giovedì 30 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa presenta San Germano, Patriarca di Costantinopoli - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Ricordi di Ennio Morricone - Mio cognato e il finale di «Giù la testa» - di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 aprile 2009
3) I santi e la pratica eroica delle virtù - Nell'ambito delle manifestazioni per l'ottavo centenario dell'approvazione della protoregola di san Francesco d'Assisi, mercoledì 29 si è tenuta una giornata di studio presso la Pontificia Università Antonianum. Pubblichiamo ampi stralci della relazione dell'arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi dedicata a Il senso della santità nella vita della Chiesa oggi. - di Angelo Amato
4) 1° MAGGIO/ Lettere dal carcere: quando il lavoro dietro le sbarre rende più liberi e più uomini - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
5) 1° MAGGIO/ L’imprenditore: è la crisi ad insegnarci ancora qualcosa - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
6) FILOSOFIA/ Così Ratzinger e Habermas “duellarono” sulla convivenza civile - Sante Maletta - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) «Liberi per vivere»: adesso si fa sul serio - di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 30 aprile 2009
8) sul campo - di Lorenzo Schoepflin - In piena corsa la lobby pro-eutanasia - La macchina della propaganda su autodeterminazione e testamento biologico va a tutta velocità: convegni, raccolte firme, dossier giornalistici... - Tutto per diffondere l’idea 'pluralista' che «la vecchia morale non serve più» - Avvenire, 30 aprile 2009
9) cure palliative - Il vero hospice? Fra le mura domestiche - di Francesca Lozito – Avvenire, 30 aprile 2009
10) Ratzinger, teologia dell’Assoluto - DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 30 aprile 2009

Il Papa presenta San Germano, Patriarca di Costantinopoli - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Germano, Patriarca di Costantinopoli.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il Patriarca Germano di Costantinopoli, del quale vorrei parlare oggi, non appartiene alle figure più rappresentative del mondo cristiano orientale di lingua greca e tuttavia il suo nome compare con una certa solennità nella lista dei grandi difensori delle immagini sacre, stesa nel Secondo Concilio di Nicea, settimo ecumenico (787). La Chiesa Greca celebra la sua festa nella liturgia del 12 maggio. Egli ebbe un ruolo significativo nella storia complessa della lotta per le immagini, durante la cosiddetta crisi iconoclastica: seppe resistere validamente alle pressioni di un Imperatore iconoclasta, cioè avversario delle icone, quale fu Leone III.
Durante il patriarcato di Germano (715-730) la capitale dell’impero bizantino, Costantinopoli, subì un pericolosissimo assedio da parte dei Saraceni. In quell’occasione (717-718) venne organizzata una solenne processione in città con l’ostensione dell’immagine della Madre di Dio, la Theotokos, e della reliquia della Santa Croce, per invocare dall’Alto la difesa della città. Di fatto, Costantinopoli fu liberata dall’assedio. Gli avversari decisero di desistere per sempre dall’idea di stabilire la loro capitale nella città simbolo dell’Impero cristiano e la riconoscenza per l’aiuto divino fu estremamente grande nel popolo.
Il Patriarca Germano, dopo quell’evento, si convinse che l’intervento di Dio doveva essere ritenuto un’approvazione evidente della pietà mostrata dal popolo verso le sante icone. Di parere completamente diverso fu invece l’imperatore Leone III, che proprio da quell’anno (717) si insediò quale Imperatore indiscusso nella capitale, su cui regnò fino al 741. Dopo la liberazione di Costantinopoli e dopo una serie di altre vittorie, l’Imperatore cristiano cominciò a manifestare sempre più apertamente la convinzione che il consolidamento dell’Impero dovesse cominciare proprio da un riordinamento delle manifestazioni della fede, con particolare riferimento al rischio di idolatria a cui, a suo parere, il popolo era esposto a motivo dell’eccessivo culto delle icone.
A nulla valsero i richiami del patriarca Germano alla tradizione della Chiesa e all’effettiva efficacia di alcune immagini, che venivano unanimemente riconosciute come ‘miracolose’. L’imperatore divenne sempre più irremovibile nell’applicazione del suo progetto restauratore, che prevedeva l’eliminazione delle icone. E quando il 7 gennaio del 730 egli prese posizione aperta in una riunione pubblica contro il culto delle immagini, Germano non volle in nessun modo piegarsi al volere dell’Imperatore su questioni ritenute da lui determinanti per la fede ortodossa, alla quale secondo lui apparteneva proprio il culto, l’amore per le immagini. In conseguenza di ciò, Germano si vide costretto a rassegnare le dimissioni da Patriarca, auto-condannandosi all’esilio in un monastero dove morì dimenticato pressoché da tutti. Il suo nome riemerse in occasione appunto del Secondo Concilio di Nicea (787), quando i Padri ortodossi decisero in favore delle icone, riconoscendo i meriti di Germano.
Il Patriarca Germano curava molto le celebrazioni liturgiche e, per un certo tempo, fu ritenuto anche l’instauratore della festa dell’Akatistos. Come è noto, l’Akatistos è un antico e famoso inno sorto in ambito bizantino e dedicato alla Theotokos, la Madre di Dio. Nonostante che dal punto di vista teologico non si possa qualificare Germano come un grande pensatore, alcune sue opere ebbero una certa risonanza soprattutto per certe sue intuizioni sulla mariologia. Di lui sono state conservate, in effetti, diverse omelie di argomento mariano e alcune di esse hanno segnato profondamente la pietà di intere generazioni di fedeli sia in Oriente che in Occidente. Le sue splendide Omelie sulla Presentazione di Maria al Tempio sono testimonianze tuttora vive della tradizione non scritta delle Chiese cristiane. Generazioni di monache, di monaci e di membri di numerosissimi Istituti di Vita Consacrata, continuano ancora oggi a trovare in quei testi tesori preziosissimi di spiritualità.
Creano ancora adesso stupore anche alcuni testi mariologici di Germano che fanno parte delle omelie tenute In SS. Deiparae dormitionem, festività corrispondente alla nostra festa dell’Assunzione. Fra questi testi il Papa Pio XII ne prelevò uno che incastonò come una perla nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1950), con la quale dichiarò dogma di fede l’Assunzione di Maria. Questo testo il Papa Pio XII citò nella menzionata Costituzione, presentandolo come uno degli argomenti in favore della fede permanente della Chiesa circa l’Assunzione corporale di Maria in cielo. Germano scrive: "Poteva mai succedere, santissima Madre di Dio, che il cielo e la terra si sentissero onorati dalla tua presenza, e tu, con la tua partenza, lasciassi gli uomini privi della tua protezione? No. E’ impossibile pensare queste cose. Infatti come quando eri nel mondo non ti sentivi estranea alle realtà del cielo, così anche dopo che sei emigrata da questo mondo non ti sei affatto estraniata dalla possibilità di comunicare in spirito con gli uomini… Non hai affatto abbandonato coloro ai quali hai garantito la salvezza… infatti il tuo spirito vive in eterno né la tua carne subì la corruzione del sepolcro. Tu, o Madre, sei vicina a tutti e tutti proteggi e, benché i nostri occhi siano impediti dal vederti, tuttavia sappiamo, o Santissima, che tu abiti in mezzo a tutti noi e ti rendi presente nei modi più diversi…Tu (Maria) ti riveli tutta, come sta scritto, nella tua bellezza. Il tuo corpo verginale è totalmente santo, tutto casto, tutto casa di Dio così che, anche per questo, è assolutamente refrattario ad ogni riduzione in polvere. Esso è immutabile, dal momento che ciò che in esso era umano è stato assunto nella incorruttibilità, restando vivo e assolutamente glorioso, incolume e partecipe della vita perfetta. Infatti era impossibile che fosse tenuta chiusa nel sepolcro dei morti colei che era divenuta vaso di Dio e tempio vivo della santissima divinità dell’Unigenito. D’altra parte noi crediamo con certezza che tu continui a camminare con noi" (PG 98, coll. 344B-346B, passim).
E’ stato detto che per i Bizantini il decoro della forma retorica nella predicazione, e ancora di più negli inni o composizioni poetiche che essi chiamano tropari, è altrettanto importante nella celebrazione liturgica quanto la bellezza dell’edificio sacro nel quale essa si svolge. Il Patriarca Germano è stato riconosciuto, in quella tradizione, come uno di coloro che hanno contribuito molto nel tener viva questa convinzione, cioè che bellezza della parola, del linguaggio e bellezza dell’edificio e della musica devono coincidere.
Cito, per concludere, le parole ispirate con cui Germano qualifica la Chiesa all’inizio di questo suo piccolo capolavoro: "La Chiesa è tempio di Dio, spazio sacro, casa di preghiera, convocazione di popolo, corpo di Cristo… E’ il cielo sulla terra, dove Dio trascendente abita come a casa sua e vi passeggia, ma è anche impronta realizzata (antitypos) della crocifissione, della tomba e della risurrezione... La Chiesa è la casa di Dio in cui si celebra il sacrificio mistico vivificante, nello stesso tempo parte più intima del santuario e grotta santa. Dentro di essa si trovano infatti il sepolcro e la mensa, nutrimenti per l’anima e garanzie di vita. In essa infine si trovano quelle vere e proprie perle preziose che sono i dogmi divini dell’insegnamento offerto direttamente dal Signore ai suoi discepoli" (PG 98, coll. 384B-385A).
Alla fine rimane la domanda: che cosa ha da dirci oggi questo Santo, cronologicamente e anche culturalmente abbastanza distante da noi. Penso sostanzialmente tre cose. La prima: c’è una certa visibilità di Dio nel mondo, nella Chiesa, che dobbiamo imparare a percepire. Dio ha creato l’uomo a sua immagine, ma questa immagine è stata coperta dalla tanta sporcizia del peccato, in conseguenza della quale quasi Dio non traspariva più. Così il Figlio di Dio si è fatto vero uomo, perfetta immagine di Dio: in Cristo possiamo così contemplare anche il volto di Dio e imparare ad essere noi stessi veri uomini, vere immagini di Dio. Cristo ci invita ad imitarLo, a divenire simili a Lui, così che in ogni uomo traspaia di nuovo il volto di Dio, l’immagine di Dio. Per la verità, Dio aveva vietato nel Decalogo di fare delle immagini di Dio, ma questo era a motivo delle tentazioni di idolatria a cui il credente poteva essere esposto in un contesto di paganesimo. Quando però Dio si è fatto visibile in Cristo mediante l’incarnazione, è diventato legittimo riprodurre il volto di Cristo. Le sante immagini ci insegnano a vedere Dio nella raffigurazione del volto di Cristo. Dopo l’incarnazione del Figlio di Dio, è diventato quindi possibile vedere Dio nelle immagini di Cristo ed anche nel volto dei Santi, nel volto di tutti gli uomini in cui risplende la santità di Dio.
La seconda cosa è la bellezza e la dignità della liturgia. Celebrare la liturgia nella consapevolezza della presenza di Dio, con quella dignità e bellezza che ne faccia vedere un poco lo splendore, è l’impegno di ogni cristiano formato nella sua fede. La terza cosa è amare la Chiesa. Proprio a proposito della Chiesa, noi uomini siamo portati a vedere soprattutto i peccati, il negativo; ma con l’aiuto della fede, che ci rende capaci di vedere in modo autentico, possiamo anche, oggi e sempre, riscoprire in essa la bellezza divina. E’ nella Chiesa che Dio si fa presente, si offre a noi nella Santa Eucaristia e rimane presente per l’adorazione. Nella Chiesa Dio parla con noi, nella Chiesa "Dio passeggia con noi", come dice San Germano. Nella Chiesa riceviamo il perdono di Dio e impariamo a perdonare.
Preghiamo Dio perché ci insegni a vedere nella Chiesa la sua presenza, la sua bellezza, a vedere la sua presenza nel mondo, e ci aiuti ad essere anche noi trasparenti alla sua luce.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli della diocesi di Lucera-Troia, con il Vescovo Mons. Domenico Cornacchia; della diocesi di Forlì-Bertinoro, con il Vescovo Mons. Lino Pizzi; e della diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, con il Vescovo Mons. Giuseppe Petrocchi. Cari amici, l’Apostolo Paolo sia per voi esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di apertura all’umanità e alle sue culture. Saluto i fedeli di Cava dei Tirreni, con l’Ordinario diocesano il Rev.mo P. Abate Dom Benedetto Chianetta, augurando a ciascuno di vivere con fervore spirituale l’importante ricorrenza del millennio di fondazione della loro Abbazia territoriale. Saluto i fedeli provenienti dalla Sardegna, accompagnati dal Vescovo Mons. Giuseppe Mani, Presidente della Conferenza Episcopale Sarda, qui convenuti per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere in quella Regione. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e vi auguro di testimoniare con rinnovato ardore missionario Cristo e il suo Vangelo.
Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Liturgia celebra oggi santa Caterina da Siena, Vergine domenicana e Dottore della Chiesa, nonché Compatrona d'Italia insieme con san Francesco d'Assisi. Cari giovani, specialmente voi, ministranti della "Parrocchia dei Santi Antonio e Annibale Maria", di Roma, siate innamorati di Cristo, come lo fu Caterina, per seguirlo con slancio e fedeltà. Voi, cari ammalati, immergete le vostre sofferenze nel mistero d'amore del Sangue del Redentore, contemplato con speciale devozione dalla grande Santa senese. E voi, cari sposi novelli, col vostro reciproco e fedele amore siate segno eloquente dell'amore di Cristo per la Chiesa.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Ricordi di Ennio Morricone - Mio cognato e il finale di «Giù la testa» - di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 aprile 2009
"Mio cognato si alzò durante una proiezione privata pensando che il film fosse finito e lui tagliò tutto quello che veniva dopo: dieci minuti di flashback. Un grande atto di modestia, l'insegnamento più grande che ho ricevuto da Sergio Leone e che ricordo ancora oggi a vent'anni dalla sua morte".

