITA E UMILIATA - Compassione per Eluana dopo l’ultima ingiuria - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 febbraio 2009


Comunicato stampa - CL: sul “fine vita” siamo col cardinale Bagnasco
In relazione al dibattito intorno a una legge sul fine vita, Comunione e Liberazione condivide le ragioni più volte espresse dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, e rese ancora più attuali dopo la morte di Eluana Englaro: «Il vero diritto di ogni persona umana, che è necessario riaffermare e garantire, è il diritto alla vita che infatti è indisponibile. Quando la Chiesa segnala che ogni essere umano ha un valore in se stesso, anche se appare fragile agli occhi dell’altro, o che sono sempre sbagliate le decisioni contro la vita, comunque questa si presenti, vengono in realtà enunciati principi che sono di massima garanzia per qualunque individuo» (Prolusione al Consiglio permanente della Cei, 26 gennaio 2009).
Lo stesso Benedetto XVI, nell’Angelus del 1° febbraio 2009, ha ricordato che «la vera risposta non può essere dare la morte, per quanto “dolce”, ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano».
Per questo, di fronte alle polemiche suscitate da ambienti laici e anche da cattolici, restano per noi valide le preoccupazioni del cardinale Bagnasco e della Cei sulla necessità di «una legge sul fine vita, resasi necessaria a seguito di alcune decisioni della giurisprudenza. Con questa tecnica si sta cercando di far passare nella mentalità comune una pretesa nuova necessità, il diritto di morire, e si vorrebbe dare ad esso addirittura la copertura dell’art. 32 della Costituzione».
Chi si impegna in politica secondo ragione può trarre da queste preoccupazioni della Chiesa uno sguardo più vero alla vita degli uomini, nel difficile compito di servire il bene comune.
l’ufficio stampa di CL
Milano, 26 febbraio 2009.


Papa Benedetto è nell’occhio del ciclone - Il Giornale 26 febbraio 2009 - Critiche e attacchi non sono mai mancati ai Papi e a Papa Ratzinger: oggi però queste critiche e questi attacchi non provengono soltanto dai tradizionali pulpiti del dissenso, da teologi come Hans Küng o come Vito Mancuso, ma anche da alcuni esponenti dell’episcopato tradizionalmente più vicini a Benedetto XVI… - di Andrea Tornielli
Prima per il caso del prelato lefebvriano Richard Williamson, le cui dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas sono state divulgate da una televisione svedese quasi in coincidenza con la pubblicazione della revoca della scomunica ai quattro vescovi consacrati nel 1988 da monsignor Lefebvre.
Poi per il caso, meno eclatante ma non meno dirompente, del nuovo vescovo ausiliare di Linz, Gerhard Maria Wagner, già dimissionario perché apertamente contestato nella Chiesa austriaca a causa di alcune sue dichiarazioni sul ciclone Katrina che nel 2005 distrusse New Orleans (da lui definito un castigo di Dio), sui romanzi di Harry Potter (da lui bollati come pericolosi e diabolici), sull’omosessualità.
Proprio in seguito a questi due casi la Santa Sede attraversa un momento delicato e difficile. Critiche e attacchi non sono mai mancati ai Papi e a Papa Ratzinger: oggi però queste critiche e questi attacchi non provengono soltanto dai tradizionali pulpiti del dissenso, da teologi come Hans Küng o come Vito Mancuso, ma anche da alcuni esponenti dell’episcopato tradizionalmente più vicini a Benedetto XVI, com’è accaduto in Austria, dove tra i critici verso Roma per la nomina di Wagner quale ausiliare di Linz si ritrova il cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn.
Nelle scorse settimane alcuni problemi sono stati ingigantiti, con strumentalizzazioni evidenti: si è voluto far credere che la Chiesa di Papa Ratzinger – Pontefice certamente amico degli ebrei, che da teologo ha riflettuto in modo particolare sul legame che unisce i cristiani al popolo dell’Antica Alleanza – avesse dimenticato se non rinnegato il Concilio Vaticano II, e avesse fatto marcia indietro rispetto alla ferma e inequivocabile condanna dell’antisemitismo.
È certo che Oltretevere, al di là delle strumentalizzazioni, si sono verificati intoppi e problemi, nel processo prima decisionale e quindi comunicativo, in relazione ad alcuni recenti eventi gestiti dai collaboratori di Benedetto XVI.
Tra gli inquilini dei sacri palazzi, dove peraltro non ci si nasconde l’esistenza di intoppi e problemi, c’è però chi è convinto che quella che si sta giocando in queste settimane sia una «battaglia» di dimensioni più vaste e più profonde di quanto appaia all’esterno, e che proprio i recenti episodi abbiano dato forza e riconquistata visibilità a quanti non hanno mai perdonato a Benedetto XVI di essere diventato Papa.
Gli stessi che avevano passato anni a dipingere Joseph Ratzinger come il «panzerkardinal», attribuendogli un ruolo frenante durante il pontificato di Giovanni Paolo II – una caricatura fuori dalla storia, dato che proprio Ratzinger è stato colui che più a lungo ha collaborato con Papa Wojtyla, e quest’ultimo non ha mai voluto accettare la richiesta di potersi ritirare avanzata a più riprese dal porporato – tornano ora ad affibbiargli gli stessi stereotipati cliché.
Il Giornale 26 febbraio 2009


Benedetto XVI: alla radice della crisi economica vi è l'egoismo - Durante l'incontro con i parroci e i sacerdoti di Roma
ROMA, venerdì, 27 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Le ragioni profonde della crisi economica vanno rintracciate nell'egoismo. E' quanto ha detto Benedetto XVI durante il tradizionale incontro di inizio Quaresima con i parroci e i sacerdoti della diocesi di Roma, svoltosi giovedì mattina 26 febbraio, nell'Aula della Benedizione.
Nell'incontro durato quasi due ore e caratterizzato da un clima familiare, il Papa ha risposto ad otto domande affrontando temi come: la formazione dei presbiteri, l’importanza del primo annuncio, l'emergenza educativa, l'azione caritativa, il ruolo del parroco nella società di oggi, il valore della liturgia nella vita del cristiano, il significato del ministero del Vescovo di Roma, la Parola di Dio e il Concilio Vaticano II.
Dopo il discorso tenuto dal nuovo Cardinale vicario, Agostino Vallini, il Papa – secondo quanto riferito dalla “Radio Vaticana” – ha risposto ad un sacerdote della zona periferica di Tor Bella Monaca, dove si fa particolarmente sentire la crisi economica, accennando alla sua prossima Enciclica sociale e ribadendo che la Chiesa ha il dovere di denunciare i fallimenti del sistema economico-finanziario senza ricorrere a moralismi.
La Chiesa, ha detto il Papa, è chiamata a "denunciare questi errori fondamentali che si sono adesso dimostrati nel crollo delle grandi banche americane – ha detto –: l’avarizia umana è idolatria che va contro il vero Dio e la falsificazione dell’immagine di Dio con un altro dio – Mammona; dobbiamo denunciare con coraggio ma anche con concretezza, perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostenuti dalla conoscenza della realtà, che aiuta anche a capire che cosa si può in concreto fare!".

A livello microeconomico, invece, il Pontefice – secondo quanto riferito da “L'Osservatore Romano” – ha ricordato che i grandi progetti di riforma non possono realizzarsi compiutamente senza un cambiamento di rotta individuale. Se non ci sono i giusti - ha ammonito - non ci può essere neanche la giustizia.
Da qui l'invito a intensificare il lavoro umile e quotidiano della conversione dei cuori: un lavoro - ha evidenziato il Papa - che coinvolge soprattutto le parrocchie. La cui attività, alla fine, non è limitata solo alla comunità locale ma si apre all'intera umanità.
Il Papa ha quindi esortato il clero romano a unire gli studi di teologia con l’esperienza concreta per tradurre la Parola di Dio all’uomo di oggi. Non dobbiamo perdere la semplicità della Verità, ha detto ancora, che non può essere assimilata ad una filosofia.
Benedetto XVI ha poi posto l’accento sul ruolo del parroco che, ha affermato, come nessun altro conosce l’uomo nella sua profondità, al di là dei ruoli che ricopre nella società.

"Per l’annuncio abbiamo bisogno dei due elementi: testimonianza e parola – ha detto –. E’ necessaria la parola, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo e quindi l’annuncio è una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, ma è necessaria anche la testimonianza che dà credibilità a questa parola, perché non appaia solo come una bella filosofia, una utopia”.
“E in questo senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente sia di grandissima importanza. Dobbiamo aprire, in quanto possiamo, luoghi di esperienza della fede".

Il Pontefice ha quindi affrontato il tema dell’emergenza educativa, sottolineato il compito dei sacerdoti fin dall’oratorio di offrire ai giovani una formazione umana integrale.
Successivamente, ha ribadito che oggi viviamo in un mondo dove molte persone hanno tante conoscenze ma senza orientamento interiore etico. Per questo, la Chiesa ha il dovere di proporre una formazione umana illuminata dalla fede. Aprirsi dunque alla cultura del nostro tempo, ma indicando criteri di discernimento.
Nell’incontro non sono mancati momenti simpatici come quando un parroco del quartiere della Casilina ha declamato un sonetto in romanesco per celebrare la prossima visita di Benedetto XVI in Campidoglio.

"Grazie! Abbiamo sentito parlare il cuore romano, che è un cuore di poesia – ha detto il Papa –. E’ molto bello sentire un po’ di romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano. Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani, è un carisma naturale che precede i privilegi ecclesiali …".

Nel colloquio con il clero romano, il Papa ha anche parlato della liturgia ribadendo che imparare a celebrare significa conoscere Gesù Cristo, entrare in contatto con Lui. La Liturgia, è stata la sua riflessione, deve sempre più essere il cuore del nostro essere cristiani.
Il Pontefice ha quindi indicato la peculiarità della Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella Carità. Un dono, ha affermato, che riguarda tutti i fedeli di Roma. Il ministero petrino, ha poi aggiunto, deve garantire l’unità e la ricchezza della Chiesa, prevenendo ogni assolutizzazione ed escludendo ogni particolarismo.


Küng e Mancuso: il fumo di Satana? - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009
Ho letto con attenzione gli interventi del 25 febbraio 2009, mercoledì delle Ceneri, di Küng (sulla Stampa) e di Mancuso (su Repubblica): mi sembra che siano il segno di quella posizione – oramai abbondantemente diffusa – di coloro che riducono il cristianesimo alle proprie idee, desiderosi di essere loro i giudici e i critici del Magistero pontificio. Sport nobilissimo, e soprattutto ben remunerato, in fama e monete. Già Paolo VI nel 1972 affermava (e riporto la sintesi che ne dà il sito del Vaticano): «Riferendosi alla situazione della Chiesa di oggi, il Santo Padre [Paolo VI – ndr] afferma di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Dalla scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio. Gli scienziati sono coloro che più pensosamente e più dolorosamente curvano la fronte. E finiscono per insegnare: «Non so, non sappiamo, non possiamo sapere». La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno. Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l’ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli. Come è avvenuto questo? Il Papa confida ai presenti un suo pensiero: che ci sia stato l’intervento di un potere avverso. Il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere cui si fa allusione anche nella Lettera di S. Pietro. Tante volte, d’altra parte, nel Vangelo, sulle labbra stesse di Cristo, ritorna la menzione di questo nemico degli uomini. «Crediamo - osserva il Santo Padre - in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé. Appunto per questo vorremmo essere capaci, più che mai in questo momento, di esercitare la funzione assegnata da Dio a Pietro, di confermare nella Fede i fratelli. Noi vorremmo comunicarvi questo carisma della certezza che il Signore dà a colui che lo rappresenta anche indegnamente su questa terra». La fede ci dà la certezza, la sicurezza, quando è basata sulla Parola di Dio accettata e trovata consenziente con la nostra stessa ragione e con il nostro stesso animo umano. Chi crede con semplicità, con umiltà, sente di essere sulla buona strada, di avere una testimonianza interiore che lo conforta nella difficile conquista della verità.»
Parole gravi, parole accorate e cariche di dolore, da unire a queste altre (dette a Jean Guitton l’8 settembre del 1977): «C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: ‘Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?’. Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. [...] Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».
Parole che indicano il compito da vivere in quest’ora drammatica del mondo, e dentro la Chiesa: la fedeltà a Cristo deve essere anche fedeltà al magistero, solo così si servirà l’uomo. E questo aprirà alla missione, verso tutti gli uomini, compito che troppi intellettuali non sanno più vivere.
N.B. per Küng: mi pare che sia ossessionato da quelli che in dialetto si chiamavano i «peccati di braghetta». La battaglia da fare oggi credo abbia un orizzonte più vasto.


27/02/2009 11:32 - INDIA – VATICANO - Kashmir: giovani convertite dall’Islam pregano per Benedetto XVI - di Nirmala Carvalho - Dopo un gruppo di musulmani dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, anche giovani convertite dal Kashmir aderiscono alla preghiera per il Papa, lanciata da AsiaNews per questa Quaresima. Le tre convertite offrono le loro sofferenze ed emarginazioni, insieme al sacrificio del loro padre Bashir, assassinato da estremisti musulmani perché convertitosi al cristianesimo. Adesioni anche dall’Italia, dove si ricordano pure le umiliazioni subite da Giovanni Paolo II.
Mumbai (AsiaNews) – Alcuni giovani ex musulmani convertiti al cattolicesimo esprimono la loro adesione a pregare per il papa in questa Quaresima. Shabnam (21 anni), Saira (17) e Adil (16), insieme alla loro madre Ameena, che vive ancora in Kashmir, desiderano che Benedetto XVI sappia che essi pregano per lui e offrono le loro sofferenze e umiliazioni per la sua missione. “Preghiamo che sia forte – dice Shabnam - e continui ad essere il faro della verità e dell’amore per tutto il mondo”.
I tre giovani e la loro madre aderiscono alla proposta fatta da AsiaNews ieri, che durante la Quaresima i cristiani preghino per il pontefice, al centro di una “guerra” mediatica contro il suo ministero. La proposta viene da un suggerimento giunto alla redazione di AsiaNews da parte di un gruppo di centinaia di ex musulmani dell’Africa del Nord e del Medio oriente, che hanno lanciato novene di preghiera per il Papa, che essi vedono come un “segno dell’amore di Gesù e un difensore dei deboli”.
Adil, la più giovane delle figlie, che quest’anno farà gli esami della maturità, vede una profonda unità fra le loro sofferenze e umiliazioni di convertite dall’Islam e le umiliazioni che il papa subisce: “Sono stata battezzata molto giovane ed è stato sempre molto difficile: rimproveri, sarcasmo, ricatti, discriminazioni e ostracismo sociale ci hanno causato molta sofferenza. Ma ogni dolore ci insegna qualcosa e la nostre fede si rafforza, ci appoggiamo a Cristo ed è Lui che ci guida in tempi difficili”.
“Santo e amato Padre, non perda mai di vista la sua missione, non dimentichi il motivo per cui Dio l’ha eletto, guidi le generazioni alla verità e Dio sia sempre con lei”.
Bashir Ahmad Tantray, il padre di Shabnam, Saira e Adil, è stato ucciso da militanti islamici nel novembre 2006 in pieno giorno. Si era convertito al cristianesimo nel 1995 ed era fuggito dal suo villaggio dopo aver ricevuto minacce da gruppi islamici estremisti. Anni dopo vi era ritornato per curare suo padre che stava morendo ed è stato ucciso.
Bashir era un ingegnere della J&K Power Development Dept e il coordinatore regionale del Global Council of Indian Christians in Kashmir. “Dalla morte di nostro padre in poi – racconta Shabnam – è stato orribile. Pochi possono capire il nostro dolore e abbandono. Noi siamo fuggite a Mumbai, ma nostra madre è ancora in Kashmir. La vediamo solo durante le vacanze. Per lei ogni giorno è una continua lotta e un continuo dolore”.
Fra le adesioni alla proposta di preghiera per Benedetto XVI giunte alla redazione di AsiaNews, vi è anche quella di una signora italiana, che si firma col nome di Paola.
“Aderisco senza riserva all'iniziativa – scrive Paola -; pregherò per il Papa, come ho sempre fatto dal 1978”.
E ricorda che anche Giovanni Paolo II è stato spesso attaccato (perfino ora da morto): “Per annunciare all'umanità che solo in Cristo l'uomo ritrova se stesso, per cercare l'unità tra i Cristiani, Papa Wojtyla non ha esitato, anche allo stremo delle forze, di affrontare viaggi estenuanti, incontri quasi impossibili, persino critiche da parte di quanti gli erano vicini. Ci siamo mai chiesti quanto dolore provasse di fronte alle accuse di Küng o dei lefebvriani? Che dire poi degli attacchi radicali o della solitudine di fronte ai suoi innumerevoli appelli contro la guerra, contro l'aborto, contro i pericoli di un'umanità senza Dio?”.
“Sì – conclude - io pregherò per papa Benedetto XVI, anzi, lo affiderò all'intercessione del suo ‘piccolo grande predecessore’, ma invito anche a pregare in modo più convinto affinché quel ‘Santo subito’ possa trovare compimento”.


