giovedì 30 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)“La conoscenza è sempre un avvenimento” - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 luglio 2009
2)Senza Dio, non c'è né bene né male - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 luglio 2009
3)29/07/2009 10:32 – VIETNAM - Minacce di morte ai cattolici di Dong Hoi mentre la polizia arresta un fedele - di J.B. An Dang - Il cattolico arrestato usava la sua casa per raduni religiosi. Il governo di Quang Binh vuole eliminare i cattolici dal suo territorio.
4)Pascal e il divertissement - Pigi Colognesi giovedì 30 luglio 2009 – ilsussidiario.net


“La conoscenza è sempre un avvenimento” - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 luglio 2009
Quando Andrea e Giovanni hanno incontrato Cristo, hanno subito compreso che nella loro vita era accaduto qualcosa da cui difficilmente potevano tornare indietro. “Abbiamo trovato il Messia”, dice Andrea a Pietro, e lo porta con sé a incontrare quell’uomo che il Battista aveva indicato. È accaduto un fatto che per la sua importanza ha assunto la natura di avvenimento. Da lì è iniziata una conoscenza nuova, si è introdotto un punto di vista inimmaginabile. Se ci pensiamo, è così anche per noi, sempre. Quando insorge lo stupore per qualcosa di bello o di nuovo, la nostra conoscenza è accresciuta da un fatto accaduto che ci ha colpito. Che la conoscenza sia sempre un avvenimento significa che sono implicati i fattori caratterizzanti l’umano: la ragione e la libertà che si incontrano con il dato reale. Dato - dono, non prodotto da me. La conoscenza non è un accumulo di informazioni ma il rifiorire della realtà davanti ad occhi che sanno cogliere il nuovo senza dimenticare la ricchezza del passato - perché la conoscenza è un tesoro da trattenere, da non disperdere. Nel fenomeno della conoscenza ci raggiunge un avvenimento: qualcosa che non abbiamo fatto noi che si impone svelando la corrispondenza a noi stessi. Un altro esempio. Se pensiamo alla recente Enciclica “Caritas in veritate” riconosciamo che essa è un avvenimento perché ha introdotto nella lettura della realtà umana, dell’economia e della politica un punto di vista originale. Conosciamo di più, dopo averla letta e ci sentiamo dentro un fatto storico reale che coincide con l’offerta che papa Benedetto XVI ha fatto al mondo. Svela così il profondo legame con l’esperienza il titolo del 30° Meeting per l’amicizia fra i popoli che si terrà a Rimini dal 23 al 29 agosto. “La conoscenza è sempre un avvenimento”: una settimana di incontri e testimonianze in cui, come con un paradigma, si potrà confrontarsi e giudicare la verità della portata culturale di quell’affermazione. Scoprire una dinamica della ragione e della libertà per rintracciarla poi nella normalità del vivere.


Senza Dio, non c'è né bene né male - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 luglio 2009

Se si prescinde da Dio, se Dio è assente manca la bussola del bene e del male

«Dio. Nella mia recente Enciclica ho tentato di mostrare la priorità di Dio sia nella vita personale che anche nella vita, nella storia e nella società del mondo. Certamente la relazione con Dio è una cosa profondamente personale, e la persona è un essere in relazione e se la relazione fondamentale, la relazione con Dio non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la forma giusta..
Ma questo vale anche per la società, per l’umanità come tale, anche qui se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente manca la bussola per mostrare l’insieme di tutte le relazioni, per trovare la strada, l’orientamento dove andare, (la conoscenza del bene e del male). Dobbiamo di nuovo portare in questo mondo la realtà di Dio, farlo conoscere (attraverso anche l’ala della ragione) e farlo presente (attraverso l’ala della fede)» [Benedetto XVI, Omelia dei Vesperi nella Cattedrale di Aosta, 24 luglio 2009].

L’errore più tragico della cultura attuale secolarizzata
Uno dei più fatidici e terribili errori della cultura postmoderna secolarizzata, attraverso anche il dramma attuale della frattura tra Vangelo e cultura, è il superamento del concetto di bene e di male. Non esistono più il bene e il male come realtà, come concetti oggettivi. Ci sono cose che sono convenienti e cose che non lo sono, ci sono cose che fanno male agli altri e cose che no, ma il bene e il male non esistono più. Questo è l’errore più tragico della nostra cultura atea cioè vivere come se la relazione con Dio non fosse necessaria non solo per i credenti ma per tutti, non solo a livello personale, ma sociale, pubblico. Quando tutto è neutro, quando nulla è in realtà davvero cattivo in se stesso, ci troviamo davanti ad un humus perfetto per la germinazione di qualsiasi aberrazione. Se tutto è relativo, perfino lo stesso concetto di aberrazione lo è. Dove non esiste più il bene né il male, non esiste più qualcosa che possa essere aberrante.

Esiste il male cioè la mancanza di un bene dovuto?
Il male e il bene non potrebbero essere concetti che dipendono da come li guardiamo? Non è possibile che si tratti di un aspetto completamente soggettivo? Ciò che consideriamo come bene o come male, non dipenderà da una questione puramente culturale? Ciò che qui è considerato come male, in altri schemi di valore potrebbe essere percepito come bene. Forse ciò che per noi è bene, è riprovevole per gli altri. Non è possibile che tutto sia neutro e, in definitiva, che sia la nostra mente ad essere stata educata dall’inizio a valutare tali concetti sotto un profilo o un altro? Forse sono i nostri genitori, i nonni ad insegnarci da piccoli cosa sia bene e cosa male continuando a ripeterci: Questo è male! Questo bene! Male, molto male, bene, molto bene!
La prima cosa da sapere come persone cioè individui essenzialmente in relazione con noi stessi e con gli altri, con il mondo circostante è che il bene e il male sono concetti oggettivi, perenni e universali; anche se a volte equivochiamo nei nostri giudizi su cosa sia in realtà buono e cosa invece cattivo. Ma il fatto che ci possiamo sbagliare e che, evidentemente, ci sbagliamo, non intacca affatto l’oggettività intrinseca dei due concetti. La malattia, l’omicidio, la mutilazione, l’odio, la miseria, la guerra, il dolore… sono mali, veri e propri mali. La lista potrebbe arrivare a centinaia e migliaia di altri aspetti. J.A. Fortea in Summa Demoniaca, da cui traggo queste argomentazioni che condivido in pieno, afferma che non potremmo mai stilare un elenco completo. Perfino i più entusiastici difensori del relativismo che affermano che il bene e il male è una categorizzazione soggettiva vedono vacillare le loro certezze di fronte a Auschwitz. Quando uno vede i filmati di quel periodo, tutte quelle baracche con dentro esseri umani, uno si rende conto che il male esiste al di là di qualsiasi condizionamento culturale, di qualsivoglia concezione filosofica, politica. Nel vedere quelle baracche uno si rende conto che le ragioni per le quali si arrivò a commettere quei crimini non hanno alcuna importanza, non importa che percentuale di persone, nelle retrovie, sosteneva queste azioni fossero pure maggioranza, non importa il fine per il quale tali scempi venivano giustificati: quello era male al di là di qualsiasi opinione, di qualsiasi considerazione.
Senza relazione viva e vissuta con Dio non potrebbe esistere il bene e il male come bussola per tutte le relazioni
Perché? Perché, per esempio, non avrebbe senso sacrificare la propria vita in onore della giustizia, se non esiste una giustizia vera dopo la fase terrena della vita. L’eroismo estremo fino a lasciarsi uccidere, consumare per amore sarebbe una insensatezza. Perdere l’unica vita che si ha a disposizione se non c’è nulla dopo, supporrebbe perdere tutto di fronte alla mera possibilità di un bene altrui relativo. Il mondo pertanto non sarebbe giusto. E se il mondo non è giusto, se la politica è una banda di ladri, che senso ha sacrificare tutto per un mondo che in se stesso, appunto, non è giusto? Se l’attrattiva dell’utilità terrena è criterio ultimo, senza un garante, un Giudice che garantisce una speranza affidabile, tutto diventa opinabile. Senza la novità della risurrezione per il singolo, per la famiglia umana, per tutto l’universo niente ha senso. Non è giusto che un ragazzo muoia a sedici anni soffrendo dolori terribili, e un altro muoia a ottanta godendo di ottima salute fino all’ultimo.. Non è giusto che uno viva nella miseria, e un altro nella maggior ricchezza possibile, nello sperpero. Se la fase terrena si deve spiegare per se stessa, se non c’è nient’altro che la fase temporale della vita tutto è ingiusto. E non varrebbe la pena sacrificare tutta l’esistenza, la vita, mettere al mondo dei figli per un mondo che non è buono, che è cattivo e ingiusto, pur avendo, certamente qualcosa di buono. Il sacrificio, l’autoimmolazione, sarebbe una sciocchezza. L’egoista sarebbe il saggio e il gaudente, colui che approfittasse al massimo della vita, sarebbe il più intelligente.
Questo già lo aveva capito San Paolo quando disse: Se Cristo non è risuscitato siamo i più stupidi degli uomini. Come si può vedere, perfino negli stessi elementi fondamentali del cristianesimo appare la certezza che la lotta fino all’immolazione per i più alti valori ha senso soltanto con una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino: e il Giudizio di Dio è luogo di apprendimento e di esercizio della speranza. Senza questa speranza affidabile, senza questo Giudizio di Dio, l’epicureo sarebbe il più intelligente di tutti noi. E il sanguinario, solo un altro personaggio della variegata fauna umana. Ma avrebbe senso fermare un uomo sanguinario se, per farlo, dovremmo mettere in pericolo la nostra vita? Avrebbe senso se il mondo intero non è altro che una giungla regolato dalle leggi della giungla? Voler cambiare queste leggi sarebbe un compito vano. Un mondo che prescinde da Dio, se Dio è assente manca la bussola per tutte le relazioni umane cioè è impossibile un’etica.

E’ possibile un’etica a prescindere da Dio, se Dio è assente nella vita personale, nella storia e nella società del mondo?
L’idea di costruire un’etica a partire dal concetto secondo il quale tutto ha fine in questo mondo, potrebbe sostenersi soltanto nella vaga idea che se uno fa del bene si sente bene con se stesso. Ma che succede se uno si sente bene essendo un perfetto egoista? Bisognerebbe convenire sul fatto che bene e male sono concetti relativi, soggetti a opinioni diverse.
Per questo il bene e il male possono essere oggettivi, perenni e universali soltanto se c’è un garante finale, se c’è una giustizia infinita e perfetta. In definitiva il bene e il male esistono solo se si giunge a conoscere Dio, a vederlo presente in questo mondo. Nella ricerca, originaria in ogni io del vero, del bene, si giunge a Dio e su questo cammino si scorgono le utili luci sorte lungo la storia della fede percependo così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro e quindi l’oggettività e l’intangibilità della bontà e dell’iniquità.
E’ chiaro che l’accettare il fatto che esistano un bene e un male oggettivi sono conseguenza della ricerca della verità cioè di Dio. E il pericolo del nostro mondo occidentale – per parlare solo di questo ma oggi la globalizzazione lo estende a tutto il mondo – è oggi che l’uomo si arrenda davanti alla questione della verità, si pieghi davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretto a riconoscerla come criterio ultimo, senza etica con le disastrose conseguenze che stiamo esperimentando anche a livello economico – finanziario mondiale. Questo è un altro dei nefasti frutti del postmodernismo secolarizzato, pensare che non esista più una verità, Dio, il Suo Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza affidabile. In un mondo che prescinde da Dio, dove Dio è assente non è possibile un’etica universale, ma solo migliaia e migliaia di opinioni. L’unico garante della verità è la realtà di Dio, conosciuto e presente, vicino. L’evangelizzazione ci fa esperimentare un Dio vicino, che si fa conoscere, che mostra il suo volto, si rivela possedendo un volto umano e rivelando anche chi è ogni uomo, da dove viene e a che cosa è destinato. Egli Dio è il custode della nostra libertà, dell’amore, della verità, una presenza che non ci abbandona mai e ci dona la certezza che è bene essere, è bene vivere. E’ l’occhio dell’amore che ci dà con certezza che cosa è bene e che cosa è male e quindi l’etica, la libertà del bene.


29/07/2009 10:32 – VIETNAM - Minacce di morte ai cattolici di Dong Hoi mentre la polizia arresta un fedele - di J.B. An Dang - Il cattolico arrestato usava la sua casa per raduni religiosi. Il governo di Quang Binh vuole eliminare i cattolici dal suo territorio.
Hanoi (AsiaNews) – Un cattolico di Dong Hoi è stato arrestato ieri dalla polizia mentre gruppi di teppisti – alle dipendenze delle forze dell’ordine – gridavano minacce di morte contro i fedeli. La città di Dong Hoi si trova a circa 500 km a sud di Hanoi e secondo i fedeli il governo locale (che si trova a Quang Binh) ha dichiarato la zona “senza cattolici”, anche se ci vivono almeno tremila fedeli.

P. Vo Thanh Tam, segretario del collegio presbiterale della diocesi di Vinh (a cui appartiene Dong Hoi) ha confermato che diversi cattolici sono stati arrestati nei giorni scorsi e che ieri “il sig. Nguyen Cong Ly è stato arrestato. La sua casa è spesso usata dai fedeli per servizi liturgici”. Nella zona infatti non vi sono chiese e l’unica è quella di Tam Toa, in rovine, che il governo vuole usare come “memoriale” della guerra contro gli Usa. Altre fonti dicono che la zona sta per essere usata per costruire un villaggio turistico (v. AsiaNews 21/07/09 - Percosse e arresti per sacerdoti e fedeli nella storica chiesa di Tam Toa).

Secondo testimoni, la polizia e gruppi di teppisti girano per le strade e picchiano coloro che hanno simboli religiosi cattolici.

Nelle scorse settimane un gruppo di fedeli ha cercato di riparare le rovine di Tam Toa, ma sono stati fermati dalla polizia, picchiati in modo selvaggio e arrestati. Per chiedere la loro liberazione nella diocesi di Vinh, a Saigon (Ho Chi Minh City), ad Hanoi e in altre città sono avvenute imponenti manifestazioni di cattolici.

Subito dopo l’incidente di Tam Toa, centinaia di famiglie di fedeli sono fuggiti da Dong Hoi, per trovare rifugio a Ha Tinh e Nghe An (anch’esse nella diocesi di Vinh).

Intanto gli oltre 600 media statali hanno cominciato una campagna di disinformazione contro i cattolici di Tam Toa, chiedendo la loro condanna e aizzando all’odio verso i cattolici.


Pascal e il divertissement - Pigi Colognesi giovedì 30 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Lascio la parola, in questo inizio del periodo di ferie, a Blaise Pascal. Scrive nei Pensieri: «Tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza. Un uomo che abbia mezzi sufficienti per vivere, se sapesse stare con piacere a casa propria, non ne uscirebbe per andare sul mare. E non si cercano le conversazioni e lo svago dei giochi per altro, che perché non si riesce a restare a casa propria con piacere». Ma il grande filosofo e matematico non si ferma qui: «Considerando la cosa più da vicino e volendo, dopo trovata la causa di tutti i nostri malanni, scoprirne anche le ragioni, ho trovato che ve n’è una realissima, consistente nell’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale e tanto misera che nulla ci può consolare allorquando la consideriamo da vicino».



Poco prima aveva detto: «Gli uomini, non avendo potuto sanare la morte, la miseria, l’ignoranza, per rendersi felici hanno escogitato di non pensaci». È la grande intuizione pascaliana del divertissement. Che non è lo svago sano e rigenerante, ma quel togliere l’attenzione dalla direzione giusta (di-vertere) che si potrebbe adeguatamente tradurre con: distrazione. Per spiegarsi Pascal si immagina un re, cioè il massimo di successo e di condizioni favorevoli che allora si potesse desiderare. Egli è tuttavia assalito da preoccupazioni «per cui, senza ciò che si chiama distrazione, eccolo infelice, e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi». Perciò è «attorniato da gente che non pensa ad altro che a distrarlo e a impedirgli di pesare a se stesso»; come nel grande sforzo del divertimento organizzato.



«Gli uomini amano tanto il chiasso e il trambusto» e «il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile». Distrarsi: «questo è tutto ciò che hanno saputo inventare per rendersi felici». È una dinamica che riguarda tutta l’esistenza: «Gli uomini suppongono che, ottenuta quella carica, godranno poi di una piacevole quiete; e non percepiscono la natura insaziabile della loro cupidigia. Credono di cercare sinceramente la quiete, mentre in realtà cercano soltanto l’agitazione. Un segreto istinto, riflesso della percezione delle loro continue miserie, li spinge a cercare lo svago e l’occupazione fuori di loro; mentre un altro istinto segreto, residuo della grandezza della nostra natura primitiva, fa conoscere loro che la felicità vera non si trova che nella quiete, non nel trambusto. Da questi due istinti opposti si forma in essi un progetto confuso, nascosto alla loro vista nel fondo dell’anima, che li spinge a cercare la quiete mediante l’agitazione e a immaginare sempre che la soddisfazione che loro manca, arriverà se, superando qualche difficoltà che pur prevedono, potranno aprirsi per questa via la porta della quiete. Così scorre tutta la vita».



Qualche pagina dopo: «Cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui ora gli restano soltanto il segno e la traccia del tutto vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti quanto non ottiene dalle presenti? Aiuto di cui sono tutte incapaci, perché questo abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito».


LETTURE/ Saviano scopre “la bellezza e l’inferno” di Anatole France: solo banalità contro Dio - Laura Cioni giovedì 30 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Anatole France, nato a Parigi nel 1844 e morto nel 1924, ebbe formazione classicista e nella libreria paterna, specializzata in opere sulla Rivoluzione Francese, ebbe modo di conoscere studiosi che ne orientarono le letture in direzione scettica. Il successo letterario gli arrise solo a cominciare dal 1890 e anche grazie alle sue frequentazioni politiche venne considerato nel suo paese come una autorità morale e letteraria. Già nell’immediato dopoguerra la sua fortuna diminuì, nonostante il premio Nobel assegnatogli nel 1921. Dopo la sua morte fu ampiamente discusso e poi dimenticato come incarnazione di quel disincanto inviso all’inquietudine tipica del Novecento.

Recentemente è stato ripubblicato per i tipi di Meridiano Zero a cura di Roberto Saviano il suo libro La rivolta degli angeli, scritto nel 1914, concentrato di estetismo, di razionalismo, di ateismo.

Il racconto si aggira attorno a una biblioteca in cui avvengono strane sparizioni e che diventa luogo del conflitto tra il grigiore della conservazione e la rivolta contro Dio ad opera di angeli divenuti demoni. Illeggibile, farcito di citazioni per lo più ignote al lettore comune, che vanno dall’epicureismo di Gassendi, a fonti gnostiche e medievali difficilmente reperibili nella loro autenticità. Non è, come altri dicono, divertente, anzi annoia, forse perché l’elogio del dubbio, il relativismo della conoscenza, lo spregio del passato sono ormai come l’aria inquinata che respiriamo. Il ricorso a un’immagine di Dio invidioso della felicità degli uomini e dunque fonte di costrizione è comprensibile in un razionalista del primo Novecento.

Ma oggi non basta. Tutti, che lo si ammetta o no, abbiamo bisogno di un nutrimento più solido e più convincente. Non devoto, non ironico, ma sofferto e semplice. Per chi conosce anche solo per sommi capi la storia di Agostino di Ippona, scrittore e filosofo tra i più grandi della storia, conosce la sua distinzione tra civitas Dei e civitas diaboli, le quali sono intrecciate in ogni gruppo sociale, compresa la Chiesa, e la questione del male ha come fulcro la libertà dell’uomo, quello che ama Dio fino alla dimenticanza di sé e quello che ama sé fino alla dimenticanza di Dio.

Può incuriosire la firma del curatore, l’autore di Gomorra, l’eroe del momento. La sua prefazione è di una irritante banalità. «In questo romanzo France discute sul merito di Dio, sulla giustezza del suo agire, sulla fallacia delle sue decisioni, sulla brutalità della vita così com’è stata organizzata. Perché la morte, la malattia , il dolore? Perché la fragilità del corpo, la necessità del lavoro, il dolore del parto? Non più quindi il cercare, religiosamente, i motivi del dolore, il senso della sofferenza per trovarne consolazione, non più comprendere le volontà divine per ossequiarle. L’ateismo diviene così una militante battaglia contro il potere divino, una razionale e appassionata rivolta contro le menzogne che Dio impone agli uomini come verità».