Un aneddoto che rivela una grande capacità di ascoltare, soprattutto i collaboratori stretti come lei maestro Morricone, che hanno avuto un ruolo importante nella sua cinematografia.

Lui ascoltava tutti e teneva conto di quello che dicevano gli altri. Quando quella volta portai la famiglia a vedere Giù la testa in anteprima Leone capì che qualcosa non funzionava e nell'edizione italiana fece finire il film nel punto esatto in cui mio cognato si era alzato. Aveva accettato il suggerimento, anche se involontario, e aveva tenuto conto anche delle critiche mosse a C'era una volta il West, del quale avevano detto che c'erano tre finali.

La sua carriera di compositore di colonne sonore era iniziata qualche anno prima con Il federale di Luciano Salce, ma il film che le ha portato il primo vero successo è stato proprio di Leone, Per un Pugno di dollari nel 1964.

Quel film mi ha fatto conoscere, così come Per qualche dollaro in più dell'anno successivo, ma la ribalta internazionale è arrivata con Il buono, il brutto e il cattivo, nel 1968, quando c'è stata anche la nomination al Grammy Award. Poi in realtà non è successo molto, ma quelle musiche sono state molto apprezzate in America e in Europa, specialmente in Germania.

Come era iniziato il suo rapporto con Sergio Leone?

Mi ha cercato lui, mi è venuto a trovare a casa dopo avere ascoltato le musiche di due film western che avevo scritto, uno era Le pistole non discutono di Mario Caiano, e l'altro Duello nel Texas di un regista spagnolo, Riccardo Blasco.

Non vi conoscevate prima?

In realtà c'eravamo conosciuti alle scuole elementari, ai Fratelli delle scuole cristiane a Viale Trastevere, che allora si chiamava Viale del re. Io me lo sono ricordato quando l'ho visto, l'ho riconosciuto subito. Poi mi ha portato a cena da "Checco er carettiere", perché sapeva che il proprietario aveva una fotografia della terza elementare dove c'eravamo tutti e tre.

Una conoscenza precocissima, per un rapporto lavorativo creativo e anche innovativo. Già da Per un pugno di dollari, infatti Leone presenta una visione molto originale del far west americano: violenta e moralmente complessa. In particolare introduce un marcato realismo dei personaggi e, soprattutto, usa il silenzio come strumento espressivo. La rarefazione dei dialoghi conferisce una grande responsabilità alla colonna sonora.

Lui ha dato molta importanza al silenzio e al suono, sia quello musicale, sia quello che riproduce i rumori della realtà. È stato uno dei primi a lavorare in questo modo. Secondo me c'è qualcosa di Cage nel suo silenzio. Per esempio i primi venti minuti di C'era una volta il West, senza dialoghi, sono nati da un esperimento che io gli avevo raccontato. Si trattava di un concerto al conservatorio Cherubini di Firenze con il Gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza: il concerto doveva cominciare alle 21, noi suonavamo con il gruppo nella seconda parte. Prima non si sapeva bene cosa sarebbe successo. A un certo punto il pubblico ha cominciato a rumoreggiare, perché non c'era niente da vedere o da ascoltare. In realtà un signore era salito sul palco, poi se ne era andato sulla balconata da dove scuoteva la scala facendogli emettere degli scricchiolii. Dopo un po' qualcuno si accorse che quello che emetteva i rumori non era un operaio e che il concerto era già iniziato, da quel momento cominciò il silenzio in sala. Appena catturata l'attenzione del pubblico il signore si rimise l'impermeabile e se ne andò: fine della prima parte. Tutti scioccati. Questo episodio lo raccontai a Sergio Leone e lui rafforzò la sua idea di lavorare con il suono decontestualizzandolo, facendogli acquistare un significato più profondo e più intenso, specialmente se manovrato dall'amplificazione. Questo è stato per me un grande insegnamento, ma l'ho capito dopo. Al momento ero arrabbiato, mi sembrava una sciocchezza.

Risultato?
Per venti minuti in C'era una volta il West si sentono solo piccoli rumori enfatizzati: il verso della gallina, il mulino, la goccia d'acqua sul cappello, poi un personaggio prende una mosca e si sente il ronzio, tutto senza dialogo. Il giorno dopo la prima, quando andai a lavorare alla Fonoroma, più o meno c'era lo stesso tipo di choc che era seguito al concerto di Firenze. La gente mi diceva che eravamo diventati matti.

Ci sono molte storie sull'influenza della musica contemporanea sulla sua produzione cinematografica. Per esempio l'uso di nastri in maniera asincrona?

Ho fatto questa esperienza nei titoli iniziali di Giù la testa, dove ho messo assieme i temi del film in maniera astratta e aritmica, fuori dal metro normale. Gli archi per esempio sono scritti in maniera puntillistica e altri elementi intervengono con molta libertà, tutto rimane sospeso, ma il pezzo regge bene.

Una decisione coraggiosa, ma lei è noto per avere un carattere deciso.

È parte del mio lavoro, se per esempio il regista non mi spiega esattamente quello che vuole non posso scrivere con chiarezza.

Sì ma anche nella vita sembra piuttosto fermo nelle sue decisioni. Per esempio in tutte le sue biografie sottolinea di esserci licenziato da un posto di lavoro il primo giorno. È successo nel 1958, quando non era ancora affermato come compositore. Perché proprio non le andava di fare l'assistente musicale in Rai?
Mi chiamò il maestro Pizzini, che allora era il direttore del centro televisivo di via Teulada, mi avvertì che non avrei avuto possibilità di carriera e inoltre, a seguito di una circolare in vigore da alcuni anni, i musicisti che facevano parte della Rai non potevano essere mai eseguiti dall'emittente pubblica. "Se è così me ne vado subito", dissi. Lui insistette, credeva fosse un errore lasciare un posto sicuro come quello. Ma io avevo studiato per fare il compositore, stare in un posto che impedisce di essere eseguiti non aveva alcun senso. Certo all'epoca non avevo un soldo.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2009)


Significato e attualità dell'universale vocazione dei battezzati
I santi e la pratica eroica delle virtù - Nell'ambito delle manifestazioni per l'ottavo centenario dell'approvazione della protoregola di san Francesco d'Assisi, mercoledì 29 si è tenuta una giornata di studio presso la Pontificia Università Antonianum. Pubblichiamo ampi stralci della relazione dell'arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi dedicata a Il senso della santità nella vita della Chiesa oggi. - di Angelo Amato
- L'Osservatore Romano, 30 aprile 2009
Prima di rispondere alla domanda sull'attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d'imitazione di Cristo. Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica. Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo. Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda. La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede. I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli. Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l'invito all'adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell'assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell'infallibilità del magistero in questo campo. La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l'attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l'esaltazione della fede cattolica e l'incremento della vita cristiana (...) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione - sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi - si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità. La santità è la vocazione di ogni battezzato. Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell'identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato. Di qui la sua perenne attualità (...) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità: "Siate dunque perfetti - dice Gesù - come è perfetto il vostro Padre celeste" (Matteo, 5, 48) (...) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all'affermazione di una società umana pacificata e giusta. Affermando che "tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano", il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana. Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell'umanità, perché, come Gesù, anch'essi sono passati su questa terra "beneficando" (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene. Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (...) È interessante notare che nell'apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa. La qualifica sancta deriverebbe - a loro dire - da "sancire"-"stabilire" ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità. La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici. La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità. In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia. Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice. E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia. Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione. La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi. Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente: il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (...) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea. Lo Stagirita cita un brano dell'Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato "tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei" (...) Nel suo Commentario all'Etica Nicomachea, san Tommaso d'Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell'anima. Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù. I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale. In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune. La virtù eroica è l'esercizio in grado eminente della virtù. Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini. E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica. Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l'osservanza fedele dei comandamenti e l'adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l'ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l'eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa. Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l'abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l'influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo. La virtù eroica supera l'esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura. In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale. Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell'attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l'eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso. Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell'abnegazione e nel controllo delle passioni. La virtù eroica è l'elevazione delle virtù fino all'apice della loro perfezione per l'influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (...) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente. Ed è proprio l'eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione. Il Vaticano ii - Lumen gentium, n. 50 - insegna al riguardo: "Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati". Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato. Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo. E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale: alcuni con l'ardore dell'apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà. Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (...) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell'inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura. I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza. In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura. Nei santi l'inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona. Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura. Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione. Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura" (Marco, 16, 15). Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (...) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un'incarnazione personale del Vangelo. La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l'esistenza gioiosa dell'umanità. Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (...) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace. Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati. Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi. Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2009)