L’Oscar Wilde nascosto da Benigni - Pigi Colognesi - venerdì 27 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Oscar Wilde, citato in modo parziale e strumentale da Roberto Benigni durante la serata inaugurale del Festival di Sanremo, ha scritto in carcere un’opera straordinaria: De profundis. Si tratta della lunga lettera che il romanziere e commediografo di successo – almeno fino al processo del 1895 e la successiva prigionia, che hanno stroncato la sua carriera e la sua stessa vita – ha indirizzato ad Alfred Douglas, la causa di tutte le sue disgrazie. Disgrazie fatali. Il capo dei carcerieri aveva previsto: «Morirà entro due anni». Wilde completò il periodo di detenzione il 19 maggio 1897 e morì, quarantaseienne, poco più di tre anni dopo, il 30 novembre 1900.
La lunga lettera – Wilde voleva intitolarla Epistola: In Carcere et Vinculis; il titolo attuale gli è stato dato da Robert Ross, che l’ha parzialmente pubblicata nel 1905 – non può certo essere ridotta a qualche battuta smagliante, del tipo di quelle per cui Wilde era celebre, sull’omosessualità.
Essa è anzitutto e soprattutto una riflessione sulla sofferenza. Dice Wilde di sé: «Gli dèi m’avevano concesso quasi tutto. Possedevo la genialità, un nome illustre, un’alta posizione sociale, una mente brillante e ardimentosa. Qualsiasi cosa toccassi la rendevo bella d’un nuovo genere di bellezza». E adesso? « Le cose esteriori dell’esistenza non possiedono per me alcuna importanza, ora».
Cos’era successo? Wilde aveva colto, in carcere, il significato del patire: «La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo d’esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita. Là dove cresce il Dolore è terra benedetta. Gli ecclesiastici e tutti quelli che discorrono a vanvera parlano a volte della sofferenza come d’un mistero. In realtà è una rivelazione».
Come è stato possibile? Attraverso l’immedesimazione con le sofferenze di Cristo. Egli, scrive Wilde, «con una prodigiosa larghezza d’immaginazione che ci riempie quasi di religioso timore, si scelse per regno tutto il mondo dell’inespresso, il mondo senza voce del dolore, e gli prestò in eterno la propria voce». Cristo, «come tutte le nature poetiche amava gli ignoranti. Sapeva che nell’anima d’un ignorante una grande idea trova sempre il suo posto. Ma non poteva sopportare gli sciocchi, specialmente quelli che son resi tali dall’istruzione». Amava, Cristo, anche i peccatori: «Trasformare un ladro interessante in un noioso onest’uomo non era la sua più alta aspirazione. La conversione di un pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa un gran risultato». Egli «non insegna nulla ad alcuno, ma chi venga semplicemente condotto al suo cospetto, diventa qualcosa».
Cristo, dunque, è stato il vero artista, ciò che Wilde aveva cercato di essere nel successo e stava scoprendo nel carcere: «Il proponimento d’essere più buoni è un bell’esempio d’ipocrita retorica, esser diventati più profondi è il privilegio di quanti hanno sofferto».
Partendo daquesta esperienza di dolore redento, Wilde è in grado di giudicare il mondo che lo circonda. La sua ipocrisia: «Una faccia di bronzo è la cosa più importante da ostentare davanti al mondo ma, se di quando in quando ti capita di restare solo, dovrai bene toglierti la maschera, suppongo, se non altro per respirare. Altrimenti, infatti, finiresti per soffocare». Il suo sentimentalismo: «Un sentimentale è semplicemente uno che vuol godere il lusso di un’emozione senza pagare. Il sentimentalismo è la festa legale del cinismo». La sua menzogna: «La verità è una cosa penosissima a dire. Ma esser costretti a mentire è molto peggio».
La lettera si conclude sullo stesso accento da cui era partita: con una richiesta di perdono. Il suo ultimo insegnamento suona infatti così: «Il momento supremo per un uomo è quello in cui s’inginocchia nella polvere, e si batte il petto, e confessa tutti i peccati della sua esistenza». Perciò, Wilde consiglia a lord Douglas e a ciascuno di noi: «Non aver paura del passato. Se la gente ti dice che è irrevocabile, non crederci. Il passato, il presente e il futuro son solo un momento agli occhi di Dio, alla vista del quale dovremo cercare di vivere sempre».


CRISTIANESIMO/ John Henry Newman, la storia di una conversione - Redazione - venerdì 27 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Accostarsi a John Henry Newman (1801-1890), il grande intellettuale e parroco anglicano di Oxford convertitosi al cattolicesimo nel 1845 (di cui quest’anno ricorrono i 130 anni dall’ingresso nel Sacro Collegio dei Cardinali), non è come leggere un autore tra i tanti: chi ha avuto l’opportunità di conoscere la sua opera (pubblicando un volume sull’argomento) ha infatti sentito dentro di sé quel cambiamento che solo i grandi spiriti sanno comunicare, in quanto sono stati proprio loro a non aver temuto di mettere in discussione se stessi.
«In religione tutte le strade hanno ostacoli; questa ha una robusta cancellata, quella attraversa una palude. Non per questo non si deve prenderla; la religione non deve essere un punto morto, il cristianesimo non deve morire. Dove si va, altrimenti?», scriveva Newman in Loss and Gain (1848), il primo romanzo cattolico in lingua inglese. Charles Reding (incarnazione narrativa dell’autore) fece proprie queste parole pronunciate da un suo amico, lasciando la Chiesa anglicana e passando alla Chiesa di Roma, proprio per evitare che il cristianesimo morisse, che non avesse cioè più nulla da dire alla sua coscienza. Infatti, gli studi che Newman aveva intrapreso all’interno del Movimento di Oxford (importante iniziativa di carattere teologico finalizzata ad un rinnovamento della Chiesa anglicana) erano stati concepiti per difendere l’anglicanesimo dall’azione legislativa del governo liberale, ma grazie ad essi, egli si convinse del carattere scismatico della Chiesa anglicana e del fatto che la pienezza dell’ortodossia risiedeva non a Canterbury, ma a Roma.
La sua conversione al cattolicesimo fu quindi l’unica possibilità di ritorno all’origine cattolica della quale, secondo lui, viveva non solo l’anglicanesimo, ma anche il torismo, qualora fosse stato inteso nel suo autentico significato, cioè come l’insieme dei valori tradizionali dell’Inghilterra: «Siamo stati fedeli alla tradizione di quindici secoli. Tutto ciò fu chiamato Torismo, e gli uomini si gloriavano nel suo nome; ora viene chiamato Papismo e lo si vilipende», si legge nella Lettera al duca di Norfolk (1874), l’ultima grande opera di Newman, scritta per rispondere al Primo Ministro inglese uscente William Gladstone (che accusava i cattolici di non essere buoni sudditi a motivo dalla loro presunta rassegnazione al magistero del papa) e nella quale l’accusa poté essere girata allo Stato. Mentre infatti il cattolico godeva di una libertà di coscienza che lo legava solo a Dio, il vero problema non era tanto la mancata fedeltà dei cattolici inglesi al potere civile, quanto la coscienza del potere civile in Inghilterra (the conscience of the State), che, se non riconosceva la propria dipendenza da Dio, avrebbe coartato la libertà della persona.
La battaglia culturale che Newman aveva deciso di combattere fin dagli anni oxoniensi era infatti, a suo giudizio, il tentativo di salvaguardare un’idea di ragione (poi spiegata da un punto di vista filosofico nella Grammatica dell’assenso del 1870) che poteva essere garantita solo se non fosse andato perso il riferimento religioso della persona: si trattava di una vera e propria emergenza educativa alla quale egli poté dare risposta all’indomani della conversione, nella celebre Idea di Università (1852-1859), dove spiegò che il cattolicesimo era il senso autentico dell’educazione liberale su cui l’Università doveva fondarsi. Secondo Newman, la ragione, intesa in tutta la sua ampiezza, non era un’opinione da sala per le conferenze (a lecture-room opinion) e quindi non poteva essere separata dalla totalità dei fattori dell’umano: «Non era la logica a spingermi avanti», scriveva nell’Apologia pro vita sua (1864), «tanto varrebbe dire che è il mercurio del barometro a far cambiare il tempo. Si ragiona con tutto l’essere, nella sua concretezza. Passa un certo numero di anni e mi avvedo che il mio pensiero non è più al punto di prima: come mai? Si muove l’uomo tutto intero; la logica scritta è solo una testimonianza di questo movimento».
Coscienza, ragione e persona: per difendere questo patrimonio Newman scalò le vette più alte della tradizione, oltrepassando il crinale del vecchio mondo.
(Giuseppe Bonvegna)


IN GIOCO LO SGUARDO SULLA VITA FERITA E UMILIATA - Compassione per Eluana dopo l’ultima ingiuria - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 27 febbraio 2009
Qualcosa in noi insorge. Sì, nel vedere le notizie circa le foto scattate alla povera Eluana poco prima che morisse da coloro che avevano avviato il 'protocollo' per porre fine alla sua vita. Foto clandestine, e non solo per infrazione al suddetto macabro 'protocollo' ma per lo strano dispregio che avvertiamo in quel gesto fatto furtivamente, addirittura in presenza di chi è medico e di chi è pagato coi soldi di noi contribuenti per lavorare a un’informazione imparziale che proprio in quei giorni imparziale fu per niente.
Qualcosa insorge, forte, inutile negarlo.
Una specie di ira. O di sgomento che vorrebbe trovare le parole per non esprimere solo rabbia. È una specie di magone che vorrebbero farci dimenticare in fretta per la vita di quella ragazza, e che erompe in una amara incredulità. Come hanno potuto? Non ce l’hanno voluta far vedere, mentre di lei, del suo corpo e dell’onore della sua persona si discuteva in tutto il Paese. E mentre i medici che la curavano a Lecco testimoniavano di un 'buono stato' del suo fisico, il medico che la 'prendeva in consegna' a Udine parlava di devastazione, e ne parlavano giornalisti compiacenti. Mentre, come curiosi che passano di fronte a qualche vip o a qualche strano fatto, la fotografano morente. Non ce l’hanno fatta vedere vivente, e poi l’hanno fotografata durante le ultime ore di agonia. Ancora qualcosa che non torna in questa vicenda che ha segnato la coscienza collettiva. La magistratura a tamburo battente ha già ingiunto ai carabinieri di restituire le foto, ma il tribunale interiore della nostra umanità non può che condannare quel gesto. Dicono di esser stati spinti da motivi di documentazione. Ancora una volta evocano nobili scuse per un gesto fatto furtivamente, lontano dagli occhi di tutti noi, mentre contro i nostri occhi veniva gettato il fumo di parole distorte, di mezze notizie, di grandi menzogne.
Ma noi, ancora una volta, soprattutto tremiamo per lei, per Eluana, la ragazza che ora sappiamo sempre meglio è stata usata per una battaglia ideologica sulla vita umana. Usata fino alla fine. Fino a rubarle foto in punto di morte. E dunque qualcosa insorge, una specie di ira.
Eppure vogliamo, ancora una volta, che l’ultima parola non sia dell’ira ma della pietà. Per lei, e quindi per noi tutti, per la nostra fragile condizione umana, quella condizione che per certuni è solo occasione di scandalo ed è da occultare, far sparire, eliminare, e che invece per noi è fonte di apertura al mistero, fonte di pensiero, e, infine, di pietà. Vogliamo ancora una volta che domini non l’ira per la violenza di alcuni ma la passione per il destino di lei. La compassione. E quindi sapere che ha subìto anche quest’ultima ingiuria ce la fa sentire più cara, più importante, più indifesa. Che ne abbiano fatto oggetto anche di questa ultima violazione di dignità (cosa è fotografare un morente? ci sembra di vederli, furtivi…) fa aumentare ai nostri occhi la dignità della sua persona, e del suo sacrificio. E le parole che sarebbero solo d’ira si trasformano, per quanto duramente, in parole di onore per lei. In silenzio di preghiera per lei, che era la 'cosa' importante, la 'cosa' centrale, la 'cosa' non da fotografare ma da amare e accudire. E per quanto quella oscura lobby della morte ha lavorato per violare il significato delle parole, per divaricarle dal loro reale significato, per confonderle, noi proveremo ancora a riportare le parole dall’ira alla pietà, dallo scontro alla ricerca dell’incontro. E dal disonore all’onore.
Oggi più di ieri c’è in gioco per tutti – anche per coloro che su questa vicenda hanno avuto pensieri e posizioni diversi dai nostri – lo sguardo con cui guardiamo la vita ferita, la vita colpita.
Se con il distacco cinico di chi fotografa chi sta morendo o con la passione di chi non lascia nulla di intentato, nel rispetto della dignità e del valore invisibile e infinito della vita di ogni persona.


giovedì 26 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messaggio della Madonna di Medjugorje del 25 febbraio 2009 - Cari figli, in questo tempo di rinuncia, preghiera e penitenza vi invito di nuovo: andate a confessare i vostri peccati affinché la grazia possa aprire i vostri cuori e permettete che essa vi cambi. Convertitevi, figlioli, apritevi a Dio e al suo piano per ognuno di voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Benedetto XVI propone una Quaresima di conversione - Presiedendo il rito delle Ceneri
3) Il Cardinale Caffarra: le ceneri, segno di conversione - L'Arcivescovo di Bologna spiega come passare dall’iniquità alla pietà - di Antonio Gaspari
4) Quali ragioni per credere nella fede cattolica? - Corso intensivo di Apologetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” - di Alfonso Aguilar, L.C.
5) Respiro di sollievo di Cina e Usa: l’economia è più importante dei diritti umani - Per la Clinton i diritti umani non saranno più in primo piano. In cambio la Cina ha deciso di continuare ad acquistare buoni del tesoro Usa per sostenere l’economia di Washington…
6) Eugenetica: uno spettro che si aggira per l'Europa - Autore: Negri, Mons. Luigi Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it - mercoledì 25 febbraio 2009
7) La sedazione palliativa nei malati terminali - Far dormire - non è far morire - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
8) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Per non riportare indietro le lancette della storia - di Rino Fisichella - Arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
9) Quale futuro per i Balcani? - Roberto Fontolan - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
10) MEDIOEVO/ Identità e appartenenza, gli ingredienti di una civiltà viva - Guido Cariboni - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
11) Gran Bretagna - E per i malati mentali «cure minime» - di Carlo Bellieni – Avvenire, 26 febbraio 2009 - Rapporto choc dell’associazione per i diritti dei disabili: i medici che curano pazienti handicappati sono troppo spesso disattenti, superficiali e fatalisti. «È discriminazione»


Benedetto XVI propone una Quaresima di conversione - Presiedendo il rito delle Ceneri
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Presiedendo la Stazione quaresimale nella Basilica di Santa Sabina all'Aventino, in occasione del Mercoledì delle Ceneri, Benedetto XVI ha lanciato un sentito appello alla conversione.
Per raggiungere questo obiettivo, il Papa ha proposto di vivere i quaranta giorni che preparano ala passione, morte e risurrezione di Cristo nel permanente ascolto della Parola di Dio.
Il rito è iniziato alle 16.30 nella chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, a Roma, con un momento di preghiera, seguito dalla processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina.
Alla processione hanno presso parte Cardinali, Arcivescovi, Vescovi, i monaci benedettini di Sant’Anselmo, i padri domenicani di Santa Sabina e i fedeli.
Al termine della processione, nella Basilica di Santa Sabina, il Pontefice ha presieduto la celebrazione eucaristica, nella quale ha ricevuto l'imposizione delle Ceneri.
Durante l'omelia, ha esortato i presenti a “ricevere le ceneri sul capo in segno di conversione e di penitenza”, aprendo “il cuore all’azione vivificante della Parola di Dio”.
“La Quaresima, contrassegnata da un più frequente ascolto di questa Parola, da più intensa preghiera, da uno stile di vita austero e penitenziale, sia stimolo alla conversione e all’amore sincero verso i fratelli, specialmente quelli più poveri e bisognosi”, ha auspicato.
Ma “come essere vittoriosi nella lotta tra la carne e lo spirito, tra il bene e il male, lotta che segna la nostra esistenza?”, si è chiesto il Santo Padre.
Facendo esercizio di ascolto della Parola di Dio, ha citato proprio il brano evangelico della liturgia del Mercoledì delle Ceneri, che indica tre utili mezzi: “la preghiera, l’elemosina e il digiuno”.
L’uso di celebrare in Quaresima la Messa “stazionale” risale ai secoli VII-VIII, quando il Papa celebrava l’Eucaristia assistito da tutti i preti delle Chiese di Roma, in una delle 43 Basiliche stazionali della Città.

Dopo una preghiera iniziale si snodava la Processione da una Chiesa ad un’altra al canto delle Litanie dei Santi, che si concludeva con la celebrazione dell’Eucaristia.

Alla fine della Messa i preti prendevano il pane eucaristico (fermentum) e lo portavano ai fedeli che non avevano potuto partecipare, ad indicare la comunione e l’unità fra tutti i membri della Chiesa.

L’imposizione delle ceneri era un rito riservato dapprima ai penitenti pubblici, che avevano chiesto di venir riconciliati durante la Quaresima. Tuttavia, per umiltà e riconoscendosi sempre bisognosi di riconciliazione, il Papa, il clero e poi tutti i fedeli vollero successivamente associarsi a quel rito ricevendo anch’essi le ceneri.

La Stazione Quaresimale indica la dimensione pellegrinante del popolo di Dio che, in preparazione alla Settimana Santa, intensifica il deserto quaresimale e sperimenta la lontananza dalla “Gerusalemme” verso la quale si dirigerà la Domenica delle Palme, perché il Signore possa completare – nella Pasqua – la sua missione terrena e realizzare il disegno del Padre.


Il Cardinale Caffarra: le ceneri, segno di conversione - L'Arcivescovo di Bologna spiega come passare dall’iniquità alla pietà - di Antonio Gaspari
BOLOGNA, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Nell’omelia della Messa celebrata questo mercoledì nella cattedrale di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra ha spiegato come “le ceneri” possono segnare la conversione dal peccato alla grazia.
L’Arcivescovo di Bologna ha detto che il rito delle Ceneri ci ricorda “il nostro essere polvere” e ci fa riflettere sulla morte che “non è solo biologica ma separazione definitiva dalla vita”.
Secondo il porporato, “il rito delle ceneri ci riporta alla realtà originaria del peccato” ricordandoci il mistero delle nostre origini - “sei polvere” -, ed in particolare la nostra condizione, perché “la creatura senza il Creatore svanisce … Anzi l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa”.
Nello stesso tempo – ha illustrato l’Arcivescovo – la Chiesa vuol ricordare il sacrificio di Cristo che ci ha salvati dal peccato “perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”.
In questo modo, ha aggiunto, “Cristo è passato dal ‘mistero di iniquità’ che abbonda in noi e nel mondo, al ‘mistero di pietà’ che sovrabbonda in noi e nel mondo”.
“E così – ha sottolineato il Cardinale Caffarra – nel giorno in cui la santa Chiesa ci invita ad iniziare un cammino di vera conversione, intende manifestare davanti al mondo e soprattutto nella profondità di ogni coscienza umana, che il peccato, il male non è una fatalità invincibile, ma è vinto mediante il sacrificio di Cristo sulla Croce”.
L’Arcivescovo di Bologna ha fatto riferimento all’apostolo Paolo, per spiegare “il valore del sacrificio di Gesù” che “ha portato Cristo a condividere, benché assolutamente innocente, la nostra condizione di peccato perché noi potessimo condividere la giustizia di Dio”.
Per il Cardinale Caffarra la Chiesa annuncia pubblicamente la connessione tra il ‘mistero di iniquità’ ed il ‘mistero della pietà’, “connessione che è stata costituita nel sacrificio di Cristo: trattato da peccato (ecco il ‘mistero di iniquità’), in nostro favore (ecco il ‘mistero della pietà’)”.
In questo contesto, il porporato ha sottolineato che “nel sacrificio di Cristo è posta la possibilità di una nuova umanità, della rigenerazione della nostra persona. Nel vocabolario cristiano si chiama ‘conversione’. Oggi noi iniziamo un cammino di vera conversione”.
L’Arcivescovo di Bologna ha concluso l’omelia appellandosi ai fedeli affinché in queste settimane di Quaresima possiamo “uscire da noi stessi, dalla falsità cioè del nostro modo di essere, per entrare nel mistero redentivo di Cristo, che la Chiesa rende attuale nella sua Liturgia: entrarvi con tutto se stessi, appropriarsi della giustizia di Dio in Cristo Gesù”.