Se, come sembra, Saviano fa proprie le tesi del libro, meglio quando si limita a parlare della camorra.

mercoledì 29 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)SEDICI ANNI , DISABILE TOTALE , HA LASCIATO UN SEGNO FORTE - La piccola grande storia di Andrea: «Benedetta la mia nascita...» - Avvenire, 29 luglio 2009
2)Il Movimento per la Vita chiede all’AIFA di bloccare la Ru486 - Lettera di Carlo Casini all’Agenzia del farmaco - di Antonio Gaspari
3)“Caritas in veritate” nell’attuale dibattito filosofico-sociale - Intervista al filosofo Rodrigo Guerra López - di Jaime Septién
4)Dietro una citazione del cardinale Bertone - Il capitalismo di Gordon Gekko - di Emilio Ranzato – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009
5)Nel nord del Paese riprendono gli attacchi di matrice fondamentalista islamica - Una chiesa data alle fiamme nei nuovi scontri in Nigeria – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009
6)Dopo la serie di atti vandalici ai danni di alcune chiese a Barcellona - Dal cardinale Martínez Sistach un appello alla libertà religiosa – L'Osservatore Romano, 29 Luglio 2009
7)Obama e l'America in bianco e nero - Lorenzo Albacete mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)SOCIETA’/ Dagli Usa la SuperMamma che mette in scacco i laicisti benpensanti - Carlo Bellieni mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
9)LETTERATURA/ Cercare la bellezza e trovare la verità, il ritratto di Oscar Wilde - INT. Paolo Gulisano mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
10)GATES, SCHMIDT E IL TEMPO RISUCCHIATO IN RETE - Quando l’accesso diventa eccesso - GIUSEPPE O LONGO – Avvenire, 29 luglio 2009
11)«Così Giussani ci guidava alla scoperta del Mistero Quelle vacanze erano un anticipo di paradiso» - Guido Castelli (Università Cattolica): la montagna aiuta a scoprire la bellezza come qualcosa di gratuito «Quel panorama sul Diavolezza che mi lasciò senza parole» - Avvenire, 29 luglio 2009
12)Scienza atea, una illusione - INTERVISTA. Roberto Timossi ha condotto una vasta decostruzione delle teorie scientifiche che negano Dio, da Dawkins a Odifreddi - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 29 luglio 2009


SEDICI ANNI , DISABILE TOTALE , HA LASCIATO UN SEGNO FORTE - La piccola grande storia di Andrea: «Benedetta la mia nascita...» - Avvenire, 29 luglio 2009
Caro Direttore, Andrea Gentili era uno splendido sedicenne di Forlì, nato con una disabilità del 100%. Una disabilità tanto vasta da impedirgli anche i movimenti più semplici, il vedere e il parlare. Andrea era una roccia. Fragilissimo il suo corpo, inscalfibile il suo animo. Sedici anni vissuti intensamente insieme alla sua meravigliosa famiglia, con i suoi affezionatissimi tre fratelli. Andrea si è spento lo scorso 13 luglio.
Grazie alla comunicazione facilitata con un computer, l’unico sistema tramite il quale Andrea poteva esprimersi, scriveva: «Io penso: chiunque mi sta a chiedere come mi sento, io, difettoso nel corpo ma non nella mente e nel cuore, io rispondo: chi può dirlo fra noi chi è più felice?».
In quante circostanze ci si arrovella a discettare sul concetto di 'qualità della vita' e di efficienza, e materialisticamente obliamo come queste categorie non sono altro che gabbie mentali, che vincolano e stritolano le vere esigenze del cuore di ciascuno che trascendono qualsiasi male fisico o handicap insanabile: la gioia di amare ed essere amato, incondizionatamente, anche e soprattutto se diabile, deforme nell’aspetto, impedito a ogni movimento. La disabilità, per 'violenta' che possa essere, non è mai la 'risposta' che nega senso alla vita di un uomo.
Scriveva Andrea: «Decisamente benedetta la mia nascita. Non un giorno solo ho pensato che sarebbe stato meglio non essere nato...
Preferisco dire che la benedetta mia nascita ha portato tanta sofferenza in me e anche per i miei, anche se io ho chiesto a Dio di essere sempre un tocco di speciale dono per chi ama. Grato sono alla vita e voglio che si sappia.
Lotta, sì, ma con mèta il cielo e la nostra grande anima da coltivare». E che Andrea sia stato un dono non è in discussione. Sedici anni «mai sentiti come un peso», come dice mamma Gabriella. «Mi sono sentita uno strumento per lui, attraverso il quale è passato Dio senza che ne avessi la piena consapevolezza».
La storia di Andrea Gentili non è passata e non passerà forse mai sotto le luci della ribalta mediatica, come accaduto con studiato clamore in altri casi, ma sono questi gli esempi di amore cristiano, di caritas allo stato più puro e di misericordia che riempiono il cuore. La mentalità eutanasica, che minaccia nel nostro tempo l’indisponibilità e la sacralità della vita, deve arrendersi dinanzi al traboccare potente di questo amore. Niente può sminuirlo e avvilirlo, proprio come nulla ha mai svilito la vita «da protagonista, senza alcuna pretesa», come ricorda un amico, di Andrea.
Roccia e vero testimone di Cristo, in mezzo a noi.
Matteo Saccone, Forlì


Il Movimento per la Vita chiede all’AIFA di bloccare la Ru486 - Lettera di Carlo Casini all’Agenzia del farmaco - di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 28 luglio 2009 (ZENIT.org).- Questo martedì, il Presidente del Movimento per la Vita (MpV), Carlo Casini, ha scritto e inviato una lettera all’Agenzia del Farmaco (AIFA) per chiedere il ritiro in “via cautelativa” della pillola abortiva Ru486.

Nella lettera il Presidente del MpV sottolinea che sarebbero 29 “le donne decedute a seguito dell’assunzione della Ru486”, una cifra che “suscita un allarme ancor più intenso” rispetto al dato finora accertato di 16 donne decedute.

Inoltre Carlo Casini riporta i pareri dei presidenti di sei federazioni regionali del Movimento per la Vita (Piemonte, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Puglia) insieme a quelli forniti dalle Amministrazioni regionali, secondo cui le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) effettuate mediante la Ru486 a titolo sperimentale “hanno determinato la necessità frequente di un intervento chirurgico di svuotamento uterino”.

Il Presidente del MpV riporta di testimonianze di donne che, “sottoposte a Ivg chimica, hanno avuto problemi di sofferenza psicologica per effetto di un aborto realizzatosi con una certa durata temporale e con la possibilità per la madre di vedere il prodotto del concepimento”.

“Pertanto – sottolinea Carlo Casini – chiediamo all’AIFA di volerci fornire urgentemente chiarimenti del caso”.

E’ noto infatti che più volte l’Agenzia Italiana del Farmaco ha disposto il ritiro in via cautelativa dal commercio di prodotti sanitari a seguito di riscontrate complicazioni, talvolta modeste, rare o, addirittura, soltanto temute.

“Ricordo, in particolare - ha rilevato Casini - tra i casi più recenti a me noti, quelli del vaccino anti-morbillo-parotide-rosolia MORUPAR e quello del medicinale indicato come sedativo della tosse SILOMAT”.


“Caritas in veritate” nell’attuale dibattito filosofico-sociale - Intervista al filosofo Rodrigo Guerra López - di Jaime Septién
QUERÉTARO, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).- L’enciclica sociale di Benedetto XVI “Caritas in veritate” supera gli ambiti del sapere quali la politica, l’economia o le teorie sulla globalizzazione, per entrare pienamente nel dibattito filosofico-sociale contemporaneo, spiega un filosofo.

Per approfondire queste intuizioni contenute nel nuovo documento pontificio, ZENIT ha intervistato Rodrigo Guerra López, laureato in filosofia presso l’Accademia Internazionale del Principato del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia per la vita, e direttore del Centro de Investigación Social Avanzada (www.cisav.org).

Tra i suoi libri figurano “Volver a la persona” (Madrid 2002); “Católicos y políticos: una identidad en tensión” (Bogotá 2005) e “Como un gran movimiento” (México 2006). Recentemente è stato pubblicato il libro “Vida humana y aborto” (México 2009) di cui è coautore.

Come si colloca l’enciclica “Cartas in veritate” nel dibattito filosofico-sociale contemporaneo?

Rodrigo Guerra: La nuova enciclica del Papa non si propone di competere al pari delle analisi sociologiche sullo sviluppo nel contesto del mondo globalizzato. “Caritas in veritate” si inserisce invece nella discussione, sulla base della Dottrina sociale della Chiesa. Questo significa che la sapienza pratica nata dall’incontro con Cristo permette di formulare un giudizio sulle condizioni che rendono possibile lo sviluppo e sulle disfunzioni che l’attuale globalizzazione presenta.

Ampliando un poco i concetti, potremmo dire che Papa Benedetto XVI offre una “teoria critica della società”, ovvero una revisione di alcuni dei più importanti presupposti che sottendono l’attuale configurazione del mondo globale. A differenza delle altre “teorie critiche”, Benedetto XVI non colloca il nucleo della questione nella capacità dell’essere umano di auto-redimersi e di auto-emanciparsi.

Al contrario, la dimensione costitutiva del criterio di giudizio utilizzato dal Papa è dato da una precisa antropologia in cui ogni sostanza del “io” si riconosce come dono, come regalo, e pertanto come apertura relazionale verso il Fondamento, verso Dio che sostiene e che libera. In questo modo, Benedetto XVI insiste sul fatto che “l’uomo non si sviluppa con le sole proprie forze” (n. 11), ma ha bisogno di un orizzonte più ampio di quello a cui può accedere da solo. Un orizzonte in cui c’è Cristo, ovvero l’Avvenimento che ci precede.

Che rapporto c’è tra l’enciclica “Caritas in veritate” e il resto del Magistero di Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: “Caritas in veritate” poggia proprio sul riconoscimento del Cristianesimo come “Avvenimento” e per questo possiede un legame strutturale con “Deus caritas est”, con “Spe salvi” e in generale con la già millenaria tradizione ecclesiale che riconosce l’assoluta novità dell’irruzione e permanenza di Cristo nella storia. In questo modo, la nuova enciclica fa continuamente riferimento all’importanza del “dilatare l’orizzonte della ragione”, perché senza riduzionismi possiamo aprirci alla verità in generale e quindi anche alla Verità incarnata.

In questo senso, “Caritas in veritate” non è un documento secondario nell’insegnamento del Papa, ma è il completamento di un cammino avviato con il discorso di Ratisbona e che è proseguito nei suoi molteplici interventi sulla necessità di stabilire un nuovo rapporto tra fede e ragione. Questo cammino è lungi dall’essere di natura meramente teorica, ma è portatore proprio di una grande novità e pertinenza esistenziale e sociale, dovuto al fatto che si fonda sul carattere “performativo” che il Cristianesimo possiede: il Cristianesimo è un fatto che incide nella vita e che promuove realmente lo sviluppo nella dignità. Per questo il Papa coraggiosamente segnala al numero quattro dell’enciclica che “l’annuncio di Cristo è indispensabile per un vero sviluppo umano”.

L’enciclica "Caritas in veritate" scommette sul riorientamento della globalizzazione perché serva concretamente allo sviluppo delle persone e dei popoli: questo è effettivamente possibile?

Rodrigo Guerra: La storia recente ha dimostrato che non è possibile pensare di costruire l’ordine nazionale e internazionale sulla base di premesse puramente strumentali relative allo Stato e al mercato. La globalizzazione, così come è oggi definita, divora i propri creatori.

Per questo è razionale e ragionevole pensare che la via per correggere il cammino della globalizzazione consista nell’introduzione di una logica diversa da quella fondata sulle leggi della domanda e dell’offerta. Questa nuova razionalità ha come elemento essenziale la gratuità, la responsabilità sociale, l’equa redistribuzione della ricchezza, la capacità di creare nuove forme di impresa.

Oggi esistono esperienze importanti in materia di commercio equo, microfinanza, economica solidale e di comunione, che dimostrano che questo cammino non solo è possibile ma è necessario. La globalizzazione non modificherà il suo profilo se non attraverso persone concrete che siano capaci di rimodellarla. Per questo è necessario un nuovo pensiero economico e una nuova capacità di incidere a livello locale, nazionale e globale.

L’autonomia dell’economia non è rimessa in discussione alla luce del pensiero di Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: Giustamente, le economie che oggi stanno fallendo, hanno difficoltà ad ammettere al loro interno orientamenti di natura morale. Questo è un errore epistemologico importante: l’economia ha la libertà come dimensione costitutiva della propria natura. Per questo, un’economica autenticamente umana e autenticamente autonoma non può che essere essenzialmente etica. È assurdo che una teoria del valore nell’economia prescinda dall’esistenza di valori morali!

I diversi tipi di valore sussistono nell’esperienza e possono essere riconosciuti dalla ragione pratica, che è il tipo di ragione prevalente nell’attività economica. Per questo Benedetto XVI recupera una potente intuizione di Giovanni Paolo II: ogni decisione di investimento, di produzione o di consumo possiede una ineludibile dimensione morale. Subordinare o cancellare questa dimensione, da un lato attenta alla dignità della persona – che è la principale ricchezza di un’impresa e di una nazione – e dall’altro attenta contro la stessa economia in quanto tale.

Che importanza ha lo Stato e l’azione politica alla luce della nuova enciclica?

Rodrigo Guerra: Il Papa esplicitamente si dice preoccupato degli elementi che caratterizzano lo Stato come uno “Stato sociale”. In questo senso avverte che una riduzione irresponsabile delle competenze dello Stato può condurre a una violazione dei diritti dei lavoratori. Questo tipo di considerazioni ci mostrano che la comprensione cattolica della politica non si identifica univocamente con lo Stato liberale né con la mera presenza di certe élites cristiane nei luoghi di potere.

L’azione politica deve recuperare un senso sociale che mai avrebbe dovuto perdere. “Senso sociale” non significa solo “politiche sociali” più profonde e solidali, ma significa portare nel cuore una decisa opzione preferenziale per i poveri e gli emarginati. Per questo, una vera collaborazione nell’organizzazione e gestione del bene comune si misura più in termini di sviluppo che di successo elettorale, più in termini di servizio ai più deboli che di attivismo.

Quali sono le cause profonde del sottoviluppo, secondo Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: Il Papa, al numero 19 di “Caritas in veritate”, dice che le cause del sottosviluppo sono essenzialmente due: la mancanza di fraternità e la mancanza di pensiero. D’altra parte “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. Finché non si comprende che la carità, il perdono e la riconciliazione sono metodi dell’azione politica ed economica, non si riuscirà a progredire come persone e come società. In questo senso, il Papa constata l’assenza di autentici pensatori capaci di generare un nuovo umanesimo sociale e politico. Senza un pensiero rigoroso, capace di concentrarsi sulle cose, l’azione politica ed economica rimane senza senso, senza direzione, come puro attivismo che non trascende gli interessi meschini della ricerca del potere per il potere.

Il Papa insiste sulla necessità di una nuova autorità mondiale. Non è un qualcosa di molto pericoloso? Non si rischia di cadere in un nuovo totalitarismo su scala planetaria?

Rodrigo Guerra: La Chiesa è pienamente consapevole dei rischi insiti in un nuovo ordine politico, economico e giuridico per il mondo globalizzato. Tuttavia, non è possibile assicurare governabilità alla globalizzazione se non si iniziano a costruire le basi per una nuova civilizzazione, per una nuova Res publica mondiale, che non deve essere un super-Stato totalitario, ma un nuovo modo di costruire relazioni internazionali, sulla base di una “grammatica dell’azione” – come diceva Wojtyla – ovvero sulla base di un nuovo “diritto delle genti” di natura giuspersonalistica.

Chi è chiamato a mettere in pratica l’insegnamento dell’enciclica “Caritas in veritate”?

Rodrigo Guerra: La “Caritas in veritate” è destinata a tutti i cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà. D’altra parte, come ogni insegnamento corre un rischio: quello della riduzione del suo contenuto ad indicazioni meramente formali o astratte. È facile eludere la responsabilità personale e istituzionale, e pensare che l’insegnamento del Papa è “mera ispirazione” o che sia destinato “agli altri”, ma non a “noi”.

Per questo mi permetto di segnalare qualcosa che non finisce di stupirmi: i vescovi latinoamericani, nel documento di “Aparecida” hanno affrontato praticamente tutti i temi essenziali dell’enciclica, in un modo provvidenzialmente anticipatorio. Seguendo l’insegnamento del Papa, hanno inoltre riconosciuto con grande forza che il Cristianesimo è Avvenimento, scuola di discepolato e esperienza di comunione.

In altre parole, perché l’enciclica possa essere messa in atto, prima ancora di un “piano strategico” abbiamo bisogno di recuperare le fondamenta del metodo cristiano. Solo così potremo mostrare che la fede genera movimento, creatività e impegno solidale. Solo così torneremo a far vedere che il “soggetto” della Dottrina sociale della Chiesa esiste e, in quanto esiste, agisce.


Dietro una citazione del cardinale Bertone - Il capitalismo di Gordon Gekko - di Emilio Ranzato – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009

Greed is good, greed works: "l'avidità è buona, l'avidità funziona". Sono parole di Gordon Gekko, il personaggio intepretato da Michael Douglas - e che fruttò all'attore anche un premio Oscar - nel film Wall Street (1987). Come già avvenuto per Platoon, il regista Oliver Stone mette in scena una storia che in qualche modo lo riguarda, essendo stato suo padre un broker finanziario di un certo successo. E come nel suo film sul Vietnam la denuncia per la perdita di giovani vite lascia spesso il posto a barlumi di eroismo e patriottismo, anche qui l'accusa al capitalismo non è generalizzata, ma indirizzata a situazioni e personaggi ben circoscritti.
La distinzione tra bad e good capitalism, del resto, attraversa tutta la storia del cinema americano (non è un caso che Douglas nella sua frase più celebre citi involontariamente uno dei primi capolavori di Hollywood, Greed di Erich von Stroheim): al senso di meraviglia e di paura nei confronti delle metropoli, tipica della sensibilità anni Venti - perfettamente sintetizzata da film come La folla di King Vidor - fa seguito il cinema del dopo crack finanziario, permeato dagli stati d'animo contrastanti dell'aspra critica nei contronti di un sistema economico che ha perso di vista le sue finalità umanistiche, e della voglia di rinascita ispirata ai valori di solidarietà roosveltiana.
Un dissidio che sul grande schermo vede in Frank Capra il suo cantore per eccellenza: da La follia della metropoli a È arrivata la felicità, a L'eterna illusione, il regista d'origini italiane e il suo fedele sceneggiatore Robert Riskin cercano di dimostrare, in forma drammaturgica, come sia possibile conciliare libero mercato e attenzione per i più deboli.
Nel solco di questa tradizione, il film di Stone non organizza un attacco frontale all'iniziativa individualista - allo spietato squalo agente di borsa, in fondo, contrappone un pesce piccolo che poi tanto piccolo non è, essendo a capo di una compagnia aerea - ma se nei primi anni Trenta criticare il sistema economico dei grandi banchieri era come sparare sulla Croce Rossa, nel 1987 la cosa non era altrettanto scontata.
Al di là di meriti strettamente cinematografici non eccelsi, è proprio questa capacità di cogliere l'attimo - che tra l'altro gli permise di anticipare di pochi mesi un altro crollo della Borsa di New York - a fare di Wall Street una sorta di instant-movie, la cui importanza non può che risultare scemata nel passaggio oltreoceano, ma che rivisto oggi dice ancora qualcosa di vero e di preoccupante sul mondo finanziario internazionale del passato prossimo.

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Nel nord del Paese riprendono gli attacchi di matrice fondamentalista islamica - Una chiesa data alle fiamme nei nuovi scontri in Nigeria – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009

Bauchi, 28. Anche una chiesa è stata data alle fiamme nei disordini di matrice fondamentalista islamica riesplosa nelle ultime ore nel nord della Nigeria. A meno di otto mesi dalle violenze che provocarono centinaia di morti a Jos, sono almeno altre centocinquanta le vittime registrate tra sabato e ieri negli Stati settentrionali nigeriani di Yono, Kano, Bauchi e Borno. In quest'ultimo è stata appunto incendiata una chiesa a Gamboru-Ngala.
Le tensioni non hanno abbandonato dunque il nord della Nigeria. Riportiamo di seguito un elenco in ordine cronologico dei principali episodi di violenza religiosa ed etnica in Nigeria, Paese costituito da almeno duecento gruppi etnici e diviso circa a metà tra musulmani e cristiani.
Nel 2000 migliaia di persone sono state uccise nel nord della Nigeria quando non musulmani, contrari all'introduzione della legge della sharia islamica, combattevano contro i musulmani che ne chiedono l'applicazione nello Stato settentrionale di Kaduna.
Nel settembre 2001, la violenza divampò dopo le preghiere dei musulmani a Jos. Vennero incendiate chiese e moschee. Secondo la relazione presentata nel 2002 da una commissione istituita dal Governo dello Stato di Plateau, negli scontri rimasero uccise almeno 915 persone.
Nel novembre 2002 almeno 215 persone morirono nei disordini scoppiati nella città settentrionale di Kaduna in seguito a un articolo che scherniva il profeta Maometto.
Nel maggio 2004 centinaia di persone, per la maggior parte Fulani musulmani, furono uccisi dalla milizia Tarok nella città di Yelwa, nella Nigeria centrale. I sopravvissuti raccontarono di aver seppellito 630 cadaveri. La polizia parlò di "centinaia di persone" uccise.
Più tardi, in questo stesso mese, alcuni militanti musulmani e cristiani si confrontarono in maniera cruenta nelle strade della città settentrionale di Kano. I leader della comunità cristiana affermarono che vennero uccise circa seicento persone, per la maggior parte cristiani, nei due giorni di sommosse da parte dei musulmani.
Nel febbraio 2006 ci furono 157 morti in una settimana di sommosse. Le violenze iniziarono nella città nord-orientale di Maiduguri, quando la protesta musulmana contro alcune vignette satiriche sul profeta Maometto sfuggì di mano. Seguirono al sud diversi attacchi per vendetta.
Nel novembre 2008 scontri tra bande scatenate da una contestata elezione alla presidenza del Governo locale, provocarono la morte di almeno 400 persone nella città centrale di Jos. In quella circostanza alcune chiese e moschee vennero date alla fiamme.
Il 22 febbraio 2009, un giorno dopo gli scontri nei quali rimasero uccise 11 persone, il governatore dello Stato di Bauchi impose il coprifuoco notturno alla città. Negli scontri almeno 28 persone rimasero gravemente ferite e molte abitazioni , chiese e moschee vennero date alle fiamme.
Nel luglio 2009 Boko haram, che significa "educazione illegale", dopo l'arresto di alcuni suoi membri, perpetrò degli attacchi nella città nord-orientale di Bauchi. Vennero uccise oltre cinquanta persone e compiuti più di 100 arresti, il che spinse il governatore dello Stato di Bauchi a imporre il coprifuoco notturno nella capitale della regione. Boko haram, che si oppone all'educazione occidentale ed esige che venga adottata la sharia in tutta la Nigeria, minacciò di compiere ulteriori attacchi contro le forze di sicurezza.
Nel febbraio di quest'anno Benedetto XVI aveva ricevuto i presuli della Conferenza episcopale della Nigeria in visita ad limina.
"L'immagine meravigliosa - sono parole del Papa - della Gerusalemme Celeste, la riunione di innumerevoli uomini e donne di ogni tribù, lingua, popolo e nazione redenti dal Sangue di Cristo, vi incoraggi ad affrontare la sfida del conflitto etnico laddove è presente, anche in seno alla Chiesa! Esprimo il mio apprezzamento per quanti di voi hanno accettato una missione pastorale al di fuori dei confini del proprio gruppo linguistico o regionale e ringrazio i sacerdoti e le persone che vi hanno accolto e sostenuto. La vostra disponibilità ad adattarvi agli altri è un segno eloquente del fatto che, quale nuova famiglia di tutti coloro che credono in Cristo nella Chiesa non c'è posto per alcun tipo di divisione".
Benedetto XVI sottolineò l'importante servizio reso alla Nazione dai presuli nigeriani: "Avete mostrato - disse - impegno nel dialogo fra le religioni, in particolare con l'islam. Con pazienza e perseveranza si instaurano forti rapporti di rispetto, amicizia e cooperazione concreta con i membri di altre religioni. Grazie ai vostri sforzi di promotori di buona volontà intelligenti e instancabili, la Chiesa diverrà un segno e uno strumento più chiari di comunione con Dio e dell' unità con l'intera razza umana".
Il Papa rivolse altresì parole di apprezzamento per l'impegno dei vescovi nigeriani a trarre dai principi cattolici analisi illuminanti e anche prassi per tentare di risolvere gli attuali, difficili problemi nazionali.
"La legge naturale - sottolineò - inscritta dal Creatore nel cuore di ogni essere umano e il Vangelo, correttamente compreso e applicato alle realtà politiche e civili, non riducono in alcun modo la gamma di valide opzioni politiche. Al contrario, costituiscono una garanzia per tutti i cittadini di una vita di libertà, con rispetto per la loro dignità di persone e tutela dalla manipolazione ideologica e dall'abuso basati sulla legge del più forte".
"Con fiducia nel Signore, continuate - sono queste le parole conclusive del discorso del Papa ai vescovi nigeriani - a esercitare la vostra autorità episcopale nella lotta contro la corruzione e le pratiche ingiuste e contro tutte le cause e le forme di discriminazione e di criminalità, in particolare il trattamento degradante delle donne e il deplorevole fenomeno dei rapimenti. Promuovendo la dottrina sociale cattolica offrite un contributo leale al vostro Paese e promuovete il consolidamento di un ordine nazionale basato sulla solidarietà e su una cultura dei diritti umani".
Intanto il presidente della Conferenza episcopale tedesca (Dbk), monsignor Robert Zollitsch, arcivescovo di Freiburg im Breisgau, sarà in Nigeria dal 26 agosto al 5 settembre per "rafforzare l'impegno nell'ambito della Chiesa universale e per sostenere la Chiesa locale".
Nel comunicato diffuso dai vescovi tedeschi sono stati annunciati i colloqui con rappresentanti della Chiesa nigeriana, politici e rappresentanti di altre religioni, in cui verranno discusse le sfide che la Chiesa deve affrontare a causa del crescente fondamentalismo religioso, per superare l'ingiustizia sociale e valutare l'impegno della Chiesa per la pace. I vescovi tedeschi vogliono cogliere l'occasione per approfondire le buone relazioni con la Chiesa nigeriana e sostenere l'impegno ecclesiale per la costruzione di una società senza violenza. L'ultimo presidente della Conferenza episcopale tedesca a visitare l'Africa, nel 1995, fu il cardinale Karl Lehmann.