1° MAGGIO/ Lettere dal carcere: quando il lavoro dietro le sbarre rende più liberi e più uomini - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il primo maggio è la festa del lavoro. Spesso però ci dimentichiamo di una categoria particolare di lavoratori: i carcerati. Ma che senso ha il lavoro in carcere? È indispensabile per la ripresa umana. Lo si legge chiaramente dalle testimonianze di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Padova che lavorano alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto e del Consorzio Rebus e che pubblichiamo. Il lavoro - e quindi il confronto con gli altri - oltre a restituire dignità a chi è recluso è fondamentale per una vera presa di coscienza dei propri errori e del dolore causato agli altri, requisiti indispensabili per chi vuole intraprendere un cammino improntato al rispetto delle regole di civile convivenza. Un aspetto forse troppo trascurato quando si parla e si celebra il lavoro.
Mi è stato chiesto cosa significhi lavorare in carcere. Prima di rispondere è fondamentale precisare a quale lavoro ci si vuole riferire, perché in carcere sono quasi sempre esistiti i lavori cosiddetti “domestici”, cioè tutte quelle mansioni d’istituto che vengono svolte quotidianamente: il portavitto, lo scopino, lo spesino, insomma tutte quelle attività che non permettono di avere un riscontro con il mondo esterno, ma che si limitano al buon andamento carcerario.
Da quando invece è stata data la possibilità ad alcune aziende di portare il loro lavoro tra le mura penitenziarie, l’aspetto lavorativo ha assunto il suo vero valore e con tutte le dinamiche che lo contraddistinguono, come ad esempio la produttività e il riscontro sul mercato.
È vero, pur di non stare in cella un detenuto apprezza anche il lavoro domestico, ma senza avere i riscontri emotivi ed economici d’un vero lavoro. Quando invece ci si rende conto che il proprio operato entrerà nel circuito del mercato vero, ancora con maggior verità si potrà operare e sentirsi parte di una società che con gli anni di carcerazione si sente sempre più lontana dal proprio essere. Ecco allora che si acquisisce sempre maggior desiderio di realizzare prodotti veri, validi, che lascino soddisfatti gli utenti esterni, e questa consapevolezza fa sentire meglio anche noi che lavoriamo. Questo perché ci sentiamo in debito con la società, e se in piccola parte con il nostro lavoro possiamo soddisfare e rendere felice qualche persona è come se restituissimo a questa società una piccolissima parte di ciò che, con i nostri errori, abbiamo tolto.
Io lavoro al call center dove prenoto le visite mediche per tante persone, ognuna diversa e con le problematiche più svariate, a volte purtroppo si tratta anche di malati terminali. Cerco di fare il mio lavoro con il massimo impegno, la massima concentrazione e la massima serietà. E alla fine della prenotazione, se sento che la persona è rimasta contenta nell’ottenere ciò che mi chiedeva, a maggior ragione lo sono anch’io, perché so che parte di quella “piccolissima felicità” l’ho potuta regalare io impegnandomi ed adoperandomi al massimo per trovare una soluzione al problema, piccolo o grande che fosse. Questo mi fa sentire un po’ più leggero, con addosso meno angosce del solito, e la gioia che provo mi fa sentire veramente libero e felice.
Quindi sì al lavoro in carcere, ma che possibilmente sia un vero lavoro e che permetta ai detenuti di confrontarsi con le tematiche della società, con il mercato aziendale, con tutte le difficoltà di un lavoro reale, e che possa permetterci di sentirci ancora facenti parte della società dalla quale siamo stati giustamente esclusi.
(Alberto)
Sono cittadino croato, condannato ad una pena “esemplare” e in carcere da otto anni. I primi anni di detenzione li ho passati in un altro carcere, dove il “mondo lavoro” quasi non esisteva: un paio di posti in cucina, due spesini, due addetti alle pulizie. Cooperative o ditte esterne che offrissero lavoro agli internati? Neanche l’ombra. Allora mi è sorta spontanea una domanda: ma per una persona che ha commesso un grave errore, che funzione ha il carcere?
Nella sfortuna che mi è capitata ho però visto la luce e la speranza quando mi hanno trasferito nel carcere penale “Due Palazzi” di Padova, un istituto, uno dei pochi a dire il vero, che offre un lavoro ai carcerati grazie al Consorzio “Rebus”, che impiega oltre ottanta reclusi.
Lavoro da circa quattro anni, prima in cucina e poi in pasticceria. I dolci che produciamo sono di alta qualità, e vengono venduti a pasticcerie esterne, bar, ristoranti, mense di Padova e non solo. Un anno fa ho chiesto ai miei responsabili di transitare in pasticceria per imparare quel mestiere, e dopo poco tempo mi è stata data questa possibilità. Produrre dolci è un bel mestiere, ma è difficile e mi impegna sempre di più, giorno dopo giorno, e allo stesso tempo mi dà anche un sacco di soddisfazioni, perché col mio lavoro sto facendo qualcosa di utile anche per gli altri.
Ogni volta che creo qualcosa lo faccio al massimo delle mie possibilità: so che quel dolce deve essere di qualità, esteticamente impeccabile e soprattutto buono, perché finirà sul tavolo di una festa, magari di un battesimo o di un matrimonio, quindi sento addosso tutte le responsabilità che un lavoro come questo richiede.
Durante l’ultimo periodo prenatalizio abbiamo prodotto i 32mila famosi panettoni che hanno fatto il giro del mondo, e quasi ogni giorno il nostro laboratorio era “invaso” da giornalisti e fotografi, da personaggi del mondo politico, culturale e dello spettacolo incuriositi da come una “squadra” di detenuti, capeggiati da tre maestri pasticceri esterni, potessero fare tali prelibatezze.
È proprio questo che serve in carcere, un lavoro serio che dia la possibilità di riflettere e di cambiare, sancendo così la vittoria dello Stato che riesce a portare tanti detenuti sulla strada di un vero reinserimento sociale e umano.
(Davor)
Per me la parola “lavoro”, che ora considero fondamentale, fino a una decina di anni fa era a dir poco incomprensibile. Fin da ragazzino avevo preferito la via del guadagno facile, tanti soldi in fretta e con poca fatica, al posto di una vita onesta e regolare. Pensavo che questo stile di vita mi avrebbe reso felice, potente, apprezzato e stimato, invece alla fine ho perso tutto, e ho veramente toccato il fondo. Poi, qualche anno fa, in questo carcere mi è stata data una possibilità, e ho imparato che una vita onesta ti fa sicuramente vivere meglio, perché non c’è nulla di peggiore che fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza.
Da alcuni anni lavoro nei capannoni di questo carcere; prima sono stato nelle lavorazioni delle valigerie Roncato, successivamente nel laboratorio di confezionamento dei gioielli Morellato, e infine, attualmente, all’assemblaggio delle biciclette. Ogni lavoro, pur nelle sue diversità e nelle varie complicazioni, mi ha dato delle soddisfazioni, soprattutto quando ho cominciato a ottenere dei permessi premio: nelle valigerie, nelle gioiellerie e nei supermercati ho trovato moltissimi dei prodotti che, col mio lavoro e con le mie mani, ho contribuito a produrre. Fino a quando non potevo uscire quasi non mi rendevo conto di tutto quello che con le mie mani potevo fare, ma ora ho la prova provata e la consapevolezza che, se ci viene data un po’ di fiducia, siamo ancora delle persone capaci di fare delle cose buone e positive.
Se rimanessi oggi senza lavoro credo che impazzirei, perché ora, quando mi sveglio al mattino rendo grazie a Dio per tutto quello che mi sta dando, scendo al lavoro col sorriso sulle labbra e affronto la giornata con serenità e soprattutto con uno spirito completamente diverso da quello che, poco più di 15 anni fa, mi aveva portato a distruggere me stesso ma soprattutto tutti coloro che mi stavano vicino. Grazie al lavoro, e ad alcune persone che frequento in questo ambiente, ho anche scoperto la gioia e la fede in Cristo, e questo ha per me più valore di qualsiasi altra cosa, perché mi ha fatto scoprire e apprezzare un modo completamente nuovo di affrontare e di vivere la vita.
(Franco)
Potrà sembrare strano, ma diversamente da quel che si pensa la prima richiesta che solitamente la maggior parte delle persone detenute rivolgono alle direzioni carcerarie è proprio quella di lavorare, così da non rimanere sempre chiusi in cella e rendersi economicamente indipendenti, in modo da non gravare più di tanto sui familiari. Almeno inizialmente, quindi, la domanda di lavoro può essere quasi esclusivamente “strumentale” a una miglior qualità della vita detentiva, ma può anche succedere, soprattutto se si ha la possibilità di svolgere un’attività concreta, vera e produttiva, che l’approccio al lavoro si modifichi e si modelli col passare del tempo.
Anch’io, come quasi tutti i miei compagni, oltre a voler stare fuori dalla cella il più possibile dopo sette anni di carcere forzatamente ozioso in cui non avevo svolto alcuna attività (nel carcere dove mi trovavo prima non c’era praticamente nulla), nel 2001 chiesi insistentemente di lavorare perché, tra le altre cose, non sopportavo più di dipendere, anche nelle centomila lire mensili per le spese minime di sopravvivenza, da mia mamma pensionata al minimo.
Quindi, quando nel 2002 ho cominciato a lavorare nel laboratorio dei manichini per l’alta moda della Cooperativa Giotto, era soprattutto a questi due elementi che pensavo, e non avevo minimamente idea di come le cose sarebbero cambiate da lì a qualche anno. Nel 2005, infatti, la Cooperativa è riuscita in un progetto veramente rivoluzionario per un carcere, aprendo in questa struttura una “cellula” dell’ufficio prenotazioni delle visite mediche specialistiche degli ospedali e delle strutture sanitarie padovane, alle quali si rivolgono cittadini da tutte le parti d’Italia.
A causa delle sopravvenute esigenze aziendali mi sono così trovato catapultato, inaspettatamente e nel giro di pochi giorni, in una realtà lavorativa completamente nuova e per certi versi dolorosa. Da una telefonata settimanale di dieci minuti a mia mamma, l’unico mio “collegamento” con il mondo esterno nei 12 anni precedenti, sono passato a 50-60 telefonate giornaliere che ancora oggi, spesso e volentieri, mi danno emozioni inaspettate. Le voci dei bambini che piangono, il rumore del traffico in sottofondo, le voci dolci dei tanti anziani che chiamano e perfino i complimenti quando cerco in tutti i modi di risolvere un problema non mi hanno mai lasciato indifferente, ed ho riscoperto quanto importante sia mettersi a disposizione di chi si trova in difficoltà a volte insormontabili.
Mi è capitato di trattenere a stento le lacrime di fronte al disperato pianto di una giovane signora che doveva prenotare una visita per il papà malato terminale, e sono rimasto molto colpito dalla struggente disperazione di una mamma che, alla notizia che la figlia di dieci anni aveva un tumore al cervello, proprio pochi giorni prima aveva perso il figlioletto che aveva in grembo.
Io, che con i miei reati la sofferenza l’ho inflitta in modo molto pesante, non posso fare a meno, ogni volta, a soffermarmi su questi episodi strazianti, e questo confronto quasi quotidiano col dolore degli altri mi fa riflettere ancora più profondamente sulle mie scelte sbagliate.
Oltre a questo, a colpirmi è stata anche la manifestazione di fiducia che mi è stata concessa.
Mi sono sempre chiesto come fosse possibile, con tutto quello che avevo fatto, che i responsabili della Cooperativa Giotto avessero cercato proprio me, che di “garanzie” non ne offrivo nemmeno una; mi sono domandato come fosse possibile che ci fosse ancora qualcuno disposto a darmi una seconda chance, seppur limitata all’ambito lavorativo, e per di più in un’attività dove il contatto con le persone esterne è continuo e particolarmente delicato, e quindi sono stato costretto a rialzare la testa, a “reagire”. La conseguenza di tutti questi interrogativi è che non voglio e non posso permettermi di sbagliare, quindi cerco di lavorare sempre al meglio delle mie capacità, come in una sorta di dimostrazione - agli altri, ma ancor di più a me stesso - che “nonostante tutto” sono ancora in grado di fare e di dare qualcosa di positivo.
Da quando lavoro la “qualità” della mia vita detentiva è indubbiamente e nettamente migliorata: non devo più chiedere soldi ai miei familiari, anzi sono io che ogni tanto mando qualcosa alle mie figlie, ma nonostante questo, e contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’apertura di credito di persone disposte a puntare ancora di me ha avuto un effetto spiazzante, assolutamente imprevedibile, che anziché alleviare l’insostenibile peso della mia coscienza mi ha fatto sentire, ancora più prepotentemente, tutto l’affanno dei miei errori.
(Marino)
Appena entrato in carcere mi è stato assegnato un numero, il mio numero di matricola. Da quel momento ho sentito forte la perdita della mia identità e l’adattamento a un sistema nel quale non ho molti diritti, ma soltanto alcune concessioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato questo lavoro, mi è stata accordata fiducia e l’opportunità di dimostrare che IO non sono soltanto un numero di matricola, non sono soltanto il reato che ho commesso… ma molte altre cose.
IO posso aiutare gli altri, regalare un sorriso, una parola di conforto.
E tutto ciò è stato possibile soltanto grazie all’opportunità concessami e al sorriso disarmante che ho trovato negli operatori e nei miei compagni di lavoro che già da tempo vivono questa esperienza. Sento che con questo lavoro sto riacquistando la mia identità, ora non mi vergogno più con i miei familiari perché in qualche modo anch’io ho ritrovato uno spazio nella società, e giorno dopo giorno sto dimostrando che l’opportunità offertami sta dando buoni frutti.
Aiutare il prossimo mi fa stare bene perché mi sembra quasi di ripagare, almeno in parte, il torto commesso. Ora vivo meno dolorosamente e meno inutilmente la carcerazione, perché sento che tutto questo non è più tempo perso.
(Fabrizio)