Quali ragioni per credere nella fede cattolica? - Corso intensivo di Apologetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” - di Alfonso Aguilar, L.C.
ROMA, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Quindici anni fa, Steve e Janet Ray erano una coppia protestante battista dello stato di Michigan (Stati Uniti) che conoscevano la Chiesa Cattolica come la Babilonia corruttrice della fede in Cristo.

Quindici anni più tardi, Steve e Janet verranno nella Città Eterna per guidare un corso intensivo di apologetica sulla “pienezza della fede”, cioè sulle ragioni per credere nelle dottrine più controverse della fede cattolica, quali la necessità della Tradizione e del magistero per interpretare correttamente la Bibbia, il ruolo di Maria come Madre di Dio, il primato del Papa, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e l’insegnamento cattolico di San Paolo.
“Ero convinto che i primi cristiani fossero ‘protestanti’ – ha confessato Steve Ray –, ma quando ho cominciato a studiare i Padri della Chiesa dei primi due secoli, come sant’Ignazio di Antiochia, san Clemente di Roma, Pappia, sant’Ireneo, san Policarpo e san Giustino martire, allora capii che la Chiesa primitiva era quella cattolica”.
“Dovevo convertirmi”, ha aggiunto l’apologeta americano. “Come dice l’adagio, ‘quanto più ti avvicini alla fonte, più l’acqua diventa fredda e chiara’. Dovevo ritornare alla Chiesa originaria, dove la verità diventava sempre più chiara e rinfrescante”.
Steve e Janet furono accolti nella Chiesa Cattolica insieme ai loro quattro figli – Cindy, Jesse, Charlotte ed Emily – la Domenica di Pentecoste del 1994.
“Quando mi convertii, pensavo che dovevo aiutare i protestanti a convertirsi,” ha spiegato Steve. “Presto mi resi conto, invece, che era più urgente aiutare i cattolici ad essere più convinti in ciò che credono”.
In effetti, l’ambiente relativista e secolarizzato pone i cattolici di oggi di fronte all’esigenza di approfondire i motivi di credibilità della loro fede per proclamarla in maniera convincente.
A questo scopo, la Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (via degli Aldobrandeschi 190, Roma) ha organizzato quest’anno un Corso intensivo di Apologetica, aperto a studenti e adulti, e coordinato dal Centro Pascal, una nuova associazione culturale di carattere apologetico.
“Proprio perché la fede è poco conosciuta e molto criticata – ha sottolineato padre Juan Pablo Ledesma, Decano della Facoltà di Teologia –, dobbiamo essere ‘pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi’, come ci avverte San Pietro (1 Pt 3,15)”.
Il corso si svolgerà dal 20 al 24 aprile 2009, dalle 15:00 alle 19:00 ed offre un’introduzione all’apologetica e una risorsa di argomenti storici, biblici e teologici per dare ragione dei temi chiavi della fede: la Sacra Scrittura, Maria, san Pietro e san Paolo, la Chiesa e i Padri Apostolici, i sette sacramenti.
Steve Ray conosce bene ciò che insegna, non solo perché si è convertito studiando la Tradizione, ma anche perché in questi anni ha pubblicato ben cinque libri d’apologetica e ha filmato una serie di dieci DVD sulla storia della salvezza, che inizia da Abramo e arriva a sant’Agostino. Con la moglie Janet, tre o quattro volte all’anno guida gruppi di pellegrini in Terra Santa.
Perché intitolare il corso intensivo “la pienezza della fede”? “Perché nella Chiesa Cattolica si trova la pienezza della rivelazione – spiega Steve –, ma anche perché ragionare sulla fede la fa diventare in qualche modo ‘piena’”.
Per maggiori informazioni: corsoray@upra.org; www.upra.org; www.pascalcenter.org; telefono: (0039) 06.66.54.38.07 (lunedì / giovedì, 14.00 - 16.00).


Respiro di sollievo di Cina e Usa: l’economia è più importante dei diritti umani - Per la Clinton i diritti umani non saranno più in primo piano. In cambio la Cina ha deciso di continuare ad acquistare buoni del tesoro Usa per sostenere l’economia di Washington…
Pechino (AsiaNews) – I media ufficiali della Cina hanno definito la visita di Hillary Clinton “un sollievo” perché la neo-segretaria di stato Usa ha messo da parte la questione dei diritti umani e ha parlato dell’economia dei due Paesi.
Il China Daily ha commentato che se “il viaggio all’estero di Hillary Rodham Clinton nel suo nuovo ruolo di segretario di stato… era di assicurare e rassicurare, ella lo ha fatto”.
In una conferenza stampa nella capitale, la Clinton ha spiegato con chiarezza che i diritti umani in Cina non devono essere una distrazione dalle questioni più vitali, che sono il commercio e l’ecologia e si è augurata una maggiore collaborazione fra le due potenze nell’affronto della crisi economica.
Solo pochi anni fa la Clinton aveva sferrato un duro attacco contro Pechino, che aveva censurato alcune parti di un suo libro pubblicato in Cina, dove si parlava dei diritti delle donne.
Yu Wanli, professore al Centro per studi strategici dell’università di Pechino, ha detto che dopo questo viaggio, temi quali diritti umani e Tibet verranno ricacciati ai margini, “per lavorare su qualcosa di significativo nell’oggi”. La decisione americana è un “respiro di sollievo” per Pechino, dato che quest’anno vi sono anniversari significativi, forieri di possibili tensioni sociali: i 50 anni dalle rivolte del Tibet; i 20 anni dal massacro di Tiananamen.
Anche la Clinton ha tirato un “respiro di sollievo” perché la Cina ha considerato l’economia più importante delle (passate) critiche sui diritti umani: alla richiesta che Pechino continui ad acquistare ed ammassare buoni del tesoro americano, i cinesi hanno detto di sì. Più precisamente, Yang Jieshi, ha dichiarato che la Cina vuole che le sue riserve di valuta straniera – le più grandi del mondo: 1950 miliardi di dollari - siano investiti nella sicurezza, con buoni valori e liquidità. Ma ha aggiunto che la Cina vuole continuare a lavorare con gli Stati Uniti. Simili assicurazioni sono venute dal presidente Hu Jintao.
Come ha precisato la Clinton, Cina e Usa si trovano “sulla stessa barca” e “remano nella stessa direzione”. Pechino possiede circa 700 miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa. Ma la leadership è sotto pressione per diversificare i suoi acquisti, a causa del deprezzamento del dollaro. La crisi economica che affligge gli Stati Uniti rischia di ridurre a nulla il valore dei buoni.
Secondo l’analista Wang Xiangwei, Pechino non ha però altre alternative che sostenere l’economia Usa e investire in buoni del Tesoro Usa, proprio mentre l’amministrazione Obama cerca nuovi fondi per pagare i 787 miliardi del pacchetto di stimolo per la sua economia. Wang Xiangwei (cfr. l’edizione di oggi del South China Morning Post), afferma che sembrano esservi dei piccoli ricatti da parte degli Usa: se la Cina non continua a comprare buoni del Tesoro, negli Stati Uniti verranno pubblicati i depositi bancari che personalità della leadership e i loro parenti posseggono negli Usa.
di Wang Zhicheng
AsiaNews 23/02/2009 13:09


Eugenetica: uno spettro che si aggira per l'Europa - Autore: Negri, Mons. Luigi Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it - mercoledì 25 febbraio 2009
Si potrebbe dire con un linguaggio un po’ abusato ma sempre efficace: uno spettro si aggira per il mondo civile (si fa per dire): il ritorno dell’Eugenetica.
Chi ha assistito alle terribili vicende di queste settimane e non è totalmente digiuno di storia della nostra società europea, ha avuto l’impressione di assistere ad un film, purtroppo tragicamente “già visto”.
Alla fine del secolo XIX e all’inizio secolo XX, nel contesto della massoneria e della tecnoscienza “dura”, cioè fra gli inglesi, si procedette alla formulazione di un grande progetto mondiale: il miglioramento definitivo della razza umana, attraverso la scienza.
L’Eugenetica: un ben nascere, un ben vivere e, purtroppo, un ben morire.
Per costoro la vita umana, nella sua origine e nel decorso della sua esistenza, poteva e “doveva” essere sottoposta a progetti di razionalizzazione, di scientifizzazione e di manipolazione, in vista di una trasformazione definitiva.
In attesa di questo straordinario balzo progressivo, che avrebbe reso la razza umana (ovviamente quella del mondo evoluto cioè europeo e nord-americano) invincibilmente sana, bella, intelligente, totalmente vittoriosa su tutti i limiti della natura, si doveva cominciare ad eliminare tutti gli “inconvenienti di percorso”. Bisognava eliminare tutte le vite inutili, inguaribilmente malate, portatrici di handicaps mentali o fisici, vecchi e malati terminali…
Tutto un enorme e cinico processo di eliminazione della sofferenza, per l’affermazione di una vita e di una società totalmente a misura dell’uomo e della sua ragione.
Questo movimento fu espulso dall’Inghilterra e dall’America da quel buon senso, che si radicava ancora in una concezione religiosa dell’esistenza. I sostenitori dell’Eugenetica furono accolti a braccia aperte dal regime hitleriano ed in esso trovarono straordinarie possibilità di ricerca e di “lavoro” (anche qui si fa per dire).
Fin dalle prime settimane del suo governo, Hitler, arrivato al potere legalmente cioè con una maggioranza democraticamente eletta, iniziò a tappe forzate la realizzazione del processo di eliminazione di tutti gli “anormali”, stipandoli nei campi di concentramento, che cominciarono a funzionare come veri e propri campi di sterminio.
Contemporaneamente, sulla Germania non ancora dominata dal nazismo furono profuse tonnellate di propaganda a favore dell’eutanasia di stato. Migliaia di films e cortometraggi, centinaia di migliaia di opuscoli, milioni di volantini a propagandare una posizione che univa al pietismo più stucchevole (pena e bontà verso i sofferenti da avviare ad una morte dignitosa) un cinismo ed una violenza inaudita.
La maggioranza del popolo tedesco guardò da lontano ma impotente tutto questo: non aveva ancora venduto l’anima al diavolo ma non aveva l’energia di una opposizione.
Una sola personalità si oppose pubblicamente a tutto questo e lo denunciò inflessibilmente all’opinione pubblica: il vescovo di Münster Clemens Von Galen, definito da Pio XII il “leone di Dio”.
Egli denunciò la follia eugenetica e razzista in omelie ed in lettere pastorali. Fu l’unico vero inesorabile resistente al regime di Hitler lungo tutto il periodo nazista. Anche le altre forme di resistenza si raccordarono idealmente a lui.
Il regime non osò mai toccarlo, tanto forte era il legame del vescovo con il suo popolo, ma massacrò decine dei suoi preti e centinaia dei suoi fedeli.

Questa storia ci fa comprendere il presente.
Anche oggi la vita umana rischia di essere concepita dalla nuova Eugenetica sostanzialmente come oggetto di progetti conoscitivi, scientifici e delle più diverse manipolazioni tecnologiche in funzione di una nuova programmazione della vita stessa.
La tecnoscienza si considera investita della responsabilità di formulare un nuovo percorso umano: la scienza è l’unico soggetto autorizzato a far questo ed è totalmente autoreferenziale. La tecnoscienza non riconosce nessuno superiore a sé: chi si oppone a tutto questo viene considerato un reazionario, incapace di stare al ritmo del progresso scientifico.
La “saldatura”, ormai evidente, fra tecnoscienza e magistratura sembra conferire a questo progetto caratteristiche di invincibilità.
Nell’infuocato dibattito delle settimane scorse ed in quello che si preannuncia nell’immediato futuro, vale la pena di ricordare che l’unica garanzia di una vera indisponibilità della vita umana a qualsiasi realtà storica ed a qualsiasi potere mondano, sta solo nell’affermazione che la vita umana è, per sua natura, aperta ad una dimensione trascendente della realtà e solo per questo è indisponibile a qualsiasi manipolazione.
La Chiesa sostiene da duemila anni che solo perché le radici dell’uomo sono “in Dio”, egli non scompare nella biosfera e non è assorbito nella società.
Infatti “l’uomo supera infinitamente l’uomo” (Pascal).
Nel suo primo radiomessaggio nel Natale del 1978 Giovanni Paolo II faceva un’affermazione di straordinaria pertinenza ed attualità: “Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere ed operare come unico ed irripetibile, allora tutto ciò glielo assicura solo Dio”.
Qualche mese dopo la conclusione della seconda guerra mondiale Pio XII insignì della porpora cardinalizia il vescovo di Münster.
A Münster nessuno era stato cardinale fra i predecessori di Von Galen e nessuno lo è stato poi tra i suoi successori.
Pio XII, con il suo gesto straordinario, proclamò davanti a tutta la Chiesa ed alla società che la porpora cardinalizia, romana, è per i martiri di Cristo, cioè per i testimoni di Lui di fronte al mondo.


La sedazione palliativa nei malati terminali - Far dormire - non è far morire - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
"Io dormo ma il mio cuore veglia" (Cantico dei Cantici, 5, 2). L'uomo di ogni tempo ha sempre avvertito come strettamente imparentati il sonno e la morte. Una delle più evidenti dimostrazioni di ciò si ha nel pensiero mitologico greco: Hýpnos, il sonno, e Thánatos, la morte, sono divinità figlie di un' unica madre, Nýx, la notte. Espressioni come "riposare", "dormire il sonno eterno" e altre simili, frequentemente leggibili sulle lapidi dei nostri cimiteri, ci ricordano come anche nella tradizione cristiana il varcare la soglia della morte sia spesso stato visto come un riposare in attesa della resurrezione. Il Vangelo stesso riporta alcuni episodi della vita di Gesù indicativi in tal senso, uno per tutti quello descritto in Matteo (9, 23-26), nel quale la protagonista è una fanciulla che Gesù resuscita dopo aver detto "non è morta ma dorme".Errore. Il segnalibro non è definito. È forse per tali ragioni storiche e culturali che in campo medico l'induzione farmacologica del sonno allo scopo di alleviare il dolore, ad esempio durante pratiche chirurgiche, è sempre stata avvertita come una fase delicata e gravida di molti timori, primo fra tutti quello di non riacquistare lo stato di coscienza al termine del trattamento; e questo parimenti potrebbe essere il terreno nel quale affondano le radici della paura con la quale i pazienti gravi e i loro familiari continuano, a livello conscio e inconscio, a vivere la notte come ancora madre del sonno e della morte, momento di solitudine, passaggio oscuro.
La pratica di indurre il sonno profondo mediante la somministrazione di farmaci non è esclusiva della chirurgia; anche la medicina palliativa, nelle fasi terminali di malattie degenerative croniche come i tumori, può farvi ricorso a precise condizioni: si parla in tali casi di sedazione farmacologica o sedazione palliativa. A questo proposito è stato qualche tempo fa pubblicato dall'agenzia Fides della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli un dossier che tra le altre problematiche di fine vita affronta anche quella della sedazione farmacologica nell'ambito appunto della medicina palliativa. Il documento ci permette di fare alcune considerazioni su una questione tanto delicata dal punto di vista bioetico quanto frequentemente bistrattata dai mass media in occasione di casi eclatanti finiti sulle prime pagine di giornali e notiziari televisivi.
La sedazione farmacologica, quando è profonda, continua e intenzionale, consiste nella somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. Tale definizione permette di far emergere quelle precise condizioni alle quali sopra ci riferivamo e che, allo scopo di fugare qualsiasi dubbio, possiamo esaminare con ordine.
Innanzitutto il nome: "sedazione farmacologica". Sarebbe bene non utilizzare l'espressione "sedazione terminale" dal momento che quest'ultima potrebbe indurre a pensare che la sedazione, in alcuni casi, rivesta il ruolo di una pratica eutanasica volta ad abbreviare intenzionalmente la vita di un paziente. Un importante documento della European Association of Palliative Care del 2003 è chiarissimo in proposito: a livello di intenzione, di procedura utilizzata e di risultato ottenuto la sedazione è tutt'altra cosa rispetto all'eutanasia. L'intenzione è infatti quella di far fronte a sintomi refrattari e non di uccidere il malato, la procedura esclude la somministrazione di farmaci letali e il risultato è quello di far dormire profondamente il paziente, non di ucciderlo. Questo è talmente vero che gli studi delle curve di sopravvivenza di malati sedati rispetto a quelli non sedati a parità di condizioni cliniche iniziali mostrano una sopravvivenza maggiore nel primo gruppo, rendendo in tal modo perfino superfluo il ricorso al principio del doppio effetto per giustificare eticamente tale procedura.
In secondo luogo i farmaci: le benzodiazepine sono i più frequentemente utilizzati per ottenere il sonno profondo. Né la morfina - largamente usata per il controllo del dolore, della dispnea, cioè della sensazione di fame d'aria, e della tosse in fase avanzata di malattia - né i cocktail di più molecole dovrebbero trovare applicazione in tal campo.
Inoltre la definizione sopra fornita parla di "malato terminale": la sedazione farmacologica è e deve restare pratica rara in cure palliative, riservata a quei casi che si trovano a pochissimi giorni dal naturale decesso, a volte a poche ore. I maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o 10 per cento del totale dei pazienti seguiti e ciò è ampiamente confermato anche dalla nostra esperienza degli ultimi dieci anni.
Infine i sintomi per i quali si decide di intervenire sedando il malato devono essere rigorosamente "refrattari"; devono cioè essere intrattabili con i comuni farmaci che non alterano lo stato di coscienza. Ci sentiamo di dire che oltre ai farmaci ogni misura terapeutica nel senso più pieno del termine deve essere tentata prima di considerare realmente "refrattario" un sintomo; se questo è vero per i sintomi fisici lo è ancora di più per quelli psichici, originati o esacerbati dall'abbandono terapeutico e umano nel quale si trovano spesso i malati in fin di vita. "La richiesta di farla finita - scriveva Paolo Cattorini - è per lo più una travestita domanda di conforto: per l'incuria e il silenzio in cui mi avete confinato, chiedo di venir sottratto a patimenti che, da solo, non riuscirei a sopportare".
Il triste caso di Piergiorgio Welby ci permette infine di fare un esempio di quanto sia fondamentale l'esattezza terminologica nel trattare argomenti così complessi e ricchi di implicazioni etiche: si è letto più volte che la sedazione farmacologica sarebbe stata utilizzata, nel caso in questione, come mezzo per ottenerne la morte. Le cose stanno diversamente; e ancora una volta "assolvono" la sedazione farmacologica: Welby è morto per l'insufficienza respiratoria provocata dalla sospensione della respirazione artificiale. Dal momento che tale manovra avrebbe inevitabilmente provocato l'atroce sofferenza di una morte accompagnata dalla sensazione di soffocamento, il paziente è stato sedato profondamente prima del distacco del respiratore.
Il sonno ha preceduto la morte, non l'ha causata; solamente eliminando i problemi che sempre derivano dalla coscienza ha fatto cadere con essa le ultime primordiali difese oltre le quali è rimasto solo un volto da contemplare nella sua fragilità. Tornano alla mente le parole di Lévinas: "L'assoluta nudità del volto, questo volto assolutamente indifeso, senza schermo, senza abito, senza maschera, è tuttavia ciò che si oppone al mio potere su di esso".
(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2009)


Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Per non riportare indietro
le lancette della storia - di Rino Fisichella - Arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
Secondo una felice consuetudine i documenti del magistero della Chiesa condensano nelle prime parole il loro contenuto. Dignitas personae non fa eccezione. I due termini che compongono l'ultima istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede evidenziano immediatamente l'obiettivo del documento. La dignità della persona non può essere un proclama astratto che in diversi momenti della storia si sente il bisogno di riaffermare; è molto di più. Esprime, infatti, un fondamento reale, inequivocabile e non in balìa di arbitrarie interpretazioni soggette al sentire del tempo. Nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, questa istruzione viene a ribadire alcuni principi che sembrano sempre più oscurati per il sorgere di nuovi diritti che manifestano spesso un'inspiegabile e ingiustificata pretesa individuale.
La dignità della persona costituisce la base su cui ognuno costruisce la propria identità, le relazioni interpersonali che segnano la vita e la solidarietà che forma le diverse società sparse per il mondo intero. La dignità della persona è una conquista faticosa dell'umanità, non una palla al piede per il suo progresso. Dimenticare il grande dibattito e le battaglie che hanno segnato le diverse epoche storiche, portando alla codificazione del principio d'uguaglianza d'ogni persona e della sua irrinunciabile dignità, equivarrebbe a riportare indietro le lancette della storia di alcuni secoli. Nessuno, si spera, vorrà cadere in una simile trappola col negare il principio basilare del vivere personale e sociale; è un fatto di tale evidenza che per fortuna va al di là degli schieramenti politici e ideologici così da imporsi come una realtà profondamente naturale e per questo universale. In un suo saggio sull'etica, il grande medico Albert Schweitzer scriveva così: "Chiunque s'imbarca sulla navicella del rispetto della vita non è un naufrago che va alla deriva; è, piuttosto, un passeggero intrepido che sa dove deve andare e come mantenere fermo il timone nella giusta direzione". L'immagine colpisce per la sua attualità e per la carica di verità che vi è contenuta; occuparsi oggi del tema della vita, d'altronde, equivale a inserirsi in un cammino che richiede una buona dose di coraggio e, soprattutto, una visione lungimirante. Intorno a questo tema, infatti, si gioca il futuro della società, delle giovani generazioni che in questo momento sono inconsapevoli spettatrici di quanto stiamo preparando per il loro modo di pensare e di comportarsi e della stessa Chiesa che tocca con mano quanto la missione dell'evangelizzazione sia sempre una sfida aperta sul terreno della storia. L'annuncio della vita appartiene al dna della Chiesa perché è testimone diretta non solo del pieno valore che la vita personale possiede, ma soprattutto perché annuncia una vita che ha vinto il limite della morte. È intorno a questa dimensione che si incontrano e scontrano le varie visioni sulla vita umana, ma è anche questo lo spazio dove vengono a confluire le domande che richiedono una risposta carica di senso, non più soggetta alle ipotesi o teorie di lavoro, ma capace di dare certezza per permettere di costruire la vita di ognuno su un fondamento reale, stabile e sicuro.
La cultura contemporanea si evolve costantemente nella ricerca di nuove forme sperimentali che consentano di esprimere al meglio la propria esistenza nonostante la spada di Damocle dell'imprevisto, della malattia non programmata e della morte inevitabile. Ogni giorno il progresso della tecnica mentre, da una parte, spalanca nuovi orizzonti che permettono fortunatamente di superare la sofferenza e il dolore, dall'altra pone sempre nuovi interrogativi che si estendono inevitabilmente all'istanza etica per le implicanze che possiedono. Merito di Dignitas personae è quello di ribadire con forza e a più riprese il valore dell'etica nella scienza, nella sperimentazione e nelle varie tecnologie biomediche. Qualcuno, in nome del progresso, vorrebbe eliminare tout court l'etica da questi ambiti. Tentativo impossibile perché ciò che si vorrebbe far uscire dalla porta entrerebbe di nuovo con insistenza dalla finestra per rimanere in casa a dispetto di quanti ne vorrebbero l'eliminazione. L'etica appartiene all'uomo di ogni tempo e di ogni cultura; è una condizione cardine dell'uomo nella sua ricerca di felicità. Porla fuori gioco equivarrebbe a imporre spazi in cui entra solo la regola del più forte di turno, per le ingenti risorse finanziarie che si sono investite in questi ampi spazi della nuova economia. Dignitas personae presenta molti degli interrogativi che tanti si pongono dinanzi al progresso delle tecnologie e che soprattutto nell'ingegneria genetica presentano tratti talmente nuovi da affascinare, ma non per questo da apparire meno problematici. Il campo di indagine è ampio e più si entra nel mistero della materia, per paradossale che possa sembrare, più l'enigma invece di restringersi e condurre a soluzioni si espande a dismisura e non smette di provocare meraviglia e stupore. I problemi etici intorno al tema della vita proprio per questo si moltiplicano e spesso sembrano entrare in conflitto realtà che sono chiamate invece a collaborare per una soluzione che trovi l'accordo della scienza con il principio etico.
Non è necessario credere in Dio per sapere che la vita è un bene prezioso e un dono di cui dobbiamo essere grati e riconoscenti a qualcuno. La scoperta esistenziale di dipendere da qualcuno non è un dogma della Chiesa ma un principio filosofico ovvio e universalmente accolto. È proprio nel riconoscimento di questa relazione di dipendenza che nasce la consapevolezza della gratuità e dell'enigmaticità dell'esistenza. Avrei potuto non essere, eppure, non sono il frutto della casualità. Sono stato pensato, desiderato, voluto: questo è ciò che ogni uomo alla fine pensa di sé per non lasciare la propria vita nel vago e nel vuoto dell'indeterminatezza. La vita umana non è un esperimento da laboratorio, ma un atto d'amore che segna per sempre l'esistenza. Per questo è un bene inviolabile e indisponibile che ogni ordinamento giuridico è costretto a porre a proprio fondamento. Succede, purtroppo, che in alcuni casi questo principio venga violato e contraddetto. Ciò non costituisce una conquista che rende alcuni Paesi più evoluti di altri; al contrario, è ciò che rende evidente, purtroppo, la contraddizione in cui cadono quando si pongono nel cono d'ombra del relativismo.
In questo contesto, una riflessione di particolare interesse merita il richiamo di Dignitas personae al tema della scienza e della ricerca. L'istruzione fin dall'inizio della sua argomentazione esprime fiducia nella scienza, riconosce gli ingenti progressi che si sono verificati per la passione e la dedizione di tanti scienziati ed esprime il suo giudizio positivo per quanto l'ulteriore ricerca potrà compiere a favore dell'umanità per debellare alcune malattie e ridurre il dolore e la sofferenza: "Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell'uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi" (Dignitas personae, n. 4). Sarebbe ingiusto che i commentatori di questo documento soprassedessero su queste riflessioni per procedere immediatamente alla contestazione circa il giudizio negativo dato su alcuni aspetti della sperimentazione. Non sarà da dimenticare un principio fondamentale dell'ermeneutica, la quale richiede che un'espressione sia letta e interpretata all'interno del contesto e della globalità del testo, non astraendola dal tutto e alterandone il significato. Se, comunque, il documento non ha remore nel riconoscere ed esprimere un giudizio positivo sul progresso della scienza in vari ambiti della ricerca medica, non ha neppure timore nel dover costatare come la sperimentazione sull'embrione possa portare alla sua distruzione. Questo fatto, oltre a essere intrinsecamente male perché parte dal presupposto che in quell'embrione non vi sia vita veramente umana, contraddice ogni forma di rispetto dovuto alla dignità di un essere umano vivente. Un passaggio importante viene richiamato dall'istruzione perché porta una novità, soprattutto se confrontata con il documento Donum vitae della stessa Congregazione. Si legge infatti: "La realtà dell'essere umano per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L'embrione umano, quindi, ha fin dall'inizio la dignità propria della persona" (Dignitas personae, n. 5). Come si nota non si afferma esplicitamente che l'embrione è "persona" per non entrare nel merito del complesso dibattito filosofico e giuridico; in ogni caso, implicitamente si ammette che lo sia perché se ne riconosce la "dignità" dovuta alla persona. La cosa non è di poco conto per il giudizio morale e per la valutazione che si è chiamati a compiere nei confronti delle varie tecniche sperimentali.
Dignitas personae si muove giustamente con prudenza quando si trova a dover giudicare sperimentazioni con finalità terapeutiche che ancora non hanno ottenuto il consenso della comunità scientifica e si muovono su un terreno che richiede ulteriore studio e riflessione (cfr. n. 26). Quando, invece, deve affrontare casi concreti che già permettono di verificare quanto avviene nell'abuso delle cellule embrionali o degli stessi embrioni allora il suo giudizio si fa moralmente certo senza lasciare spazio a dubbi. Le parole del documento in questi casi riflettono non solo la giusta preoccupazione che la Chiesa manifesta in proposito, ma ribadiscono giustamente anche il male intrinseco che queste azioni posseggono quando viene meno il principio fondamentale del rispetto della dignità e dell'uguaglianza degli esseri umani. È bene, pertanto, che si possa distinguere nell'argomentazione di Dignitas personae quanto serve per una finalità terapeutica, che non solo viene approvata moralmente come lecita ma anche sostenuta perché possa produrre di più; e quanto, invece, diventa arbitrio individuale che impone il sacrificio di essere umani oppure la loro selezione eugenetica.
Dignitas personae si richiama ad alcuni principi fondamentali che, come s'è accennato, hanno il loro fondamento nella dignità della persona, nell'uguaglianza tra tutti gli essere umani e nella professione di fede che attesta ogni persona essere "immagine di Dio" (cfr. n. 8). Come si nota, i primi sono principi che la ragione raggiunge nel suo riflettere sulla realtà, mentre l'essere immagine di Dio Trinità è frutto della fede. Proprio l'unità di questa prospettiva dovrebbe aiutare a comprendere meglio l'intrinseco valore che la vita umana possiede e come la sua inviolabilità e sacralità non siano altro che due facce della stessa medaglia. Giustamente l'istruzione afferma: "Non c'è contrapposizione tra l'affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana" (n. 7). È su questa strada che gli scienziati dovrebbero porsi perché la loro ricerca sia il più possibile conforme ai principi etici e capace di superare eventuali conflitti che potrebbero venire a crearsi con i giudizi etici e morali presenti nei diversi contesti culturali, religiosi e sociali. Forse, potrebbe richiedere più tempo e investimenti maggiori, ma la certezza di compiere qualcosa di straordinario che permette di collaborare con il Creatore di tutto l'universo non dovrebbe creare dubbi. La vera scienza si coniuga con l'umiltà non con l'arroganza; essa si nutre di gratuità non di facile guadagno. Il rispetto che si richiede per la propria persona e per il lavoro che si svolge a servizio di tutti invoca uguale consapevolezza che nella propria ricerca si sta toccando qualcosa che non è neutrale o generico, ma è vita umana che impone a tutti, nessuno escluso, il rispetto per la dignità di cui è rivestita. Dignitas personae, pertanto, viene a ricordare il carattere inviolabile della vita umana: un valore che si applica a tutti senza distinzione alcuna. Una sfida che, se accolta, può rappresentare una tappa significativa per il progresso coerente dell'umanità.
(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2009)


Quale futuro per i Balcani? - Roberto Fontolan - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
È passato un anno dall'ultima “creazione” di uno stato indipendente: il Kossovo venne sospinto all'esistenza dalla fortissima pressione degli Stati Uniti, seguita dal (frettoloso) riconoscimento di alcuni Paesi europei, tra cui l'Italia.
In realtà l'estate scorsa la guerra lampo russo-georgiana ci ha portato in dono altri due neonati strategici: l'Ossezia e l'Abkhazia, che però sono stati riconosciuti soltanto da Mosca, che li ha voluti sfidando regole e buon senso mondiale, e dal Nicaragua, chissà perché.
Il Kossovo vanta ben altro pedigree e ben altre legittimità, eppure finora solo 54 su 192 Paesi membri dell'Onu lo hanno riconosciuto. E c'è un altro dato grave, visto che cinque Paesi europei (Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia) appartengono al “fronte del rifiuto”.
Costoro fanno valere le questioni interne, con le rivendicazioni indipendentistiche di gruppi etnici e nazionalistici, come anche ragioni di solidarietà culturale-religiosa con la Serbia e valutazioni geopolitiche radicalmente diverse da quelle tanto sbandierate all'epoca dall'amministrazione Bush, basate sulle legittime aspirazioni della maggioranza albanese del Kossovo e sulla necessità di dare finalmente stabilità all'intera regione.
A bene vedere la situazione dei Balcani resta piuttosto inquieta e inquietante. Ad esempio pochi credono al futuro della repubblica federata della Bosnia, un'altra strana creatura immaginata per porre una qualunque fine alla guerra, basata su un fragilissimo equilibrio tra ortodossi, cattolici e musulmani - dove nessuna componente si sente “bosniaca”; e molti sottovalutano il malessere della Serbia, che si è sentita eccessivamente punita per le obbiettive e indiscutibili colpe avute nelle guerre degli anni '90.
Gli umori di un Paese che si sente bersaglio sono difficili da mettere sotto controllo, come testimonia la storia europea tra le due guerre mondiali. Inoltre, non si sottolinea abbastanza come l'indipendenza del Kossovo (e la salvagurdia della minoranza ortodossa) nonché l'assetto della Bosnia siano garantiti dai soldati e dai soldi europei: quanto potrà durare?
Ma quando si incontrano interlocutori e osservatori dei Balcani, emerge un altro fattore: Albania, Kossovo, Montenegro e Macedonia (che ancora non ha risolto la disputa del nome con la Grecia), oltre che la Bosnia, sono nazioni a maggioranza musulmana, confinanti tra loro.
Un semplice sguardo alla cartina suscita pensieri e interrogativi. Il primo: mentre Bosnia e Macedonia era già “repubbliche” jugoslave e dunque il loro distacco poteva essere considerato naturale, era così indispensabile incoraggiare e sostenere l'indipendenza di Montenegro e Kossovo? Non si poteva tenere maggiormente conto delle preoccupazioni della Grecia e di Cipro, mutilata di un terzo del suo territorio dall'occupazione dell'esercito turco in spregio a ogni regola?
In certi ambienti politici mediatici e diplomatici occidentali si fanno spallucce: in fondo le tradizioni islamiche prevalenti in queste regioni sono di quelle che noi europei definiamo “moderate”, perciò è sbagliato preoccuparsi, occorre essere ottimisti. E così, per non essere accusati di gratuito pessimismo, coloro che chiedono maggiore attenzione alla complessità delle cose devono tacere che da anni in Kossovo si registrano le attività “missionarie” di imam spediti da Arabia Saudita e dal Medio Oriente e qualcosa di simile accade in Macedonia.
Chi conosce il mondo islamico arabo sa bene che per quella mentalità il tempo non è mai un problema: se non vinco io, vincerà mio figlio o il figlio di mio figlio (una filosofia di vita alla base di Hamas). Ma la partita ottimisti-pessimisti è un gioco stupido e insensato, che fa perdere i contorni del reale, così come si perde il conto degli Stati e dei litigi balcanici.
Oggi la realtà di questa regione è quello che è, e dunque occorre impedire eventuali derive fondamentaliste così come l'ulteriore sgretolamento in mini-stati e soprattutto dare prospettiva a una maggiore stabilità.
Può sembrare paradossale, ma ci vuole ancora più Europa, nel senso dei soldi, dei soldati e della giusta combinazione di pretese e di controlli circa gli assetti democratici e istituzionali. Prima o poi anche i cinque no europei al Kossovo diventeranno sì e l'occasione potrà essere giocata al rialzo, per una maggiore capacità strategica. E poi ci vuole più Chiesa cattolica e più Chiesa ortodossa, i veri fattori di equilibrio troppo spesso e troppo a lungo messi ai margini.