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Dopo la serie di atti vandalici ai danni di alcune chiese a Barcellona - Dal cardinale Martínez Sistach un appello alla libertà religiosa – L'Osservatore Romano, 29 Luglio 2009

Barcellona, 28. Una ventina di chiese barcellonesi si sono ritrovate domenica scorsa con pitture offensive sulle facciate; in alcuni casi catene e lucchetti ostacolavano l'apertura delle loro porte. Il fine del gruppo autodenominato "La Gallinaire", di tendenza anarchica, era di evitare la celebrazione del culto domenicale. "Ma non è stata impedita la celebrazione di alcuna messa", ha confermato a "L'Osservatore Romano" il cardinale Lluís Martínez Sistach, arcivescovo di Barcellona. Deplorando profondamente l'accaduto, l'arcidiocesi catalana ha emesso un comunicato sottolineando che "quello alla libertà religiosa e di culto dei cittadini è un diritto fondamentale riconosciuto nella Costituzione spagnola e che il rispetto e la difesa dell'esercizio di tale diritto sono un elemento integrante di una società autenticamente democratica".
Questo tipo di attacchi, comunque isolati, non è esclusivo di Barcellona. "Purtroppo questi fatti accadono un po' ovunque. E di recente si sono verificati anche in qualche altra diocesi spagnola", ha spiegato il porporato. Ha poi affermato che "non conviene dare risalto a simili fatti". Sono invece necessari una maggiore tutela del diritto alla libertà religiosa e anche un rafforzamento dell'educazione a questo valore fondamentale.
L'auspicio del cardinale Martínez Sistach è che "tutti cresciamo nei comportamenti di rispetto reciproco e di tolleranza" e che "non si ripetano i fatti drammatici del passato. Deve crescere nella nostra società un atteggiamento di rispetto di tutti i diritti umani". La violenza di domenica scorsa è stata in effetti motivata dal primo centenario della "Settimana tragica" di Barcellona, espressione che rimanda alle giornate del 1909 in cui furono incendiate numerose chiese cattoliche della città. "Voglia Dio - ha aggiunto il porporato - che tutti sappiamo imparare dal passato per agire nel presente in modo coerente con la nostra fede". (marta lago)

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Obama e l'America in bianco e nero - Lorenzo Albacete mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
È cominciato tutto con un arresto. Il sergente James Crowley della polizia di Cambridge, Massachusetts, ha arrestato Henry Louis Gates Jr. di fronte alla sua casa per “disturbo della quiete pubblica”. Gates è un noto professore afro-americano alla Harvard University ed è convinto che, se fosse stato un bianco, non sarebbe stato arrestato sulla porta di casa.

La polizia era arrivata perché chiamati da una vicina (che lavora nella rivista degli ex alunni di Harvard) che aveva visto due individui che tentavano di entrare nella casa di Gates. La vicina non aveva fatto riferimento ad alcun elemento razziale, ma il rapporto della polizia parla di due neri. In effetti, vi erano due neri che cercavano di entrare nella casa: uno era lo stesso Gates che aveva perso le chiavi dell'abitazione, e l'altro il suo autista.

Il sergente Crowley, che ha un ottimo curriculum per quanto riguarda i rapporti con le minoranze, è stato colpito da quello che definisce un atteggiamento aggressivo di Gates, che era arrabbiato perché attribuiva al suo essere nero il comportamento della polizia.



Così è come e dove la storia è incominciata. Nel giro di pochi giorni continuerà in un'altra casa, la Casa Bianca a Washington, dove Gates e Crowley berranno qualche birra insieme al presidente degli Stati Uniti, il primo afro-americano ad occupare la carica più importante della nazione. Il presidente Barack Hussein (figlio di un musulmano del Kenya) non vuole che la storia finisca, vuole che diventi un “momento di apprendimento” nell'attuale fase delle relazioni razziali in America. Il presidente è rimasto coinvolto nella storia durante una conferenza stampa sulla riforma sanitaria da lui proposta al Congresso (dove ha incontrato opposizione anche all'interno del suo partito, per non parlare dei Repubblicani, che hanno visto nelle preoccupazioni degli americani sui costi del suo programma un'opportunità per tagliare le ali al presidente).

Alla fine della conferenza (che non sembra peraltro aver fugato le preoccupazioni sulla riforma), a Obama è stato chiesto dell'arresto di Gates. Pur ammettendo di non conoscere i dettagli dell'incidente, Obama ha definito «stupido» il comportamento della polizia. I giornalisti hanno subito visto le possibilità offerte da questa risposta e si sono mossi come squali impazziti all'odore del sangue. (Un commentatore che ha seguito la conferenza in TV ha osservato: «O mio Dio! Così finisce la discussione sulla sanità e d'ora in poi la questione sarà la razza!» Aveva ragione).



Tanto più che il presidente è stato costretto ad interrompere l'incontro quotidiano con la stampa alla Casa Bianca per rilasciare personalmente una dichiarazione in cui si diceva dispiaciuto per la scelta delle parole, che si era già scusato telefonicamente con il sergente Crowley e che aveva anche parlato con Gates, apparentemente disposto ad abbassare i toni della polemica.

Entrambi hanno poi accettato l'invito alla Casa Bianca. Diventerà davvero questa storia un “momento di apprendimento”? Se sì, cosa ci insegnerà? Porterà un reale progresso nella tormentata storia delle relazioni tra bianchi e neri negli Stati Uniti o semplicemente apporterà un altro mattone ai discorsi e ai comportamenti politically correct?



Per il presidente Obama questa è un'occasione per mostrare di nuovo i vantaggi del suo metodo “relativismo con certezza”. Sarà interessante vedere cosa succederà.


SOCIETA’/ Dagli Usa la SuperMamma che mette in scacco i laicisti benpensanti - Carlo Bellieni mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Novità sulla supermamma di otto gemelli e di 6 precedenti bambini: sembra che entrerà in un reality. Già l’idea di farsi impiantare figli in alto numero non ci sembrava consigliabile, visti i rischi per la salute sia della donna che dei bambini. Ora, la notizia che la vita quotidiana della famiglia forse diventerà un reality show genera ulteriore apprensione. Questi i fatti: ma attenti ai moralisti! Già, perché certo moralismo laico avrebbe voluto un comportamento politically correct: a) fare al massimo un solo figlio;

b) farlo e buttare via gli embrioni (figli) di troppo;

c) impiantarli tutti (come è successo), ma poi abortirne qualcuno (succede anche questo e non è rarissimo).




Perché avere una famiglia di 14 figli… è “assolutamente riprovevole”, e non disfarsi di quelli “non strettamente voluti” lo è ancora di più!



La plurimamma in vitro fa entrare in crisi i benpensanti laicisti, perché mostra un fatto inaspettato che non si può limitare alle rampogne verso un certo far figli dissennatamente. Il fatto nuovo è questo: oggi l’atto di ribellione più comune e chiaro, nella società della “crescita zero”, del figlio unico (altro che la Cina!), del “figlio quando lo dico io”, e del “figlio perfetto”… è proprio fare figli. Si può arrivare a “usare questo strumento di ribellione” in maniera scomposta, come la signora in questione, ma talvolta la ribellione assume tratti romantici e da guerra partigiana contro la mentalità del potere. Alcune donne, per esempio, resistono alle pressioni di abortire bambini affetti da disabilità, nonostante questo non sia “politically correct”: la ricercatrice e attivista Melinda Tankard Reist ha raccolto una serie di storie su questo tipo di donne nel suo libro intitolato “Defiant Birth: Women Who Resist Medical Eugenics” (ed. Spinifex Press). Talvolta la ribellione diventa irrazionale, come nel caso delle diciassette adolescenti americane che nel 2008 hanno voluto restare tutte insieme incinte, senza rivelare i nomi dei padri del loro bambino, per poter crescere i figli autonomamente e insieme. E’ meno clamorosa la rivolta, ma più diffusa, nel caso del boom di gravidanze adolescenziali in GB: quasi 6 milioni di sterline statali inutili (tra cui quelli per i condom gratis, è notizia di questi giorni): nessun apprezzabile risultato nel ridurre il numero di gravidanze delle teenagers, perché il problema non è "meccanico", ma culturale.



Il punto è che hanno tolto la possibilità di creare una famiglia a chi è giovane, obbligando culturalmente ed economicamente ad aspettare almeno i 30-35 anni; hanno anche insegnato in tanti che la famiglia non è un "bene"; d'altra parte ad ogni angolo di strada, in ogni pagina di giornale, in ogni programma TV chi non fa sesso da piccolo viene trattato come un imbecille.



Cosa volete che succeda? Già: cosa può succedere quando un ragazzo sente dentro la spinta ad una vita fisiologicamente sana per costruire qualcosa di duraturo, ma la parola d'ordine di chi tiene il potere è "sesso sì, figli no!". Pensano che i ragazzi non si ribellino? O che accettino le prediche e i preservativi, nuovo simbolo della sterilità imposta dalla società stanca e opulenta degli adulti che sanno fare prediche ma non sanno dare ragioni?



Insomma, la storia della signora plurimamma ci inquieta ma non ci stupisce: oggi si trasgredisce così.



C’interessa poi il risvolto mediatico della questione: primo, perché nessun media si è reso conto di questo rivoluzionario sistema di contestazione. Se negli anni’60 si contestava con lo spinello, oggi che lo spinello è quasi diventato un diritto bisogna trovare comportamenti alternativi per contestare. Sui media si continua a parlare di trasgressione per i nudi in TV (ma ditemi se c’è una serata TV senza nudi) o per la marijuana (e trovate a stento chi sui media osi parlare contro la tanto decantata liberalizzazione), ma i ragazzi si rendono conto che droga e aborto libero sono gli slogan dei loro “vecchi”, le parole d’ordine di una generazione che loro contestano. Ben altra allora sarà la via per contestare davvero. Forse riprendere a fare figli, e a provare a farli magari qualche anno prima della menopausa.



L’altro risvolto mediatico riguarda i reality. Se ci preoccupa l’ingresso della TV nella privacy di una famiglia, bambini in primis, rilassatevi: c’è di più. Abbiamo assistito a reality in situazioni improbabili, che pretendono di osservare improbabili convivenze, senza ricordare che basta osservare per alterare un ambiente (non parliamo di osservare persone in un ambiente artificiale); ma assistiamo ora anche a Reality in cui dei neonati vengono assegnati a differenti coppie che li alleveranno con modalità educative diverse (la coppia rigida, la coppia permissiva…), oppure altri che vengono affidati a coppie inesperte che li terranno per qualche giorno al posto dei loro genitori (comunque sempre nei paraggi). E ci deve preoccupare una donna con 14 figli? Certo, evitiamo che diventi (lei e i bambini) un fenomeno da baraccone e evitiamo di prenderlo come esempio: molto ci sarebbe da discutere e criticare… e non temiamo di essere contenti che in Italia la legge 40 impedisce cose di questo tipo! Ma in fondo, vedere una mamma che allatta, che ha tanti bambini, e che non “perde la salute!” per via dei figli- come insegna a temere la mentalità comune -, non sarà davvero una paradossale e forse non voluta inversione di tendenza nel mondo dei reality?


LETTERATURA/ Cercare la bellezza e trovare la verità, il ritratto di Oscar Wilde - INT. Paolo Gulisano mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net

L’arte per l’arte, la vita dissoluta e l’esistenza decadente, il fine eloquio, il dandismo e l’amoralità, l’omosessualità e l’Inghilterra vittoriana; o ancora le commedie, le poesie, gli aforismi e i paradossi, il genio e il talento, i viaggi e la prigionia. Uno pensa ad Oscar Wilde e crede che l’accozzaglia di reminescenze liceali sia sufficiente a rendergli giustizia. Che basti ricordare il titolo di qualche sua opera, alcune note biografiche, e del personaggio si sappia a sufficienza. In fondo, al di là del folklore suscitato dalla sua eccentricità, pare ci sia ben poco da dire. Tutto ciò che si sa di lui, in effetti, è vero. Ma si tratta di particolari. Innumerevoli e (più o meno) esatti. Che pur sempre particolari rimangono. E per questo non ne afferrano l’intima immagine. Quella di un spirito dotato di straordinaria sensibilità e di uno sguardo sulla cose realista, pungente e profondo. Wilde si interpellava sulle questioni ultime, spesso con irriverenza e fare beffardo. E anche nelle opere più leggere, in quelle che - all’apparenza - scrisse solo per divertire, questi interrogativi emergono. «Per tutta la vita cercò la Bellezza e ?nì per incontrare la Verità», sintetizza Paolo Gulisano, autore de Il Ritratto di Oscar Wilde, riferendosi all’«abisso dove incontrò definitivamente Dio». Del «mistero non ancora pienamente svelato» dell’artista, Gulisano ne parla con il Sussidiario.



Lei ha scritto una biografia su Oscar Wilde. Non ce n’erano abbastanza?



Per la verità il panorama italiano è piuttosto sprovvisto di testi su di lui. E quel poco che c’è offre una visione parziale. Per farmi un’idea precisa mi sono avvalso di testi inglesi, in particolare di una biografia monumentale scritta da Richard Elman (Oscar Wilde) e di un’altra, di Joseph Pearce (The Unmasking of Oscar Wilde). Ho voluto fornire un quadro completo, a partire da quell’accento religioso e da quella tensione ideale che ho riscontrato in quasi tutte le sue opere e nella sua esistenza. Wilde inseguì Dio per tutta la vita, ma nessuno lo dice. Mi sono sentito in dovere farlo, semplicemente raccontando i fatti.



Il titolo del suo libro ammicca ad Il Ritratto di Dorian Gray. Anche questo romanzo c’è una tensione ideale?



Il protagonista stipula una sorta di patto faustiano. Lui rimane giovane e bello, mentre ad ogni azione malvagia che compie il suo ritratto imbruttisce. Ma alla fine, non riuscendo a reggere il peso delle sue malefatte, pugnala il quadro, in un eccesso di follia. Dorian sarà trovato a terra, morto, brutto, vecchio e avvizzito. È una sorta di parabola etica: Dorian aveva tentato di nascondere il proprio male, tacitare la voce della coscienza e censurare il peccato. Ma alla fine tutto è venuto a galla. L’idea del romanzo venne in mente a Wilde un anno prima della pubblicazione quando, nel 1888, Londra era stata sconvolta dagli omicidi di Jack lo squartatore. Si pensava che questi fossero opera di un personaggio altolocato, il che indusse l’artista a riflettere sul problema del male. Non a caso il romanzo, all’epoca, suscitò parecchio scalpore: sconcertava che un lord - Dorian - potesse essere capace di azioni ignominiose. Wilde volle sottolineare che non esiste bellezza senza verità.



E nel fantasma di Canterville, di cui lei parla nel libro? Anche qui c’è una tensione ideale?



Basta leggerlo. Parla di Sir Simon de Canterville, relegato nella condizione di fantasma per aver peccato di uxoricidio. Triste e avvilito perché non riesce più a spaventare nessuno, chiede a Virginia, la figlioletta degli americani trasferitisi nella sua dimora inglese, di fare qualcosa per lui. Sa che non si può salvare da solo. La bambina si rivolge a Dio, pregandolo di perdonare il fantasma. Sir Simon trova così finalmente pace, morendo definitivamente. Non credo sia necessario fare particolari forzature per trovare nel racconto tracce della dottrina cattolica classica, che chiede di pregare per salvare le anime del purgatorio. Basta non fermarsi alla superficialità della vulgata e in ogni sua opera si notano questi cenni di verità, questa tensione religiosa che culminò con la conversione al Cattolicesimo, a Parigi, sul letto di morte



Dopo che L’Osservatore Romano ha recensito positivamente il suo libro, la stampa inglese – in particolare il Times, il Daily Telegraph, il Daily Mail e l’Indipendent – ha accusato lei e il Vaticano di voler fare di Oscar Wilde una sorta di cattolico a posteriori. È così?



Non ho voluto piantare alcuna bandiera ma esporre la verità sul personaggio. E a costoro rispondo: informatevi sulla sua vita! Per dirne qualcuna, Oscar Wilde - oltre ad essere il re dei salotti londinesi - era solito trascorre ore a conversare con i padri gesuiti. Quando era universitario, poi, fu sul punto di battezzarsi. Il padre, noto oftalmologo dell’epoca, nonché massone ed anti-cattolico, glielo proibì, minacciando di tagliargli i viveri. Nel 1877, inoltre, incontrò in segreto Pio IX , che ammirava fortemente e per il quale nutriva profondo rispetto – e all’epoca non era certo di moda stimare Pio IX -, tanto che, a quanti gli chiedevano della sua fede, rispondeva: «Non sono cattolico, sono papista». Molti dei suoi più fedeli amici si erano convertiti. Alcuni erano diventati preti o monaci. In carcere, infine, le sue letture furono Dante, Sant’Agostino e Newman. Ultimo, piccolo particolare: la Chiesa non ha mai condannato Oscar Wilde né mai lo ha ostracizzato. Fu l’Inghilterra, che ora glielo rinfaccia, a farlo.



Un’immagine piuttosto lontana dal dandy frivolo e vanitoso, che non si cura di nulla, salvo che dell’esteriore apparire



Che Wilde avesse un ideale estetico è vero. Ma definirlo unicamente in questi termini è riduttivo. Lui si rifaceva ai modelli ellenisti. Viveva nella Londra post-rivoluzione industriale, un’epoca di brutture, nella quale predicava il ritorno al bello. In tutte le sue opere riecheggia questo desiderio, talvolta in maniera barocca. Bisogna ammettere che il suo estetismo lo portò ad accettare l’amore omofilo. Che lui intendeva, tuttavia, secondo canoni tipicamente riconducibili alla Grecia antica.



Appunto. Oggi Oscar Wilde viene considerato un’icona gay…



Non si può dire che fosse omosessuale tout-court. Ebbe diverse fidanzate. La prima delle quali gli fu “vampirizzata” dal suo caro amico Bram Stoker. Si sposò, in seguito, con Constance Lioyd, dalla quale ebbe due bambine. A loro regalò due fiabe, tra le più belle mai scritte. La sua era un’omosessualità circostanziale. Era circondato da adulatori. Il fatto è che era affettivamente moralmente disordinato, debole, “goloso”, incontinente. Voleva provare tutto, senza negarsi nulla. Ma in carcere ammise che se il padre non gli avesse impedito di convertirsi, avrebbe avuto gli strumenti per vincere la tentazione. C’è un altro aspetto della sua vita, in genere omesso.



A quale si riferisce?



Con la moglie mantenne sempre un rapporto di tenerissimo amore. Nonostante gli amici continuassero a suggerirglielo, non volle mai divorziare. Lei fu tra le poche persone che andarono a trovarlo in carcere. Durante la prigionia del marito, Costance dovette trasferirsi. L’Inghilterra ipocrita e bigotta di allora non le avrebbe reso la vita facile. Andò a vivere a Bogliasco. E quando Oscar uscì, per prima cosa corse da lei. Ma mentre Wilde era in viaggio, Constance dovette sottoporsi ad un’operazione chirurgica alla schiena, al San Martino di Genova. Non fece in tempo a raggiungerla che, a Santa Margherita Ligure, gli comunicarono la sua morte.



Perché finì in carcere?



Sir Alfred Douglas, il discepolo-amante, odiava profondamente il padre, John Sholto Douglas, che a sua volta disprezzava Wilde. Quando Oscar ricevette da John un bigliettino che lo definiva ruffiano e sodomita, fu convinto dal giovane Douglas a denunciarlo per diffamazione. Si sentiva forte. Ma il caso volle che l’avvocato di Douglas fosse Edward Carson. Si tratta di quel Carson, ferocemente anti-cattolico e anti-irlandese, che architettò la divisione dell’Irlanda in sei contee separate, tra i primi a diventare primo ministro dell’Irlanda del Nord. La fama di filo-cattolico di Wilde ai tempi era già diffusa ovunque. Carson ribaltò il processo, portando in tribunale dei giovani che praticavano la prostituzione. Non riuscì a strappare una condanna per omosessualità, ma grazie alla loro testimonianza, tutt’altro che attendibile, ottenne per Wilde due anni di carcere, per atti osceni.