1° MAGGIO/ L’imprenditore: è la crisi ad insegnarci ancora qualcosa - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
«La crisi è forte, eccome. Tutti i mercati stanno consumando meno, le aziende produttrici di beni producono meno e quindi non investono nei macchinari», quelle macchine utensili per materie plastiche che la sua azienda produce da tre generazioni di imprenditori, dal 1954. Ma non è solo la Tria Spa di Cologno Monzese a subire un calo degli ordinativi. «I dati di Ucimu di settimana scorsa - spiega Luciano Anceschi, 47 anni, amministratore delegato - dichiarano -51 per cento di ordini, con punte di -70 e -80 per cento. Ma non ci si può fermare ai dati degli ordinativi e del fatturato, perché una crisi così grave pone tante domande. A cominciare dal perché di quello che faccio e che facciamo qui dentro, non solo io ma anche i dipendenti».
Raggiungiamo Anceschi nel pomeriggio, nel pieno di una giornata di lavoro. «Il nonno ha cominciato tutto, poi papà e ora noi fratelli. Tria ha novanta dipendenti, fatturiamo 23 milioni, abbiamo una filiale in Germania e una in Giappone. Esportiamo per l’80 per cento. Al 70 per cento lavoriamo produzioni ad alta tecnologia, i nostri competitor sono tedeschi e americani. La crisi ha colpito tutti e non ne siamo fuori. Ma fortunatamente per noi, le materie plastiche hanno una destinazione vastissima e gli ordinativi di macchine utensili sono continuati, sia pure con cali verticali».
La crisi, si diceva. «Tutti tentano di capire cosa cambierà e quando finirà. Ma qualcosa è già cambiato in noi» dice Anceschi. «Lo vedo nei miei dipendenti. È stata l’occasione per riscoprire un rapporto personale col proprio lavoro, un rapporto più diretto. Finora è prevalso l’inquadramento sindacale, non come tutela ma come modo di concepire il lavoro stesso. Ora è diverso: anche loro capiscono che se un cliente non paga si rimane a casa. Allora uno si pone delle domande, perché si scopre più fragile e si chiede che senso ha quello che fa. Vedi persone che quando finiscono nell’orario previsto, timbrano per non fare straordinario - perché in cassa integrazione straordinari non se ne possono fare - ma poi tornano sul “pezzo” a fare un’altra mezz’ora, per finire il lavoro. Questo uno lo fa se è cosciente che quel che sta facendo è importante per lui. È una riscoperta che vale per tutti, me compreso».
Anceschi si racconta. Fa l’amministratore delegato da cinque anni, ma ha iniziato in magazzino. «Ho iniziato qui, in Tria, perché era un’opportunità interessante poter lavorare dove si può cambiare, aprire nuove possibilità. Non avevo su di me l’intera responsabilità dell’azienda, ho iniziato dal basso e questo mi ha dato più libertà, mi ha permesso di lavorare con più distacco, quel distacco che mi ha fatto vedere meglio le cose. Sono arrivato a metà degli anni ’80, l’azienda esportava appena un 10 per cento. Era la fine di un clima di scontro, un periodo in cui c’era gente ai cancelli che prendeva a sassate - quando andava bene - il capannone. Una tipica azienda italiana del settore, con padri padroni molto forti, perentori, che decidevano tutto e subito». Questo è stato la fortuna dell’azienda - continua Anceschi - e l’ha salvata in anni caldi in cui ha rischiato di rimanere schiacciata. Poi quel periodo è finito. Le esigenze del mercato sono diventate più alte, più selettive, non ci poteva più essere un padre padrone, ci voleva un piccolo management.
«È stato allora che ho rischiato. Ho cominciato dal magazzino, dalla gestione materiali e dagli acquisti, poi sono passato a sviluppare i prodotti per elevarne la qualità e poter puntare sulle esportazioni. Dopo 3-4 anni ho lavorato sulle vendite, prima in Italia e poi all’estero. Ho capito che non solo fare impresa voleva dire, essenzialmente, rischiare, ma che il rischio era il cuore del lavoro stesso. Non perché si rischia di perdere qualcosa, ma perché si mette in gioco innanzitutto se stessi».
Non tutti, però, hanno la fortuna di passare dal magazzino alla direzione. «È vero, ma la crisi mi ha fatto capire che, in realtà, non c’è alcuna differenza. Mettere tempo in azienda, investire, oppure stare “sul pezzo”, come si suol dire, qualunque esso sia… perché lo faccio, mi chiedo? In tutto questo scopro me stesso, altrimenti non lo farei. Lavorare per se stessi e per il pezzo non è in contraddizione, perché se lavorare fa scoprire di più cosa si è e cosa si vale, allora è vero per tutti e per tutto quello che uno fa».
Che fine hanno fatto, allora, le lotte tra capitale e lavoro, l’ideologia del lavoro espropriato che ha condizionato intere generazioni? Anceschi, anche su questo, è perentorio. «Il senso del mio lavoro devo essere io a conoscerlo, non può stare in una formula. Quando viaggio in Brasile, o in Asia, il dualismo che c’è da noi non lo vedo. Il fatto che nel lavoro uno scopre sé e si realizza, là è molto più evidente. Le persone lavorano con entusiasmo, non sono frammentate come da noi, divise tra lavoro, tempo libero e famiglia per esempio. Lavorare è una scoperta di sé in cui danno tutto senza remore, senza pensare al quarto d’ora in più o in meno. E la sera gli operai che ho conosciuto fanno la scuola serale. Non i dirigenti, gli operai».
Ed è nel lavoro, ci tiene a sottolineare Anceschi, che uno fa esperienza del limite. «Lavorando ho capito quali sono i miei limiti e cosa posso fare. Amministratore delegato di un’azienda di 3 mila persone non lo sarò mai, ma questo dopo tutto non mi interessa. Impari non ad accontentarti, ma ad impegnarti di più con quello che hai davanti e a fare i conti con le situazioni date. Prima dividevo gli ambiti, la famiglia da una parte e il lavoro dall’altra, ma così non sei libero, sei determinato. Non sei libero perché l’azienda prima o poi la perderai, te ne andrai tu o se ne andrà l’azienda. Ma non lavori nemmeno per i figli, perché quando dirai loro: l’ho fatto per te, essi ti risponderanno che non te lo hanno mai chiesto e che, in fondo, da te volevano altro, non l’azienda. Il lavoro mi ha fatto capire che sono imprenditore, marito e padre. Tre grandi circostanze che sollecitano le stesse domande e urgono nella stessa direzione: chi sono davvero e qual è il senso di tutto. A cominciare dal lavoro, naturalmente».
E il primo maggio? «Guardi, fino a ieri avrei detto che la festa del lavoro l’avrei ricordata lavorando. Poi mi sono detto che sarebbe bello se fosse un’occasione per recuperare il senso del lavoro. Come? Dandoci da fare per superare la crisi. La crisi da questo punto di vista è stata un richiamo fortissimo. Da dove viene, mi sono chiesto? Da un’ingordigia profonda, dall’ansia di guadagno del mondo finanziario. È il concetto di un uomo esclusivamente consumatore, che tende alla sazietà. Ma chi è sazio non si fa domande. Vede, c’è stato un periodo in cui avevo quasi più gusto ad occuparmi del mondo associativo dei costruttori anziché dell’azienda, dando per scontato che le cose vanno avanti da sole. Ma quando gli ordini calano del 50, del 70 per cento nulla diventa più scontato. La crisi è venuta per questo, per “denudarci”, tutti, per portare le domande sopite allo scoperto».


FILOSOFIA/ Così Ratzinger e Habermas “duellarono” sulla convivenza civile - Sante Maletta - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il libro del Papa che è uscito da due giorni da Cantagalli col titolo L’elogio della coscienza ripropone questioni di estrema attualità su cui abbiamo avuto già occasione di soffermarci.
Ratzinger coglie con grande lucidità la questione essenziale che determina il dibattito filosofico e politico oggi. Una questione che è efficacemente sintetizzata nel cosiddetto Dilemma di Böckenförde già al centro di un celebre dibattito svoltosi a Monaco di Baviera nel 2004 tra l’allora cardinale e il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. In altre parole, ciò che tale dilemma intende indicare è che nessuna convivenza civile è possibile prescindendo da quelle esigenze ed evidenze morali che la tradizione religiosa conserva e veicola in maniera più o meno critica. E se lo Stato prova a sostituirsi a essa ponendosi come fonte di verità morale, esso si trasforma in Stato etico, vale a dire assume una fisionomia autoritaria.
L’intento di Ratzinger sembra essere quello di difendere la dimensione etico-civile della tradizione religiosa cristiana in un Occidente dove le tendenze laiciste, se non esplicitamente anti-cristiane, sono sempre più aggressive soprattutto all’interno delle istituzioni politiche internazionali (Onu, Unione Europea). Ma egli non cessa mai di ammonire i cristiani a non cedere alla tentazione fondamentalistica di ogni teologia politica, quella di costruire un ordine politico e sociale perfettamente giusto mediante l’identificazione della legge divina con quella civile. Ritorna qui l’idea filosoficamente più pregnante del Ratzinger-pensiero, quella della sinergia tra fede e ragione, dell’opera di purificazione reciproca che esse sono chiamate a svolgere per evitare di cadere nel fideismo da un lato e nel razionalismo dall’altro.
Il cristianesimo in Occidente ha contribuito a formare l’ethos civile e continua a svolgere tale opera in dialogo con altre tradizioni religiose e culturali. Lo spazio pubblico costituito da tale dialogo non può e non deve essere neutralizzato dal punto di vista religioso – come vorrebbero molti laicisti. Lo ha affermato con grande chiarezza lo stesso Habermas: non si può chiedere ai cittadini credenti di rinunziare alle proprie esigenze ed evidenze morali nel dibattito pubblico, altrimenti li si porrebbe in una condizione di minorità, divenendo cittadini di serie B. Non solo: lo stesso dibattito pubblico sarebbe impoverito da questo forzata neutralizzazione, visto che ci sono dimensioni morali della realtà che non si riescono a cogliere senza un punto di vista e un linguaggio religiosi.
In ultima istanza, al cuore della questione sta una parola, quella che compare nel titolo del volume: coscienza. Lo Stato moderno nasce dallo choc delle guerre civili a sfondo religioso con l’intento di neutralizzare il più possibile lo spazio pubblico da ogni forma di convinzione religiosa. Da questo punto di vista la coscienza rappresenta un fattore di rischio, un elemento di turbamento dell’ordine sociale e politico. Ma la storia del ’900 ha mostrato che tale tendenza neutralizzante conduce lo Stato verso forme totalitarie che hanno cercato di eliminare nel terrore dei lager di vario colore ideologico l’essere umano con il suo carico di spontaneità e di libertà. A tale terrore totalitario hanno saputo resistere coloro la cui coscienza morale si è saputa opporre come un’istanza di assolutezza e con una disponibilità al sacrificio estremo.
Il compito teorico oggi è quello di ripensare la nostra convivenza civile considerando la coscienza come risorsa e non più come problema.


«Liberi per vivere»: adesso si fa sul serio - di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 30 aprile 2009
Provate a consultare un motore di ricerca, cliccando due paroline in inglese: ' no limits'. Troverete ben 109 milioni (ribadiamo centonovemilioni) di pagine da sfogliare. Tanto che ci viene facile concludere che questo è davvero il tempo del no limits. Di sicuro, non è un caso che questo slogan abbia avuto una fortuna sfacciata nel mondo della pubblicità.
Questa osservazione preliminare, che attiene allo spirito del tempo in cui siamo immersi, rende ancor più intrigante la sfida lanciata con l’operazione «Liberi per vivere». In questo tragitto i promotori hanno pensato di munirsi anche di un dépliant che contiene un testo suddiviso in tre parti. Qui ci soffermiamo sulla sezione che ha un più spiccato impianto antropologico e che reca il titolo «La forza del limite». Un concetto che si mette subito di traverso al 'politicamente corretto'.

Procediamo con ordine. Il testo parte da un’affermazione che è difficile contestare: «Il limite appartiene alla condizione umana».
Eppure, si osserva, è forte nella «nostra generazione» la tentazione di non tenere conto di questa evidenza.
C’è dunque la consapevolezza di non poter dare per scontato che l’accettazione della finitezza umana sia condivisa. È appena il caso di ricordare l’illusione prometeica che insidia l’uomo moderno o di evocare alcune immagini esemplari, come quella del volo di Icaro. O di richiamare la denuncia dei limiti dello sviluppo, legati soprattutto alla rarefazione delle risorse naturali, lanciata negli anni Settanta dal Club di Roma. E ricordare che, se c’è un limite allo sviluppo in prospettiva economica, è altrettanto realistico ipotizzare un limite in àmbito sociale. O saccheggiare tanta pubblicistica, anche recente, in cui vengono rilanciati i princìpi della rivoluzione dei Lumi (libertà, fraternità, uguaglianza) come 'assoluti' che giustificano le scelte individuali declinate esclusivamente nell’ottica dell’autodeterminazione totale.
Esattamente quel principio che pensa di potersi erigere a solo ed esclusivo metro di giudizio per le scelte individuali.

Qui appare in tutta evidenza la sostanziale alternatività delle scelte di chi si rifà a un’antropologia di relazione. Nel cui orizzonte s’incardina la «forza del limite» che ci viene proposta. Ma per capire meglio, usiamo le stesse parole, semplici quanto efficaci, del dépliant: «Il senso del limite, però, più che un ostacolo può rivelarsi, alla prova dei fatti, una inattesa risorsa. Infatti proprio perché finiti e contingenti, siamo e ci sperimentiamo in relazione, bisognosi cioè di essere-con-l’altro». Ma anche questo processo non avviene in una forma automatica. Bensì necessita di percorsi educativi che portino ciascuno a percepirsi in relazione con l’altro, dentro le forme sociali che il tempo offre (prima fra tutte la famiglia), ma anche all’interno di quella trama fitta di socialità diffusa che è l’associazionismo di base o il volontariato. In tutti questi spazi, il portare gli uni i pesi degli altri è lo sbocco naturale di una tessitura interpersonale in cui nessuna soggettualità viene affievolita. Anzi, ogni individuo è considerato un bene prezioso. In questi àmbiti appare quanto meno improbabile quella cultura 'machista' che è l’altra faccia, forse la più impresentabile anche per il mondo del politicamente corretto, dell’autodeterminazione muscolare.