MEDIOEVO/ Identità e appartenenza, gli ingredienti di una civiltà viva - Guido Cariboni - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
«Tu sei per te stesso il primo e l’ultimo. Nella ricerca della salvezza nessuno ti è più fratello di te stesso e tu sei figlio unico di tua madre». Con queste pesanti parole intorno al 1140, Bernardo di Chiaravalle suggeriva a papa Eugenio III in quale prospettiva affrontare l’ardua missione di guida della Chiesa. Secondo il santo abate cistercense questo incarico non poteva prescindere dalla propria libertà e responsabilità individuale e aveva nel proprio io l’ultimo tribunale. Uno tra i più geniali studiosi della cultura e della mentalità del medioevo, Peter von Moos, ha recentemente definito queste espressioni come una delle più radicali formulazioni della coscienza individuale nell’età di mezzo.
L’uomo medievale, come le fonti ce lo trasmettono, non fu un individuo privo di volontà e di libertà, completamente assorbito dalla dimensione comunitaria e in balia di difficili circostanze. Non fu, però, nemmeno una personalità totalmente indipendente, sviluppata solo in se stessa, a prescindere dall’ambiente che lo circondava e con capacità espressive del tutto autonome. Gli interessi individuali da una parte e quelli sociali dall’altra, il processo di formazione dell’individuo e la costruzione della comunità, in epoca pre-moderna spesso non costituirono alcuna contraddizione, ma risultarono in una relazione di incremento reciproco.
Prendiamo ad esempio un elemento che caratterizzò fortemente la mentalità del medioevo, quello della salvezza ultraterrena. Era d’uso molto comune fin dai primi secoli che anche i laici, fossero essi soldati, mercanti, signori o semplici artigiani, si affidassero alle preghiere delle comunità religiose, che incessantemente, giorno e notte, intercedevano per loro presso Dio. Tale pratica era particolarmente sentita nei momenti cruciali della vita di un uomo o di una donna; non soltanto in prossimità della morte, ma anche in occasione di viaggi rischiosi, missioni militari, pellegrinaggi, eventi temibili. Questa forma di memoria aveva una dimensione prettamente comunitaria, ossia tutta la comunità religiosa pregava per tutti i fedeli laici che ad essa si affidavano. Essa possedeva però anche una forte componente individuale. Sono giunti fino a noi infatti centinaia di antichissimi codici ricolmi ognuno di migliaia di nomi di singole persone che avevano espressamente richiesto, in vita e in morte, un ricordo solo ed esclusivamente per loro. Queste fonti ci testimoniano come le commemorazionifossero valide ogni volta per un’unica persona, e non per un gruppo o per una comunità nel suo complesso. Ogni membro di una fraternità di preghiere doveva di conseguenza essere rappresentato dal suo proprio nome. Egli voleva che il suo nome fosse scritto e pronunciato, fosse presente insomma. E questo perché le pratiche commemorative potevano raggiungere soltanto singole anime. La salvezza era conseguita attraverso una comunità che era la Chiesa, ma ognuno si trovava solo di fronte a Dio.
Questo modo di pensare, frutto della tarda antichità, in cui la tradizione classica si era fusa con il cristianesimo, permeò tutta la mentalità medievale, anche nella sua dimensione più laica. Tra XII e XIII secolo, ad esempio, ci sono giunti in forma scritta trattati di pace e di alleanza tra città e comuni in cui furono dettagliatamente elencati centinaia di nomi di capi famiglia che singolarmente, uno per uno, avevano giurato di mantenere quegli accordi, facendo apporre il proprio nome sul documento.
Nella forma identitaria una dimensione collettiva e una dimensione individuale erano inscindibilmente connesse. Come sostiene ancora Von Moos, a partire dall’espressione religiosa che si é poi diffusa un tutti gli ambiti della vita, l’identità di gruppo risultò il frutto di una educazione e di un consenso individuale verso una tradizione. Non esisteva l’uomo astratto, ma tanti uomini, simili e allo stesso tempo unici, che formavano una comunità. Questo potrebbe essere un suggerimento che giunge dal medioevo al dibattito attuale intorno all’identità. La formazione di un’identità di gruppo non può prescindere da una adesione personale. Il resto ha pericolosamente a che fare con la propaganda gestita dal potere dominante di turno.


Gran Bretagna - E per i malati mentali «cure minime» - di Carlo Bellieni – Avvenire, 26 febbraio 2009 - Rapporto choc dell’associazione per i diritti dei disabili: i medici che curano pazienti handicappati sono troppo spesso disattenti, superficiali e fatalisti. «È discriminazione»
Uno spettro si aggira per l’Europa: è l’handifobia, la fobia discriminatoria verso l’handicap e le persone malate. Figlia dell’eugenetica – di cui più nessuno parla proprio perché sta diventando pane comune e non si vuole chiamare col suo nome – sta mostrando la sua virulenza sui più indifesi: le persone disabili. Il grido d’allarme viene dall’Inghilterra: un Rapporto dell’associazione 'Mencap' per i diritti dei disabili mentali (significativamente intitolato 'Morte per indifferenza') denuncia come i medici chiamati a curare disabili psichici esitino a spingersi oltre i segni della malattia mentale.
Il Rapporto inizia con le parole del padre di Mark, disabile mentale morto per polmonite: «Credo che Mark sia morto senza motivo. Nella sua vita abbiamo trovato medici che non hanno idea di come trattare con disabili mentali. Se solo ci avessero ascoltato…». Il Rapporto riporta le parole terribili che certe famiglie si sono sentite dire dai medici: «Se la ragazza fosse normale non esiteremmo a curarla», «Non sarebbe meglio per tutti lasciarla andare?» «Secondo me non ha nulla. È lui che è così».
Il Rapporto spiega allora che «le persone con ritardo mentale sono viste come una priorità secondaria», i medici, talora non educati a trattare con i malati mentali, interagiscono poco con le famiglie che invece li conoscono bene, e addirittura si fermano magari per l’ovvia (ma sormontabile) difficoltà burocratica di ottenere un consenso informato dal disabile mentale.
Ancor più inquietante è leggere che «i medici spesso fanno una loro personale valutazione della qualità di vita del paziente e la considerano come base per le loro decisioni. Questo nonostante ricerche mostrino scarsa correlazione tra l’opinione del medico e la reale percezione del paziente».
Ci troviamo, secondo il Rapporto, di fronte a una vera discriminazione sulla base della salute.
Anche la Commissione inglese per i diritti dei disabili recentemente riportava una trascuratezza verso i disabili mentali e il suo segretario lamentava «un ottuso fatalismo verso la morte in giovane età dei disabili mentali»; un altro recente studio citato nel Rapporto mostrerebbe addirittura che i disabili mentali ricevono meno analgesia degli altri.
Tutto questo ci appare come un 'successo' dell’eugenetica: se si permette di pensare che esiste solo un modello ideale di essere umano che meriti il titolo di persona e che certi disabili avrebbero tutto il vantaggio a non essere nemmeno nati, è ovvio che chi non è al top dell’autonomia e della 'normalità' (bambini, disabili e vecchi in primis) diventa di serie B.
L’handifobia dilaga dando una visione spettrale della disabilità non solo come fatica e dolore, ma come vergogna, per cui è quasi un obbligo sociale per una madre non far venire al mondo un disabile o, per un disabile dipendente in tutto dagli altri, non domandare di togliere il disturbo. Le recenti parole del Papa, «Ogni discriminazione esercitata da qualsiasi potere (…) sulla base di differenze riconducibili a reali o presunti fattori genetici è un attentato contro l’intera umanità», ci esortano a chiedere che l’handifobia eugenetica (sui giornali, negli ospedali) che porta il malato a vergognarsi di essere al mondo, diventi realmente un crimine sanzionato dalla legge, come le altre fobie oggetto di riprovazione e sanzione.


mercoledì 25 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Roberto e Sabrina, storia di un Amore - Autore: Spreafico, Sabrina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 febbraio 2009 - Quando tocchi con mano la tua impotenza e la fragilità di essere uomo, ti senti spogliato di tutto, sei piccolo e povero, creatura davanti al Creatore e stai davanti a Dio come fa un neonato con sua madre, totalmente dipendente
2) Laicità in pericolo. Due cardinali accorrono in sua difesa - Sono Angelo Scola e Camillo Ruini, entrambi molto in sintonia con papa Benedetto XVI. Ecco come vedono il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica: se essa tacesse, ad esempio, sulla vita e la morte, "non contribuirebbe al bene di tutti". In appendice, una disputa tra i professori Galli della Loggia e Pietro De Marco - di Sandro Magister
3) Pecore e pastori: un libro contro i luoghi comuni - Il Cardinale Biffi si chiede perché l’ortodossia fa più notizia dell’eresia - di Antonio Gaspari
4) L'Amore di Dio come riscatto della nostra debolezza - COLLEVALENZA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Intervenendo al Convegno su "La misericordia tra giustizia e speranza" promosso dal Centro Studi della Congregazione dei Figli dell’Amore misericordioso in collaborazione con la diocesi di Città di Castello, il prof. Maurizio Malaguti, professore di Filosofia teoretica presso l’Università Alma Mater di Bologna, noto studioso di metafisica classica e cristiana in rapporto a questioni fondamentali del mondo contemporaneo, ha svolto il tema: "Tra cielo e terra: luogo dato alla misericordia".
5) 24/02/2009 14.25.02 – Radio Vaticana - Il significato del digiuno cristiano rispetto alle altre religioni nella riflessione quaresimale del cardinale Paul Josef Cordes
6) Le sfide di Dolan - Lorenzo Albacete - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
7) DIBATTITO/ 1. Galli della Loggia: la componente cattolica è in un vicolo cieco - INT. Ernesto Galli della Loggia - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
8) RITRATTI/ Mircea Eliade, l’antropologo che indagò il “senso religioso” - INT. Natale Spineto - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
9) OBIEZIONE AL SEMPRE PIÙ SORPRENDENTE STEFANO RODOTÀ - Rifiuto delle cure, principio morale? - No, è lo smarrimento del laicismo moderno - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 25 feb. 09


Roberto e Sabrina, storia di un Amore - Autore: Spreafico, Sabrina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 febbraio 2009 - Quando tocchi con mano la tua impotenza e la fragilità di essere uomo, ti senti spogliato di tutto, sei piccolo e povero, creatura davanti al Creatore e stai davanti a Dio come fa un neonato con sua madre, totalmente dipendente
Roberto e Sabrina erano e rimangono i "nostri ragazzi", perché quando io e mio marito eravamo giovani sposi loro facevano parte di un gruppo di adolescenti a cui facevamo catechismo.
Con loro abbiamo condiviso il nostro primo anniversario di matrimonio, le feste di carnevale, il loro matrimonio, il battesimo dei loro bambini, le serate a cena a discutere con Roby che aggrediva la vita con la sua caparbietà e il suo sarcasmo, e con Sabrina paziente e tenace.
Quando la malattia è entrata nella loro storia abbiamo capito come questi "ragazzi" fossero per noi maestri, non erano più loro che chiedevano consigli, che raccontavano a noi le loro pene amorose nella speranza di essere aiutati a capire, ma condividendo la vita i ruoli si erano ribaltati e loro senza bisogno di parole, insegnavano a noi che c'è un amore che va oltre il dolore, e anche oltre la morte, perchè è un amore che "non ci diamo da soli".
Sabrina ha accetatto di raccontare la loro storia e di condividerla con noi, perchè sia anche per noi motivo di riflessione, non solo sul dolore e sulla morte, ma sul valore del matrimonio.

“Non credo che vi sia un legame diretto tra sofferenza e infelicità. Non ritengo che la prima determini direttamente la seconda. Credo, al contrario, che si possa provare una qualche forma di felicità anche in un grande momento di sofferenza”.

Lascio parlare di sofferenza chi ha sperimentato direttamente sulla sua pelle la sofferenza.
Le parole sopra riportate sono state scritte da Roberto, mio marito, e sono contenute in un libro di don Chino Pezzoli, fondatore della comunità di recupero per tossicodipendenti nella quale lui ha lavorato come psicologo per 12 anni.
Roberto è venuto a mancare lo scorso 30 giugno, a causa di una malattia che, da quando è stata scoperta, gli ha permesso di vivere altri tre anni.
Quando mi è stato chiesto di scrivere di questa nostra vicenda, mi sono sentita dapprima esitante e anche un po’ timorosa, ma poi ho pensato che forse non è nemmeno giusto tenere solo per sé un’esperienza che ha cambiato profondamente la nostra vita e ci ha fatto incontrare più da vicino Dio.

All’inizio è stata una vera e propria tegola in testa, il giorno del suo primo intervento e quindi della diagnosi, mi sono sentita “schiacciare” da quello che ci si andava prospettando da lì in poi e che non sapevo minimamente come affrontare… si può far finta di niente, sperando che sia solo un brutto incubo e augurarsi che passi alla svelta oppure si può decidere di vivere insieme la realtà che viene data in quel momento.
Abbiamo scelto, quasi senza dircelo direttamente, nella confidenza silenziosa di chi si vuole bene da tanto tempo, che avremmo imparato l’una dall’altro a gestire questo mondo nuovo e abbiamo cominciato così a percorrere il nostro cammino nelle strade difficili e a volte dolorose della malattia. Lui caparbio e tenace nel combattere il suo male, io vicina a lui a sostenerlo.
Roby aveva tante domande, si è sempre interrogato molto sul senso dell’esistenza e sul dolore, si è chiesto anche il perché del suo dolore, ma questo non gli ha impedito di continuare a vivere la vita in pienezza, non si è fermato davanti alla sua malattia e alle fatiche che questa comportava, ha continuato a godere dei volti che aveva intorno, delle relazioni, si è dedicato al suo lavoro, è andato avanti a essere il papà stupendo che era sempre stato.
Abbiamo potuto sperimentare come a volte nella vita, ci sono domande a cui umanamente non riesci a rispondere, anzi può diventare logorante volere a tutti i costi capire.
Non si può sempre capire, ma c’è un’alternativa: affidarsi e amare.
Ci è venuto naturale affidarci a Dio fin da quando ci siamo sposati, infatti per il nostro matrimonio avevamo scelto la pagina di Vangelo sulla fiducia nella provvidenza divina “non state con l’animo in ansia… il Padre vostro sa che ne avete bisogno…” (Lc 12, 22-32), allora non potevamo immaginare che un giorno questo affidamento non sarebbe stato più solo un ideale a cui tendere…
Quando tocchi con mano la tua impotenza e la fragilità di essere uomo, ti senti spogliato di tutto, sei piccolo e povero, creatura davanti al Creatore e stai davanti a Dio come fa un neonato con sua madre, totalmente dipendente. Solo lì l’affidamento è diventato il centro e il senso del nostro vivere, lo abbiamo vissuto direttamente nella nostra carne e il Signore si è fatto vicinissimo a noi. Non ci è stata tolta la sofferenza, non è avvenuto un miracolo, ma ci è stata data la grazia di avvertire in modo quasi tangibile la presenza amorevole di Dio, non riesco a spiegare in altro modo la forza che ha accompagnato i nostri giorni più duri e che ci ha fatto sentire, nonostante tutto, bene e desiderosi soprattutto di amare.
Quando i ritmi della malattia si fanno incalzanti e appaiono evidenti i segni di una “terminalità” ormai prossima, ti accorgi ancora di più come l’unica cosa che conta veramente è solo l’amare, amare molto, amare incondizionatamente. Quanto ti viene in qualche modo tolto in termini di tempo, di quantità del tempo da vivere, ti viene abbondantemente restituito in termini di qualità del tempo che ti è dato, un tempo donato, appunto un “presente” da vivere pienamente.
I gesti ordinari e ripetitivi di ogni giorno, il pranzo, la cena, la cura del corpo, la compagnia, una risata, una coccola acquistano un significato immenso, li custodisci dentro di te come tesoro prezioso e cerchi di fissare nella memoria quel volto amato, la voce, un abbraccio, sapendo che da lì a non molto affiderai tutto questo tuo tesoro al “per sempre” della vita eterna.
E’ estremamente doloroso lasciare andare chi ami, per questo motivo, per rendere meno duro questo passaggio, mi piace pensare che il mio Roby sia passato direttamente dal mio abbraccio all’abbraccio di Dio, non c’erano mani più sicure a cui poterlo affidare per trovare finalmente riposo dopo tante battaglie, e mi piace guardare alla nostra vita insieme come a una lunga camminata in cui ci siamo reciprocamente accompagnati e sostenuti.
Ora rimane la gratitudine, un profondo senso di gratitudine a lui, alla vita stessa, a Dio, per tutti gli anni che abbiamo passato insieme, per la vita che abbiamo vissuto, anche i momenti più difficili, ne è valsa veramente la pena, nonostante quanto abbia comportato, nonostante purtroppo sia durato troppo poco.
Rimane il dolore, a volte insopportabile, ma non c'è nessuna amarezza, c’è una grande consolazione senza la quale sarebbe impossibile vivere e superare certe prove, è l’ultima parola di Gesù che non è il saluto definitivo dell’addio ma l’arrivederci pieno di speranza della risurrezione.
Lascio che sia Roby a concludere, con un suo pensiero che accompagna me e i miei bambini lungo le vie della nostra quotidianità e che nutre di speranza il nostro oggi.
“Vivere la gioia significa cogliere ogni aspetto dell’esistenza come respiro dell’Eterno.
Il limite allora non impedisce di apprezzare l’uomo, il dolore non preclude la possibilità di essere felici, la morte non vanifica il senso del vivere.”


Laicità in pericolo. Due cardinali accorrono in sua difesa - Sono Angelo Scola e Camillo Ruini, entrambi molto in sintonia con papa Benedetto XVI. Ecco come vedono il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica: se essa tacesse, ad esempio, sulla vita e la morte, "non contribuirebbe al bene di tutti". In appendice, una disputa tra i professori Galli della Loggia e Pietro De Marco - di Sandro Magister
ROMA, 23 febbraio 2009 – Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla "laicità", ossia sull'azione dei cristiani nella società civile.

Due fatti accomunati da un'identica questione, riguardante la vita umana "dal concepimento alla morte naturale".

Il primo di questi fatti è apparentemente minore. Mercoledì 18 febbraio, al termine dell'udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi (nella foto, in un precedente incontro a Washington), speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l'azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.

Ma al termine dell'incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt'altro tenore:

"Il papa ha colto l'occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento".

Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto. E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di "invadenza" del campo politico che tanti difensori della "laicità" lanciano contro la Chiesa.

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Il secondo fatto è di dimensioni più ampie. Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio.

Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c'è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico.

La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla "laicità". Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.

Ma non solo. La polemica ha diviso anche il campo cattolico. Per alcuni, il parlare e l'agire in difesa della vita di Eluana erano "indegni dello stile cristiano", uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno.

La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano "La Stampa" di domenica 15 febbraio:

> Vivere e morire secondo il Vangelo

Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi. È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di "indegnità".

Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su "Avvenire" del 20 febbraio.

Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della "laicità" a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica.

E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.

Qui di seguito sono riprodotti, integrali, entrambi gli interventi: l'editoriale del cardinale Scola su "Avvenire" del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio.

Sulla questione della "laicità" – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger.

In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici.

A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito. Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così.

Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul "Corriere della Sera" del 15 febbraio. E De Marco gli ha replicato qui e sul giornale on line "l'Occidentale".

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1. Cattolici, laici e società civile

di Angelo Scola



"L'Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema".

Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale ad Amman durante il comitato scientifico internazionale della rivista "Oasis", mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l'azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici – che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea –, la presunta sconfitta del cristianesimo e l'ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche. In una parola, circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica.

Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta a un'interpretazione culturale pubblica. È un dato inevitabile. Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, "una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta". Dall'altra, essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell'amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell'azione civica. Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro.

In questa fase di "post-secolarismo", nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del cristianesimo. A me sembrano entrambe riduttive.

La prima è quella che tratta il cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno. Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza.

L'altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il cristianesimo all'annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di "ogni altro".

Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall'autentico messaggio di misericordia di Cristo. Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche. Un simile atteggiamento produce una dispersione, una diaspora dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale. Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell'appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri.

Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell'incontro con l'avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.

A me sembra più rispettosa della natura dell'uomo e del suo essere in relazione un'altra interpretazione culturale. Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla diaspora e dal nascondimento. Propone l'avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza – irriducibile ad ogni umano schieramento –, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo.

In che modo? Attraverso l'annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa.

Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano. Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni.

Solo un esempio: se credo che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia. Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l'esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti. Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell'esistenza.

Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal papa all'ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell'uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri. Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona.

Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360 gradi e con tutti, nessuno escluso.

In un simile confronto, che porta i cristiani, papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l'azione ecclesiale non ha come scopo l'egemonia, non punta a usare l'ideale della fede in vista di un potere. Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna. Una speranza che, già godibile nel "centuplo quaggiù", aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti.

Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.

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2. Laicità e bene comune

di Camillo Ruini


Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all'apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto.

A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un'idea il più possibile chiara e determinata del significato dell'espressione "bene comune", alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità.

Come è noto, "bene comune" è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico. Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto. Il "Compendio della dottrina sociale della Chiesa", pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare "dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone".

Esso indica anzitutto "l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente". In concreto il bene comune è "bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo", dato che "la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere 'con' e 'per' gli altri".

Il bene comune, pertanto, "non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro". Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti "le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali" ("Compendio", nn. 164-166).

Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità. È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di "laicità" non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella "Lumen gentium" (n. 31), "Col nome di laici si intendono... tutti i fedeli a esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso..., i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio... per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano". Dei laici così intesi è proprio e peculiare "il carattere secolare", nel senso che "per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio".

Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all'altro grande significato dei termini "laici" e "laicità", che è quello a cui ci riferiremo d'ora in poi. Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un'autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione. Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G. de Lagarde "La naissance de l'esprit laïque, au déclin du moyen âge".

Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano, tratta la voce "Laicismo", che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed "esclusiva" della laicità. Per Fornero con "laicismo" si intende "il principio dell'autonomia delle attività umane, cioè l'esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall'esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano".

Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II ("Gaudium et spes", n. 36), che afferma: "Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un'esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte".

È anche assai interessante che Fornero riconduca l'origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell'imperatore e su queste basi rivendica l'autonomia della sfera religiosa da quella politica. In termini simili si esprime l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro "Senza radici" (pp. 51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d'Occidente e d'Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l'imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l'impero.

* * *

Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo. Il tornante decisivo è quel "nuovo scisma" – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica.

È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l'illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente. Il "nuovo scisma" è pertanto tra cattolici e "laici", dove la parola "laico" assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva.

È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall'inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell'autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l'illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall'interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico.

Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato. E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all'interno del mondo protestante.

Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l'unità e l'universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d'America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti.

Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti. In questo senso si può dire che alla base della società americana c'è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I. Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente "ostile" alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito.

Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale. In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell'ideologia che voleva riservare la piena titolarità "nordamericana" soltanto ai protestanti. In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l'importanza della libertà religiosa così garantita.

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Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana. Non per caso la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.

Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l'ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza. Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo.

In concreto, il Concilio ha fatto propria la "svolta antropologica" che fin dall'inizio dell'età moderna aveva posto l'uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l'infondatezza dell'alternativa tra centralità dell'uomo e centralità di Dio. Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l'umanità sta compiendo per trasformare il mondo.

Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle.

Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno "sensibile" dei rapporti tra Chiesa e Stato. Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una "religione di Stato", che aveva costituito l'ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni. Anche la differenza tra regimi "concordatari" e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l'accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un'ottica di religione di Stato. Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all'articolo 1: "Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano".

* * *

Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità.

A ben vedere, tuttavia, l'oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo infatti la distinzione e l'autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l'apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell'altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.

Oggetto di quest'ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.

Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell'uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l'uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell'evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all'universo fisico.

Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica.

In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell'Occidente: quando cioè sembrava fuori dall'orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell'ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire "il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica". Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di "operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un'efficacia trainante nel cammino verso il futuro".

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Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d'altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo. Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l'uomo sia integralmente riconducibile all'universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione.

Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato "la dittatura del relativismo", una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell'umanità.

Proprio questo taglio radicale è però lontano dall'essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare "il mondo laico". Anzi, molti "laici" ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo.

L'allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri "dev'essere relativizzata" ("Senza radici", pp. 111-112). In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest'ultimo "Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica", Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo. Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato "una proposta ai laici": sostituire la formula di Ugo Grozio "etsi Deus non daretur" – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, "veluti si Deus daretur" – come se Dio esistesse –. Anche chi non riesce a trovare la via dell'accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: "Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno" (J. Ratzinger, "L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture", pp. 60-63).

È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l'apertura cordiale a questo genere di laici. Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici. Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell'etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall'emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.

* * *

L'analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune.

Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall'autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell'Europa moderna a partire dalle guerre di religione. Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su "La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione", è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l'indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.

Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell'intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo, oltre che a quel "senso religioso" nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza.

Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.

Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su "Fede e democrazia" pubblicato sulla rivista "Aspenia" nel 2008 (pp. 206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all'uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all'origine delle predette interpretazioni della laicità. È l'uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso. In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall'inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non "come" vivere, ma "perché" vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.

Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita "sana" e "positiva", che congiunga all'autonomia delle attività umane e all'indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l'apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del "senso religioso" che portiamo dentro di noi.

Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l'intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.

Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.

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3. L'incontro tra laici e cattolici: una stagione al tramonto

di Ernesto Galli della Loggia


> EDITORIALE DEL "CORRIERE DELLA SERA" DEL 15 FEBBRAIO 2009

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4. Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità

di Pietro De Marco


Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della "stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”. L'ha fatto sul "Corriere della Sera" di domenica 15 febbraio.

Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare. Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico. Eventi e soglie storiche che "aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi... riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far "immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici. Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra "la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo.

Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di "nuove ostilità” tra le parti. Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di "una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.

Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica). Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i "giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo. Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica. Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo "incontro”, del cardinale Camillo Ruini.

La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto "l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica "alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre.

Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione. Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un "ulteriore fattore negativo”: "l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”.

L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i "laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo.

Tale "autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del "retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa "di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”. Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del "Corriere" pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando.

La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso. Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti. Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come "societas" e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.


1. IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO
Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata. Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri. Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti. Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di "Liberal". Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura. E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di "Liberal" erano singoli cattolici "conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non "i cattolici” in senso lato. Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici "berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di "Liberal", come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, "revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico. Il compianto Rumi collaborava a "Liberal" per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.

In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni. Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce). Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il "fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica. Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica?

Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in > www.chiesa dell'11 settembre 2008). Se per "laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la "difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera!

In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico "qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto. Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei "valori moderni" e dell'immersione in essi. Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa. Per questo laicato la proposta di "Liberal", l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo "rischio di destra”.

Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato "qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori. E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti. Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei "christifideles", sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti. La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici "sui generis", composti o meno di "virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici. Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra. Sono, naturalmente, gli "strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome "minoritaria”, parla diversamente. Per gli "strani cristiani”, un orizzonte di "nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica.

Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia "catto-comunista”, questi cattolici non "clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non "progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti. A ben vedere, no.

Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico "sui generis" molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con "Magna Carta", che scrivono su "il Foglio", sull’attuale "Liberal" e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse. Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia.

Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici "qualificati". Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore. Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati "virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla "vague" postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini. Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.

Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei "cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale "silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza.

La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica. I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta. Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista. Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada.

Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.


2. LA CHIESA COME "SOCIETAS" E NELLA SOCIETÀ
Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un'altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco. Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica. Direi di no.

Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso "da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto. Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua "perfectio" e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello "ius ecclesiasticum publicum", ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, "erga omnes".

Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine "autoreferenziale” non va. Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata "ad extra". La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé. Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi.

La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica. La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé. L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la "complexio oppositorum" cattolica, che è tutt'altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa. Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale.

È una tale recuperata "complexio" cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a "christifideles" così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.

Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti. Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky). Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l'obbligo di darsi un'unica "visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel "fare scelte nette e conseguenti", nello "scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia. Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere "i propri amici culturali”.

Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente. Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad "amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle "sociétés de pensée" laiciste e di sinistra. Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione. Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione. Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante. Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico. Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d'avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello "critico” della milizia postconciliare. Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l'opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta "irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva "damnatio" di quanto ho descritto fino qui.


3. I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL'INTERLOCUTORE CATTOLICO
Un ultimo punto, appena un poco "ad hominem". Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima. Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul "Corriere della Sera" del 23 marzo del 2000, dal titolo "Il mea culpa dimenticato". L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: "L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una 'povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia'] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.

Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una "riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici). Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: "riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, "Coscienza laica", a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili).

Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la "riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe.

Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni. Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una "fides qua" senza "fides quae") da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana. A conclusione del percorso si dovrebbe dire: "reformata reformanda".

Quando nei titoli di un giornale laico come "la Repubblica" si vede comparire la formula polemica: "la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere. Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali?

Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù. Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della "Chiesa del dogma”. Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della "fides quae", che gli odierni eredi della tentazione modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore. Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il "confirma fratres tuos”.

Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici "della riforma”, ennesimi "sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della "riforma mancata”. Non perché dei "sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni. Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali. Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.

Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti. Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e "confessio fidei" pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non "liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica. Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al "Logos" e non bei simboli e buoni sentimenti. È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno. Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro. Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili.

La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti. Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella "Lettera sulla tolleranza" di Locke. Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale ("a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua "innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice. La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della "historia salutis" non dipende davvero dalla nostra "libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica. Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l'Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento. Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso "autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.

Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali. Altri cattolici, i più "laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto. Non si tratta del "fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un "bonum" sociale definito da altri (che è il significato autentico della "religione civile” di Locke e Rousseau).

Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma "laico” alla maniera delle grandi firme di "la Repubblica" e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica. La "ratio" di un dialogo con esso è già risolta, dissolta. È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.


Pecore e pastori: un libro contro i luoghi comuni - Il Cardinale Biffi si chiede perché l’ortodossia fa più notizia dell’eresia - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Chi è il cattolico adulto? Qual è il compito dei pastori? Chi sono e quale ruolo svolgono i componenti del gregge? Perché non ci sono donne sacerdote? Perché la Chiesa ha un solo capo? E perché gli si deve obbedienza?
A queste ed altre domande risponde il Cardinale Giacomo Biffi con il libro “Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo”, pubblicato dalla Cantagalli (256 pagine, 13,80 Euro).
Il libro, il cui titolo sembrerebbe destinato solo al clero, è anche una schietta e brillante riflessione sui fondamenti e sui compiti della Chiesa, su quel popolo di Dio che il porporato indica come “gregge di Cristo”.
Scrive l’Arcivescovo emerito di Bologna: “Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma è l’ortodossia a fare notizia”, ed in questo libro il Cardinale Biffi parla chiaro, sgonfia i luoghi comuni, cancella i sofismi ed i condizionamenti del “politically correct”.
Circa l’accondiscendenza con cui alcuni si piegano ai condizionamenti del “politically correct” il Cardinale Biffi sostiene: “Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire ‘credibile’, e non piuttosto che si debba ‘convertire’ la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’ non ‘adattamento’ è parola evangelica”.
Del resto, continua il porporato, “la prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: ‘Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede’ ma è: ‘Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Sul ruolo del pastore l’Arcivescovo emerito di Bologna rileva che “tra i gravi problemi della cristianità non c' è solo la scarsità dei pastori, c' è anche la difficoltà dei cristiani a riconoscersi evangelicamente pecore” e aggiunge “il pastore condivide la vita del gregge”, ma ne è soprattutto “il capo e il condottiero”, perché i sacerdoti “non devono seguire le pecore nei loro sbandamenti, ma guidarle con mano ferma”. E pazienza se questa autorità “sarà vista ovviamente come un’autorità che si fonda su sé stessa, e sarà classificata come antidemocratica”.
A proposito di coloro che si sono autodefiniti “cattolici adulti” scrive il porporato: “Se qualcuno manifesta ad alta voce di voler essere considerato ‘adulto’ nella Chiesa, l’intenzione ci sembra legittima e persino encomiabile, purché egli rimanga convinto che, secondo il Vangelo, chi dentro di sé non diventa come un bambino non entrerà nel Regno dei cieli”.
In un capitoletto titolato “Ladri e Lupi” il Cardinale Biffi scrive: “Gesù ci mette in guardia da una visione troppo idilliaca, da un’idea arcaicamente serena della vita pastorale, e ci ricorda che esistono, e sono sempre attive, le forze del male”.
“Le sue pecore – continua l’Arcivescovo emerito di Bologna – non devono dimenticare che esistono i ladri ed esistono i lupi. Anzi ci dice senza mezzi termini che il suo gregge vive in mezzo ai lupi i quali tentano sempre di rapire e disperdere gli agnelli di Dio”.
“Questi lupi non sono solo esterni al gregge – precisa il porporato –. Si possono trovare anche tra noi in veste di pecore. A questo proposito san Paolo non esita a parlare in termini espliciti di falsi apostoli, lavoratori fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo” e aggiunge: “Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce”.
Su coloro che sparlano della Chiesa, Biffi afferma: “E’ psicologicamente impossibile continuare ad amare una donna, quando se ne vede e se ne sottolinea solo la bruttezza, la meschinità, la natura malvagia. Un prete che si accanisce a parlar male della Chiesa – non diciamo a parlar male degli ‘uomini di chiesa’, che qualche volta è doveroso – farà molta fatica a restarle fedele”.
Il Cardinale che predicò gli Esercizi Spirituali quaresimali alla Curia romana e a Papa Benedetto XVI nel marzo del 2007 sostiene che “è in atto oggi una violenta e sistematica aggressione alla Chiesa, che si esprime e si rifinisce quotidianamente in qualche nuovo atto di ostilità; ed è stupefacente che la cristianità – almeno quella loquacior (quella che più parla e più fa parlare di se) - non mostra di rendersene conto in misura adeguata”.
Forte è la Critica del cardinale Biffi nei confronti dell’invasione sessuale: “La nostra epoca – ha scritto il porporato - è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi”.
“Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale – continua –. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni”.
“Bisogna che ci decidiamo – conclude il Cardinale Biffi – o stiamo col ‘mondo’ che ci intima di essere ‘politicamente corretti’, o, senza preoccuparci affatto di essere ‘politicamente corretti’, stiamo col nostro Maestro e Salvatore".


L'Amore di Dio come riscatto della nostra debolezza - COLLEVALENZA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Intervenendo al Convegno su "La misericordia tra giustizia e speranza" promosso dal Centro Studi della Congregazione dei Figli dell’Amore misericordioso in collaborazione con la diocesi di Città di Castello, il prof. Maurizio Malaguti, professore di Filosofia teoretica presso l’Università Alma Mater di Bologna, noto studioso di metafisica classica e cristiana in rapporto a questioni fondamentali del mondo contemporaneo, ha svolto il tema: "Tra cielo e terra: luogo dato alla misericordia".
La misericordia - ha introdotto il prof. Malaguti - è la via che si apre verso la verità di Dio: in questa prospettiva il Salmista leva il suo canto: «Misericordia e verità s'incontreranno» (Salmo 85, 11). Dio è in sé stesso Verità perfetta, trasparenza senza alcuna ombra. Affinché possiamo divenire partecipi della sua vita, Egli, liberamente e per puro dono d'amore, si fa carico del limite: nell'atto stesso di donare la libertà, Egli assume il nihil privativum, nasconde nel silenzio l'infinita intensità della sua gloria, crea persone libere di scegliere, dona loro il luogo ed il tempo della ricerca e dell'attesa fedele.
Ogni intelligenza libera può inoltrarsi nella storia della luce e può cercare di nascondersi nella tenebra del suo stesso rifiuto. Ogni intelligenza finita, anche la più alta tra tutte le creature, è costituita tra il cielo spirituale, che nessuno può partecipare pienamente, e la "terra" che gli corrisponde. Costruiamo i nostri mondi tra l'interiorità non ancora manifestata e l'esteriorità non ancora definitivamente conquistata.
Non si può permettere – ha argomentato il prof. Malaguti – che i progressi nella conoscenza della terra, pur irrinunciabili, spengano il desiderio di aprirci al cielo spirituale. Ma quanti sono accolti nella luce dello spirito sanno trovare e riconoscere anche sulla terra le rifrazioni dell'intelligenza che si è manifestata nella creazione. Ogni raggio di verità diviene allora non "patria", ma "via".
Nella nostra debolezza noi cerchiamo o, al contrario, nel nostro orgoglio noi respingiamo la misericordia che concede beni immeritati. Ma la misericordia stessa è il dono: è la via sulla quale si incontrano le luci che scendono dal cielo e la fatica necessaria per il pane e per il vino.
Il prof. Francesco Viola, professore di Filosofia del Diritto presso l’Università di Palermo, ha trattato il tema: "Giustizia e perdono: riflessioni sulla transitional justice".
È possibile istituzionalizzare il perdono? La risposta a questa domanda – ha argomentato il prof. Viola - va cercata dapprima in alcuni istituti di "perdono giuridico" e poi nell’esame dei tentativi recenti di giustizia politica nei regimi di transizione dalla dittatura alla democrazia. Prendendo, poi, come caso emblematico quello della Commissione "Truth and Reconciliation" del Sud-Africa ne ha esaminano alcune caratteristiche generali, in parte presenti anche in altri Paesi, quali, ad esempio, l’Argentina e il Cile.
Nel corso della relazione il prof. Viola si è posto una serie di domande: 1) Possono i popoli perdonare? Gli africani, gli armeni, gli argentini, i cileni possono perdonare e/o chiedere perdono? 2) quali sono i rapporti tra la memoria individuale e la memoria collettiva? 3)Com’è possibile sanare le ferite dell’identità 4) Quali sono i caratteri propri del perdono? 5) In che senso il perdono politico e giuridico possono considerarsi come tappe del cammino verso il senso autentico del perdono?
In conclusione l’oratore ha operato un confronto fra la frammentazione dell’idea di giustizia propria della modernità e il recupero dell’interrelazione fra le varie forme di giustizia, che è un’esigenza presente nel nostro tempo.
Il prof. Antonio Pieretti, docente di Filosofia all’Università di Perugia, introducendo il tema "La misericordia come dono: verso una prassi etico-sociale" ha osservato come rispetto al perdono l’altro non sia sempre il colpevole o quello a cui si deve perdonare.
Accanto a questa categoria – ha detto il prof. Pieretti – deve esserci quella che tenga conto dell’altro, chiunque esso sia: la categoria del dono. Il dono è un gesto unilaterale, indipendentemente dall’altro e se sia stata rivolta domanda di perdono. Il dono è gratis, senza motivazione, basta che ci sei, sei tu, sei l’altro. Il dono non chiede reciprocità.
Due sono i caratteri costitutivi del dono: a): la gratuità e b) la libertà; di conseguenza non c’è né scambio né risarcimento, è un gesto assolutamente libero e unilaterale.
Proseguendo il suo argomentare il prof. Pieretti ha affermato che dietro il dono c’è un atto di fiducia, un atto che non chiede compenso, che non chiede reciprocità, è un alto atto d’amore per l’altro al quale riconosco un termine di confronto: ti faccio dono perché sei tu.
Ma qual è il fondamento del dono e della dignità che ci è stata data e che siamo chiamati a riconoscere all’altro?
Il fondamento del dono è in Dio che si è rivelato come colui che ha fatto il dono. La vita è l’espressione più alta del dono che abbiamo ricevuto. Il dono in chi ha origine come gesto libero, unilaterale e gratuito? Ha origine in Dio che lo ha fatto senza condizione, senza reciprocità. Dio è Amore, ma cos’è la misericordia rispetto all’amore di Dio?
La misericordia – ha sostenuto Pieretti – è la declinazione dell’Amore di Dio in funzione del riscatto della nostra debolezza e che viene incontro alla miseria che ci contraddistingue.
Come beneficiari del dono, per essere nati, chiamati e salvati, siamo chiamati a testimoniare la misericordia, usata verso di noi e, che noi dobbiamo all’altro, sforzandoci d’inserire perdono e giustizia nell’ottica del dono.