Dove scrisse il De Profundis…



Una lunga lettera indirizzata a Douglas, nella quale rilegge la sua intera esistenza. E benché sia caduto in disgrazia, non maledice nulla di quanto gli sta accadendo. Medita sul dolore. E intuisce che questo non avrebbe alcun senso, se non fosse la via per la salvezza. Salvezza che lui identifica – lo afferma esplicitamente - in Cristo. Eppure lo aveva incontrato tante volte. Ma tutta la sua vita fu caratterizzata da quell’assenza. Non si può dire che Oscar Wilde fosse un uomo tormentato. Risolveva tutto con una battuta. In pubblico portava una maschera, del resto era molto bravo a mentire. Ma, come tutti i clown , era molto triste. Avvertiva la mancanza di qualcosa. La nostalgia di quello che aveva sempre rifiutato.
(Intervista raccolta da Paolo Nessi)


GATES, SCHMIDT E IL TEMPO RISUCCHIATO IN RETE - Quando l’accesso diventa eccesso - GIUSEPPE O LONGO – Avvenire, 29 luglio 2009
I l troppo è troppo, anche per il mago dei computer: assillato dalle richieste di sconosciuti che volevano diventare suoi amici, Bill Gates si è ritirato da 'Facebook', la rete sociale più popolare, che pochi giorni fa ha superato i 250 milioni di iscritti. Ormai sono molte le persone che si sentono 'iper-irretiti', cioè ostaggi di Internet, in particolare dei social network. A questo punto conviene fare alcune considerazioni.
In primo luogo la tecnologia della comunicazione penetra in profondità nelle nostre abitudini e nel modo stesso in cui vediamo il mondo. Ma la cosa più importante è che l’uso degli strumenti informatici comporta un investimento di tempo e poiché il tempo è una risorsa limitata e irrecuperabile dobbiamo decidere se vivere una vita reale, intessuta di rapporti umani, con tutti i problemi e le gioie che ciò comporta, oppure se rifugiarci nella virtualità facile e accattivante della Rete, che, moltiplicando le nostre identità possibili, ci dà l’illusione di essere uno e centomila. Poi la facilitazione dei rapporti comunicativi offerta dalla Rete comporta una sorta di assuefazione e una spinta compulsiva alla sfrenatezza cui è difficile sottrarsi. Basta pensare alle piccole crisi di astinenza che sperimentiamo quando per qualche ora non possiamo controllare la posta elettronica...
Non voglio certo negare gli enormi vantaggi della comunicazione elettronica: immediatezza dello scambio, costo praticamente nullo, allargamento senza limiti del numero dei corrispondenti, per non parlare dell’accesso istantaneo al Web, la più vasta enciclopedia concepibile. Ma proprio questi benefici possono trasformarsi in svantaggi: la perdita dei filtri tradizionali, dovuti essenzialmente al costo, fa sì che chiunque possa esprimere qualunque cosa, dai pensieri più raffinati ai borborigmi mentali più inconsistenti: in rete il rumore di fondo è elevatissimo. In terzo luogo, le innovazioni si susseguono incalzanti e l’offerta supera di gran lunga la domanda, inducendo bisogni artificiali che subito diventano essenziali per poi, spesso, rivelarsi illusori e delusori, ma lasciando comunque una traccia e magari una nostalgia nelle abitudini quotidiane di vaste moltitudini. Ma gli entusiasmi che le innovazioni accendono sono sempre più marginali e, con l’uso prolungato, si trasformano in fiacche spinte gregarie e imitative.
Vige infatti una sorta di legge di Weber e Fechner psicologica: per produrre lo stesso effetto lo stimolo deve crescere e quindi per appassionare i dispositivi devono essere sempre più mirabolanti, mentre le grandi invenzioni sono rare anche perché si susseguono piccoli miglioramenti incrementali e modeste variazioni sul tema che impediscono i grandi salti.
Insomma se è vero che le reti sociali rappresentano un’importante conquista democratica e liberatoria, è anche vero che quando l’accesso si trasforma in eccesso esse diventano rapidamente tossiche.
Anche Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, esorta a spegnere computer e cellulari rinunciando alla comunicazione virtuale e dis­locata per riscoprire le persone che ci stanno accanto. Non bisogna tuttavia dimenticare che prima di convertirsi Bill Gates ed Eric Schmidt si sono immersi nella Rete fino al midollo. Secondo lo psicologo di Harvard George Vaillant, ciò che conta nella vita sono i rapporti con gli altri; ma spesso tali rapporti sono velenosi se non assenti: allora forse è meglio crearsi un’identità appagante e presentarsi (su Facebook) a una marea di 'amici' sconosciuti. Fino a capire, e ha ricambiare orizzonte.


«Così Giussani ci guidava alla scoperta del Mistero Quelle vacanze erano un anticipo di paradiso» - Guido Castelli (Università Cattolica): la montagna aiuta a scoprire la bellezza come qualcosa di gratuito «Quel panorama sul Diavolezza che mi lasciò senza parole» - Avvenire, 29 luglio 2009

«L a montagna insegna a vive­re. Basta guardarla, ma ci vuole qualcuno che ti inse­gni a guardarla. Guardare è l’inizio di tutto. Guardi la montagna, la natura, e capisci che le cose non dipendono da te, che la vita è più grande della tua ca­pacità di comprensione». Guido Ca­stelli, responsabile dei Servizi interna­zionali e ricerca dell’Università Catto­lica di Milano, è un cinquantenne di Va­rese che conosce a memoria decine di sentieri e itinerari in quota. Li ha per­corsi in compagnia di centinaia di per­sone, da ragazzino partecipando alle vacanze estive di Gioventù studente­sca, poi a quelle degli universitari di Co­munione e liberazione, molte guidate da don Giussani che per decenni ha fat­to della montagna una grande occasio­ne educativa per migliaia di giovani. E­rano – e continuano a essere – un’e­sperienza umana straordinaria, che la­scia un segno indelebile in chi parteci­pa. Lo stesso Giussani ne parla in uno dei suoi libri, «L’avvenimento cristia­no »: «Il reale è la prima provocazione attraverso cui viene destato in noi il sen­so religioso. Le vacanze in montagna si sono proposte all’esperienza delle per- sone come una profezia, sia pur fuga­ce, della promessa cristiana di compi­mento. Come un piccolo anticipo di pa­radiso, e ogni particolare doveva veico­lare quella promessa e realizzare quel­l’anticipo ». Castelli ha potuto gustare molte volte quell’'anticipo di paradiso', e ne è di­ventato testimone e a sua volta mae­stro per tanti giovani che ha portato con sé sulle cime. «Camminare insieme, a volte anche in comitive formate da cen­tinaia di persone, aiuta a capire che l’uo­mo è essenzialmente rapporto con gli altri. Soprattutto quando ci si muove in gruppo, bisogna seguire tutti lo stesso passo, e il passo viene deciso da chi gui­da, il quale a sua volta deve tenere con­to di tutti coloro che porta con sé. Si vi­ve così un’esperienza di reciproca di­pendenza, che diventa educativa an­che rispetto alla vita ordinaria.
La montagna aiuta a scoprire la bellez­za come qualcosa di gratuito, svelato e regalato all’uomo. Qualcosa di grande e spesso inatteso. «Ricordo una gita sul Diavolezza. Salivamo da Saint Moritz, all’inizio non si vedeva granché ma quando abbiamo scavallato, una volta raggiunta la cresta, è apparso un pano­rama inimmaginabile, con una visuale amplissima e affascinante. È la cosa più bella che ho visto in quarant’anni di a­scensioni. Qualcosa di imprevisto e im­prevedibile, che mi lasciò senza paro­le ». A volte invece le parole servono per rac­contare la bellezza. Come nei canti di montagna, un’altra delle esperienze che Castelli ha imparato a praticare e di cui è poi divenuto protagonista nelle va­canze estive con gli amici di Cl. «Gius­sani ci invitava a cantare spesso perché, come mi disse una volta, ’il canto ren­de più leggero il sacrificio e più intensa l’amicizia, e perché il significato delle cose si rende presente attraverso la bel­lezza di ciò che cantiamo’. E poi canta­re è qualcosa di contagioso. Ricordo u­na gita alle Torri del Vajolet, uno dei po­sti più belli delle Dolomiti. Eravamo in 400, visto che il tempo minacciava piog­gia decidemmo di fermarci al rifugio Carlo Alberto. Dopo avere mangiato ab­biamo cantato per due ore di seguito. A un certo punto mi sono voltato e alle mie spalle ho visto decine di persone che si erano radunate per ascoltare. E molti si erano uniti a noi nel canto, pre­si da una specie di nostalgia per quelle parole. La nostalgia dell’infinito».
Giorgio Paolucci


Scienza atea, una illusione - INTERVISTA. Roberto Timossi ha condotto una vasta decostruzione delle teorie scientifiche che negano Dio, da Dawkins a Odifreddi - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 29 luglio 2009
L a definizione sicuramente non gli piace, ma quello che si può considerare l’ « anti­Odifreddi » – genovese, sei anni in meno del logico cuneese – ha appena portato in libreria la sua risposta all’ultima ondata pamphlettistica di scientisti con­tro Dio. Da Daniel Dennett a Ri­chard Dawkins, da Telmo Pievani a Odifreddi e Danilo Mainardi: Roberto Timossi, teologo e filo­sofo della scienza, ha passato tre anni a raccogliere e vagliare la recente pubblicistica antiteistica uscendone con il tomo L’illusio­ne dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio ( San Paolo, pagine 574, euro 24), che porta una pre­sentazione del cardinale Angelo Bagnasco.
Timossi, qual è l’aporia più dif­fusa nell’argomentare dei Dawkins e Odifreddi vari?
« Direi il riconoscere in base al­l’epistemologia contemporanea che la scienza è fallibile e limita­ta, e allo stesso tempo arrivare a conclusioni apodittiche su que­stioni su cui la scienza empirica per definizione non può espri­mersi, come quelle metafisiche o spirituali » .
La scienza è conoscenza solida, seppur sempre perfezionabile, e impermeabile alla fede. Come risponderebbe?
« Che la scienza stessa ha biso­gno, spingendosi in ipotesi non verificabili direttamente, di ' atti di fede'. Le faccio un esempio recente. Il principio cosmologico è quello secondo cui l’universo sarebbe in ogni situazione iso­tropo e omogeneo, ovvero ugua­le e soggetto alle stesse leggi in tutte le sue zone. Se non c’è la possibilità della ripetibilità, sen­za il presupposto che l’universo abbia ovunque le stesse leggi, di­venta difficile fare delle afferma­zioni che abbiano valore, appun­to, universale. Recentemente al­cuni importanti ricercatori ame­ricani che studiano la cosiddetta energia oscura, per spiegare del­le anomalie nelle osservazioni sono giunti a mettere in discus­sione il principio cosmologico.
Ne ha dato conto la rivista Scien­tific American sul numero di a­prile. Anche questo è un ' atto di fede'. Come lo sono tutte quelle ipotesi da cui grandi scienziati partono e in cui credono senza avere ancora osservazioni, docu­mentazioni, dati empirici certi per poter dire che è così » .
Dopo la sua disamina enciclo­pedica, quale differenze trova tra la produzione ateistica di lingua ingle­se e quella italiana?
« La produzione italiana risente spesso di un ta­glio provinciale, quindi scade nella polemica an­ti- cattolica e anti- eccle­siale, finendo per allon­tanarsi da quello che do­vrebbe essere su questi temi un dialogo, o anche un scontro, alto. Mi viene in mente l’ultimo nu­mero di Micro Mega, che contie­ne un intervento di Telmo Pieva­ni e Orlando Franceschelli – stu­diosi che per altre cose apprezzo – contro il cosiddetto ' darwini­smo ecclesiastico'. Una polemi­ca su un intervento di monsi­gnor Fiorenzo Facchini e sulla sua prefazione a un recente libro di Francisco Ayala. Una polemi­ca quasi politica, che alla fine ha poco o nulla che fare con il vero dibattito sul rapporto tra scienza e fede. O penso ancora a un in­tervento di Pievani contro mon­signor Ravasi e altri, prima di a­ver sentito quello che avrebbero detto in occasione del convegno su Darwin organizzato dal Ponti­ficio consiglio della cultura, lo scorso marzo » .
Il tempo passa, Darwin resta u­no degli appigli preferiti per lo scientismo ateo.
« Sì, anche se penso che lo stesso naturalista inglese – che nelle sue lettere prese le distanze dalle repentine strumentalizzazioni delle sue teorie – sarebbe il pri­mo a schermirsi » .
In due parole, come definirebbe il rapporto corretto tra scienza e fede?
« Userei la famosa diade del ma­tematico e filosofo Gottlob Fre­ge: senso e significato. La scien­za ci mostra come non sia il caos a prevalere, come esistano delle leggi, un’intelaiatura del reale.
Questo è quello che potremmo chiamare il ' senso'. Il problema su cui devono lavorare invece fi­losofia e teologia, partendo da quanto è mostrato dalla scienza, è quello del ' significato' » .
Nel suo libro lei passa in rasse­gna un numero sbalorditivo di scienziati la cui attività è andata di pari passo con un’apertura alla fede o alla dimensione reli­giosa. Chi, in questa carrellata, è per lei più significativo?
« Gli esempi sono tanti, si potreb­be parlare di Galileo, Lemaître o Mendel. Dovendo sceglierne u­no, direi forse il fisico tedesco Max Planck. Planck aveva una proprensione filosofica sponta­nea, nutrita poi con delle letture specifiche. Aveva una grande a­pertura al mistero sottostante al reale: la scoperta che l’ha reso famoso, quella dei quanti, è av­venuta in fondo contro quello che lui stesso si riproponeva. A­veva una coscienza chiara del fatto che la scienza non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava, e che il credere in Dio agevolava il lavoro dello scienziato: la sua capacità di me­ravigliarsi, la sua voglia di fare e scoprire » .
«Un gigante come Max Planck aveva una coscienza chiara del fatto che la fisica non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava E che la fede era un 'aiuto'»

martedì 28 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)Messaggio di Medjugorje 25 Luglio 2009"Cari figli, questo tempo sia per voi tempo di preghiera. Grazie per aver risposto alla mia chiamata."
2)SOCIETA'/ Scholz (Cdo): la riforma più urgente? Ripartire dalla persona: ecco cosa fare per famiglie e Pmi - INT. Bernhard Scholz domenica 26 luglio 2009 – ilsussidiario.net
3)Quel libro che fa paura alla Corea del Nord - Mario Mauro lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
4)CHIESA/ Leone XIII e la “Rerum Novarum”, una rivoluzione nel segno della dignità umana - INT. Alberto Cova lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
5)La mentalità eugenetica non dà segni di recessione - di padre John Flynn, LC
6)L'aborto nel pensiero femminista e femminile - ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'articolo "L'aborto nel pensiero femminista e femminile" di Laura Palazzani, apparso sulla rivista della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum "Studia Bioethica", Vol. 1, No. 2 (2008).
7)Ralph McInerny spiega le ragioni della crisi post-conciliare - di Antonio Gaspari
8)I musulmani a scuola di democrazia. La tv fa da maestra - Mentre in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam, sui canali televisivi arabi trionfano i reality show e le soap opera. Una grande inchiesta ne analizza i messaggi. E le ambiguità - di Sandro Magister
9)Leggere l’ultimo libro di Baget Bozzo e scoprire i segreti dell’utopia dossettiana - di Roberto de Mattei - Le trasformazioni di un “professorino” costituente e partigiano. Il rapporto con Prodi, la sconfitta del modello Berlinguer e la vera influenza avuta da Dossetti nel centrosinistra. - [Da «Il Foglio», del 22 luglio 2009]
10)La storia di Natalina e di quell’abbraccio che unisce Sicilia e Brianza - Redazione lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
11)STUDIO INGLESE SUL FLOP DELLE CAMPAGNE PRO- CONTRACCETTIVI - Educare all’amore non al «porre rimedio» - GIACOMO S AMEK L ODOVICI – Avvenire, 28 luglio 2009
12)«Urgente un fisco a misura di famiglia» - DA F IUGGI (F ROSINONE ) A UGUSTO C INELLI – Avvenire, 28 luglio 2009
13)Hanoi, 500mila cattolici in piazza - HANOI. - Avvenire 28, luglio 2009
14)Pechino, Erode invisibile - INTERVISTA. Il dissidente cinese Wu, ospite al prossimo Meeting di Rimini: «Troppo silenzio sulla criminale politica del figlio unico» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 28 luglio 2009
15)In difesa di Pio XII - Tra i sussurri e le grida la verità della storia - di Roberto Pertici - Università di Bergamo – L'Osservatore Romano, 28 Luglio 2009


SOCIETA'/ Scholz (Cdo): la riforma più urgente? Ripartire dalla persona: ecco cosa fare per famiglie e Pmi - INT. Bernhard Scholz domenica 26 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Berlusconi, la crisi e il governo. L’impresa, Draghi, il Papa. Il presidente della Compagnia delle Opere rompe l’operoso silenzio che lo accompagna da mesi e con Libero salta nell’attualità. A pochi giorni dall’inizio delle vacanze in cui si butta la politica per riemergere, il 24 agosto, proprio al Meeting di Cl. Bernhard Scholz, successore di Vittadini e Vignali alla guida della CdO, il “braccio operativo” di Comunione e Liberazione, pesa le parole col bilancino dell’orafo.



Il suo giudizio sul Cavaliere e le escort, a detta di molti ostacolo insormontabile per un cattolico affacciato alla politica, è articolato ma netto: «La coerenza personale, importante e desiderabile, non è il criterio esclusivo per valutare l’azione politica di chi governa. C’è una questione più importante: se la politica lascia libertà alle realtà che lavorano per il bene comune. Per noi uno dei criteri fondamentali è la vicinanza al principio di sussidiarietà».



Nessuna condanna dunque? Basta non avere la pretesa di dirsi santo?



«Qualcuno crede che il bene della società possa essere un frutto generato dallo Stato e dalle istituzioni politiche? La Chiesa e le associazioni, le imprese e le cooperative, le opere di carità e le scuole a che servirebbero? Le gerarchie cattoliche questo lo sanno bene. Noi abbiamo un visione molto laica della politica, rifiutiamo che di essa si faccia una religione o la si utilizzi per definire la vita degli uomini».



Cosa pensa della stampa che insiste sulle gesta di Berlusconi a Palazzo Grazioli?



«Non penso che tutto ciò che è stato scritto sia nato da un vero interesse per la “res publica”, per un confronto sui temi che interessano la vita quotidiana dei cittadini. Ma in fondo: chi è senza peccato scagli la prima pietra...».



Appurato che non è la coerenza, cosa chiedete al governo?



«Una politica che riconosca la centralità della persona come origine e scopo. Nel libro bianco del ministro Sacconi ci sono principi molto importanti: chiedono di essere applicati. Non vogliamo uno Stato che redistribuisca, ma che prenda solo quello che è veramente necessario e lasci il più possibile ai cittadini. Questa è la via maestra per creare lavoro, occupazione e benessere. Serve una detassazione, anche se il debito pubblico la rende difficile. E c'è bisogno del quoziente familiare, di una riforma scolastica e di altre che garantiscano un welfare basato sulla sussidiarietà».



Lei guida un esercito di oltre 30mila la imprese: a che punto siamo della crisi? Come si è mosso il governo? La moratoria del credito alle imprese è valutata positivamente dai vostri soci?



«La moratoria sarebbe un sostegno sostanziale alle nostre imprese, in una situazione difficile per cause a loro esterne, soprattutto nel manifatturiero. Aspettiamo di conoscere i contenuti di questo accordo. Oggi è più che mai importante che banche e imprese collaborino in un rapporto di fiducia: CdO si sta impegnando perché entrambe possano creare le condizioni per una ripresa. Il governo finora si è mosso bene: ha reagito in modo flessibile. L'allargamento della cassa integrazione alle aziende con meno di 15 dipendenti ha permesso a tanti di non licenziare. Lo sconto fiscale per gli investimenti industriali, così come lo sconto sul reinvestimento nel capitale aziendale e il piano casa sono segnali importanti. Le promesse sui pagamenti più rapidi del'amministrazione pubblica però vanno mantenute e la semplificazione burocratica deve procedere con più velocità. La riforma ormai improrogabile del processo civile consentirebbe alle imprese di ottenere ciò che spetta loro senza attendere cinque o sei anni».



Crisi a parte, che voti dà al governo? Cosa le sta più a cuore?



«L'introduzione del federalismo fiscale sottolinea la responsabilità dei territori. E il G8 ha comunicato un`immagine molto positiva del nostro Paese. Mi auguro che il ministro Gelmini prosegua con il suo dialogo aperto sul futuro di scuola e università. E chiediamo che i risparmi della riforma delle pensioni vadano alle famiglie».



Potrete chiederlo ai ministri in visita al Meeting: che edizione sarà?



«Il titolo del Meeting è, significativamente, "La conoscenza è sempre un avvenimento". Nei suoi 30 anni, il principale scopo della rassegna è stato approfondire la conoscenza e "allargare la ragione", come suggerisce Benedetto XVI, che anche nell`ultima enciclica scrive: "Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo". La nostra storia provala connessione profonda tra tutti i temi trattati, dall`economia alla scienza, dallo spettacolo alla politica: sono legati dal grande desiderio dell'uomo di conoscere se stesso, il mondo, la vita e quello che chiamano Dio»



C'è Mario Draghi, uno non proprio affine alla storia culturale di Cl...



«Cerchiamo il dialogo con chi è interessato al bene comune. Draghi è persona di grande competenza e onestà intellettuale, con una sensibilità particolare per le questioni dell'educazione e dello sviluppo. Siamo molto contenti della sua partecipazione».



Eppure pare impossibile, per un "ciellino", aspirare a posizioni di rilievo oltre un certo livello, sia al governo sia in Europa. Perché?



«Mario Mauro si è messo al servizio dell'Europa senza focalizzarsi sul ruolo, all'interno di accordi dove l'Italia pesava meno. Chi fa parte di Cl non è interessato né a un'egemonia culturale o politica né ai ruoli, ma alla possibilità di contribuire nel modo più efficace possibile al bene comune. Se c'è la chance di una funzione importante, sarebbe sbagliato rifiutarla. Ma né politica porta la salvezza, né il ruolo politico dà la felicità alla persona. La questione è l'assunzione di una responsabilità personale nelle diverse circostanze, siano esse la politica o l'impresa»

(Pubblicato da Libero il 26 luglio 2009)


Quel libro che fa paura alla Corea del Nord - Mario Mauro lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Dal 1948 lo Stato della Corea del Nord è retto da una dittatura comunista di tipo staliniano riconosciuta come il regime peggiore per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. È comprovata l’esistenza di campi di internamento in cui sono detenute più di 150 000 persone in condizioni a dir poco disumane. La Commissione d’inchiesta contro i crimini dell’umanità ha recentemente pubblicato un rapporto nel quale denuncia una serie impressionante di crimini contro l’umanità commessi dal regime di Pyongyang, come ad esempio la condanna a morte per il furto di una mucca, per la vendita di film stranieri o per l’ascolto della radio Sud-coreana. Un ex capitano dell’esercito ha addirittura confessato che il regime utilizza come cavie bambini disabili per testare armi chimiche e biologiche.



In Corea del Nord, paese dove il dittatore viene considerato alla stregua di una divinità, anche la fede religiosa ovviamente è un tabù. Sono decine di migliaia i cristiani che si riuniscono in vere e proprie catacombe. È di sabato scorso la notizia sconvolgente della donna giustiziata in pubblico perché distribuiva la Bibbia. Questa è stata la terribile sorte di Ri hyon-ok, una donna coreana di 33 anni che viveva in una città al Nord ovest della Corea del Nord, non lontano dal confine cinese. Lo hanno rivelato nella giornata di sabato alcuni attivisti sudcoreani che si battono contro il brutale regime di Kim Jong-il a Pyongyang, l’ultimo baluardo dell’utopia Comunista del Pianeta. Gli stessi attivisti hanno fatto sapere che il regime ha reso prigionieri politici il marito e i figli della donna, accusata di essere una spia americana e quindi una minaccia per il regime. Ha ragione il regime di Pyongyang: quel libro può essere la più grande minaccia per un sistema che si regge sulla sistematica violazione di qualunque diritto dell’uomo, della repressione di coloro che desiderano perseguire liberamente i propri ideali e professare quindi il loro credo religioso.