Ulteriore traccia di riflessione è quella inscritta nel rapporto del soggetto con la malattia. Ecco cosa suggerisce il dépliant: «...la sofferenza, oltre a conferire una singolare intimità con se stessi, offre pure una sorprendente opportunità: quella di aprirsi agli altri. A pensarci bene, sta qui una risorsa che si sprigiona dal dolore: ci stana dall’isolamento per ricordare a noi e agli altri il bisogno reciproco di solidarietà». Ci limitiamo a sottolineare il passaggio sulla «singolare intimità con se stessi» che suggerisce una più profonda consapevolezza del nostro io. La sofferenza, dunque, si porge come occasione per «darsi del tu», come suggeriscono psicologi e psicoterapeuti.
C’è poi la parola latina 'limes' che noi interpretiamo come soglia o confine, ma in un’accezione essenzialmente negativa.
È appena il caso di ricordare che a una percezione più profonda, quello stesso termine evoca il passaggio a un territorio nuovo. Piuttosto che a un divieto, esso allude a una nuova frontiera forse inesplorata dell’umano.

Infine il rifiuto del 'dolorismo', che troppe volte viene addossato con superficialità all’antropologia cristiana.
Anzi, qui si denuncia che «la riduzione del dolore fisico, accanto alla cura e alla consolazione, è ancora oggi purtroppo, un traguardo da raggiungere, se è vero che si registra una vistosa differenza tra quanto sarebbe doveroso fare e quanto in pratica viene compiuto». Speriamo che queste parole, così impegnative, facciano fischiare le orecchie a quanti, soprattutto nelle stanze della politica, sono in grado di garantire le cure palliative a tutti i cittadini, in ossequio a un principio di eguaglianza. È appena il caso di osservare che qui si annida una profonda ingiustizia sociale: da una parte i ricchi che possono comprare la medicina palliativa e dall’altra i poveri, condannati a morire nel dolore.
In conclusione: se nel nostro piccolo, leggendo quelle venti righe su «La forza del limite», abbiamo individuato alcune piste di riflessione, non osiamo immaginare cosa possa scaturire dalla cultura e dall’inventiva degli italiani.
Credenti e non credenti, non importa. Buon discernimento a tutti.
Prende il via in questi giorni con la diffusione di dépliant e manifesti la campagna nazionale promossa da un reticolo di associazioni, da Scienza & Vita a Forum delle Famiglie Uno sforzo senza precedenti per una grande opera di riflessione e di educazione sui temi del 'fine vita' affrontando una cultura che rimuove il senso del limite


sul campo - di Lorenzo Schoepflin - In piena corsa la lobby pro-eutanasia - La macchina della propaganda su autodeterminazione e testamento biologico va a tutta velocità: convegni, raccolte firme, dossier giornalistici... - Tutto per diffondere l’idea 'pluralista' che «la vecchia morale non serve più» - Avvenire, 30 aprile 2009
Se qualcuno pensa che, con la morte di Eluana, la macchina della propaganda su autodeterminazio­ne, testamento biologico ed eutanasia si sia fermata, si sbaglia. Al contrario, l’attività di coloro che più o meno direttamente hanno sostenuto la battaglia di Beppino Englaro continua freneticamente. Tra i protagonisti delle varie iniziative disseminate su tutto il territorio italiano, spiccano i nomi legati alla Consulta di bioetica, l’associazione che dal 1995 è stata al fianco del padre di Eluana, e numerosi rappresentanti dei Radicali e dell’Associazione radicale Luca Coscioni.
Molto significativo il convegno tenutosi a Lecce, il 24 aprile, al quale hanno partecipato tra gli altri Beppino Englaro, Mario Riccio, l’anestesista che si occupò del caso Welby, e Maurizio Mori, presidente della Consulta.
Quest’ultimo ha parlato chiaramente di quale sia il progetto ad ampio respiro dell’associazione da lui presieduta: la proposta di «valori morali nuovi per la società italiana»: «Noi riteniamo che sia stato morale ed etico sospendere l’alimentazione e l’idratazione perché Eluana non avrebbe mai voluto continuare così», ha detto Mori dopo aver auspicato «l’accettazione del pluralismo etico» nel dibattito pubblico. Quali siano le idee che dovrebbero animare tale pluralismo (che però giudica aspramente ogni dissenso) lo si può capire dai riferimenti culturali della Consulta che lo stesso Mori ha citato, come ad esempio Peter Singer, autore del libro Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più. Come pluralismo non c’è male.

Radicali italiani e Associazione Luca Coscioni, come detto, non stanno con le mani in mano: il 23 aprile Marco Cappato, che per i Radicali è parlamentare europeo e della Coscioni è segretario, assieme a Marco Pannella ed Emma Bonino, ha partecipato alla consegna delle firme, raccolte durante due mesi di intensa campagna, per la presentazione al Comune di Roma della delibera popolare per l’istituzione di un registro dei testamenti biologici. Cappato ha parlato di una «lotta per il riconoscimento legale del diritto a decidere delle cure e quindi del testamento biologico». Emma Bonino ha invitato a usare «ogni giorno, ogni ora, ogni minuto perché cresca una consapevolezza che riesca a evitare una legge barbara», con riferimento al testo già discusso al Senato, per evitare di dover ricorrere a un referendum e affinché non si ripetano gli «orrori della legge 40». Chi ancora esita di fronte a un impegno culturale a difesa della vita prenda nota.

Un grande attivismo culturale sta caratterizzando anche Micromega, il bimestrale diretto da Paolo Flores d’Arcais, che il 21 febbraio scorso ha organizzato la manifestazione «Sì al testamento biologico. No alla tortura di Stato» a Roma. Il numero di aprile della rivista è dedicato a questo tema e ospita numerosi interventi. Tra essi, quelli di Beppino Englaro e di Carlo Alberto Defanti, il neurologo che ha seguito Eluana fino alla sua morte, già presidente della Consulta di bioetica. Un intreccio di nomi e associazioni che sta intensificando il proprio impegno per la promozione del testamento biologico e dell’eutanasia in Italia.
Loro non stanno a guardare. E noi?



cure palliative - Il vero hospice? Fra le mura domestiche - di Francesca Lozito – Avvenire, 30 aprile 2009
La medicina di base come ponte tra le cure specialistiche e la casa del malato. Secondo Pierangelo Lo­ra Aprile, bresciano, responsabi­le nazionale Simg (Società di Me­dicina generale) per l’area cure palliative e medicina del dolore, è que­sta la prospettiva futura per costruire una valida assistenza domiciliare per chi si trova in una situazione di termina­lità.
Ma non solo.
Dottore, perché proprio i medici di famiglia dovreb­bero rivestire un ruolo di cerniera tra l’ospedale e la casa?
«Perché è quello che più propriamente compete loro. Og­gi questo settore può costituire un’opportunità nel mo­mento in cui il modello ospedale non funziona più per tut­to e si sceglie di stare sul territorio. Il medico di famiglia è capace di percepire i bisogni delle persone lì dove nasco­no, in casa. Quando ciò accade, in gran parte questi si ri­solvono nell’ambito delle mura domestiche».
Questo accade anche per i malati terminali?
«Nei mesi scorsi la Simg ha presentato una ricerca a livello nazionale secondo cui il 93% dei medici di famiglia è pron­to a gestire il paziente terminale a casa, ma chiede di poter essere aiutato da un’equipe formata dall’esperto in cure pal­liative e dall’infermiere professionale. E quando serve, an­che da chi si occupa di fornire aiuto psicologico. Così fa­cendo sarà possibile invertire la tendenza che vede in Ita­lia ogni anno solo il 20% delle 300.000 persone che ne­cessitano di un programma di cure palliative godere di un’assistenza domiciliare di qualità».
Quanto è lunga la strada per arrivare a una vera e propria «umanizzazione» della medicina?
«Prima di tutto si deve raggiungere un equilibrio tra la ne­cessità dei ricoveri e la possibilità della cura a domicilio. E per fare questo occorre rassicurare il paziente e la sua fa­miglia che questa scelta non vorrà dire abbandonarlo, ma, piuttosto, fare tutto il possibile per lui. Vuol dire fare in modo che non abbiano ansie e paure ingiustificate».
Si dice che la grande sfida, una volta fatta partire la rete degli hospice, sia completarla con l’assistenza domiciliare. È d’accordo?
«L’hospice è il luogo ideale di cura per questi pazienti solo in quelle situazioni in cui non è possibile farlo a casa. De­ve essere però un’alternativa, un’opzione. Perché la prefe­renza è sempre quella di morire a casa, in condizioni di­gnitose. Ma a casa deve esserci un supporto, soprattutto se la persona che assiste, il cosiddetto care giver, è anziana, di­sabile, oppure non ha il sostegno economico necessario. Il bisogno di hospice, quantificato in 0,6 posti letto ogni 10.000 abitanti, è importante, ma non è su queste struttu­re che deve focalizzarsi il problema delle cure palliative. Che si incentrano sulla domiciliarità, il curare a casa, ga­rantendo lo stesso livello di cure erogate in un hospice».
Costa molto curare a domicilio?
«Curare a casa per il sistema sanitario è economicamente vantaggioso: ogni paziente seguito costa infatti meno di 100 euro al giorno rispetto ai 200/250 euro richiesti dal­l’assistenza in un hospice e oltre i 350 euro in media del ri­covero in ospedale».
Perché allora non si potenzia l’assistenza domicilia­re?
«Perché da una parte c’è una resistenza di tipo culturale, dal­l’altra di investimenti. In Italia si sono verificate situazioni paradossali: solo nel Lazio e in Campania si sono registra­te 1 milione di giornate di degenza di malati morti in o­spedale per ricevere cure palliative (che invece avrebbero de­siderato morire a casa). Queste due Regioni hanno sper­perato i fondi erogati per costruire gli hospice, spendendo il 94% delle risorse e realizzando solo 0,16 posti letto ogni 10.0000 abitanti. Non solo in questi casi non si è offerto un servizio alla popolazione (che non è assistita né a casa né in hospice), ma i pazienti sono stati costretti a morire in ospedale consumando risorse per malati acuti (costando molto di più che non nell’hospice o a casa). Altre Regioni (ad esempio Lombardia, Emilia Romagna e Toscana) in­vece hanno utilizzato razionalmente i loro budget, realiz­zando gli 0,6 posto letto ogni 10.000 abitanti».
Si può stimare quante persone coinvolge un discor­so di assistenza domiciliare?
«I dati di cui attualmente disponiamo riguardano solo la mortalità per cancro, che può essere quantificata in circa 180.000 persone ogni anno: l’80% potrebbe usufruire di cure domiciliari e il 20% di cure in hospice».
Pierangelo Lora Aprile, responsabile della Società di medicina generale: «La struttura per pazienti terminali è importantissima ma dovrebbe essere un’alternativa: le persone preferiscono morire a casa propria. Rendiamogli possibile questa scelta»