24/02/2009 14.25.02 – Radio Vaticana - Il significato del digiuno cristiano rispetto alle altre religioni nella riflessione quaresimale del cardinale Paul Josef Cordes –
"Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo". E' una delle riflessioni di maggior richiamo contenuta nel Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2009. Domani, il Papa - che non terrà al mattino la consueta udienza generale - presiederà il rito di benedizione e imposizione delle Ceneri, che segna l'inizio della Quaresima, al termine della celebrazione eucaristica nella Basilica romana di Santa Sabina. Al microfono di Roberto Piermarini, il cardinale Paul Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, si sofferma sul valore attribuito da Benedetto XVI al digiuno cristiano:http://62.77.60.84/audio/ra/00151190.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00151190.RM

R. - Sono molto contento che il Papa abbia scelto questo tema. Viviamo in un mondo in cui c’è il culto del corpo. E’ vero che San Paolo dice: “Nessuno ha mai disprezzato il proprio corpo” e dunque è importante voler bene al corpo. Ma qualche volta questa cura è esagerata. Solo in Germania sono stati venduti 18 milioni di kit per il dimagirmento. Sappiamo tutti che dobbiamo limitarci a curare eccessivamente il nostro corpo. Quindi, da parte del Papa era importante parlare del digiuno. Inoltre, anche altre religioni praticano il digiuno. Conosciamo il Ramadan dell’islam: in un contesto di diversità religiose, quindi, è un compito molto importante sottolineare prima il digiuno e dopo riscoprire anche lo specifico del cristiano.


D. - Non crede che questa cura ossessiva del corpo di cui lei parla, possa portare a un’idolatria del corpo stesso?


R . - Certamente. Dicevano già i Romani: Mens sana in corpore sano. Una mente sana ha bisogno di un corpo sano. Il corpo ha il suo valore, non possiamo negare tutto questo. Però, curare eccessivamente il proprio corpo ha sempre i suoi rischi. Tutta la pubblicità, per esempio, ci mostra il bel corpo: raramente presenta i vecchi che stanno soffrendo. Il corpo è messo così in evidenza, per cui non vediamo più il fatto che più importante del corpo o insieme ad esso deve esserlo lo spirito, la volontà, la libertà. Sono valori astratti ma importanti per salvaguardare uno stato corretto e sano del corpo. Il culto del corpo è molto pericoloso. In Germania, c’era perfino un sapone che si chiamava “Kult”. Questo evidentemente non significa che non bisogna trattare bene il corpo, ma non si deve esagerare con questo desiderio di voler dominare con il corpo la volontà dell’uomo, altrimenti il corpo diventa un tiranno.


D. - Cosa contraddistingue la pratica del digiuno cristiano da quello delle altre religioni?


R. - Se noi guardiamo alle altre grandi religioni scopriamo che l’islam - ad esempio - non ha una relazione con il Creato come il cristianesimo. L’islam non può scoprire nel Creato nessun elemento divino perché Dio è lontanissimo dalla creazione: c’è un abisso tra Dio ed essa. Dio ispira la creazione tramite la legge, la sharia, non ha nessuna relazione personale con la creazione. Invece, il cristiano può identificarsi con il Creato, perché Cristo è il Figlio di Dio e si è incarnato, ha preso la nostra carne. Questa è una cosa insuperabile, perché così noi possiamo avere nel Creato una relazione con Dio stesso. Cristo è il nostro modello, lui è andato nel deserto e così possiamo trovare nel digiuno la persona di Gesù Cristo. Mi sembra che tutti i metodi del digiuno siano importanti, ma lo scopo è quello di vedere come Gesù Cristo viva il digiuno nel deserto: lì ci troviamo di fronte una persona. L’islam ha di fronte una legge, un Dio lontano, noi abbiamo Cristo vicino che ci dà l’esempio del digiuno. I metodi del digiuno hanno questo scopo e non sono molto importanti: importante è che troviamo Cristo. Il Papa dice nel suo Messaggio che il digiuno ci aiuta a dedicarci totalmente a Dio.


D. - Eminenza, il digiuno volontario in tempo di Quaresima può contribuire a combattere la fame nel mondo?


R. - Il Papa lo dice abbastanza chiaramente nel Messaggio. Se io nego qualche cosa di buono e di utile al mio corpo, mi rimane anche una certa somma di denaro. Se io nego ai miei occhi la televisione per un certo tempo, avrò tempo per pregare. Se io cancello nel mio cuore l’orgoglio, avrò forse desiderio di confessarmi. Così, il tempo di Quaresima è per me un tempo di approfondimento della vita cristiana. E’ quasi un esercizio spirituale. La Chiesa ci offre 40 giorni per prepararci alla Pasqua. Sono contento di questo Messaggio perché qualche volta nel mondo la preparazione alla Pasqua era solo un tempo per preparare la colletta e la gente pensava: se faccio una bella offerta ho fatto la mia preparazione. Invece, questo Messaggio quaresimale del Papa ci mostra chiaramente che ci sono altri elementi importanti quanto la colletta che ci indicano il vero senso della Quaresima che vuol dire prepararci a celebrare la Pasqua come morte e risurrezione di Gesù Cristo. Solo chi è morto può sentire la gioia della Risurrezione e solo chi ha fatto veramente un passaggio verso questa morte, negando se stesso, avrà la gioia di celebrare nella veglia di Pasqua la gioia della Risurrezione.


La quaresima nella tradizione bizantina - Per non rendere inutile il digiuno - di Manuel Nin – L’Osservatore Romano, 25 febbraio 2009
"Digiunando dai cibi, anima mia, senza purificarti dalle passioni, invano ti rallegri per l'astinenza, perché se essa non diviene per te occasione di correzione, sei in odio a Dio come menzognera e ti rendi simile ai perfidi demoni che non si cibano mai. Non rendere dunque inutile il digiuno peccando, ma rimani irremovibile sotto gli impulsi sregolati, facendo conto di stare presso il Salvatore crocifisso, o meglio di essere crocifissa insieme a Colui che per te è stato crocifisso, gridando a lui: ricordati di me Signore, quando verrai nel tuo regno". Questo tropario della terza settimana della pre-quaresima nella tradizione bizantina, riassume in modo incisivo quello che è il periodo quaresimale di qualsiasi tradizione cristiana: il digiuno e l'astinenza sono vani se non corrispondono a una vera conversione del cuore. Nella tradizione bizantina il periodo di dieci settimane che precede la Pasqua viene chiamato Triodion - nome che indica le tre odi bibliche cantate nell'ufficiatura mattutina - e comprende la pre-quaresima e la quaresima. Il periodo pre-quaresimale è comune a tutte le tradizioni liturgiche cristiane, dal Triodion bizantino, al Digiuno dei niniviti siriaco, al Digiuno di Giona dei copti, alla Settuagesima nell'antica tradizione latina. La quaresima bizantina vera e propria comprende quaranta giorni - dal lunedì della prima settimana al venerdì prima della domenica delle Palme - e svolge le settimane dal lunedì alla domenica, presentando il cammino settimanale verso la domenica a modello della stessa quaresima verso la Pasqua. Inoltre fa una chiara distinzione tra il sabato e la domenica e gli altri giorni: nei primi si celebra la Divina liturgia (domenica con l'anafora di san Basilio, sabato con quella di san Giovanni Crisostomo), mentre nei giorni feriali solo l'ufficiatura delle ore, con l'aggiunta durante il vespro del mercoledì e del venerdì della liturgia dei Presantificati, cioè la comunione con il Corpo e il Sangue del Signore consacrati la domenica precedente.
La quaresima bizantina è un periodo molto ricco nella scelta dei testi biblici: salmi, letture; nell'innografia e nelle letture dei padri. I testi innografici si soffermano soprattutto sul tema dell'anima umana, dominata dal peccato, che trova per mezzo della quaresima la possibilità della salvezza. Nelle quattro domeniche della pre-quaresima troviamo i grandi temi che segneranno il percorso quaresimale: l'umiltà (domenica del pubblicano e del fariseo); il ritorno a Dio misericordioso (domenica del figlio prodigo); il giudizio finale (domenica di carnevale), il perdono (domenica dei latticini). In quest'ultima domenica viene commemorata l'espulsione di Adamo dal paradiso: Adamo, creato da Dio per vivere in comunione con lui nel paradiso, a causa del peccato ne è stato cacciato, ma nella quaresima comincia il cammino di ritorno che culminerà quando Cristo stesso, nel mistero pasquale, scende negli inferi e gli dà la sua mano per levarlo dalla morte e riportarlo in paradiso, che viene quasi personificato nella preghiera della Chiesa. Alla fine del vespro della quarta domenica si celebra il rito del perdono con cui si inizia la quaresima.
La quaresima dura quaranta giorni, con cinque domeniche. In ciascuna di esse vediamo un doppio aspetto: da una parte le letture bibliche che preparano al battesimo, dall'altra gli aspetti storici o agiografici. Nella domenica dell'ortodossia la vocazione di Filippo e Natanaele è modello della vocazione di ogni essere umano e si celebra il trionfo dell'ortodossia sull'iconoclasmo e il ristabilimento della venerazione delle icone. Nella domenica di san Gregorio Palamas si ricorda la fede del paralitico guarito da Cristo. La domenica dell'esaltazione della santa Croce è dedicata alla venerazione della Croce vittoriosa di Cristo, portata solennemente al centro della chiesa e venerata dai fedeli per tutta la settimana come segno di vittoria e di gioia, non di sofferenza. Nella domenica di san Giovanni Climaco, modello di ascesi, si celebra la guarigione dell'indemoniato, e in quella di santa Maria Egiziaca, modello di pentimento, l'annuncio della risurrezione. Il sabato della quinta settimana si canta l'inno Akathistos, ufficiatura dedicata alla Madre di Dio.
La sesta e ultima settimana di quaresima, chiamata delle Palme, ha come centro la figura di Lazzaro, l'amico del Signore, dal momento della malattia, fino alla morte e alla sua risurrezione. I testi liturgici ci fanno avvicinare a quello che si manifesterà pienamente nei giorni della Settimana santa, cioè la filantropia di Dio manifestata in Cristo, il suo amore reale e concreto per l'uomo. Tutta la settimana viene inquadrata nella contemplazione dell'incontro ormai vicino tra Gesù e la morte, quella dell'amico per primo, quella propria la settimana dopo. I testi liturgici riescono a coinvolgerci in questo cammino di Gesù verso Betania, verso Gerusalemme. Nella liturgia bizantina non siamo mai spettatori, ma sempre partecipanti e concelebranti, presenti nella liturgia e nell'evento di salvezza che la liturgia celebra. Col vespro del sabato di Lazzaro si conclude il periodo quaresimale.
Lungo l'intera quaresima, la tradizione bizantina recita alla fine di tutte le ore dell'ufficiatura la preghiera attribuita a sant'Efrem il Siro, che riassume il cammino di conversione di ogni cristiano: "Signore e sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, d'indolenza, di superbia, di vaniloquio. Dà a me, tuo servitore, uno spirito di sapienza, di umiltà, di pazienza e di amore. Sì, Signore e re, dammi di vedere i miei peccati e di non condannare mio fratello, perché tu sei benedetto nei secoli".
(©L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2009)


Le sfide di Dolan - Lorenzo Albacete - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Il giorno dopo l’assegnazione dei premi Oscar per il 2009 è stato nominato il nuovo arcivescovo di New York. Si chiama Timothy Dolan e arriva da Milwaukee, Wisconsin, dove è stato arcivescovo negli ultimi anni.
Nonostante non abbia avuto in precedenza contatti con l’arcidiocesi di New York, è di ascendenza irlandese e, come minimo, sarà in grado di capire la mentalità che ha retto la Chiesa a New York praticamente per tutta la sua storia (c’è stato un solo vescovo di New York non irlandese). La sua storia personale, cosmopolita e intellettuale, e il suo carattere simpatico e accomodante fanno pensare che sarà ben accolto dai newyorchesi a tutti i livelli della vita cittadina, pur essendo un deciso sostenitore, e senza alcuna ambiguità, della dottrina cattolica.
L’arcivescovo Dolan è relativamente giovane (ha 59 anni) e così, ferme restando le cose, dovrà guidare la Chiesa a New York in un periodo molto difficile, molto diverso dai giorni del Cardinale O’Connor, al quale è stato paragonato.
Non c’entra la crisi finanziaria, perché il Cardinale Egan (l’arcivescovo che regge la diocesi fino all’insediamento di Dolan il 15 aprile) lascia la Chiesa locale in una situazione finanziaria molto forte. Il problema che deve affrontare il nuovo arcivescovo è una guerra culturale, in cui la Chiesa cattolica viene sempre più vista come il più grande ostacolo al programma secolarista.
L’elezione del presidente Obama ha dimostrato ai secolaristi che l’opposizione dei fondamentalisti cristiani può essere superata, la religiosità degli americani può essere addomesticata e si può gestire la presenza islamica legandola alla minaccia terroristica. Solo la Chiesa cattolica è rimasta come un ostacolo significativo all’ideologia secolarista.
Qui è il legame con le cerimonie degli Oscar. La maggioranza degli americani non prende molto sul serio le opinioni politiche dominanti a Hollywood, ma è molto più influenzata di quanto pensi dalla cultura delle celebrità e i timori per la crisi finanziaria in corso impediscono di vedere i cambiamenti culturali portati avanti attraverso l’industria dell’intrattenimento.
Il programma degli Oscar è stata una chiara, forte e attraente (per l’immagine trasmessa di difesa dei diritti civili) promozione della legalizzazione del matrimonio tra omosessuali. Tuttavia, le proteste sono state poche e in gran parte ignorate dai media, come delirio di fondamentalisti spaventati dalla modernità e slegato dai veri problemi del momento (economia, servizio sanitario, sviluppo tecnologico, ecc).
La stessa domenica degli Oscar, il giorno prima della nomina di Dolan, il New York Times ha pubblicato due lunghi editoriali proponendo un compromesso nelle controversie su aborto e matrimonio omosessuale e insistendo sulla necessità di por termine alle guerre culturali, così da poter affrontare i problemi reali del paese.
Questo tipo di compromesso è in linea con le posizioni di quegli eminenti politici cattolici secondo i quali la loro fede cattolica è compatibile con le loro opinioni pro-choice, come il vicepresidente Joe Biden, la speaker della Camera Nancy Pelosi e il prossimo nuovo ministro della salute, almeno così sembra. Il presidente Obama nomina e accoglie ben volentieri costoro, ma non pretende di essere cattolico.
Questa è la situazione di fronte al nuovo arcivescovo di New York. Non sorprende che nella sua prima allocuzione pubblica abbia chiesto di pregare per lui.