In Corea siamo ancora fermi ai tempi in cui la politica non viene considerata come un tentativo di risposta alle esigenze dell’uomo “reale”, all’uomo che “esiste”, ma come un tentativo di immaginare un “uomo nuovo” frutto di elucubrazioni mentali. Le ideologie, i fondamentalismi e i relativismi sono accomunati dall’abbandono della verità, dal mancato riconoscimento dell’essere come principio della realtà e dall’utilizzo del potere per dare una nuova base alla realtà.



La storia delle grandi dittature del passato ci dimostra che Dio fa paura a chi ha la pretesa di sostituirsi a lui. Ma la storia ci ha insegnato anche che alla lunga la furia ideologica che ha nella negazione della libertà religiosa il suo strumento di massima distruzione della dignità dell’uomo, viene sconfitta dalla prorompenza della fede e del desiderio di libertà degli uomini. Ne abbiamo una dimostrazione lampante proprio in questi giorni con le grandi manifestazioni a Teheran contro la teocrazia iraniana. Lo abbiamo visto più da vicino noi europei quando si è sgretolata l’Unione sovietica.



Oggi siamo di fronte alla stessa prospettiva nei confronti della Corea del Nord e delle altre dittature che sconvolgono l’esistenza umana in tutto il mondo. Il compito dell’Europa insieme agli Stati Uniti e all’Onu è oggi quello di incoraggiare e accelerare il moltiplicarsi di movimenti democratici in quei paesi e di mostrarsi più che mai decisi e uniti nell’infinita battaglia nella difesa dei diritti inalienabili della persona, fondamento della democrazia.


CHIESA/ Leone XIII e la “Rerum Novarum”, una rivoluzione nel segno della dignità umana - INT. Alberto Cova lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Le encicliche scandiscono il fluire della vita cristiana. I Papi le scrivono per esporre e definire quelle verità che ritengono eloquenti per la propria epoca. O per interpretare i segni dei tempi alla luce del contenuto della fede. Sono un affare interno alla Chiesa cattolica, ma la loro eco risuona nel mondo. Accade soprattutto per le encicliche sociali. Trattano in maniera specifica dei rapporti tra le istituzioni, gli uomini e le strutture del loro vivere; sono indirizzate – come le altre - ai vescovi e ai fedeli, ma per loro natura coinvolgono l’intera collettività. I politici, gli economisti e gli intellettuali contestano o accettano i principi contenuti in esse, ma difficilmente ne prescindono totalmente. Sarà così per l’ultima enciclica di Benedetto XVI, della quale si stanno già osservando significative conseguenze e il nascere di un dibattito globale. Fu così per la prima enciclica sociale, la Rerum Novarum, scritta da Leone XIII nel 1891 per affrontare il problema operaio. Di questa Alberto Cova, professore ordinario di Storia Economica nell’Università Cattolica di Milano, dove è stato preside della facoltà di Economia dal ’92 al 2008, ci illustra i concetti principali e la novità che rappresentò per quel momento storico.



La politica esiste da ben prima del 1891. Solo allora, però, un Papa decise di dedicarle interamente un’enciclica. Perché?



Perché in questo periodo - quando l’industrializzazione è ormai in fase avanzata - le classi sociali più deboli, gli operai e i contadini, sono coinvolte in un processo di emarginazione mai visto prima. Si accentuano le difficoltà, si esasperano le differenze economiche, si trasformano i rapporti sociali. E Leone XIII è molto sensibile nei confronti dell’inedita situazione; era stato, infatti, nunzio in Belgio, dove era entrato in contatto con la vita degli operai delle grandi imprese carbo-siderurgiche e delle miniere. E per questo, nel 91, ritiene che la Chiesa debba pronunciarsi e prendere le contromosse di fronte al degrado umano generato dall’era industriale.



Non avrà pesato anche il ricordo della ferita di Porta Pia, ancora fresco, e che la Chiesa si trovasse - dopo secoli - a non poter più incidere direttamente sulle vicende politiche?



Certo, nel ’91, il potere temporale è finito. Ma bisogna ricordare che il destinatario dell’enciclica era il mondo intero, non la sola Italia o lo Stato Pontificio. Il fatto è che la nuova condizione operaia non poteva essere affrontata con i vecchi strumenti di solidarietà - come le corporazioni medievali - né con le precedenti categorie intellettuali. Bisognava dare una risposta nuova a problemi nuovi.



Che risposta diede Leone XIII?



Secondo il Pontefice l’ambiente lavorativo riduceva l’operaio ad un mero mezzo di produzione, un fattore dell’ingranaggio pagato a livello di sussistenza per la prestazione che erogava all’interno di un modello organizzativo. La miseria e lo sfruttamento privavano i lavoratori delle qualità di soggetti e i rapporti interni all’ordine produttivo erano disumani. Dalle fabbriche era estromessa l’esperienza personale.



Non sembra un pensiero particolarmente originale



Certo, questa era la critica “in voga” all’epoca. Ma Leone XIII innova sul piano della proposta: il marxismo rispondeva con una soluzione radicale, da attuarsi con il divampare del conflitto e con la rivoluzione come i soli strumenti di rivalsa sociale. Per il Papa, invece, tra imprenditore e lavoratore doveva instaurarsi un rapporto di cooperazione nel quale far emergere la dignità della persona.

Attraverso le coordinate tradizionali del Cristianesimo – la specificità dell’uomo come persona, la carità, l’amore per il prossimo - l’enciclica ricordava che l’operaio è sì un fattore della produzione, ma con valori, speranze, una famiglia. Per questo il salario doveva tenere conto delle sue specificità, della necessità di un’esistenza decorosa o dell’istruzione dei figli. Gli orari e il lavoro effettivo, poi, dovevano essere il più sopportabili possibile.



E se il padrone non era d’accordo?



Il mondo operaio stava abbozzando una risposta collettiva al cambiamento. Nella grandi città industriali nascevano le cooperative di lavoro le società di mutuo soccorso. Il Papa suggeriva una forma aggregativa di questo genere. I Cattolici, dal canto loro, diedero vita alle leghe del lavoro bianche, come del resto i socialisti a quelle rosse.



Non era più semplice iscriversi al sindacato?



Il sindacato - che allora esisteva in fase embrionale ed era tutt’altro che una realtà ben definita - presupponeva l’esistenza di due soggetti in conflitto, tra i quali tendeva a sottolineare l’inconciliabilità. In Inghilterra, inoltre, chi se ne occupava era mandato in Australia, nelle colonie penali e in Francia era vietato dalla legge.



Quali furono gli effetti pratici più visibili prodotti dalla Rerum Novarum?



Basti pensare all’impulso che diede alla diffusione delle casse rurali e delle banche cooperative. Il mondo contadino con le sue piccole aziende aveva bisogno di sostegno. Chi possedeva un fazzoletto di terra, apportando innovazioni tecnologiche avrebbe potuto dar vita a una cultura specializzata che gli avrebbe permesso di guadagnare di più. Ma le banche non concedevano prestiti. Allora il credito venne istituito sul piano locale, a livello comunale. Se guardiamo le statistiche, scopriamo che nel 1922 in Italia ci sono ormai più di 3000 casse rurali, l’80 per cento delle quali cattoliche. La maggior parte di queste fondata da preti che avevano recepito gli insegnamenti del Papa. Tra gli anni ‘80 e ’90, poi, vi fu l’impennata della migrazione interna, e per la volta ci furono spostamenti massicci di ragazze. Grazie ai convitti per fanciulle, costituiti dalle chiese locali accanto alla fabbriche, le donne erano tolte dai pericoli della vita solitaria, lontano da casa, ricevevano un pasto caldo e spesso un’istruzione.



In che misura l’enciclica ha influito sulla successiva elaborazione della dottrina sociale?



Sul piano del contenuto, ogni enciclica sociale è diversa dalla altre. In comune rimangono le coordinate fondamentali. Ma la Rerum Novarum ha sicuramente influito dal punto di vista del metodo: il Pontefice ha un problema da risolvere, osserva la realtà, e si adopera per far crescere quel segmento della società che è in condizioni disagiate.



In molti rinfacciano alla Chiesa di essere arrivata in ritardo rispetto al marxismo, a proposito delle rivendicazioni della classe operaia e degli strati sociali più deboli. È così?



Se uno adopera lo strumento del forcone sì. È facile predicare la rivoluzione. Se uno invece usa il cervello, capisce che la Chiesa non si prese nient’altro che il tempo necessario per elaborare una risposta ufficiale, che fosse il più ragionevole e utile possibile.


La mentalità eugenetica non dà segni di recessione - di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- L'idea che alcune persone siano geneticamente inferiori e che debbano essere eliminate o rese sterili persiste nonostante l'unanime condanna delle atrocità commesse dal regime nazista.

In un'eloquente intervista pubblicata il 12 luglio sulla rivista Justice del New York Times, Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha parlato tra l'altro anche dell'aborto.

Con riferimento alla decisione della Corte che ha aperto le porte all'aborto, la Roe contro Wade, e alle successive sentenze sul finanziamento pubblico dell'aborto, la Ginsburg ha commentato: "Francamente ero convinta che ai tempi della decisione Roe vi fosse preoccupazione per la crescita demografica e in particolare per la crescita della parte più indesiderata della popolazione".

Questa sorprendente affermazione non è stata approfondita e non è seguita alcuna spiegazione di quali gruppi possano rientrare nella popolazione più "indesiderata".

In un articolo d'opinione pubblicato il 14 luglio sul Los Angeles Times, Jonah Goldberg ha ammesso che il testo potrebbe essere interpretato come mera descrizione di una mentalità che stava alla base di quelle decisioni, e che quindi non possiamo essere certi che Ginsburg la condividesse.

Nonostante ciò, è certamente vero che l'avanzamento dell'aborto è stato in buona parte dovuto al desiderio di eliminare coloro che erano considerati non idonei, ha proseguito. È un fatto notorio che la fondatrice di Planned Parenthood, Margaret Sanger, "è stata di un razzismo eugenetico di prim'ordine".

Sterilizzazione forzata

Ancora il mese scorso, la triste storia delle sterilizzazioni forzate è stata commemorata nella Carolina del Nord.

Una targa in alluminio è stata scoperta a Raleigh in memoria delle migliaia di persone che sono state sterilizzate tra il 1933 e il 1973 perché considerate mentalmente disabili o geneticamente inferiori, secondo quanto riportato dall'Associated Press il 22 giugno.

Secondo l'articolo, il programma della Carolina del Nord aveva nel mirino soprattutto la gente povera e le persone in prigione o in manicomio.

Alcune erano magari state vittime di stupri. La Commissione statale sull'eugenetica ha continuato ad operare fino al 1977, quando i malati di mente sono stati posti sotto tutela del sistema giurisdizionale.

Ma le politiche di sterilizzazione non sono solo una realtà di interesse storico. Il 22 giugno scorso, il quotidiano Guardian ha riferito di donne in Africa affette da Hiv che sono state sottoposte a sterilizzazione forzata.

A quanto pare, alle interessate viene detto che la procedura è un trattamento di routine in caso di Aids. L'International Community of Women Living with HIV/AIDS ha fatto ricorso alla giustizia contro il Governo della Namibia per conto di un gruppo di donne sieropositive che sono state sterilizzate contro la loro volontà.

Il Guardian ha anche riferito che, secondo gli attivisti di questo settore, la sterilizzazione forzata viene praticata anche nella Repubblica Democratica del Congo, in Zambia e in Sudafrica.

La mentalità eugenetica è molto diffusa, sebbene in forma più subdola, in relazione a persone handicappate o che hanno difetti genetici, che spesso vengono semplicemente eliminate prima della nascita.

I progressi della scienza promettono di intensificare la minaccia contro queste persone. Il 1° luglio, il quotidiano londinese Times ha riferito di ricercatori che stanno sviluppando una diagnosi genetica prenatale universale che consentirà di rilevare quasi ogni malattia genetica.

La sperimentazione dovrebbe iniziare a breve e il professor Alan Handyside, della Bridge Clinic di Londra, ha spiegato al Times che il test sarà capace di identificare ognuna delle 15.000 patologie genetiche.

Attualmente solo il 2% dei difetti genetici può essere rilevato dallo screening.

Bambini su misura

Secondo l'articolo, questa tecnica nota come "karyomapping" è destinata ad esacerbare ulteriormente la polemica sui "bambini su misura". A quanto pare, la diagnosi potrà essere usata anche per selezionare embrioni con un particolare colore degli occhi, o con geni che incidono sull'altezza.

In ogni caso, questa tecnica sarebbe difficile da mettere in pratica, in quanto sarebbero necessari centinaia di embrioni per soddisfare la richiesta un determinato profilo genetico.

È invece una pratica già diffusa quella di eliminare embrioni o feti affetti dalla sindrome di Down. Dominic Lawson ha criticato questa tendenza in un articolo d'opinione pubblicato sul quotidiano britannico Independent dello scorso 25 novembre.

Lawson, che ha un figlio Down, ha tuttavia rilevato segnali di cambiamento. Secondo Carol Boys, responsabile della Down Syndrome Association, circa il 40% delle madri di embrioni risultati positivi alla sindrome di Down non si rifiuta di portare avanti la gravidanza.

Questo, secondo Boys, è in parte dovuto al fatto che le donne tendono ad avere figli ad un'età più avanzata e quindi con una maggiore consapevolezza di poter non essere in grado di averne altri. Queste donne, inoltre, hanno una carriera lavorativa avviata che dà loro maggiore fiducia nell'affrontare le pressioni dei medici che propendono per l'aborto.

Secondo Lawson, i medici in generale hanno "una tendenza viscerale a favore di un'azione eugenetica".

"Questo atteggiamento non è fondato su una valutazione realistica e aggiornata delle effettive prospettive di chi è affetto dalla sindrome di Down, né tantomeno della felicità che queste persone possono portare e portano alle famiglie e alle comunità nel loro insieme", ha aggiunto.

La causa di questo tipo di atteggiamento è data dal fatto che le persone affette dalla sindrome di Down graveranno sempre di più sul sistema sanitario pubblico, ha accusato.

Le nuove prospettive di diagnosi genetica riguardano anche la stessa sindrome di Down, secondo un articolo dell'American Spectator on-line dell'8 giugno. Sequenom, una società di prodotti per l'analisi genetica, ha sviluppato un nuovo test per la sindrome di Down.

Si chima SEQureDX, e dovrebbe essere più sicuro ed affidabile di ogni altro esame genetico prenatale.

I rischi

"Sebbene le nuove tecniche diagnostiche siano più sicure sia per la madre che per il figlio, esse contribuiranno ad un ambiente fortemente a rischio per i bambini che risulteranno positivi ad anormalità genetiche", secondo l'articolo.

Inoltre, almeno altre tre società stanno sviluppando simili esami genetici e sperano di metterli in commercio per la fine dell'anno.

La prospettiva di poter disporre di esami più affidabili mette in evidenza un fatto spesso sottaciuto: che a volte bambini perfettamente sani vengono abortiti a causa di diagnosi genetiche errate. In un articolo apparso sul quotidiano Guardian del 16 maggio, la dottoressa Anne Mackie, responsabile dei programmi di screening del Sistema sanitario nazionale del Regno Unito, ha riferito che 146 bambini l'anno, privi di qualsiasi anormalità, vengono persi in Inghilterra a causa di diagnosi non accurate.

Secondo Mackie, il 70% degli ospedali in Inghilterra ricorre ancora a tecniche con alte probabilità di dare dei "falsi positivi", ovvero di diagnosticare un alto rischio su feti perfettamente sani.

Il 21 febbraio, Benedetto XVI si è rivolto ai partecipanti di una conferenza organizzata dalla Pontificia Accademia per la vita, sul tema "Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell'eugenetica".

Ogni essere umano, ha affermato il Pontefice, "è molto di più di una singolare combinazione di informazioni genetiche che gli vengono trasmesse dai genitori".

Dobbiamo essere consapevoli dei rischi dell'eugenetica, ha avvertito il Santo Padre, osservando che ancora oggi vi sono "manifestazioni preoccupanti di questa pratica odiosa".

Esiste, ha spiegato, una tendenza "a privilegiare le capacità operative, l'efficienza, la perfezione e la bellezza fisica a detrimento di altre dimensioni dell'esistenza non ritenute degne".

"Viene così indebolito il rispetto che è dovuto a ogni essere umano, anche in presenza di un difetto nel suo sviluppo o di una malattia genetica che potrà manifestarsi nel corso della sua vita, e sono penalizzati fin dal concepimento quei figli la cui vita è giudicata come non degna di essere vissuta".

Benedetto XVI ha quindi auspicato che ogni forma di discriminazione venga rigettata come un attentato contro l'intera umanità. Un appello all'azione, diretto a risvegliare le coscienze in tutto il mondo.


L'aborto nel pensiero femminista e femminile - ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'articolo "L'aborto nel pensiero femminista e femminile" di Laura Palazzani, apparso sulla rivista della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum "Studia Bioethica", Vol. 1, No. 2 (2008).

* * *

1. La discussione sulla questione dell'aborto è strettamente connessa alla riflessione sulla donna, data la collocazione fisica del feto nel corpo della donna. È la donna che vive una esperienza che l'uomo non vive: vive contestualmente il proprio corpo e la presenza di un'altra vita nel proprio corpo. Emerge dunque il possibile conflitto tra il diritto di autodeterminazione della donna sul proprio corpo (sul feto come parte del proprio corpo) e il dovere di responsabilità nei confronti dell'altro nel proprio corpo (riconosciuto come soggetto). Il femminismo ha enfatizzato il diritto di autodeterminazione della donna, mentre il pensiero femminile ha temizzato il dovere di relazione responsabile nei confronti del feto.

Con l'espressione 'femminismo' si indica quella linea di pensiero (estremamente eterogenea) che focalizza l'attenzione sull'analisi delle ragioni della subordinazione delle donne e la teorizzazione di un cambiamento della condizione di marginalizzazione se non esclusione della donna rispetto all'uomo, criticando la discriminazione teorica e pratica delle donne e combattendo il sessismo (o discriminazione dei sessi), il maschilismo androcentrico patriarcale (o indebita prevaricazione dell'uomo sulla donna). Con 'pensiero femminile' si indica una riflessione fenomenologica sulla soggettività femminile, posta a confronto con la soggettività maschile, al fine di porre in evidenza elementi comuni e differenti, allo scopo di integrare il sapere tradizionale che non aveva posto specifica attenzione sul tema.

2. Il femminismo, nell'ambito della rivendicazione dei diritti delle donne, ha due obiettivi polemici principali. Il primo obiettivo polemico è il matrimonio (eterosessuale), considerato la istituzionalizzazione della oppressione delle donne a causa della assegnazione del ruolo privato-domestico alle donne e del ruolo pubblico agli uomini, con la conseguente gerarchizzazione e normalizzazione della priorità maschile che ha portato ad una svalutazione delle donne. Il secondo obiettivo polemico è la sessualità/procreazione, in riferimento al ruolo biologico riproduttivo della donna (gravidanza e parto) e al ruolo accuditivo, vissuti dalle donne come "giogo biologico" da cui riscattarsi. La liberazione delle donne (mogli/madri) si può ottenere, secondo il pensiero femminista, in due modalità: mediante l'annullamento della centralità del matrimonio eterosessuale (equiparandolo alle unioni di fatto anche omosessuali) e mediante la rivendicazione di diritti riproduttivi negativi (ossia il diritto a non procreare) e di diritti riproduttivi positivi (o diritto a scegliere come procreare). L'aborto rientra nei diritti riproduttivi negativi.


Il dibattito femminista sull'aborto si articola a due livelli: l'aborto come necessità politica e l'aborto come liceità morale.

L'aborto come necessità politica parte dalla considerazione della disuguaglianza e asimmetria tra uomo e donna: anche se il feto avesse valore dovrebbe essere sacrificato, secondo tale prospettiva, al fine di realizzare l'uguaglianza dei sessi e riequilibrare i rapporti di potere. Alla donna deve essere riconosciuto un potere sul proprio corpo: avendo un 'onere' aggiuntivo, in senso biologico, deve avere un 'potere' aggiuntivo. Ma tale argomento risulta fragile in quanto la morale trascende le condizioni storico-sociali: del resto anche se il patriarcato fosse abolito sul piano politico-sociale, rimarrebbe il problema morale dell'aborto.

La discussione sulla liceità morale dell'aborto (a partire dalla considerazione che la illiceità dell'aborto significherebbe perpetuazione del patriarcato) si sviluppa nell'ambito della prospettiva libertaria e della prospettiva relazionale.

I presupposti filosofici del femminismo libertario rimandano alla identificazione della soggettività (degna di rilevanza morale) con l'individuo autonomo; al soggettivismo etico, ritenendo che i valori non siano conoscibili oggettivamente (non cognitivismo etico) ma debbano essere posti e creati dal soggetto stesso; alla concezione neutrale del diritto come prodotto e strumento della volontà e difesa della volontà individuale. Nell'ambito di tale linea di pensiero si rivendica il diritto all'aborto come diritto di autodeterminazione della donna e come controllo della sessualità e del corpo. L'aborto è inteso come un metodo per il controllo della sessualità e per l'amplificazione della libertà sessuale identificata con il controllo delle nascite, se i metodi contraccettivi non funzionano o come metodo alternativo ai metodi contraccettivi (essendo considerata la contraccezione svantaggiosa, per la non sicurezza e il rischio per la salute della donna). L'aborto è considerato un mezzo per il controllo del corpo, in quanto la libertà è intesa come autonomia (o autodeterminazione arbitraria), la volontà individuale è considerata prioritaria rispetto al corpo e il feto è ridotto ad oggetto di proprietà. La radice filosofica di tale linea di pensiero è riconducibile al dualismo antropologico (la volontà è separata dal corpo, ridotto a materia) e alla non soggettività del feto (non ancora autonomo, ridotto ad oggetto in quanto parte del corpo).

Secondo questa linea di pensiero, la considerazione del feto come elemento eticamente rilevante nella scelta di non abortire ridurrebbe la donna a mero "contenitore fetale", non considerandola un "agente morale". Il feto costituirebbe una 'interferenza' alla autonomia e libera scelta della madre. L'argomento del femminismo libertario si basa sulla seguente considerazione: se A (madre) ha il dovere verso B (feto) non significa che B abbia un diritto verso A (non reversibilità diritti/dovere): la madre ha un dovere di beneficenza (aiutare chi ha bisogno, ossia il feto), ma astenersi dal dovere non implica ingiustizia (potrebbe semmai essere biasimevole in quanto comportamento egoista). È la tesi del "samaritano minimale" (in contrapposizione al 'buon samaritano' che riconosce doveri forti).