Ratzinger, teologia dell’Assoluto - DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 30 aprile 2009
L’analisi di Camillo Ruini: «Il pensiero di Benedetto XVI si occupa in modo approfondito delle grandi problematiche etiche e storiche del nostro tempo»
Il teologo e poi cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, si è occupato di teologia praticamente per tutta la sua vita ed è certamente una delle voci più alte e significative della teologia contemporanea, che con l’elezione al soglio pontificio ha acquisito un ulteriore, straordinario motivo di autorevolezza. È buona norma, quando cerchiamo di cogliere il senso complessivo di una grande impresa intellettuale e umana, informarci anzitutto di come la concepisca il suo autore. Assai indicative al riguardo sono due brevi affermazioni di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La prima è contenuta nel libro La mia vita (pp. 92-93): differenziando la sua teologia da quella di Karl Rahner, Ratzinger scrive: «Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico». Molto più recente è la seconda affermazione, che si può leggere nella prefazione di Benedetto XVI al primo volume della sua Opera omnia: «La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata […] anche il centro del mio lavoro teologico.
Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino». Sacra Scrittura, Padri della Chiesa e liturgia sono dunque l’humus vitale della riflessione teologica di Ratzinger, ma proprio a partire da qui egli affronta, senza sconti, la questione della verità – e della bellezza e «vivibilità» – della fede cristiana, nell’attuale situazione storica e in rapporto alle forme di razionalità e ai modi di intendere la vita oggi prevalenti. Fin dalla sua prima prolusione accademica, tenuta all’Università di Bonn nel giugno 1959 e dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, Ratzinger dà forma ed espressione al nucleo fondamentale della sua teologia: l’Assoluto, che i filosofi greci avevano in qualche modo riconosciuto, ritenendolo però inaccessibile agli uomini, è in realtà il Dio degli uomini, il Dio che ci parla e ci ascolta, il Dio che in Gesù Cristo si è dato totalmente per noi. Tra fede e ragione vige pertanto un rapporto profondo e indistruttibile, e il cristianesimo può a buon diritto presentarsi come la «religione vera». Inoltre, come il Logos divino è identicamente l’Agape, l’Amore originario e la misura dell’amore autentico, così la verità cristiana trova la sua espressione concreta nell’etica dell’amore del prossimo, nella cura dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizioni sociali.
La forza che ha permesso l’espansione missionaria del cristianesimo risiede dunque nella sintesi che esso ha saputo realizzare tra ragione, fede e prassi della vita. Questa sintesi, e la connessa rivendicazione di verità del cristianesimo, hanno retto attraverso i secoli e il passaggio delle culture, ma con l’epoca moderna sembrano sempre più superate. «Al termine del secondo millennio – scriveva il cardinale Ratzinger in Fede Verità Tolleranza (p. 170) – il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua diffusione originaria, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità». L’impegno centrale del lavoro teologico dell’attuale Pontefice è essenzialmente rivolto a uscire da questa crisi. A tal fine egli ha analizzato a più riprese le ragioni storiche delle attuali difficoltà, non nascondendo affatto quelle interne al cristianesimo e alla Chiesa: con il passare dei secoli, infatti, il cristianesimo era purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di Stato, contrariamente alla propria natura. È pertanto merito dell’Illuminismo aver riproposto, per lo più in polemica con la Chiesa, quei valori di razionalità e libertà che trovano alimento nella fede cristiana. Ma lo sguardo di Ratzinger, più che all’analisi del passato, è rivolto ad aprire alla fede le strade del futuro.
«Allargare gli spazi della razionalità» è la formula che indica la fondamentale direzione di marcia. La razionalità scientifica, basata sull’esperimento e sul calcolo, e la critica storica, per quanto importanti e irrinunciabili, da sole non bastano infatti a soddisfare il nostro desiderio di conoscere e a dare un senso e una direzione alla nostra esistenza. In concreto Ratzinger contesta sia la pretesa di fare della teoria dell’evoluzione una spiegazione almeno potenzialmente universale e autosufficiente di tutta la realtà sia la tendenza della critica storica a ridurre la figura di Gesù a un’evanescente sommatoria di ipotesi storiografiche. È necessario invece aprirsi, in un atteggiamento di «ascolto umile», a Dio che ci interpella attraverso la creazione e che, soprattutto, ci ha manifestato il suo volto in Gesù Cristo. Anche oggi, inoltre, il cristianesimo deve mostrarsi come proposta di vita buona e autentica, come la migliore opportunità che è offerta all’uomo di trovare speranza, felicità e gioia. Perciò la teologia di Ratzinger-Benedetto XVI si occupa in modo approfondito delle grandi problematiche etiche e storiche del nostro tempo. Le sue analisi del relativismo e della sua «dittatura», che minaccia di essiccare la linfa vitale della civiltà europea, e d’altra parte l’impegno a proporre in termini idonei al contesto attuale la grande eredità morale e culturale che ci viene dalla nostra storia, rappresentano un contributo straordinariamente rilevante offerto non solo ai credenti ma a chiunque voglia affrontare responsabilmente le sfide che stanno davanti a noi. Quanto mai suggestiva e feconda è in particolare la proposta formulata da Ratzinger nella relazione tenuta a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II.
Egli cioè propone a coloro che non riescono a credere di «vivere come se Dio esistesse»: «Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». Abbiamo visto come la liturgia sia sempre stata per Benedetto XVI l’attività centrale della sua vita e il centro del suo lavoro teologico. Anche nel trattare le problematiche etiche e storiche egli non indulge mai a un moralismo che affiderebbe il superamento delle difficoltà principalmente allo sforzo morale del singolo o della collettività. Decisiva rimane sempre l’azione gratuita di Dio, la presenza nella nostra vita del suo amore e della sua misericordia. Perciò la preghiera, in particolare la preghiera liturgica in cui la Chiesa unita a Cristo prega e loda Dio, rimane la risorsa più grande di cui, anche oggi, l’umanità possa disporre.


mercoledì 29 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso del Papa alla popolazione e ai soccorritori a L'Aquila
2) PASTORE LONTANO DAL FASTO - LA VESTE BIANCA TRA LE MACERIE - GIOVANNI D’ALESSANDRO – Avvenire, 29 aprile 2009
3) Tempi 21 Aprile 2009 - Bugie per tutti i gusti di Rodolfo Casadei - La visione del Papa sulla lotta all’Aids è «realista». Un dossier del laicissimo Le Monde smonta la religione del condom. Ma in Italia nessuno se n’è accorto
4) PAPA IN ABRUZZO/ Quell'umile viaggio sulle tracce del dolore di un popolo - Alessandro Banfi - mercoledì 29 aprile 2009 – ilsussidiario.net
5) OBAMA/ I 100 volti del presidente - Lorenzo Albacete - mercoledì 29 aprile 2009 – ilsussidiario.net
6) MARCHE, OBIEZIONE DI COSCIENZA NON RICONOSCIUTA - Presidio estremo di libertà contro la violenza etica - GIUSEPPE ANZANI – Avvenire, 29 aprile 2009
7) Eros, philia e agape - COLLEVALENZA, (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo l'intervento pronunciato da padre Domenico Cancian, fam, al Convegno svoltosi a Collevalenza, dal 27 al 29 ottobre 2006, sulla prima Enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”.

Discorso del Papa alla popolazione e ai soccorritori a L'Aquila
L'AQUILA, martedì, 28 aprile 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo del discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questo martedì mattina nel piazzale della Scuola della Guardia di Finanza di Coppito (L'Aquila), rivolgendosi alla popolazione abruzzese colpita dal terremoto e al personale impegnato nei soccorsi.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Grazie per la vostra accoglienza, che mi commuove profondamente. Vi abbraccio tutti con affetto nel nome di Cristo, nostra salda Speranza. Saluto il vostro Arcivescovo, il caro Mons. Giuseppe Molinari, che come Pastore ha condiviso e sta condividendo con voi questa dura prova; a lui va il mio ringraziamento per le toccanti parole piene di fede e di fiducia evangelica con cui si è fatto interprete dei vostri sentimenti. Saluto il Sindaco dell'Aquila, Onorevole Massimo Cialente, che con grande impegno sta operando per la rinascita di questa città; come pure il Presidente della Regione, Onorevole Gianni Chiodi. Ringrazio entrambi per le loro cortesi parole. Saluto la Guardia di Finanza, che ci ospita in questo luogo. Saluto i Parroci, gli altri sacerdoti e le religiose. Saluto i Sindaci dei paesi colpiti da questa sciagura, e tutte le Autorità civili e militari presenti: la Protezione Civile, i Vigili del Fuoco, la Croce Rossa, le Squadre di Soccorso, e i tanti volontari di molte e diverse associazioni. Nominarle tutte mi sarebbe difficile, ma a ciascuno vorrei far giungere una speciale parola di apprezzamento. Grazie di ciò che avete fatto e soprattutto dell'amore con cui l'avete fatto. Grazie dell'esempio che avete dato. Andate avanti uniti e ben coordinati, così che si possano attuare quanto prima soluzioni efficaci per chi oggi vive nelle tendopoli. Lo auguro di cuore, e prego per questo.
Ho iniziato questa mia visita da Onna, tanto fortemente colpita dal sisma, pensando alle altre comunità terremotate, che ho visto dall'alto sorvolando la zona in elicottero. Ho nel cuore per tutte le vittime di questa catastrofe: bambini, giovani, adulti, anziani, sia abruzzesi che di altre regioni d'Italia o anche di nazioni diverse. La sosta nella Basilica di Collemaggio, per venerare le spoglie del santo Papa Celestino V, mi ha dato modo di toccare con mano il cuore ferito di questa città. Il mio ha voluto essere un omaggio alla storia e alla fede della vostra terra, e a tutti voi, che vi identificate con questo Santo. Sulla sua urna, come Ella Signor Sindaco ha ricordato, ho lasciato quale segno della mia partecipazione spirituale il Pallio che mi è stato imposto nel giorno dell'inizio del mio Pontificato. Inoltre, assai toccante è stato per me pregare davanti alla Casa dello studente, dove non poche giovani vite sono state stroncate dalla violenza del sisma. Attraversando la città, mi sono reso ancor più conto di quanto gravi siano state le conseguenze del terremoto.
Eccomi ora qui, in questa Piazza su cui s'affaccia la Scuola della Guardia di Finanza, che praticamente sin dal primo momento funziona come quartiere generale di tutta l'opera di soccorso. Questo luogo, consacrato dalla preghiera e dal pianto per le vittime, costituisce come il simbolo della vostra volontà tenace di non cedere allo scoraggiamento. "Nec recisa recedit": il motto del Corpo della Guardia di Finanza, che possiamo ammirare sulla facciata della struttura, sembra bene esprimere quella che il Sindaco ha definito la ferma intenzione di ricostruire la città con la costanza caratteristica di voi abruzzesi. Questo ampio piazzale, che ha ospitato le salme delle tante vittime per la celebrazione delle esequie presiedute dal Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, raccoglie quest'oggi le forze impegnate ad aiutare L'Aquila e l'Abruzzo a risorgere presto dalle macerie del terremoto. Come ha ricordato l'Arcivescovo, la mia visita in mezzo a voi, da me desiderata sin dal primo momento, vuole essere un segno della mia vicinanza a ciascuno di voi e della fraterna solidarietà di tutta la Chiesa. In effetti, come comunità cristiana, costituiamo un solo corpo spirituale, e se una parte soffre, tutte le altre parti soffrono con lei; e se una parte si sforza di risollevarsi, tutte partecipano al suo sforzo. Devo dirvi che manifestazioni di solidarietà mi sono giunte per voi da tante parti. Numerose alte personalità delle Chiese Ortodosse mi hanno scritto per assicurare la loro preghiera e vicinanza spirituale, inviando anche aiuti economici.
Desidero sottolineare il valore e l'importanza della solidarietà, che, sebbene si manifesti particolarmente in momenti di crisi, è come un fuoco nascosto sotto la cenere. La solidarietà è un sentimento altamente civico e cristiano e misura la maturità di una società. Essa in pratica si manifesta nell'opera di soccorso, ma non è solo una efficiente macchina organizzativa: c'è un'anima, c'è una passione, che deriva proprio dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo, sia che avvenga nelle forme istituzionali, sia nel volontariato. Ed anche a questo, oggi, voglio rendere omaggio.
Il tragico evento del terremoto invita la Comunità civile e la Chiesa ad una profonda riflessione. Come cristiani dobbiamo chiederci: "Che cosa vuole dirci il Signore attraverso questo triste evento?". Abbiamo vissuto la Pasqua confrontandoci con questo trauma, interrogando la Parola di Dio e ricevendone nuova luce. Abbiamo celebrato la morte e la risurrezione di Cristo portando nella mente e nel cuore il vostro dolore, pregando perché non venisse meno nelle persone colpite la fiducia in Dio e la speranza. Ma anche come Comunità civile occorre fare un serio esame di coscienza, affinché il livello delle responsabilità, in ogni momento, mai venga meno. A questa condizione, L'Aquila, anche se ferita, potrà tornare a volare.
Vi invito ora, cari fratelli e sorelle, a volgere lo sguardo verso la statua della Madonna di Roio, venerata in un Santuario a voi molto caro, per affidare a Lei, Nostra Signora della Croce, la città e tutti gli altri paesi toccati dal terremoto. A Lei lascio una Rosa d'oro, quale segno della mia preghiera per voi, mentre raccomando alla sua materna e celeste protezione tutte le località colpite.
Ed ora preghiamo:
O Maria, Madre nostra amatissima!
Tu, che stai vicino alle nostre croci,
come rimanesti accanto a quella di Gesù,
sostieni la nostra fede, perché pur affranti dal dolore,
conserviamo lo sguardo fisso sul volto di Cristo
in cui, nell'estrema sofferenza della croce,
si è mostrato l'amore immenso e puro di Dio.
Madre della nostra speranza, donaci i tuoi occhi per vedere,
oltre la sofferenza e la morte, la luce della risurrezione;
donaci il tuo cuore per continuare,
anche nella prova, ad amare e a servire.
O Maria, Madonna di Roio,
Nostra Signora della Croce, prega per noi!
Regina Caeli...
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