DIBATTITO/ 1. Galli della Loggia: la componente cattolica è in un vicolo cieco - INT. Ernesto Galli della Loggia - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
L’elezione di Dario Franceschini alla guida del Pd, dopo le dimissioni di Walter Veltroni, non risolve la situazione travagliata e caotica nella quale è impantanato il Partito democratico. E la questione del testamento biologico ha subito messo in evidenza le divisioni tra l’ala ds e i teodem. Un problema, quello delle due anime del Pd, destinato a esplodere? È certo che la convivenza tra la componente cattolica e quella progressista si preannuncia molto complicata, anche se Franceschini le riunisce entrambe. O forse proprio per questo. I cattolici del Pd, secondo Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere, saranno sottoposti ad un continuo, estenuante esame di laicità. Che potrebbe vederli definitivamente sconfitti.
Franceschini tenterà di rilanciare il partito riproponendo la sintesi tra cattolicesimo democratico e sinistra riformista. Con quali possibilità di successo?
Credo che questa “amalgama”, come ha detto d’Alema, sia destinato a non riuscire, a non dar buoni frutti. Sono culture politiche diverse, che hanno ispirazioni diverse e storie diverse. Quando la storia ha creato contrapposizioni così nette, come sono state quelle tra la cultura del Pci e la cultura della Dc, non credo che sia possibile fare come se nulla fosse accaduto. Ma non usiamo per favore l’espressione cattolico democratico. È scorretta. De Gasperi e Scelba erano forse cattolici non democratici? Non credo proprio.
Resta il fatto che cattolicesimo di sinistra e cultura comunista si sono incontrati e hanno dato vita a sintesi culturali e politiche. Lo stesso Franceschini è un ex allievo di Zaccagnini.
Poteva avere un senso la tendenza all’incontro tra la cultura cattolica di sinistra, dossettiana, e la cultura comunista perché, che lo so voglia o no, il partito comunista era espressione delle esigenze delle classi popolari. Ma ora la cultura del Pd non è più questa. Non c’è più quell’Italia, quella società. La cultura del Pd è di tipo democratico radicale, con forti tratti di tipo laicista, che non appartengono alla tradizione del vecchio Pci.
Questo cosa comporta per i compagni di viaggio? Le questioni etiche metteranno le due componenti ai ferri corti?
La cultura radicale che sottende il Pd rende tutto più problematico, perché obbliga la cultura cattolica a spingersi sempre più sul terreno della laicità ed è lì che viene dagli altri interpellata e giudicata. I cattolici, in altre parole, devono essere in grado di superare quello che potremmo chiamare l’esame di laicità. Ma è un esame a senso unico: se i cattolici devono superare la prova di laicità, gli altri quale prova devono superare? È una posizione intimamente squilibrata perché squilibrato è l’orientamento dell’elettorato del Pd, che non si riconosce se non in misura minima nella base cattolica.
Tanto vale trarne le conseguenze?
I cattolici rappresenteranno al massimo il 20 per cento dell’elettorato del Pd. Da qui l’obbligo di fare dei compromessi, che però non piacciono e non piaceranno al rimanente 80 per cento. A mio avviso è un circolo chiuso dal quale non si può uscire. Perché la componente maggioritaria dovrebbe rinunciare a certe sue idee, rassegnarsi e fare un passo indietro per rispettare quel 20 per cento? Lo farebbe solamente per una ragione di tipo politicistico-elettorale. Ma la realtà è che non si possono fondare i partiti su basi politicistico-elettorali. Lo si può fare per formare le liste di un’elezione, ma non un partito politico.
Un Pd, dunque, in crisi di identità. Ci sono altre “tradizioni disponibili”?
Non si può ragionare in questo modo. Le identità sono il prodotto della storia. Non si può dire: facciamo un congresso e diamoci un’identità. È una stima superficiale e ingenua nella possibilità che le persone possano decidere della storia, del passato, di una visione del mondo. Il passato ci condiziona tutti, condiziona anche Franceschini.
Ostellino, su questo quotidiano, ha invitato il Pd (e non solo) a guardare la tradizione realmente riformista, sociale e solidale, del cattolicesimo liberale italiano. Che ne pensa?
Penso che sia giusto guardare le altre culture riformiste. Ma quell’invito vuol dire chiedere al Pd di essere un partito pigliatutto. Sturzo era un nemico feroce della sinistra cattolica. Se domani Franceschini facesse un elogio di Sturzo, avrebbe forse molti applausi, ma perché non si conosce quello che Sturzo scrisse negli ultimi quindici anni. Quell’esortazione suona un po’ come l’invito a fare acquisti nei negozi, nelle agenzie culturali altrui… È vero che ormai i confini e le storie si stanno annullando, ma come può una persona che viene dalla cultura del Pci condividere il liberismo antistatalista di Sturzo?
Si potrebbe sempre dire che la storia del Pci si è conclusa nel 1989, con la svolta della Bolognina.
Sì, ma la cultura è rimasta, perché la storia si deposita nelle persone e nelle tradizioni, non si cancella. In Italia si dà un po’ troppo per scontato che tutti possano diventare quello che vogliono, a seconda dei gusti dell’elettorato e delle esigenze della politica. Ma la politica non è un market che può soddisfare i gusti del pubblico.
Che cosa può fare a suo avviso il Pd, nella situazione in cui si trova?
Guardi, io sono uno storico e mi occupo del passato, non del futuro. Ma so quello che farà Franceschini: un po’ di demagogia e un po’ di accordi, tenendoli discretamente dietro le quinte, con i maggiorenti del partito. E incrocerà le dita, sperando nella fortuna.
La tradizione culturale cattolica di sinistra alla quale ha accennato che cos’ha ancora da dire alla politica italiana?
Nulla. Per dire ancora qualcosa dovrebbe liberarsi dei due macigni “feticci” ai quali ancora si tiene avvinta, il Concilio Vaticano II e la Costituzione. Due cose che sono di cinquanta, sessant’anni fa e che rappresentano una specie di ipse dixit che costringe quella cultura all’immobilismo e ad allontanarsi sempre più dalla cultura sociale e, credo, anche religiosa del paese. L’idea del divieto morale di cambiare la Costituzione è poi puramente demagogica e strumentale.
Domenica, dopo la sua elezione a segretario, Franceschini ha giurato di rispettare la Costituzione.
Ma tutti i cittadini hanno l’obbligo di osservare la Costituzione. Io per esempio mi riconosco nella Costituzione, ma penso che possa e debba essere in alcune parti cambiata. Non si capirebbe perché chi l’ha scritta vi ha messo l’articolo 138, che dice come modificarla. La sinistra cattolica non può ammettere che venga messo all’ordine del giorno il cambiamento della Costituzione perché sa che in tal caso franerebbe un fortissimo suo elemento identitario. Lo stesso Dossetti nei suoi ultimi anni che cosa ha fatto? Ha parlato in difesa della Costituzione.
Lei ha citato anche il Concilio Vaticano II. Perché?
Quella tradizione culturale è legata al Concilio Vaticano II inteso come insieme di valori che vedevano nel terzo mondo, nelle organizzazioni internazionali, nella pace il destino futuro dell’umanità complessivamente intesa. Oggi nessuno di noi pensa che il futuro vada in questa direzione. Beninteso, il Vaticano II è un grande acquisto, ma per la definizione dell’identità della Chiesa, non per l’immagine della sfera sociale che deve avere un cristiano. Il Concilio è un punto fondamentale per la definizione della libertà di coscienza, del ruolo del laicato cattolico, per la modernizzazione liturgica, ma le costituzioni che riguardano l’immagine del mondo sono ormai superate. La sinistra cattolica crede ancora nel bene ideologico: rappresentato, per esempio, dalla pace, o dalle organizzazioni internazionali.
Quali sono invece le potenzialità della tradizione culturale cattolica e liberale?
La tradizione cattolica liberale ha sempre saputo benissimo tutto questo. Teniamo però presente che ci sono stati cattolici che erano liberali, ma non è esistita la linea politica di una tradizione cattolico-liberale unitaria. Manzoni aveva le idee politiche di Cavour, soltanto che a differenza di Cavour credeva in Dio e nella Chiesa. Sturzo è ancora diverso, è un cattolico popolare.
Sturzo ha messo in guardia contro l’invadenza dello Stato. La cultura del Pd è immune da questo rischio?
Oggi lo statalismo non è più un termine caratterizzante, distintivo. Non lo è più perché le politiche economiche le decide l’Europa e non i partiti al governo. L’Europa è liberista e tutti siamo liberisti entro i margini che di volta in volta sono indicati dalle crisi. I partiti di sinistra sono diventati partiti radicali di massa perché dal punto di vista delle politiche sociali ed economiche ormai il loro spazio di manovra è limitatissimo. La stessa differenza tra le politiche economiche di destra e di sinistra va progressivamente riducendosi.
Ci sono regioni italiane amministrate dal centro sinistra nelle quali, sempre per citare Ostellino, «società civile e società politica sono diventate, organicisticamente, un tutt’uno». Questa non è una forma di statalismo?
Il Pd amministra semplicemente i soldi pubblici. Il consenso che ha in Toscana, Umbria ed Emilia Romagna deriva dal fatto che mediamente si è dimostrato un buon amministratore; e che ha saputo usare la spesa pubblica per costruire consenso politico. Ma la politica ha sempre fatto questo, e il Pd non è certamente l’unico esempio.


RITRATTI/ Mircea Eliade, l’antropologo che indagò il “senso religioso” - INT. Natale Spineto - mercoledì 25 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Indagare il mito per indagare l’uomo. In questa dichiarazione di intenti si può riassumere la monumentale opera di uno dei più grandi antropologi e storici delle religioni che il XX secolo annoveri. “Mito e realtà”, pietra miliare per coloro che studiano queste discipline si colloca, come d’altra parte tutte le altre opere di Mircea Eliade, in una dimensione rivoluzionaria nell’approccio scientifico al comportamento religioso umano. Facendo breccia in un periodo e in un contesto accademico che del mito e dell’archetipo hanno dato ogni tipo di interpretazione, riduzionista, biologica, psicologica o sociale Eliade si è imposto per il suo approccio originale e al contempo rigoroso nell’indagine antropologica. Abbiamo chiesto al professor Natale Spineto, anch’egli storico delle religioni nonché uno dei suoi massimi conoscitori, di descrivere la forza e l’attualità del pensatore romeno.
Quali sono le ragioni che a tutt'oggi rendono Mircea Eliade uno dei più grandi e famosi antropologi al mondo?
Eliade ha saputo sottrarre la disciplina che professava, la storia delle religioni, al mondo accademico e diffonderla presso il grande pubblico. Lo ha fatto superando i confini che la separano dalla filosofia e dalla teologia e presentandola come uno strumento per dare una risposta alla sete di senso dell'uomo d'oggi.
Come si relaziona la concezione del mito e dell'archetipo propria dello studioso romeno rispetto al contesto filosofico e psicanalitico a lui contemporaneo o di poco precedente?
Eliade usa il concetto di archetipo, che ai suoi tempi era stato diffuso soprattutto da Jung, senza dargli una connotazione psicologica, ma considerandolo come una struttura che media il rapporto fra l'uomo e il sacro. Nel fare questo riprende tematiche proprie della filosofia fenomenologica, dandone una formulazione nuova. Il mito è per lui un racconto sacro attraverso il quale si rivela all’uomo “il segreto delle origini delle cose”. La conoscenza dei miti del passato è dunque fondamentale, perché ci consente di rivivere le modalità tramite le quali l’umanità di tutte le epoche ha cercato le sue radici nel sacro. Rispetto ad essi lo studioso è chiamato a svolgere un’attività inesausta di interpretazione. Queste tematiche avvicinano Eliade alla filosofia ermeneutica contemporanea, e in particolare alle posizioni del filosofo francese Paul Ricoeur, con il quale ha avuto modo di collaborare quando insegnava all’Università di Chicago.
A suo avviso Eliade ravvisa, come in un certo qual modo alcuni filosofi a lui contemporanei, una sorta di "sopravvivenza" della dimensione mitica nell'agire dell'uomo moderno?
L’attività di Eliade si colloca in un periodo del quale si parlava molto di desacralizzazione e di secolarizzazione, cioè della perdita, nella società contemporanea, della dimensione religiosa. Per lui non è però possibile che tale processo arrivi fino in fondo, perché la sete di un senso costituisce una componente ineliminabile dell'umanità ed essa si esprime necessariamente in maniera religiosa. Occorre dunque cercare, nella civiltà contemporanea, le tracce di un sacro che si è camuffato nel profano, così come, ad esempio, i riti d’iniziazione si sono nascosti nelle trame dei romanzi d’avventura. Eliade ha sempre avuto fiducia nella capacità del sacro di esprimersi in forme nuove, che non eliminano quelle tradizionali, ma le arricchiscono.
Qual è, se c'è, la sostanziale differenza tra dimensione mitica ed esperienza religiosa nel pensiero di Mircea Eliade?
La dimensione mitica è per Eliade una componente dell'esperienza religiosa. Entrambe hanno la loro base nel simbolo. Il simbolo è, nella prospettiva di Eliade, il luogo nel quale si possono mettere in relazione, senza perdere la loro specificità e la loro irriducibile differenza, la realtà assoluta del sacro e l’esperienza umana che, come tutto ciò che è umano, è limitata e necessariamente incompiuta. La religione si fonda dunque sui simboli e il mito è un’espressione narrativa del simbolo, è un modo di declinare il rapporto fra uomo e mondo divino attraverso una storia.
Lei ha recentemente dedicato allo studioso un volume aggiungendo in appendice il carteggio fra questi e Kàroly Kéreny. Quali differenze o affinità intercorrono fra questi due personaggi?
I due studiosi hanno avuto delle relazioni complesse, che non si possono qui ripercorrere nel dettaglio. Eliade e Kerényi hanno condiviso l’esperienza del circolo Eranos di Ascona. Questo era un gruppo di studiosi che si riunivano ogni anni sul Lago Maggiore ed erano accomunati da un’idea della cultura come confronto e scambio fra i risultati dei diversi campi del sapere, la cui integrazione era possibile appunto grazie al simbolo. Lo studio del simbolo come linguaggio condiviso aveva lo scopo di un incremento delle conoscenze che costituisse l’occasione per una maggiore realizzazione dell’uomo. Tra le altre cose, Eliade e Kerényi avevano in comune l'uso del concetto di "archetipo" che, anche se impiegato in maniera differente, nasceva in entrambi da un’esigenza comune: la volontà di trovare strutture della religiosità radicate nell'esperienza esistenziale dell'uomo che non si potessero ridurre ad elementi puramente psicologici.


OBIEZIONE AL SEMPRE PIÙ SORPRENDENTE STEFANO RODOTÀ - Rifiuto delle cure, principio morale? - No, è lo smarrimento del laicismo moderno - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 25 feb. 09
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge: così la Costituzione italiana all’articolo 32, secondo comma. Per molti commentatori, questo comma dovrebbe indurci a prendere atto che la Costituzione intende riconoscere un diritto umano fondamentale, quello al rifiuto delle cure. Ma si tratta di un’interpretazione che oramai molti commentatori ritengono troppo ristretta: a loro avviso, partendo dallo stesso articolo costituzionale, si dovrebbe arrivare ad ammettere che la persona, oltre al diritto di rifiutare qualsiasi terapia, sarebbe titolare di un diritto, 'di spessore costituzionale', all’autodeterminazione in materia sanitaria. Né ci si ferma qui, nel leggere un testo, come si è visto molto sobrio e molto breve, che è stato ritenuto per decenni dai costituzionalisti semplicemente come un argine contro indebiti, pur se improbabili, atti invasivi della medicina. Si sta infatti ormai giungendo, partendo da quella breve formula costituzionale, a vedere nel rifiuto delle cure, e quindi perfino in quel rifiuto che può ineluttabilmente portare alla morte, 'il caposaldo della stessa soggettività morale' (si veda l’incredibile articolo di Rodotà su Repubblica
del 22 febbraio, a pagina 25). Poiché da tutte le parti si esorta a non confondere il diritto con la morale e meno che mai con la religione, penso che sia forse giunto il momento di rimettere le cose al loro posto, cominciando a chiamarle con il loro nome. Se si vuole esaltare il rifiuto delle cure come scelta di libertà, si rifletta prima di quale tipo di libertà si sta parlando. Mettiamo da parte situazioni strazianti ed eccezionali, nelle quali la stessa libertà di autodeterminarsi da parte di una persona può far nascere dubbi fondati: se il rifiuto delle cure è un diritto fondamentale di libertà, esso può essere, anzi, andrebbe esercitato con fredda lucidità, con irremovibile determinazione, col minimo di emotività. Di quale libertà, allora, stiamo parlando, se non della libertà di chiudersi in se stessi, di interrompere le relazioni con gli altri, di fuoriuscire dal mondo delle relazioni e degli affetti? È una dimensione della libertà, questa, che possiede un connotato freddo, tragico e solitario. Non c’è dubbio che abbiamo il dovere di rispettarla. Ma non c’è nemmeno da dubitare che abbiamo anche, e nello stesso tempo, il diritto di biasimarla, in quanto, ripetiamolo, lucida, fredda, irremovibile. Se infatti esiste un caposaldo della stessa soggettività morale questo non consiste nella freddezza, ma nel calore; non nella chiusura, ma nell’apertura; non nel dire di no al mondo, ma nel dirgli di sì, non nel sottrarsi, ma nel chiedere l’abbraccio dell’altro. Il senso morale implica posporre i propri interessi e le proprie esigenze ai bisogni e alle necessità altrui, fino all’estremo del sacrificio di sé. Non c’è alcun dubbio che il diritto esige molto, molti di meno dagli uomini: esso legittima anche comportamenti e pratiche egoistiche, purché innocue per il prossimo. Qui però sta appunto la differenza tra diritto e morale: quello che il diritto, nella sua freddezza, non osa e non può pretendere, la morale osa invece pretenderlo, anzi lo esige. Il diritto è custode dell’equilibrio delle relazioni, della simmetria nei rapporti, del bilanciamento degli interessi; l’etica, al contrario, aborre sottili equilibri e prudenti ponderazioni. Essa mi insegna che, se l’altro ha un’esigenza, io, se sono in grado, ho il dovere di aiutarlo a soddisfarla. Forse, in cambio, otterrò la gratitudine di colui per il quale mi sono operato; forse in cambio otterrò invece indifferenza e a volte perfino ostilità.
Calcoli del genere sono psicologicamente inevitabili, tanto quanto moralmente irrilevanti, perché l’etica è in primo luogo positività e assoluta gratuità. Che il laicismo contemporaneo arrivi a vedere in quella tragica forma di negatività che è il rifiuto delle cure un principio, anzi, il principio stesso della morale, dimostra a sufficienza lo smarrimento di tanta parte del sentire comune di oggi.
Uno smarrimento tanto più grave in quanto, invece di concretizzarsi in atteggiamenti di dubbio, di esitazione, di prudenza, paradossalmente dà luogo ad atteggiamenti di fredda determinazione, come la determinazione di chi ritiene doveroso offrire a chi vuole uscire da questo mondo tutti i conforti di una raffinata medicina, capace sì di curare, ma anche di rendere 'dolcissima' la morte (come appunto si è ritenuto che potesse e dovesse essere la morte di Eluana). Porre la freddezza della tecnica al servizio di una volontà di non essere più: qui il richiamo alla soggettività morale e all’omaggio che dovremmo prestarle non c’entra proprio nulla. Questo è lo specifico connotato del nichilismo moderno.