Vi sono alcuni elementi deboli del femminismo libertario. In primo luogo l'essere umano non è riducibile alle sue funzioni, quali l'autonomia: se cosi fosse, non solo il feto non sarebbe soggetto, ma anche l'individuo che dorme sarebbe escluso dalla soggettività, con conseguenze inaccettabili. Il feto, oltretutto è un essere umano a pieno titolo, data la continuità graduale e coordinata dello sviluppo umano dal momento del concepimento. In secondo luogo il concetto di autonomia non significa solo libero arbitrio, ma l'autonomia presuppone anche il limite della responsabilità verso gli altri (anche verso il feto, soggetto umano a pieno titolo). La vita è un bene fondamentale quale condizione di possibilità dell'esistenza e della coesistenza, dunque anche dell'esercizio dell'autonomia. In questo senso l'uccisione di una vita è un male in sé (non meramente un effetto collaterale sproporzionato) e l'aborto non è mancanza di assistenza/beneficenza, ma un attacco diretto alla vita. Il diritto non è riducibile a strumento della volontà arbitraria (quale prevaricazione del più forte sul più debole), ma è la condizione della coesistenza sociale che non può garantire tutta la libertà, ma deve assicurare la libertà di tutti (incluso il feto). La liberazione della donna a danno del nascituro non è pertanto libertà autentica.

La prospettiva del femminismo relazionale pone al centro della riflessione il soggetto relazionale, identificando la relazione con il possesso di funzioni astratte dall'individuo, quali l'autonomia, in senso minimale (fisico-psichica) e massimale (sociale). Se il feto non è soggetto perché non ha relazioni sociali, è invece soggetto nella misura in cui ha una relazione biologica con la madre: ma data la asimmetria e dipendenza del feto dalla madre, il suo valore (di soggetto relazionale) dipende dal riconoscimento della madre. Il feto non ha un valore in sé ma è la madre che attribuisce valore al feto, determinandone lo stato sociale: non importa il valore che danno altri al feto; la madre non è obbligata a tale riconoscimento (in quanto soggetto autonomo). Tale linea argomentativa risulta debole in quanto la relazione è una dimensione della soggettività, ma non la costituisce originariamente. L'individuo è già persona quando entra in un rapporto sociale di riconoscimento (ossia preesiste alla relazione): se si parla di riconoscimento significa che il valore c'è già. Vi è anche una considerazione fattuale: la possibilità della ectogenesi (ossia la possibilità tecnica che il feto possa esistere fuori dall'utero) dimostra che il feto potrebbe esistere anche senza la relazione biologica, potendo stabilire una relazione sociale con la madre, seppur dall'esterno o con il personale sanitario; ciò evidenzierebbe la indipendenza del feto dalla madre e dunque la sua soggettività morale.

3. All'interno dello stesso femminismo è sorta una linea "critica" che ha riconosciuto la illusione di una falsa emancipazione ("utopia della liberazione") della donna dal condizionamento maschile con l'esaltazione della autonomia, evidenziando il rischio che la donna divenga strumento asservito alla tecnoscienza, con la conseguente espropriazione del corpo femminile e della specificità del ruolo femminile. La nascita del 'pensiero femminile' mette in luce il contributo emergente dalla soggettività femminile a partire fenomenologicamente dalla diversità esistenziale fisico-psichico-sociale, dall'esperienza della differenza femminile/maschile al fine di riformulare ed integrare (non contrapporsi) all'etica tradizionale. Una delle categorie su cui il pensiero femminile ha posto attenzione è quella della 'cura', non nel significato ristretto di guarire, ma nel significato ampio di prendersi cura degli altri, preoccuparsi per gli altri, porsi in rapporto agli altri con atteggiamento di sollecitudine.

C. Gilligan, nel volume In a different voice: psychological theory and women's development (1982), studia lo sviluppo psicologico-morale di maschi e femmine: dalla rilevazione empirica trae alcune considerazioni generali sulla diversità (non gerarchica) di approcci morali (intesi come modi di ragionare in etica), distinguendo l'"approccio morale maschile" caratterizzato dalla autoreferenzialità, dalla metodologia formale, astratta, imparziale, dal ragionamento logico-deduttivo, secondo giustizia (in riferimento a principi universali, regole di simmetria e razionalità); e l'"approccio femminile" basato sulla relazionalità, la responsabilità, il coinvolgimento interiore personale, concreto e contestuale, il vincolo affettivo, basato su un ragionamento induttivo-esperienziale, in una modalità che pone al centro la cura (come attenzione, ascolto, empatia, preoccupazione, sollecitudine, compassione). Il prendersi cura è un atteggiamento strutturalmente relazionale nei confronti di chi è debole e vulnerabile, in condizione di non potere ricambiare le azioni (in contrapposizione all'individualismo, al contrattualismo e all'utilitarismo).

C. Gilligan applica questa visione anche alla riflessione sull'aborto, commentando interviste a donne che affrontano tale scelta, mettendo in evidenza il conflitto tra egoismo (cura di sé) e responsabilità (cura dell'altro), parlando di cura come "prendersi cura della vita". L'autrice mette in rilievo la percezione del legame che la donna sente con il feto dentro di sé, come legame che intercorre tra sé e l'altro dentro di sé; l'intuizione dell'interdipendenza (presenza di un altro dentro di sé); l'esperienza di appropriazione e di estraniazione, la trascendentalità del proprio corpo come non disponibilità arbitraria del corpo. La percezione della relazionalità asimmetrica e areciproca suscita un sentimento di responsabilità relazionale nei confronti di chi è debole, inerme, bisognoso di cure: è la "morale materna" della responsabilità totale per l'assoluta dipendenza (il feto non è percepito come ostacolo dell'autonomia, ma come essere vulnerabile che dipende dall'altro, dunque esige un atteggiamento di responsabilità). Il vissuto relazionale madre/figlio diviene narrazione della percezione della vita dentro di sé e drammatica consapevolezza che aborto significa uccisione; proprio la irreversibilità della scelta amplifica la responsabilità. Gilligan sottolinea l'accudimento e la cura come esigenza obiettiva del rapporto, come "impegno a prendersi cura della vita" quale "il principio più adeguato per risolvere i conflitti che sorgono nei rapporti umani".

Si tratta di un approccio interessante, ma il taglio psicologico (basato su intuizioni, percezioni, esperienze, vissuti) ne evidenzia la debolezza argomentativa, lasciando aperto il rischio che prevalga la cura di sé rispetto alla cura dell'altro, il rischio che la cura divenga affermazione del più forte sul più debole. È dunque necessaria un' integrazione filosofica che tematizzi lo statuto ontologico della vita nascente oltre che etico-giuridica che giustifichi la rilevanza di una compresenza complementare della cura e della giustizia: la cura non sostituisce la giustizia, ma la integra e la invera, presupponendo il riconoscimento della pari dignità ontologica di ogni essere umano, incluso il feto.


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Torniamo all’obbedienza al Magistero, sarà un progresso


Ralph McInerny spiega le ragioni della crisi post-conciliare - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 27 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il Concilio Vaticano II ha segnato la storia della Chiesa moderna. Svoltosi tra il 1962 ed il 1965, avrebbe dovuto risolvere i problemi sollevati dalla modernità, come la secolarizzazione, il relativismo, il rapporto con la tradizione, la perdita di fede, l’autorità della legge morale, l’obbedienza ed il rispetto del Primato di Pietro.

La discussione tra i padri conciliari è stata intensa e articolata. Il dibattito è stato vivacissimo. I documenti Conciliari sono solidi contributi alla dottrina ed al Magistero.

Eppure, dopo il Concilio, una parte di teologi, dell’episcopato del clero e del laicato, ha scelto di battere strade diverse, mettendo in discussione i risultati del Concilio, e soprattutto contestando l’autorità del Papa e del Magistero.

Non è chiaro se la crescente secolarizzazione è un segno dei tempi o un effetto della crisi post Concilio, sta di fatto che tutti i parametri relativi alle vocazioni sacerdotali, alle persone che frequentano la messa ed i sacramenti, al numero di iscrizioni nelle scuole cattoliche, hanno segnato un crollo significativo nel periodo post conciliare, soprattutto negli anni 1970- 1990.

Per cercare di capire cosa è accaduto, il professor Ralph McInerny, insegnante di filosofia per cinquant’anni all’Università Notre Dame nell’Indiana, la più grande università cattolica del mondo, considerato da molti il più importante filosofo cattolico vivente, ha appena pubblicato il saggio “Vaticano II. Che cosa è andato storto?” (Fede & Cultura, 91 pagine, 11,00 Euro).

Il prof. McInerny, tra i più grandi studiosi di San Tommaso, autore anche di una cinquantina di romanzi gialli con il sacerdote detective padre Dowling, spiega come la crisi nasce nel 1968 con quel “Sessantotto nella Chiesa” che è il rifiuto organizzato dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI da parte di centinaia di teologi.

Un rifiuto che va molto al di là delle questioni di morale sessuale e si pone come contestazione globale dell’autorità del Papa e del Magistero.

I teologi del dissenso dicono di fare appello al Vaticano II. “Ma – secondo McInerny – nulla nei documenti del Concilio giustifica la loro posizione”.

Si tratta allora di distinguere fra i testi del Vaticano II e la loro interpretazione, fra insegnamenti del Concilio ed evento mediatico, fra lettera e presunto “spirito” dell’assise conciliare.

Per McInerny la confusione fra questi elementi ha determinato per la Chiesa una delle più gravi crisi della sua storia.

Il professore americano suggerisce di riprendersi il Concilio, in quella piena fedeltà al Papa e al Magistero che costituisce l’unica via per uscire dalla crisi.

Per spiegare la crisi post-conciliare il noto docente di filosofia riporta i dati della Chiesa americana nel 1950.

C’erano 60.000 sacerdoti negli Stati Uniti e 25.000 seminaristi. 150.000 insegnanti religiosi nelle scuole. Cinque milioni di alunni nelle scuole cattoliche, dall’asilo all’università. E altri cinque milioni in scuole non cattoliche che comunque ricevevano un’istruzione religiosa cattolica.

Inoltre il 75% dei cattolici coniugati, partecipava alla Messa ogni domenica. Il 50% riceveva la comunione almeno una volta al mese. L’ottantacinque per cento dei non coniugati partecipava alla messa domenicale i tra loro il 50% si comunicava mensilmente. I cattolici con istruzione superiore erano i più assidui. Innumerevoli i movimenti apostolici laici.

Giovanni XXIII aprì il Concilio con grande ottimismo. Si discusse di un rinnovamento per diffondere la verità e della preparazione dei sacerdoti. Si auspicò la via della santità per tutti. La Gaudium et Spes indicò la via della Chiesa nel mondo moderno.

Dopo il Concilio i cattolici si aspettavano un grande balzo in avanti, invece sono emersi i segni di una crisi di fede e divisioni tra i fedeli e nel clero.

McInerny riporta alcuni dati americani, ma è facile constatare che sono simili a quelli europei.

Dopo il Concilio la partecipazione alla Messa è crollata. Negli Stati Uniti si stima che almeno dieci milioni di cattolici abbiano smesso di partecipare alla Messa domenicale.

Si stima che nelle grandi città solo il trenta per cento dei cattolici partecipi alla Messa. La diminuzione è stata particolarmente severa tra i giovani, anche tra quelli educati nel sistema cattolico.

C’è stata una diminuzione vertiginosa delle iscrizioni alle scuole cattoliche e sempre meno neonati vengono battezzati.

Sorge quindi la domanda: “Che cosa è che è andato storno nel dopo Concilio Vaticano II?”.

Nel saggio il filosofo statunitense racconta precisamente il dibattito svoltosi nel Concilio e nel dopo Concilio.

Precisa le posizioni di coloro che tentarono di indebolire l’autorità del Pontefice durante il Vaticano II e narra di come i dissidenti hanno organizzato una sorta di magistero parallelo nel dopo Concilio.

Per McInerny, è questa confusione ed aperta ribellione culminata con l’opposizione alla Enciclica Humanae Vitae che ha indebolito la Chiesa e generato la crisi di vocazioni e di perdita di fede.

Da allora il dissenso è diventata un abitudine e alcuni teologi hanno incitato alla disobbedienza generando una crisi di autorità.

La Santa Sede ha cercato di risolvere il dissenso con un Sinodo straordinario nel 1985, con una professione di fede e il giuramento di fedeltà degli insegnanti cattolici nel 1989, con il Catechismo nel 1992, con la Veritatis Splendor del 1993 e con la lettera apostolica Tuendam Fidem del 1998.

Quest’ultima lettera apostolica ha fatto del dissenso una violazione del diritto canonico e ha minacciato sanzioni ai dissidenti.

Ma la vera soluzione alla crisi di autorità, secondo il saggio di McInerny si trova negli argomenti ed in particolare nel riconquistare gli insegnamenti magisteriali del Concilio.

Il filosofo statunitense conclude invocando una conversione di cuori, e cita il capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Beata Vergine Maria quale Madre della Chiesa.

Mc Inenrny conclude affermando che “Sarà seguendo i desideri di Maria come furono comunicati ai bambini di Fatima che la promessa del Vaticano II sarà mantenuta”.


I musulmani a scuola di democrazia. La tv fa da maestra - Mentre in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam, sui canali televisivi arabi trionfano i reality show e le soap opera. Una grande inchiesta ne analizza i messaggi. E le ambiguità - di Sandro Magister

ROMA, 27 luglio 2009 – Proprio mentre la Gran Bretagna dà via libera sul proprio territorio, in nome del multiculturalismo, a un'ottantina di tribunali islamici alternativi che come regola adottano non la Common Law britannica ma la sharia – con tutto ciò che essa comporta in materia di poligamia, di ripudio, di sottomissione della donna e di illibertà religiosa – in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam.

La notizia che viene dalla Gran Bretagna darebbe ragione ai pessimisti. Ma in Vaticano prevale una visione positiva circa la possibilità che gli Stati musulmani evolvano in democrazie liberali compiute, con il riconoscimento delle libertà fondamentali e della parità dei diritti tra uomo e donna.

È ciò che si desume dall'articolo che apre l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma che è stampata con il previo controllo della segreteria di Stato vaticana.

L'articolo ha per autore il gesuita Giovanni Sale, storico, e per titolo: "Islam e democrazia".

Dopo aver premesso che oggi gli Stati islamici nei quali si intravedano elementi di democrazia sono soltanto due, il Libano e la Turchia, padre Sale passa ordinatamente in rassegna le tesi che in Occidente si contendono il campo:

"Su questa delicata materia gli analisti occidentali si dividono in tre categorie: i cosiddetti ottimisti, i quali al loro interno si differenziano in 'gradualisti' e 'realisti' (ovvero assertori delle esigenze della Realpolitik sul piano internazionale), i pessimisti e gli scettico-possibilisti".

A giudizio di padre Sale, gli ottimisti gradualisti hanno il loro esponente di punta in Bernard Lewis, storico a Princeton.

Gli ottimisti realisti sono i neoconservatori venuti alla ribalta con la presidenza Bush, decisi a impiantare la democrazia nei paesi musulmani ma pronti anche ad allearsi con regimi dispotici amici.

I pessimisti hanno il loro vate in Samuel Hungtington, secondo il quale tra il mondo musulmano e la democrazia c'è un'antinomia irriducibile, che produce scontro di civiltà.

Gli scettico-possibilisti, infine, sostengono che la democrazia non deve essere impiantata nei paesi arabi dall'esterno ma solo può nascere e crescere dentro di essi. A questa evoluzione si oppongono però molti ostacoli, uno dei quali è proprio il fattore religioso.

Nel tirare le conclusioni, l'articolo de "La Civiltà Cattolica" respinge sia la tesi dello scontro di civiltà, sia quella neoconservatrice dell'esportazione della democrazia anche con le armi.

Mostra invece di condividere sia la tesi ottimista gradualista di Bernard Lewis, sia l'avvertenza degli scettico-possibilisti sugli ostacoli che esigono di essere superati, in primo luogo quello religioso:

"Islam e democrazia possono diventare compatibili a condizione che l'elemento religioso, con tutta la sua ricchezza di contenuti e di esperienze, funga da semplice punto di riferimento etico e morale all'azione dell'interprete della scienza sociale, senza pretendere di dettare le norme allo Stato e alla politica".

Nell'articolo, padre Sale dà rilievo all'analisi che Daniel Pipes, consulente della Casa Bianca negli anni di Bush, fa del mondo islamico. In esso Pipes vede presenti, accanto a un esteso bacino di fondamentalisti radicali, una fascia ancora più larga di musulmani avversi all'America e all'Occidente più per effetto dell'ambiente sociale in cui vivono che per convinzione radicata, e un'ulteriore fascia di musulmani "moderati" non ostili ai valori occidentali. Pipes – che pure è considerato un "falco" – sottolinea l'importanza di "un impegno culturale e civile che incoraggi gli islamici moderati a lavorare per un profondo mutamento democratico e civile delle società islamiche".

***

Ma mentre in Occidente e ai vertici della Chiesa cattolica si discetta sulla possibile evoluzione democratica dell'islam, che cosa accade dentro il mondo musulmano? Quale immagine hanno gli islamici dell'Occidente? Come lo guardano?

Una risposta di grande interesse a questa domanda è data da una ricerca condotta recentemente sui programmi trasmessi dalle reti tv dei paesi arabi.

La ricerca, molto approfondita, è stata coordinata da Donatella Della Ratta con la collaborazione di Roberta Nunnari e Naman Tarcha. I risultati sono in un volume pubblicato in Italia da Gangemi Editore, col titolo: "Media arabi e cultura nel Mediterraneo".

Le sorprese sono parecchie e un'indagine del 2002 della Gallup le aveva già fatte presagire. In quell'inchiesta gli spettatori di Al Jazeera – nonostante l'orientamento antiamericano di questa celebre emittente – si rivelavano i più favorevoli agli stili di vita occidentali, mentre i più avversi risultavano essere gli spettatori delle tv di intrattenimento, cioè proprio quelle con programmi e reality show di stampo occidentale.

Dei circa cinquecento canali televisivi arabi ora indagati da Donatella Della Ratta e collaboratori, i più liberi da controlli statali sono quelli libanesi, captati in molti altri paesi. In essi c'è di tutto: dai programmi ferocemente avversi a Stati Uniti e Israele di Al Manar, l'emittente di Hezbollah, ai reality show di LBC, la prima rete araba a mandare in onda programmi tipo "Star Academy", "Survivor" e "La Fattoria".

Il prototipo mondiale dei reality show, il "Grande Fratello", messo in onda qualche anno fa su un canale del Bahrein, è stato cancellato dopo la prima puntata, travolto dalle proteste. Ma gli altri reality hanno incontrato un crescente successo. Con inaspettati riflessi politici.

Quando ad esempio il semifinalista libanese di "Star Academy" fu eliminato a vantaggio dell'avversario siriano, Beirut fu invasa da manifestazioni di protesta contro la Siria.

E quando la finale di "Superstar" vide l'uno contro l'altro i concorrenti della Siria e della Giordania, le compagnie telefoniche statali di questi due paesi gareggiarono nell'elargire sconti e bonus ai rispettivi abbonati, perché telefonassero a sostegno del proprio "eroe nazionale".

Secondo alcuni analisti arabi, il voto via cellulare nei reality show "rappresenta la prima forma reale di democrazia partecipativa nel mondo arabo, una prova di libere elezioni".

Ma c'è dell'altro. Il reality "Star Academy" ha generato un duplicato satirico dal titolo "Irhab Academy", accademia del terrorismo. Qui a sfidarsi sono attori che rappresentano in forma grottesca diversi profili di terrorista, ciascuno con la sua diabolica specialità. L'autore è Abdallah Bijiad Al Otibi, un ex estremista dedicatosi alla battaglia televisiva contro il terrorismo.

Altri programmi televisivi di grande successo nei paesi arabi sono i musalsalat, le fiction seriali. La discussione sui problemi più scottanti, che è totalmente bandita dai telegiornali ufficiali, trova spazio nelle trame delle fiction: dalla poligamia al divorzio, dalla violenza sulle donne all'omosessualità, dal terrorismo al rapporto con l'Occidente.

La Siria primeggia nella loro produzione. Uno degli autori più importanti è Najdat Ismael Anzour, figlio del primo regista di cinema muto siriano. Una sua fiction seriale trasmessa durante il mese di Ramadan del 2007 – il mese con il maggior numero di spettatori – ha toccato la questione delle vignette satiriche su Maometto. A un certo punto uno dei protagonisti dice a un suo interlocutore, fortemente scandalizzato dalle vignette:

"Ti prego, dimmi cosa offende di più la nostra religione: uno straniero che disegna caricature banali come queste? O un musulmano che si fa saltare con una cintura esplosiva in mezzo a gente innocente?".

Naturalmente non va trascurato che vi sono fiction ferocemente ostili all'Occidente e a Israele.

Così come non va dimenticato che anche gli spot pubblicitari fanno la loro parte per immettere modelli occidentali. Ha fatto colpo quello della Coca Cola, molto sexy, molto ammiccante, con protagonista Nancy Ajram, la pop star araba più pagata e più discussa del momento.

A giudizio di alcuni analisti, tutto ciò evidenzia che un processo di secolarizzazione sta investendo il mondo musulmano. Cadono i tabù, circolano le idee, si differenziano gli stili di vita, si emulano i modelli occidentali.

Tuttavia a ciò non corrisponde un reale rinnovamento della società civile, un suo sviluppo in direzione pluralista, una sua democratizzazione.

Una "via islamica alla democrazia" è possibile: così conclude l'articolo de "La Civiltà Cattolica". Ma "una via tutta da studiare e da realizzare".

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Il libro:

"Media arabi e cultura nel Mediterrraneo", a cura di Ornella Milella e Domenico Nunnari, Gangemi Editore, Roma, 2009.

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La rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo delle autorità vaticane su cui è uscito – nel numero in data 4 luglio 2009 – l'articolo di padre Giovanni Sale, "Islam e democrazia"


Leggere l’ultimo libro di Baget Bozzo e scoprire i segreti dell’utopia dossettiana - di Roberto de Mattei - Le trasformazioni di un “professorino” costituente e partigiano. Il rapporto con Prodi, la sconfitta del modello Berlinguer e la vera influenza avuta da Dossetti nel centrosinistra. - [Da «Il Foglio», del 22 luglio 2009]

Il rapporto tra cattolici e comunisti resta la principale chiave interpretativa della storia italiana del Secondo dopoguerra. Questo rapporto fu teorizzato e vissuto da due forti personalità intellettuali, pur tra loro divergenti: Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Franco Rodano (1920-1983). Per entrambi il comunismo non fu il nemico, ma l’occasione storica per realizzare il programma sociale cristiano, che essi contrapponevano al sistema capitalistico dell’occidente.

Il compito dei cattolici, secondo Rodano, doveva essere quello di dare dimensione religiosa e metafisica, all’azione politica di Palmiro Togliatti. Dossetti pensava invece che si dovesse agire all’interno della Dc di De Gasperi, “rifondandola” per conquistare lo stato. Il gruppo “catto-comunista”, che faceva capo a Rodano riteneva che marxismo e cattolicesimo dovessero realizzare, nella comune prassi, una nuova idea di Rivoluzione.