PASTORE LONTANO DAL FASTO - LA VESTE BIANCA TRA LE MACERIE - GIOVANNI D’ALESSANDRO – Avvenire, 29 aprile 2009
Il bianco era il colore più atteso, all’Aqui­la, nel grigio di una piovosa mattina di a­prile, che stenta ad aprirsi alla primavera. La veste del Santo Padre, recatosi ieri in visita a Onna e all’Aquila, è stata sommersa da al­tri colori. Erano quelli dei k-way e della ma­glieria ancora invernale, altrui o recupera­ta a casa, della gente che lo attorniava, nel bagno di folla più anarchico di tutto il suo pontificato. Le stecche degli ombrelli si so­no avvicinate pericolosamente allo zuc­chetto bianco; sotto ad essi, mamme con figli piccolissimi in braccio non rinuncia­vano alla carezza del Papa fatta sulla testi­na dei piccoli. Non era la carezza notturna del discorso alla luna di Giovanni XXIII, qua­si mezzo secolo fa, su una piazza san Pietro e su una via della conciliazione immortala­te gremite. Era la carezza del sole velato, del­l’alone cinereo che ha riconsegnato l’Aqui­la, nel periodo successivo alla Pasqua, a un’atmosfera quaresimale.
«Sono finalmente con voi, in questa terra splendida e ferita», ha detto il Papa e que­sto ha fatto sobbalzare due volte il cuore a­gli abruzzesi, nella seconda e nell’ultima pa­rola. Perché il 'finalmente' esprimeva la fi­ne di un’attesa, così vibrata umile incon­sueta per un capo di Stato, per un capo del­la cristianità messosi quasi in coda a politi­ci, giornalisti, scrittori, cantanti e passerel­listi. E nell’ultimo aggettivo, 'ferita' perché che la loro terra – chiamata cuore verde d’Europa – sia bellissima gli abruzzesi lo sanno bene, ma 'ferita' non lo era fino al 6 aprile. Non nuovamente ferita, almeno, dal nemico di sempre, generato dalla stessa ter­ra, che le ha inflitto ferite mortali nel 1703 coi tremila morti dell’Aquila, nel 1706 coi mille di Sulmona e nel 1915 coi trentamila di Avezzano. Tutta la storia d’Abruzzo è scan­dita dai terremoti. Questo bianco nell’anarchia della folla, che l’apprensione della security non riusciva a tenere lontano dalle mani della gente, ha ri­chiamato un’altra immagine, quella di un predecessore sia di Benedetto XVI, sia di Giovanni XXIII: l’immagine di Pio XII reca­tosi tra le macerie di San Lorenzo a Roma, dopo il bombardamento alleato durante la seconda guerra mondiale, quando il fondo della veste tinse il bianco di altri indicibili colori, e fece come oggi il giro del mondo. «Vi sono stato accanto fin dal primo mo­mento – ha detto Benedetto XVI – la mia presenza qui vuol significare che il Signo­re crocifisso vive, è con noi e non ci ab­bandona ». Ogni parola che non portasse i segni della passione a questa terra ferita sa­rebbe stata impropria, ma il Papa non è ve­nuto solo nel segno della croce, è venuto anche nel segno della Pasqua, della resur­rezione, e ha detto le parole che solo lui è autorizzato a dire: «I vostri morti sono vivi in Dio e attendono da voi un segnale di co­raggio ». Era l’annuncio atteso, per ogni cuo­re che non si rassegna alla perdita. Mentre quelle parole di vita eterna venivano pro­nunciate, forse un cameraman si è distrat­to e ha zoomato su cento metri di macerie, di tetti collassati, di muri sventrati e que­sto parlare di resurrezione in uno scenario di morte è stato il più grande e involonta­rio regista del mondo. Poi il Papa ha lasciato Onna, paese-simbo­lo del dolore ed è andato all’Aquila. Si è re­cato alla casa dello studente prima che alla basilica di Collemaggio e alla Scuola della Guardia di Finanza, perché questo è stato il terremoto degli studenti, dei morti giovani, dei sommersi e dei salvati che fino a un me­se fa avevano, tutti, davanti una vita che sembrava – coi suoi problemi, con le sue speranze – lunga. Il Papa si è avvicinato a de­gli studenti. A uno d’ingegneria, che non rientrerà nell’accartocciata facoltà di Roio, costruita con la plastica al posto del ce­mento, ha detto: ci vogliono ingegneri e tec­nici più bravi di quelli che hanno costruito qui; bisogna ricostruire.
L’immagine che resta nel cuore di tutti è quella, finale, del Papa nella spianata che fu occupata dai prati di fiori sulle bare. Accanto a quella del pastore entrato a Collemaggio a guardare il suo predecessore Celestino V, incoronato qui nel 1294, coi mattoni spar­si in terra a due passi da lui, nella grande basilica distrutta. È stato un pastore lonta­no dal fasto. È stato un pastore tra le mace­rie. È stato un pastore del suo gregge.


Tempi 21 Aprile 2009 - Bugie per tutti i gusti di Rodolfo Casadei - La visione del Papa sulla lotta all’Aids è «realista». Un dossier del laicissimo Le Monde smonta la religione del condom. Ma in Italia nessuno se n’è accorto
Hanno sventolato Le Monde come una bandiera quando il quotidiano transalpino ha pubblicato la vignetta di Plantu con Gesù che distribuisce preservativi alle folle africane, ha scritto in un editoriale che giudicava «gravissimo e irresponsabile» il discorso papale sull’argomento, ha offerto le sue pagine ad una lettera aperta al Papa di alcuni esperti di Aids che invitavano Benedetto XVI ad abiurare. Ma quando sulle pagine laiciste del giornale parigino è apparso un lungo intervento di epidemiologi, medici e psicanalisti che definiva «realista» la posizione del Papa, le grandi testate italiane hanno liquidato la cosa in poche righe.
Tony Anatrella, Michele Barbato, Jokin de Irala, René Ecochard e Dany Sauvage sono certamente degli esperti di matrice cattolica, ma il linguaggio e gli argomenti che portano sono di una laicità a prova di bomba. Sia sul versante sanitario-epidemiologico («Il preservativo è certamente la tecnologia più efficace. Ma non è la misura di prevenzione più efficace. In numerosi paesi africani la percentuale di persone portatrici del virus è troppo elevata perché l’epidemia sia frenata dal solo preservativo») che su quello morale e antropologico («Un altro approccio deve essere proposto, che faccia maggiormente appello al senso della coscienza umana e della responsabilità; si tratta di un’iniziativa pedagogica riguardante il senso dei comportamenti sessuali. Ma questa prospettiva, ce ne rendiamo conto, attualmente è difficilmente compresa nel discorso sociale, che oggi coincide con un pensiero solo pragmatico»).
L’intervento pro-papa richiama i numerosi studi sulla materia che attestano che «non c’è nessun paese colpito da un’epidemia generalizzata che sia riuscito ad abbassare la percentuale di popolazione infettata dall’Hiv grazie a campagne centrate sull’utilizzazione del solo preservativo», mentre progressi rilevanti si sono registrati in tutti quelli che hanno dato ampio spazio alle strategie centrate sull’astinenza (o meglio sul ritardamento dell’attività sessuale) e sulla fedeltà fra i partner, diffondendole in tutti gli strati della popolazione. Gli autori sostengono che «gli specialisti dell’epidemiologia sottolineano che l’astinenza e la fedeltà hanno finora evitato 6 milioni di morti in Africa». Cosa che non si può dire con la stessa certezza riguardo al condom. In proposito vengono evocate le dichiarazioni di Edward Green, laicissimo esperto di prevenzione dell’università di Harvard attivissimo in studi sul campo e autore di un’opera di riferimento sull’argomento (Rethinking Aids prevention – Learning from successes in developing countries): «Teoricamente il preservativo dovrebbe funzionare, e teoricamente l’uso del preservativo dovrebbe condurre a migliori risultati che il mancato uso. Ma questo è teorico... noi non troviamo nessuna associazione fra un’utilizzazione più frequente del preservativo e una riduzione dei tassi di contaminazione da parte dell’Hiv».
Anche l’affermazione più controversa di Benedetto XVI, quella secondo cui distribuendo profilattici si «aggrava» il problema dell’Aids, è difesa in modo convincente. Se si fa passare il messaggio che tutto è permesso, purché si usi il condom, le persone proveranno un senso di falsa sicurezza che farà loro correre più rischi: «Questo fenomeno di compensazione dei rischi è stato largamente descritto nella letteratura scientifica. Studi sono stati condotti soprattutto nelle Filippine, in Salvador e in Spagna su campioni rappresentativi di giovani. In ognuno di questi casi, i giovani che credono che i preservativi sono efficaci al 100 per cento hanno la tendenza a diventare sessualmente attivi anticipatamente». Alla ragionevole analisi dei cinque coraggiosi più uno (Edward Green) merita di esser aggiunto un paragrafo: non solo in caso di epidemia generalizzata il profilattico non può essere la strategia numero uno per la prevenzione di nuove infezioni, ma anche nel caso dei gruppi di popolazione ad alto rischio non ci si può appoggiare al solo condom per avere successi durevoli.

Raccontare tutta la storia
La campagna di promozione e la diffusione capillare dei profilattici all’interno delle comunità gay americane alla fine degli anni Ottanta è stata per lungo tempo accreditata come la strategia che ha permesso di ridurre i nuovi casi di infezione in quel gruppo di popolazione, e quel successo ha trasformato le campagne di prevenzione centrate sul preservativo nel modello di tutte le campagne governative e Onu. In realtà i nuovi casi di infezione fra i gay all’inizio degli anni Novanta sono diminuiti perché c’era stata una vera e propria saturazione delle infezioni in precedenza. Nel 1988 a San Francisco una singola classe di età registrò un tasso di sieropositività del 72 per cento! Per valutare l’efficacia dei programmi di educazione centrati sul condom bisogna guardare alle infezioni fra i giovani gay che diventano sessualmente attivi. E lì purtroppo si nota che, nelle classi di età fra i 17 e i 22 anni, i tassi di infezione non sono affatto diminuiti. Nel 2006 il Cdc, l’entità ufficiale Usa che si occupa di epidemie, ha rilevato incrementi allarmanti nel numero di giovani gay infettati dall’Hiv. Nel gruppo fra i 13 e i 24 anni il numero degli infettati stava crescendo anno dopo anno, con un aumento del 18 per cento nel 2006 rispetto all’anno precedente. Questo accade in un paese e presso un gruppo di popolazione dove i profilattici sono pubblicizzati e facili da ottenere. Un discorso simile vale nel caso delle campagne dirette alle prostitute e ai loro clienti: la Thailandia, dove le autorità hanno fortemente spinto perché i condom venissero usati nei bordelli, è presentata a questo riguardo come un successo. Ma anche qui non si racconta tutta la storia: è aumentato l’uso del condom nel mondo della prostituzione, ma si è anche drasticamente ridotto il numero di visite dei clienti alle prostitute. La severità delle autorità ha indirettamente fatto comprendere la portata del pericolo a molti, che hanno deciso di prendere una misura più drastica ed efficace dell’uso del condom.


PAPA IN ABRUZZO/ Quell'umile viaggio sulle tracce del dolore di un popolo - Alessandro Banfi - mercoledì 29 aprile 2009 – ilsussidiario.net
«L’Aquila anche se ferita tornerà a volare». E vola l’abito bianco del Papa in un giorno grigio di pioggia e di vento. Fragile, leggero, squassato dal dolore e dal ricordo. Ma anche dolcissimo Gesù in terra. Un padre che ha portato speranza, come ha detto il sindaco Massimo Cialente. Benedetto XVI è stato tutto questo in un giorno che resterà memorabile su questa terra martoriata d’Abruzzo.
È arrivato in macchina, in ritardo. Il cattivo tempo ha fermato l’elicottero e questa circostanza non ha fatto che sottolineare l’umile operaio della vigna del Signore, come si chiamò Ratzinger nel primo giorno da Papa. Un operaio che ha risalito via XX Settembre e si è incontrato con dei giovani davanti alla Casa dello Studente, tappa del disastro e del dolore. Un dolore che trova nelle sue parole, prima che nella sua personale compassione, un senso, un perché.
Il suo è un messaggio semplice. Come cristiani. «Dobbiamo chiederci - ha detto il Papa - : “Che cosa vuole dirci il Signore attraverso questo triste evento?”. Abbiamo vissuto la Pasqua confrontandoci con questo trauma, interrogando la Parola di Dio e ricevendone nuova luce. Abbiamo celebrato la morte e la risurrezione di Cristo portando nella mente e nel cuore il vostro dolore, pregando perché non venisse meno nelle persone colpite la fiducia in Dio e la speranza».
Croce e speranza fra le macerie e le tende. Sotto la pioggia e di fronte al vento di un’avversità che a tratti sembra sovrastare la scena, sommergere con la sua negatività di morte l’orizzonte. Eppure Cristo c’è, attraverso questo anziano professore tedesco divenuto il successore di Pietro. C’è oggi, qui e ora.
Ma c’è un messaggio anche per i cittadini, per la comunità civile. Anche per chi non crede. «Come comunità civile - ha insistito - occorre fare un serio esame di coscienza, affinché il livello delle responsabilità, in ogni momento, mai venga meno». Ci vorranno «case solide e belle», costruite a regola d’arte. Un messaggio di responsabilità, una speranza tutta terrena e razionale che tragedie di questo tipo non accadano mai più.
Ma per chi conosce la storia dell’Aquila e la sua spiritualità, oggi è accaduto qualcosa che rappresenta un piccolo grande evento nella storia della Chiesa. Benedetto XVI ha portato un dono nella Basilica di Collemaggio, dove sono conservate le spoglie di Celestino V, suo predecessore. Un dono molto significativo, il pallio papale. Una specie di riabilitazione postuma da Pietro a Pietro, nei confronti di un personaggio straordinario della storia della Chiesa. Quel Pietro da Morrone, monaco abruzzese in fama di santità, che il potere del mondo e la Provvidenza volle sul trono papale in un momento difficile per la Chiesa di Cristo e che qui riposa. Colui che secondo Dante «fe’ il gran rifiuto», unico pontefice della storia a dimettersi. Ma anche l’inventore della Perdonanza, grande festa anticipatrice del Giubileo sulla scia di San Francesco.
Benedetto ha reso onore a Celestino e attraverso di lui all’identità di un popolo e alla sua religiosità. A quella Grazia particolare che i Celestini rappresentarono, fino all’abolizione dell’ordine monastico. Tanto amato da Bonaventura e tanto equivocato dalle varie profezie confusamente spiritualiste di oggi.
Grazie Papa per il contrastato e difficile e umilissimo viaggio di ieri sulle tracce del dolore di un popolo.