Per la sinistra dossettiana, invece, l’idea di “Rivoluzione” era incorporata nella costituzione antifascista, che andava attuata in tutte le sue potenzialità.

All’inizio degli anni Settanta del Novecento, Rodano fu il mentore di Enrico Berlinguer, in cui vide il realizzatore della politica di Togliatti. L’epoca del compromesso storico, tra il 1974 e il 1978, fu quella del maggior successo comunista in Italia e, simultaneamente, della peggior crisi del mondo cattolico, che vide il passaggio del divorzio e dell’aborto, sotto governi a guida democristiana.

La morte, nel 1978, di Aldo Moro e di Paolo VI, segnò però il definitivo naufragio del progetto rodanian-berlingueriano. In quegli anni, don Giuseppe Dossetti, dopo aver abbandonato la politica attiva ed essere stato ordinato sacerdote, viveva in ritiro monastico. Il suo programma, dopo aver trovato un primo interprete in Fanfani e nei teorici della “terza via”, avrebbe conosciuto l’ora di apparente trionfo solo vent’anni dopo, con l’entrata in scena di Romano Prodi, sua creatura politica.

Franco Rodano trovò il suo più rigoroso critico in Augusto Del Noce (Il cattolico comunista, Rusconi, Milano 1981); Giuseppe Dossetti lo ha trovato in Gianni Baget Bozzo, di cui è appena uscito postumo, in collaborazione con Pier Paolo Saleri, “Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica” (Ares, Milano 2009). Il Foglio ha già dedicato a Dossetti ampi articoli di Maurizio Crippa e dello stesso Baget Bozzo. Chi è interessato a meglio comprendere l’influenza esercitata da Dossetti nella società italiana, troverà ora in questo volume nuovi elementi su cui riflettere.

Il pensiero di Dossetti si era in parte alimentato alle posizioni filo-fasciste dell’Università Cattolica di padre Agostino Gemelli. Si trattava, osserva Baget Bozzo, di una interruzione interruzione significativa del pensiero cattolico sul diritto naturale (p. 51). Per il giusnaturalismo cattolico, infatti, la legge naturale non può essere assorbita dal diritto positivo dello stato. Il fascismo però produsse nel mondo cattolico l’idea che fosse lo stato il garante naturale della chiesa nella società e l’unica fonte del diritto. Saleri osserva che Dossetti, proprio attraverso la sua esperienza nella Resistenza, capì che nel fascismo c’era un elemento che andava salvato, seppure in forma democratica e antifascista: lo stato che dà forma alla società in chiave anticapitalista (p. 84). Questo stato poteva essere realizzato solo attraverso una stretta alleanza tra i cattolici e le sinistre, in particolare il Pci, in quanto partito capace di dare un senso forte alle istituzioni. “Così il dossettismo appare soprattutto come una connessione nel mondo cattolico, tra la concezione fascista e quella comunista dello stato, nella forma che essa prese in Italia, un paese che doveva rimanere occidentale e in cui il comunismo non poteva prendere il potere in forma rivoluzionaria” (p. 52).

Il ruolo politico di Dossetti è legato a due momenti precisi: il 1948, che vide il giovane “professorino” trasformarsi nel sagace “costituente” che trattò con Togliatti l’articolo 7 della costituzione, e gli anni Novanta, quando l’antico costituente si trasformò in un nuovo “partigiano” della costituzione repubblicana.

In quel momento, dopo il crollo del muro di Berlino, vi era una sola possibilità per i comunisti di cambiare la situazione politica: servirsi della magistratura, che poteva non essere soltanto un potere delle istituzioni, ma anche “un potere sulle istituzioni”.

Per Dossetti l’azione della magistratura corrispondeva alla sua tesi fondamentale, quella per cui la Resistenza era incorporata nella costituzione e le forniva un valore metafisico: l’antifascismo (p. 41). La politica della costituzione antifascista divenne la chiave della legittimità politica dopo la fine dell’egemonia democristiana. I partiti antifascisti, cattolici e comunisti, erano l’essenza della Repubblica costituzionale e la democrazia italiana, secondo Dossetti, si era allontanata, con l’anticomunismo, dall’antifascismo costituzionale. I magistrati erano l’unico potere che non traeva legittimità dal voto popolare, ma dalla costituzione, senza passare attraverso i partiti. Dossetti divenne dunque il garante dell’integrità della costituzione.

Il “gran vecchio” scese dalla Montagna e ritornò sulla scena, promuovendo in tutta Italia i comitati per la difesa della costituzione, per combattere la “democrazia populista” di Silvio Berlusconi, simbolo a un tempo della società borghese e della sovranità popolare che minacciava la costituzione.

La coalizione di sinistra guidata da Romano Prodi, designato a questo ruolo dallo stesso Dossetti, riuscì a vincere le elezioni politiche contro Berlusconi, prima nel 1996 e poi nel 2006. Il ruolo di Dossetti, nelle elezioni del 1996, fu quello di un “contropotere spirituale” rispetto al Vaticano: un monaco che si sostituiva alla chiesa di Roma, assumendo su di sé il ruolo di guida spirituale dei cattolici.

Il cardinale di Milano Carlo Maria Martini fu il suo maggiore alleato. La chiesa fu costretta ad accettare l’uomo di Dossetti, legittimato da Martini, come mediatore tra la chiesa e lo stato (p. 59). Il monaco Dossetti compì in nome del suo potere spirituale ciò che il politico Dossetti aveva tessuto in forma materiale. “Dossetti e Prodi – sottolinea Baget Bozzo – appartengono alla storia religiosa d’Italia, non soltanto a quella politica” (p. 64). “Senza il tocco monastico, il dossettismo pieno e vero, cioè il prodismo, non sarebbe nato” (p. 65). Il gruppo di Dossetti aveva visto nella costituente e nella costituzione un evento rivoluzionario che dava un nuovo fondamento e un nuovo inizio alla società italiana.

Il secondo evento fu il Concilio Vaticano II. Dossetti era convinto che la collusione con il potere della chiesa post tridentina aveva portato alla separazione tra Dio e il popolo. Per riconciliarli, non era sufficiente l’azione politica, ma occorreva una riforma teologica della chiesa. Il libro di Baget Bozzo e Saleri accenna, ma lascia a margine quest’aspetto, che andrebbe integrato con la lettura dell’ampio saggio di Giuseppe Alberigo, Giuseppe Dossetti al Concilio Vaticano II, contenuto nella raccolta di saggi dello storico dossettiano, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II (Il Mulino, Bologna 2009, pp. 393-504). Dossetti partecipò al Concilio come “esperto” del cardinale Giacomo Lercaro, attorno a cui costituì l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna di cui lo stesso Alberigo, e oggi Alberto Melloni, sono eredi. Durante il Concilio, Dossetti e il gruppo di Bologna cercarono di spingere la chiesa sulla via del “conciliarismo”, spogliandola del suo Primato Romano. Il tentativo di trasformare in senso “collegiale” il governo della chiesa fallì, ma la scuola di Bologna divenne il centro di diffusione dello ‘spirito del concilio’ cioè di una chiesa, come ricordò Baget Bozzo sul Foglio, del 23 febbraio 2007, liberata dalla monarchia papale e fondata dal governo dei vescovi.

Quando, il 15 dicembre 1996, il monacopartigiano muore, a 83 anni, nella Comunità da lui fondata di Oliveto, accorrono a pregare sulla sua bara il capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e il presidente del Consiglio Romano Prodi. Quest’ultimo, come annota il “Corriere della Sera” del 16 dicembre, afferma di aver perduto in Dossetti “la sua guida
spirituale”. Anche il cardinale Martini lo piange definendolo una “figura profetica per il nostro tempo”, e dichiarando di aver avuto in lui “un grande amico e ispiratore”.

Tredici anni della nostra storia sono da allora passati. L’ascesa al Pontificato di Benedetto XVI nel 2005 e la disfatta politica di Romano Prodi nel 2008 sono state svolte epocali che hanno visto l’inesorabile tramonto di un Dossetti profeta politico-religioso, capace di “leggere la storia” e discernere “i segni dei tempi”. Il pensiero di don Giuseppe Dossetti, come quello di Franco Rodano, è oggi archiviato nella storia delle utopie. (Roberto de Mattei)


La storia di Natalina e di quell’abbraccio che unisce Sicilia e Brianza - Redazione lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
«Voi per me siete stati aria pura per poter respirare che senza mi sentivo soffocare», Miriam legge e rilegge la lettera che contiene queste parole un po’ sgrammaticate, scritte da Natalina, una signora che aveva conosciuto due anni prima grazie al Banco di Solidarietà. Forse nemmeno lei si era resa conto di quanto poteva essere importante per Natalina quel rapporto. “Come aria pura”. Cosa era successo?


Miriam e Natalina si erano incontrate nel 2005. L’anno prima Natalina, che allora aveva 26 anni, era salita in Brianza dalla Sicilia con il marito, due figli e quasi nient’altro. Con gravi problemi economici, senza lavoro, Natalina e il marito trovano un povero alloggio di due locali: una camera e una cucina praticamente spogli. Ma quello che pesa più di tutto è la solitudine. Una solitudine terribile e angosciante. Scrive Natalina, nella sua sintetica e disarmante semplicità: «Ero triste e non avevo voglia di star lì».



Un giorno, finalmente, un imprevisto: durante una visita medica ai bambini, conosce un’assistente sociale che segnala il suo caso al Banco di Solidarietà Madre Teresa, che opera in Brianza (e che oggi segue 130 famiglie bisognose). Passano due settimane e Miriam si presenta, assieme a Manuela e Mirko, a bussare alla porta di Natalina. Hanno tra le mani un pacco di generi alimentari: «Se non si offende... Ci hanno raccontato la vostra situazione. Magari possiamo aiutarvi un poco…».



Grazie a quel pacco di generi alimentari, consegnato per anni ogni due settimane, nasce tra loro un rapporto di amicizia. Natalina e il marito si attaccano a loro con tutto il cuore. Lo scrive lei stessa: «Fra di noi si è creata una forte amicizia, loro per me erano un sostegno morale». Infatti le difficoltà continuano. Manca il lavoro, mancano i soldi, a Natalina manca tantissimo anche la madre lontana…



Miriam, Mirko e Manuela li aiutano a trovare dei mobili per arredare la casa e cercano di dare una mano anche su altri fronti; portano spesso dei vestiti per i bambini. Ancora oggi Natalina racconta che ogni volta che fa indossare uno di quei vestiti a uno dei suoi figli, le vengono subito alla mente i volti amici.



Poi nel 2006 arriva una notizia tremenda: a Natalina viene diagnosticato un tumore maligno, un massa tumorale che dal naso si allunga verso l’orecchio. Sono giorni terribili durante i quali la compagnia umana di Miriam, Manuela e Mirko si fa ancora più urgente e preziosa. L’intervento al naso è complesso e delicato. Scrive Natalina: «È stato insieme a loro che mi sostenevano e mi aiutavano in tutto e per tutto, che ho superato anche questo problema».



Al momento del suo ricovero, Miriam le aveva dato una corona, e un libretto scritto da Don Luigi Giussani sul rosario: «Prega che ti aiuterà», e lei aveva preso molto seriamente questa raccomandazione. Alla fine l’intervento sembra riuscito per il meglio. Anche se le cure devono continuare. In ospedale Natalina ha un solo grande cruccio: quello di non poter stare in contatto con il marito, i figli, la madre, i nuovi amici. Loro organizzano una colletta tra gli amici e le regalano un cellulare e una scheda con del traffico prepagato, così Natalina può tenere saldi i nodi di questi legami.



Intanto però il marito perde il lavoro. Così, una volta uscita dall’ospedale Natalina con la sua famiglia deve fare ritorno in Sicilia, dove almeno è più facile vivere di autosussistenza. Miriam la mette in contatto con una Banco di Solidarietà della zona, così può continuare a ricevere generi alimentari e compagnia umana gratuita.



Ma quando sale a Milano per le visite periodiche dopo l’intervento, cerca subito gli amici brianzoli. E quando torna al sud parla continuamente ai suoi figli di quegli amici così lontani, ma così vicini. In Calabria Natalina resta incinta. Ma quando scopre che si tratta di due gemelli subentra la disperazione: «Come fare a mantenerli? Non possiamo. Non possiamo proprio».



Il marito sembra deciso: l’aborto è l’unica soluzione. Ma lei tentenna. Ne parla con Miriam, che le dice: «Non fare cose di cui poi ti pentirai. Prima incontriamoci. Parliamone». Miriam non è convinta, ma proprio durante uno sei suoi viaggi al nord, visitata da un’amica di Miriam, scopre che la diagnosi era stata errata: aspetta un bambino e non due gemelli. Natalina dice subito: «Questo è un segno. Non posso più avere dubbi. Lo devo tenere».



Ora Natalina ha tre figli. Sta ancora in Sicilia. E al nord ha degli amici, di cui aveva scritto in quella sua lettera: «Non finirò mai di ringraziarli, e di ringraziare anche tutti quelli che fanno parte del banco. Spero anche se sono lontana che voi non vi dimenticate di me, perché io sinceramente non potrei mai di voi dimenticarmi… Voi per me siete stati aria pura per poter respirare che senza mi sentivo soffocare».



Ma la gratitudine di Natalina, è la stessa di Miriam. Che racconta: «Solo la certezza di essere amata da Cristo, mi ha reso capace di amare Natalina in questo modo. Per questo oggi sono piena di gratitudine per il rapporto che è nato con lei». Anche per Miriam: «Aria pura…».
(Davide Bartesaghi)


STUDIO INGLESE SUL FLOP DELLE CAMPAGNE PRO- CONTRACCETTIVI - Educare all’amore non al «porre rimedio» - GIACOMO S AMEK L ODOVICI – Avvenire, 28 luglio 2009
L’ agenzia Aceprensa ha riferito i dati di uno studio, pubblicato dalla rivista scientifica British Medical Journal, circa l’impatto delle politiche inglesi per la riduzione del numero delle gravidanze e degli aborti tra le adolescenti. Questi dati mostrano l’inefficacia della strategia adottata, incentrata sull’incentivazione dell’uso dei contraccettivi. L’effetto ottenuto, infatti, è stato opposto a quello sperato: tra le ragazze di 13­15 anni monitorate per 18 mesi dalla ricerca, quelle che hanno seguito tale programma 'educativo' ha intrattenuto relazioni sessuali precoci nel 58% dei casi, e il 16% di esse ha cominciato una gravidanza; quelle che non lo hanno seguito hanno invece avuto relazioni precoci nel 33% dei casi, e il 6% di esse ha cominciato una gravidanza.
Ovviamente ci saranno diverse cause di questo fallimento. Per esempio, non di rado, queste politiche associano ai contraccettivi un’idea erronea di 'sesso sicuro', quando invece la sua efficacia anticoncezionale non è totale e la difesa nei confronti dell’Aids è tutt’altro che assoluta. Avvenire, del resto, ha già riferito nei mesi scorsi di altri studi scientifici che mostrano come le politiche anti-Aids focalizzate sui preservativi non ne arrestino la diffusione che, anzi, a volte, aumenta: se si trasmette l’idea secondo cui essi danno una protezione assoluta, il risultato (lo ha scritto anche Lancet, un’autorevole rivista scientifica) è l’incentivazione dei rapporti sessuali precoci e disimpegnati, talvolta promiscui, seriali e consumistici.
Ma soprattutto – ecco il punto che ci preme sottolineare – in queste politiche emerge una concezione rinunciataria dell’educazione all’amore e all’affettività, che quasi (e talvolta totalmente) la riduce a mera istruzione sui mezzi per evitare gravidanze e infezioni. Così, molto raramente si insegna che l’amore è progetto, donazione, responsabilità, fedeltà e – in certi casi – rinuncia.
Non solo per il bene altrui, ma anche per il proprio. In questi programmi l’amore è descritto quasi come mera attrazione e/o impulso sessuale irresistibili – e la diffusione di questa idea è un’altra causa della precocità e del degradarsi dei rapporti sessuali stessi –, di cui si possono solo 'contrastare' le conseguenze.
Manca quasi sempre una visione integrale dell’educazione, quella per cui essa deve accompagnare l’interlocutore verso la sua fioritura.
La vera educazione è infatti maieutica, fa appello alla volontà altrui per aiutarla a fortificarsi e per educarla alla libertà, addita l’ideale di una signoria su stessi, sui propri desideri e impulsi, anche (ma non solo) sessuali, non per reprimerli, bensì per assecondarli in modo conforme al bene integrale della persona. Manca, in definitiva, l’idea classica di virtù, parola che oggi suona negativa, perché la si associa a un’autorepressione, quando invece la vera virtù assume le energie delle emozioni, degli affetti e delle passioni, realizza una sintesi con la ragione e con la volontà, porta tutti gli aspetti dell’essere umano a convivere armoniosamente tra di loro. Così, grazie a tale unità delle sue dimensioni, che cooperano verso il suo bene complessivo, l’uomo virtuoso è interiormente forte.
Non è vero che una tale educazione è inefficace. Infatti, programmi educativi di questo tipo sono stati adottati con successo in vari Paesi.
Per esempio negli Stati Uniti: nei luoghi dove sono stati applicati, il numero delle gravidanze precoci è calato del 38 % e quello degli aborti è sceso del 50%. O in Uganda, dove il tasso di infezione dell’Aids è sceso dal 21% al 6%.


«Urgente un fisco a misura di famiglia» - DA F IUGGI (F ROSINONE ) A UGUSTO C INELLI – Avvenire, 28 luglio 2009
« È arrivato il momento di costruire un’alleanza forte tra famiglia, lavoro e impresa per costruire insieme una società che sia realmente, e non solo a parole, a misura di famiglia » . È il professor Francesco Belletti, neo- presidente del Forum delle Associazioni Familiari, a racchiudere efficacemente in poche parole l’esito del dibattito sul tema « Un fisco per le famiglie » , tenutosi ieri nell’ambito del Fiuggi Family Festival. Belletti si rivolge in particolare ai rappresentanti dei sindacati nazionali che sono tra i protagonisti della tavola rotonda, moderata dal giornalista Tarcisio Tarquini, nella suggestiva cornice della Fonte Bonifacio VIII, che ospita la kermesse per la famiglia tra cinema, dibattiti e distensione. Il presidente del Forum raccoglie con soddisfazione la convergenza di intenti con le sigle sindacali ( assente giustificata la Cisl) registrata nel dibattito, auspicando che « anche i sindacati si spendano per uno Stato a misura di famiglia insieme con quell’associazionismo familiare che non vuole elemosinare assistenza con il cappello in mano » , ma chiede alla politica « di fare giustizia » , sostenendo chi, mettendo al mondo dei figli, offre alla società un contributo insostituibile. A tal fine, l’incontro del Fiuggi Festival ha ribadito la necessità di una decisa inversione di rotta del sistema fiscale, palesemente ingiusto con i nuclei familiari con figli, come rivendicato dalla recente raccolta di firme del Forum Famiglie. Un punto che ha trovato tutti d’accordo, anche in riferimento alle politiche fiscali di segno opposto messe in campo da altri Paesi europei. Così Alessandro Soprana, dell’Associazione Famiglie Numerose ( che nell’ambito della kermesse fiuggina sta tenendo la propria assemblea nazionale) denunciando l’insufficienza di provvedimenti legislativi avulsi da un più ampio progetto pro- famiglia, si è augurato che un giorno in Italia i beni e i servizi per i figli non siano più tassati. E se Riccardo Zelinotti, del Dipartimento politiche economiche della Cgil, ha puntato l’indice sulla carente cultura della legalità fiscale nel Paese e su un fisco che pesa sulle tasche di dipendenti e pensionati, Cristina Ricci, della segreteria confederale dell’Ugl, si è detta convinta della bontà dello strumento del quoziente familiare, da introdurre « almeno per gradi » . Sul valore sociale della maternità, tanto decisivo per la società quanto snobbato dai governi di ogni colore, ha insistito Nirvana Nisi, della segreteria della Uil, secondo la quale uno Stato che non voglia suicidarsi deve garantire l’efficienza di tutti quei servizi di cui ha bisogno la famiglia. Oggi al Family Festival, che ha registrato nelle prime tre giornate punte di duemila presenze, si parlerà del servizio dei consultori alla famiglia, con l’europarlamentare Carlo Casini e il senatore Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, delegato alle Politiche familiari. Il vice presidente della Camera Rocco Buttiglione, in visita alla manifestazione, ha detto che « questo è il tipo di famiglia più rilevante nel nostro Paese ed è bene che quei politici che pensano solo alle coppie di fatto se ne rendano conto » .
Al Festival di Fiuggi il presidente del Forum Francesco Belletti: «Anche i sindacati si spendano». E chiede alla politica di fare giustizia sostenendo chi, facendo figli, offre un contributo insostituibile alla società


Hanoi, 500mila cattolici in piazza - HANOI. - Avvenire 28, luglio 2009
Mezzo milione di cattolici vietnamiti sono scesi per le strade delle loro città per protestare contro le violenze compiute dalla polizia ai danni di centinaia di fedeli il 20 luglio, presso le rovine della chiesa di Tam Toa. Ne ha dato notizia l’agenzia “AsiaNews”. La diocesi di Vinh, 300 chilometri a sud di Hanoi,Vietnam, e altre limitrofe hanno organizzato 19 cortei, in altrettanti decanati, per chiedere l’immediato rilascio dei fedeli picchiati e arrestati delle forze dell’ordine a Tam Toa. . Circa 170 sacerdoti e 420 religiose hanno guidato le manifestazioni di protesta pacifica che si sono svolte in diverse località delle province di Nghe An, Ha Tinh e Quang Binh. Gli organizzatori affermano che in alcuni luoghi ci sono stati scontri tra polizia e gruppi di manifestanti ai quali le forze dell’ordine avevano intimato di non scendere per le strade in corteo. Nonostante le minacce, i fedeli hanno comunque sfilato, dando vita ad una manifestazione che alcuni definiscono la più grande mai avvenuta nel Paese per motivi religiosi. La vicenda di Tam Toa ed i cortei di domenica rinfocolano le tensioni tra il governo e la comunità cristiana vietnamita attorno alla disputa sulle proprietà della Chiesa confiscate da Hanoi. Il vescovo della diocesi di Vinh, sul cui terreno si trovano i resti della chiesa al centro della vicenda, ha accusato le autorità di Quang Binh, di nascondere la verità e di violare la legge. In una lettera inviata al governo locale, la Chiesa di Vinh chiede il rilascio dei cattolici arrestati a Tam Toa, le cure mediche dei feriti picchiati dalla polizia e la restituzione della croce e degli arredi liturgici.


Pechino, Erode invisibile - INTERVISTA. Il dissidente cinese Wu, ospite al prossimo Meeting di Rimini: «Troppo silenzio sulla criminale politica del figlio unico» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 28 luglio 2009
Q uattrocento milioni di per­sone in meno. A tanto as­sommano i 'risultati' della politica demografica in Cina, in corso da un trentennio. Lo denun­cia un noto dissidente cinese, Harry Wu, direttore della Laogai Founda­tion ed esiliato a Washington. Wu, conosciuto per il suo Controrivolu­zionario
(San Paolo) dove ha rievo­cato gli anni nei lager maoisti, sarà ospite del Meeting di Rimini interve­nendo – domenica 23 agosto – all’in­contro 'Tien An Men: la Cina vent’anni dopo'. Ha dato appena pubblicato Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina (Gue­rini, pagine 185, euro 21,50), docu­mento suffragato da testimonianze di prima mano e da confessioni di ex funzionari di Pechino addetti all’illi­berale politica demografica del gi­gante asiatico.
Signor Wu, qual scoperta l’ha colpi­ta di più studiando la prassi del fi­glio unico in Cina?
«La libertà di generare un figlio è u­no dei diritti umani fondamentali.
Infrangerlo, come il governo cinese sta facendo da trent’anni con meto­di coercitivi e brutali come l’aborto e le sterilizzazioni compiute con la violenza, è una delle violazioni più gravi dei dritti umani mai compiute da Pechino. Il rafforzamento della politica del figlio unico rappresenta non solo un notevole affronto alla dignità delle donne ma contribui­sce anche a diversi problemi sociali e demografici, compresa la rapidità nell’invecchiamento della popola­zione e uno squilibrio tra i sessi, nonché un crescente traffico di donne e bambini. Ciò che mi ha maggiormente colpito è la vastità con cui è portata avanti tale prassi.
In base alle cifre dello stesso gover­no, la politica del figlio unico ha la responsabilità di aver ridotto di cir­ca quattrocento milioni la popola­zione cinese».
Nel suo libro si leggono racconti drammatici di infanticidi compiuti dalle autorità pubbliche cinesi nei confronti dei bambini «che non do­vevano nascere». La società civile del suo Paese non è interessata a queste cruenti violazioni del diritto alla vita?
«La politica del figlio unico rimane estremamente impopolare nelle zo­ne rurali della Cina dove risiede la maggioranza della popolazione: qui è abbastanza forte il desiderio di a­vere una famiglia numerose in modo da poter lavorare i campi e da avere persone che si prenderanno cura dei genitori da anziani. Certamente i funzionari pubblici che si impegna­no in aborti o sterilizzazioni forzate possono instillare un grande senti­mento di risentimento nella comu­nità, ma le vittime hanno pochi aiuti disponibili. La stampa non ha il per­messo di riferire questi abusi, così molti cittadini non conoscono tutti i dettagli di come venga attuata la po­litica demografica del governo. Alcu­ni individui coraggiosi stanno cer­cando di mettere fine a queste vio­lenze. Il più noto è Chen Guang­chen, un avvocato cieco che ha for­nito assistenza legale alle vittime di una massiccia campagna di steriliz­zazione forzata nella contea di Linyi nel 2005. Ma, sfortunatamente, Chen è stato condannato a quattro anni di prigione per colpa dei suoi sforzi: ancor oggi è in prigione».
La 'libertà di maternità' in Cina viene considerata un tema impor­tante dalle Ong umanitarie?
«In verità questo problema non rice­ve una grande attenzione da parte delle organizzazioni occidentali, o almeno non come avviene per altri diritti umani. Ma le violenze legate alla politica del figlio unico sono sta­te ben documentate e il nodo è stato sollevato in diverse udienze al Con­gresso americano dedicate ai diritti umani in Cina. Gli addetti alla pro­paganda del governo di Pechino hanno cercato di 'coprire' il proble­ma suggerendo l’idea che gli aborti o le sterilizzazioni vengono fatte solo in maniera volontaria, cosa assoluta­mente falsa. Ma questo lavoro ha a­vuto alcune conseguenze e potrebbe essere in parte responsabile del per­ché su tale questione tema non ci sono molto proteste. Posso dire che sono rimasto sorpreso dal fatto che il sistema di controllo demografico coercitivo in atto in Cina non abbia 'scaldato' la gente negli Stati Uniti.
Questo è strano: gli aborti forzati rappresentano un problema che su­pera i fronti ' pro life' e ' pro choice '.
Spero che più gente si interesserà a questo problema: esso riguarda la nostra comune umanità».
Il suo saggio riferisce la notizia che la popolazione cinese sta invec­chiando e che l’indice di fertilità (1,8 figlio per donna) è inferiore a quello di sostituzione demografica. Secon­do lei Pechino cambierà strategia?
«Il governo dovrà modificare la poli­tica del figlio unico almeno in alcuni punti. Altrimenti ci saranno impatti disastrosi sulla società e l’economia cinese, nonché sui grandi risultati e­conomici che rappresentano l’unica reale fonte di legittimità del partito comunista come soggetto di gover­no. Lo scorso anno erano girate voci che il governo fosse pronto a rivede­re la legge ma i funzionari del settore demografico hanno costretto il Parti­to a restare sulle vecchie posizioni.
Tanto che è stato ribadito che l’at­tuale politica resterà valida per altri dieci anni. Questo però dimostra che all’interno del potere comunista esiste un dibattito e forse esistono voci più liberali che chiedono un cambiamento».
«Per il regime sterilizzazioni e aborti sono sempre 'libere scelte' delle donne, ma non è vero: l’enorme malcontento non trova voce. E intanto si va verso la crisi demografica»


In difesa di Pio XII - Tra i sussurri e le grida la verità della storia - di Roberto Pertici - Università di Bergamo – L'Osservatore Romano, 28 Luglio 2009

Un problema percorre molti saggi compresi nel volume In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia (a cura di Giovanni Maria Vian, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13): il mutamento di giudizio sulla figura di Pio XII, sul suo atteggiamento durante il secondo conflitto mondiale e di fronte allo sterminio degli ebrei europei, che si verificò intorno al 1960. Il punto di svolta è costituito dalla rappresentazione berlinese di Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth, il 20 febbraio 1963: il dramma sarebbe stato in seguito messo in scena a Londra il 25 settembre, a New York il 26 febbraio 1964 e a Roma il 13 febbraio 1965 e poi pubblicato un po' in tutte le lingue. Fino ad allora - si ripete - i giudizi erano stati generalmente positivi, spesso molto positivi, anche da parte dei principali esponenti dell'ebraismo internazionale e dello Stato d'Israele.
È vero: chi, per fare solo un esempio, ripercorra i dibattiti dell'Assemblea costituente italiana, si imbatte di continuo in ampi riconoscimenti all'operato della Chiesa cattolica negli ultimi anni del fascismo, in quelli della guerra e poi dell'occupazione nazista: "Perché in Italia c'è la pace religiosa? - si chiedeva forse il massimo esponente del laicismo italiano di allora, l'azionista Piero Calamandrei nel suo discorso del 20 marzo 1947 contro l'articolo 7 - Perché a un certo momento, negli anni della maggiore oppressione ci siamo accorti che l'unico giornale nel quale si poteva ancora trovare qualche accenno di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi, era "L'Osservatore Romano"; perché abbiamo sperimentato che chi comprava "L'Osservatore Romano" era esposto ad essere bastonato; perché una voce libera si trovava negli "Acta diurna" dell'amico Gonella; perché, quando sono cominciate le persecuzioni razziali, la Chiesa si è schierata contro gli oppressori (Approvazioni) in difesa degli oppressi; perché quando i tedeschi ricercavano i nostri figliuoli per torturarli e fucilarli, essi, qualunque fosse il loro partito, hanno trovato rifugio - ve lo attesta un babbo - nelle canoniche e nei conventi".
Tuttavia già in quegli anni si erano introdotte note dissonanti: molto attiva in tal senso fu la propaganda sovietica, che aveva iniziato a produrre decine di opuscoli contro la politica vaticana degli anni Venti e Trenta e durante il conflitto appena trascorso, presentandola tutta in blocco come connivente con i fascismi e poi in qualche modo complice della progettata egemonia nazista. Sembra che la maggior parte delle tesi poi drammatizzate ne Il vicario fossero rinvenute da Hochhuth nel volume dello storico sovietico Mikhail Marcovich Scheinmann, Der Vatikan im zweiten Weltkrieg, pubblicato in russo dall'Istituto storico dell'Accademia sovietica delle scienze e tradotto poi in tedesco (1954) e anche inglese (1955).
Scheinmann non era ignoto al pubblico italiano: la sua opera precedente, Il Vaticano tra due guerre, era stata pubblicata dalle Edizioni di cultura sociale - una delle case editrici del Pci - nel 1951, con una prefazione dello storico Giorgio Candeloro, che allora era militante comunista.
A cosa era dovuta questa massiccia campagna antivaticana? I dirigenti dell'Urss avvertivano nell'anticomunismo di Pio XII uno dei principali ostacoli alla loro politica, al tempo stesso minacciosa e suadente, verso l'Europa occidentale; ma sicuramente c'era anche dell'altro. Nel suo saggio, Paolo Mieli parla di "cattiva coscienza", cioè del tentativo da parte della dirigenza sovietica di occultare le proprie gravi responsabilità di fronte alla politica di sterminio portata avanti dai nazisti, in primo luogo nell'Europa orientale. È ormai stato documentato che in tutti i discorsi pubblici da lui pronunziati durante la guerra, Stalin citò gli ebrei una sola volta, ignorando in modo sistematico le violenze dei nazisti nei loro confronti. Nei quasi due anni che vanno dall'invasione tedesca della Polonia all'inizio dell'operazione Barbarossa nel giugno del 1941, la stampa sovietica - in questo periodo l'Urss era praticamente alleata con Hitler - evitò qualsiasi resoconto su ciò che stava accadendo agli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti. In questo modo gli ebrei sovietici restarono nella più completa ignoranza sul destino che sarebbe toccato loro in sorte e la natura specifica della violenza razziale - anche nel momento in cui dilagava sul territorio sovietico - fu minimizzata. Di recente un acuto storico inglese come Michael Burleigh ha sottolineato la trascuratezza della storiografia nei confronti delle risposte sovietiche alla Shoah, se paragonata alla vastità della letteratura dedicata alle nazioni neutrali e alle democrazie occidentali - e, possiamo aggiungere, alla Santa Sede.
Ancora Mieli aggiunge che la "leggenda nera" di Pio XII non è nata nell'ambiente ebraico, ma in quello anglosassone e protestante: anch'esso aveva tardato a prendere coscienza di quanto stava accadendo in Europa. Il cosiddetto telegramma Riegner dell'8 agosto 1942, che forniva le prime informazioni - sia pure in modo ancora ipotetico - sulla "soluzione finale" fu accolto con grande scetticismo dall'establishment americano, che solo nel dicembre successivo si decise a una prima dichiarazione nel merito. Ma mi è capitato di leggere di recente l'autobiografia di uno dei più diretti collaboratori di John Fitzgerald Kennedy negli anni della sua presidenza, lo storico Arthur M. Schlesinger jr., che conferma tali incomprensioni: l'Office of Strategic Service, presso cui lavorava dopo il 1943 in qualità di analista politico, si pose il problema di cosa fosse la "soluzione finale", senza arrivare a vere conclusioni e limitandosi ad una considerazione in termini di semplice "persecuzione" e non di "sterminio": "Forse - ricorda Schlesinger - eravamo talmente assorbiti dalla sordida minaccia della guerra, che non ci focalizzammo su questo inesprimibile abominio. È anche possibile che l'idea di uno sterminio di massa fosse così al di là della normale capacità di comprensione degli americani di impedirci istintivamente di credere alla sua esistenza".
Se ormai è abbastanza noto il ruolo che ha svolto del denunziare i cosiddetti "silenzi" di Pio XII una serie di cattolici "inquieti" nei primi anni del dopoguerra - esiste in merito un saggio di Giovanni Maria Vian che documenta le posizioni di Mounier e di Mauriac in Francia, in Italia di Carlo Bo - va ricordato che tali temi emersero largamente anche nelle grandi polemiche anticlericali che si svilupparono in Italia negli ultimi anni del pontificato pacelliano: le ritroviamo, per esempio, nel noto volume di Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio del 1957.
Ma perché questi "sussurri" diventarono "grida" dopo il 1963? Il dramma di Hochhuth è di lettura impervia e, se rappresentato integralmente, di una durata sterminata - in Italia, Gianmaria Volonté dovette operare numerosi tagli per renderlo digeribile. In un dibattito parlamentare del marzo del 1965, un laico come il liberale Giovanni Malagodi ebbe a definirlo "un dramma teatrale grossolano nella sua natura". Come mai allora il suo impatto fu così devastante? Perché nel frattempo si era verificato un decisivo mutamento di sfondo culturale, che avrebbe condizionato tutto il dibattito successivo. Non c'è dubbio che il processo Eichmann, svoltosi negli anni immediatamente precedenti, aveva riproposto di fronte a tutta l'opinione pubblica internazionale - specialmente alle generazioni che non avevano conosciuto la guerra - la tragedia dello sterminio e quindi dato una nuova centralità alla Shoah. Ma soprattutto si stava allora affermando nei Paesi dell'Europa occidentale e negli Usa una cultura che possiamo definire - con mille virgolette - "progressista", che tracciava una determinata linea di progresso nella storia, individuando nel contempo le forze che premevano in quella direzione e quelle che vi facevano resistenza.
Questa nuova cultura si basava essenzialmente su un giudizio intorno alla storia contemporanea, che possiamo così sintetizzare: tutto il vecchio mondo è confluito nei fascismi; la loro liquidazione definitiva comporta anche una resa dei conti con quei valori e con quelle strutture "tradizionali" che ad essi hanno dato appoggio o, comunque, ne hanno favorito l'ascesa. In questo contesto Il vicario di Hochhuth finiva per non riguardare soltanto Pio XII: esso metteva in discussione il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nell'intera storia del Novecento, contribuendo potentemente a mutare l'opinione fino ad allora prevalente.
Negli stessi anni - ci sono in merito osservazioni importanti nei saggi di Andrea Riccardi e dello stesso Vian - un'operazione parallela a questa veniva svolta da alcuni ambienti che potremmo chiamare - anche qui le virgolette sono d'obbligo - di "progressismo cattolico": il problema dei "silenzi" di Pio XII rientrava nella più generale questione costituita - a giudizio di questi ambienti - dal favore che la Chiesa avrebbe accordato ai movimenti fascisti. Esso non poteva essere considerato - si sosteneva - come un fatto accidentale, senza ragioni lontane. Ne emergeva una visione critica della storia della Chiesa in età moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite: l'istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della "reazione", per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non sarebbero state che la conclusione di un lungo processo. Questo errore corrispondeva, nelle sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla riforma cattolica e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva rifondazione teologica ed ecclesiale e le speranze nel concilio Vaticano ii. Anche su queste basi nasce quell'"ermeneutica della discontinuità" nella valutazione del concilio, di cui tanto si è discusso in questi ultimi anni. Insomma la posta in gioco nei dibattiti su Pio XII è - come si vede - assai rilevante: s'intende perché da allora la bibliografia sulla sua figura sia diventata sterminata e difficilmente controllabile da qualunque studioso. Quale contributo fornisce, allora, questo volume?
Innanzitutto sarebbe fuor di luogo chiedergli nuova documentazione o prospettive di ricerca radicalmente innovative: si tratta - come ha dichiarato il suo curatore - di una raccolta di testi di alta divulgazione pubblicati precedentemente su "L'Osservatore Romano" e poi spesso riscritti o rielaborati dai diversi autori - a essi sono aggiunti alcuni importanti interventi di Benedetto XVI sulla figura di Papa Pacelli e sul suo ruolo nella storia del Novecento. Ciò non toglie che ne emergano tutta una serie di suggestioni degne di nota: nell'attività storiografica, il corretto ragionamento è altrettanto importante del momento della ricerca documentaria.
Il saggio di Andrea Riccardi offre un'ampia riflessione sulle varie fasi dell'attività e del magistero di Eugenio Pacelli prima e poi di Pio XII, accennando a un tema da lui sviluppato anche altrove - per esempio nell'introduzione al suo ultimo libro L'inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma - e che a me pare assai rilevante nel nostro discorso: quello della debolezza "politica" della Chiesa in un mondo di Stati, lacerato dai nazionalismi. Una Chiesa solo apparentemente forte, ma politicamente non è mai tale, poiché non controlla nessun territorio e deve fare i conti con poteri in loco, spesso di carattere autoritario o totalitario. Questa - per lo storico - è la sua realtà nel lungo periodo, oltre i miti in un senso o nell'altro.
Chi ragiona della politica di Pio XII dal 1939 al 1945 non può prescindere da questo sfondo: deve condurre un'analisi differenziata dei vari contesti europei, in relazione ai vari episcopati, alle personalità dei nunzi e alla natura dei governi di fronte ai quali ebbe a trovarsi l'azione della Santa Sede. Mentre per il Vaticano fu praticamente impossibile esercitare una qualche forma di influenza laddove i nazisti avevano un dominio diretto - quindi in Olanda, in Belgio, nella Francia occupata, in Polonia, in Ucraina, nella Russia conquistata, oltre che naturalmente in Germania - in alcuni degli Stati satelliti del Terzo Reich - specie se dichiaratamente confessionali - e in alcuni degli Stati alleati di Hitler, i suoi interventi un qualche risultato lo ottennero: talora riuscirono a posporre o a ritardare la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei una parte dei quali nel frattempo poté essere salvata.
Nella Slovacchia governata dal discusso monsignor Jozef Tiso, fra l'ottobre 1942 e l'autunno 1944 la deportazione venne sospesa per le continue pressioni del nunzio Giuseppe Burzio e della segreteria di Stato vaticana: si tratta di un caso pressoché unico nella storia della Shoah. Discriminati ma non deportati furono anche gli ebrei ungheresi, almeno finché restò al governo il protestante Miklós Horthy (cioè sino al 23 marzo 1944) e anche qui è nota l'azione svolta, prima e dopo quella data, dal nunzio monsignor Angelo Rotta. Minore smalto ebbe probabilmente l'intervento della Santa Sede nella Francia di Vichy, ma resta il fatto che l'ebraismo francese - con quello italiano - è stato uno di quelli che percentualmente sono stati meno devastati dalla persecuzione nazista e che questo fu dovuto a un "contesto", in cui la presenza ecclesiastica ebbe un notevole peso.
È merito di una serie di contributi quello di ricercare un approccio "totale" alla figura di Pio XII, la cui attività e il cui pensiero non possono essere limitati agli anni del secondo conflitto mondiale, ma valutati in tutta la loro complessità, dai primi passi del giovane monsignore romano fino alla fine degli anni Cinquanta - una prospettiva aperta da Riccardi negli anni Ottanta e continuata, per esempio, da Philippe Chenaux nella sua biografia del 2003.
Così l'arcivescovo Rino Fisichella cerca di sintetizzare la risposta pacelliana alle sfide della "modernità", nella consapevolezza che essa non è un valore in sé, ma appunto una sfida a cui rispondere in modo articolato e consapevole di una tradizione, che non può essere dismessa. La "cultura" - compatta ed enciclopedica - di Pio XII è saggiata da diverse prospettive dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, che ricorda - fra i tanti spunti del suo saggio - il discorso del 6 dicembre 1953 all'Unione dei giuristi cattolici italiani, in cui offrì una teorizzazione della tolleranza religiosa, che prelude in qualche modo ai documenti conciliari.
Il cardinale Tarcisio Bertone ripercorre l'azione diplomatica di Pacelli nunzio, segretario di Stato e romano pontefice. Anche qui mi limito a un'osservazione: Bertone sottolinea l'importanza del viaggio negli Stati Uniti che il cardinale Pacelli compì nell'autunno del 1936 (Carissimo Cardinali suo Transatlantico Panamerico Eugenio Pacelli feliciter redenti: questa fu la dedica che Pio XI gli fece al suo ritorno). Nonostante la massa documentaria messa a disposizione dal volume di Ennio Di Nolfo del 1978, forse non si è ancora messa del tutto a fuoco l'importanza del precoce vincolo fra Pacelli e gli Usa - Chenaux parla di "alleanza morale" fra la Santa Sede e gli Stati Uniti nel decennio successivo. Non è un problema indifferente al nostro discorso: gli Usa di Roosevelt sono un altro mondo rispetto alla Germania di Hitler e - direi - all'Europa continentale per lo più in mano a Stati autoritari. Qualcosa cambia nelle coordinate di fondo del cardinale romano, nella sua complessiva visione dei problemi mondiali. Il segretario di Stato ricavò una forte impressione dalla realtà americana, dal suo "dinamismo" e dalle sue potenzialità: cominciò a prender coscienza di un modello di società diverso da quello tedesco, con cui aveva avuto, da sempre, profonda familiarità.
Dopo la guerra, Pio XII non divenne - lo si ripete anche in questo volume - il "cappellano dell'Occidente", ma indubbiamente fu una delle voce più notevoli del vario anticomunismo europeo. Anche a questo proposito credo che ci si debba liberare da un certo anti-anticomunismo, residuo culturale degli anni Sessanta e Settanta. L'anticomunismo - come d'altronde l'antifascismo - fu un movimento estremamente variegato nei temi, nei punti di riferimento culturale e nelle prospettive politiche: esso quindi deve essere disaggregato e valutato nelle sue varie componenti. Ma riprendendo il titolo di un noto libro di John Lewis Gaddis, We now know: dopo l'apertura degli archivi sovietici, è difficile imputare - per fare solo un esempio - ai vescovi tedeschi di avere fortemente sostenuto la politica atlantica ed europeista di Adenauer, resistendo alle sirene neutraliste e pacifiste di Stalin - e ciò in piena sintonia con le indicazioni del Papa.
Infine questo volume testimonia la possibilità di un fecondo incontro fra la cultura cattolica e quella ebraica anche su questi temi spinosi. Particolarmente toccanti sono le pagine di Saul Israel che vi vengono ripubblicate: si tratta di riflessioni e ricordi dell'"ebreo di Salonicco", come lo chiamava Arturo Carlo Jemolo, nate nel convento di Sant'Antonio in via Merulana nell'aprile del 1944, dove riuscì a salvarsi dalla persecuzione nazista. Ancora Israel aveva rievocato, in un saggio apparso su "Studium", nell'ottobre 1950, la figura di Giulio Salvadori e il suo rapporto aperto e simpatetico con la tradizione ebraica: il poeta dell'"umile Italia" fa parte di una linea di filosemitismo, che - sia pure minoritaria - è presente nel cattolicesimo italiano degli ultimi due secoli e che deve essere ricuperata e adeguatamente valutata.
Si è cominciato a farlo col recente volume di Valerio De Cesaris, Pro Judaeis, ma molte figure devono essere ancora recuperate: senza questo retroterra, è difficile capire fino in fondo lo "Spiritualmente siamo tutti semiti" del lombardo e manzoniano Achille Ratti.

(©L'Osservatore Romano - 27-28 luglio 2009)