OBAMA/ I 100 volti del presidente - Lorenzo Albacete - mercoledì 29 aprile 2009 – ilsussidiario.net
La cosa più importante che si potrebbe dire di un giudizio sui primi 100 giorni di permanenza in carica del presidente Obama è che tale giudizio è senza significato. Non vi è nessuna prova che ciò che succede nei primi 100 giorni possa far predire il successo o il fallimento dell’Amministrazione di qualsiasi presidente: si tratta di un’invenzione dei media e tutti lo sanno.
La validità di un giudizio si fonda sulla raccolta di quanti dati possibile e il limite di 100 giorni è del tutto insufficiente per considerare a fondo i risultati delle iniziative più importanti prese da un nuovo presidente. Tuttavia, anche se si ammette tutto ciò, tutti continuano ad esprimere un giudizio su questo primo periodo di presidenza.
La valutazione più globale dei primi 100 giorni di Obama verrà data dalla Cnn, con una valutazione di tipo scolastico ai singoli progetti proposti finora dal presidente (le politiche economiche e finanziarie, la politica estera, i temi di politica interna e via dicendo). A ogni progetto sarà assegnato un voto da A (eccellente) a F (insufficiente), passando per B (buono), C (medio) e D (scarso).
Nel frattempo, i sondaggi indicano che il presidente continua a godere dell’appoggio di una chiara maggioranza del pubblico in tutte le aree, compresa l’incredibile massa di denaro dei contribuenti che ha già speso o che intende spendere. La gente sembra capire che 100 giorni sono un tempo troppo breve per giudicare la maggior parte di queste iniziative e così continua a concedere a Obama il beneficio del dubbio spostando in là nel tempo il momento del giudizio.
Le sue percentuali di gradimento non sono così alte quanto quelle di altri presidenti, ma rimangono più alte di quelle di molti altri. In questo, come in molte altre materie di cui si è occupato, Obama si è posizionato nel mezzo. Naturalmente, il mezzo è sempre un concetto relativo e, in ogni materia, il mezzo, il punto centrale, è ciò che è equidistante dall’estrema sinistra e dall’estrema destra. In un certo senso, sono gli estremi che definiscono il centro.
Su quasi tutti i temi che Obama si è trovato ad affrontare dal suo insediamento (e sono un numero notevole, dalla politica estera ai temi sociali, perfino la scelta di un nuovo cane!), si è manifestato un chiaro disaccordo di molti verso le sue decisioni, sia alla sua sinistra che alla sua destra. E forse proprio questa sua capacità di creare e rendere evidente un punto centrale per ogni tema costituisce il suo più grande risultato politico.
Gli oppositori, sia da sinistra che da destra, continuano a cercare di spostarlo da questa posizione, ma lui sembra irremovibile e fiducioso, e la maggior parte degli elettori sembra apprezzarlo. Gli americani sono pragmatici, non ideologici, e Obama fa appello a questa caratteristica, facendo passare per ideologiche le opposizioni alle sue decisioni.
Rimane poi il mistero intrinseco a quest’uomo. Chi è Barack Obama? Cosa lo motiva realmente? Una cosa va senz’altro detta: cento giorni di governo non sono stati sufficienti a rispondere a queste domande. La sua personalità rimane un mistero, ora come nel giorno in cui iniziò la sua campagna elettorale.
Il Partito Repubblicano, diviso come è, cerca continuamente di dimostrare che dietro l’immagine di moderato vi è di fatto un convinto uomo di sinistra, mentre l’ala sinistra del suo partito diventa sempre più agitata di fronte all’ipotesi di aver fatto un errore nel sostenerlo.
É precisamente questo che lo aiuta ad apparire come un’anticipazione di un futuro nuovo di zecca, la personificazione di una nuova America che nasce dalla rottura delle vecchie categorie ideologiche. Ma chi è il vero Barack Obama? Questo rimane da vedere. Forse tra 200 giorni … o 300?


MARCHE, OBIEZIONE DI COSCIENZA NON RICONOSCIUTA - Presidio estremo di libertà contro la violenza etica - GIUSEPPE ANZANI – Avvenire, 29 aprile 2009
Obiezione vuol dire, letteralmente, scagliare contro. Il suo contrario è l’obbedienza. Ma obiezione non è lo stesso che disobbedienza, è qualcosa di più; qualcosa che soppianta la ribellione con la mitezza inflessibile di un’altra e diversa obbedienza. Anche obbedienza comincia per ' ob' e forse viene da ' ob- audire', cioè ascoltare in profondità, in totalità. L’obiezione di coscienza è ciò che dal profondo dell’essere aderisce a un’obbedienza più alta, più cogente, di fronte ai comandi legali di chi si fa padrone di condotte umane che fanno a pugni con le convinzioni dell’uomo. La civiltà giuridica ce ne ha messo del tempo, a capire e a sancire; ma c’è arrivata, se Dio vuole, e ci sta.
Ricordo le cose che disse la Corte Costituzionale 25 anni fa sugli obiettori alla leva militare, prima incarcerati, poi riconosciuti. Ricordo le scosse progressive di civiltà che portarono al riconoscimento dell’obiezione fin nelle condotte verso gli animali ( sperimentazione, 1993). Ricordo il legame che allaccia l’obiezione alle libertà di pensiero, coscienza e religione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non meno che dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici.
Leggo infine l’articolo 9 della legge 194 sull’aborto; leggo l’articolo 19 della legge 40 sulla fecondazione assistita. Leggo nel cosiddetto ' diritto vivente' che la coscienza è fra i diritti umani insopprimibili, e dunque l’obiezione è presidio estremo di libertà doveroso contro la violenza etica.
Allora è apparso trasecolante il piglio di un funzionario amministrativo ( Asur Marche) che nei giorni scorsi pontificava sugli obblighi dei medici di prescrivere la ' pillola del giorno dopo' a pura richiesta, minacciando sfracelli in caso di obiezione. Non so che concetto avesse della professione medica, neanche a proposito di coscienza, ma di dignità, di schiena dritta. Perché se un medico deve per forza prescrivere un farmaco sol perché il richiedente gli prescrive di prescriverlo, tanto vale mettere in anticamera un robot in camice bianco che gli infila ' norlevo' nella fessura del taschino ed emette dal tascone la ricetta debitamente firmata. Medici, ciò che separa la legalità dall’impostura sarà a questo punto per voi solo la fierezza, per non dire l’indignazione, e infine la rivendicazione della ' clinica', o della schiena dritta, o allo stremo del rapporto umano­terapeutico. Senza questo non c’è mestiere più per voi, non c’è più dignità. E basti a ogni medico di schiena dritta smascherare le ipocrisie. Se poi parliamo di etica ( che non è un lusso ma un dovere) non pare credibile che una Asur italiana ignori ciò che il Comitato nazionale di bioetica ha pubblicato nel 2004, sul rispetto dell’obiezione di coscienza alla pillola del giorno dopo. Compreso lo scanso del sofisma che distingue l’annidamento della vita dalla gravidanza della vita. La vita è vita, e la pillola antivita la può distruggere se già concepita cerca di annidarsi; la espelle dai programmi di vita provocando potenzialmente una previa morte. La vita annidata o preannidata, dice anche per tutti e all’unanimità il Comitato, è la stessa e identica vita umana, con tutte le protezioni giuridiche inerenti. Dice pure che l’assimilazione normativa della gravidanza a questa avvenuta frontiera dell’essere umano vivente, cioè concepito, è una considerazione ' ovvia'. Ma ovvia allora ci irrompe nel pensiero questa ideata creatura viva, questa persona viva com’è, com’è il suo destino nel nostro, e non potremo se non obiettare alla sua morte fra le nostre mani. Uccidere è accecarci.
Se un medico deve per forza prescrivere un farmaco, tanto vale utilizzare direttamente un robot


Eros, philia e agape - COLLEVALENZA, (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo l'intervento pronunciato da padre Domenico Cancian, fam, al Convegno svoltosi a Collevalenza, dal 27 al 29 ottobre 2006, sulla prima Enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”.
1. Eros – philia – agape
1.1. Dio e amore: le due parole più significative e più abusate
"Deus caritas est". Il Papa pone a tema della sua prima enciclica questa affermazione netta, la più alta e sintetica della Rivelazione cristiana. In essa vengono unite in modo assoluto le due parole più essenziali e più fraintese nelle molteplici culture dell’umanità.
"L’intuizione che muove tutta la Lettera enciclica di Benedetto XVI è che l’abuso dell’amore umano e quello dell’identità divina siano tra loro misteriosamente collegati. Poiché non ci è dato di capire qualcosa di Dio senza seriamente fare i conti con l’amore che abbiamo conosciuto.
Vuoi sapere chi è Dio? Vedi alla voce amore, ci dice il Pontefice. Dire Dio è amore significa annunciarci nuovamente che Dio ci ama. Tu sei amato da Dio. Questa certezza dovrebbe fondare la tua esistenza e aprirti all’amore la cui sorgente la ricevi in Dio. Semplice, disarmante e disarmata nella sua essenzialità, questa Lettera arriva direttamente al cuore. Non è parola consolatoria. È Evangelo, buona notizia che ti sollecita a una scelta, che ti chiede di verificare il tuo vissuto e di rendere ragione dell’amore ricevuto" 1.
Il Papa manifesta la sua grande preoccupazione per due fatti che sono sotto i nostri occhi: quello di collegare al nome di Dio l’odio, la violenza e la vendetta e quello di constatare che il termine amore "è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti" 2.
Di qui l’urgenza e la necessità di questa riflessione che vuol far chiarezza sulle due parole più significative di ogni cultura. In questo modo il Papa apre un dialogo con tutti.
1.2. Qualche richiamo all’antropologia biblica
È necessario anzitutto un approccio alla concezione biblica dell’uomo, partendo dal vocabolario. L’enciclica contiene una sessantina di citazioni bibliche.
Secondo la Bibbia l’uomo è unità caratterizzata da un insieme di tre dimensioni, tra loro correlate.
"Tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Ts 5,33).
1. Corpo (basar-sarx, soma) è la dimensione corporea-carnale-fragile-peccatrice, come quella degli esseri creati. "Ogni carne è come l’erba e la sua gloria come il fiore dei campi: secca e appassisce" (Is 40,6). Yahvé crea l’uomo prendendo un po’ di terra, alla quale ritornerà con la morte. Proprio qui si colloca l’amore nel suo aspetto fisico-sessuale-pulsionale-passionale = eros.
2. Anima (nephes – psiche) è la dimensione della vita, delle relazioni, dell’intelligenza, delle capacità, della volontà, dei sentimenti. L’uomo non ha un’anima, è un’anima, è un essere vivente (cf Gen 2,7).
Nell’area dell’amore qui troviamo la parola phileo, philos = amore di amicizia, amico.
3. Spirito (ruach –pneuma) è la dimensione divina paragonata al vento–soffio–forza-vita divina. Yahvé "soffia un alito di vita" e l’uomo comincia ad esistere (cf Gen. 2,7). Lo Spirito del Signore fa risorgere l’umanità ridotta ad un cumulo di ossa aride (cf Ez 37). Il Signore ritira il suo soffio e l’uomo ritorna alla terra (cf Sal 104,29).
Per quanto riguarda l’amore qui troviamo la parola agape – agapao = amore divino.
La qualità di vita di un uomo è da valutare a partire dal cuore (leb –kardia). Dio guarda il cuore. Dal cuore esce il bene e il male. Il cuore, in senso biblico, è la sede delle tre dimensioni: emozioni e impulsi; sentimenti, affetti e desideri; pensiero, decisioni libere e responsabili. Nel cuore possiamo ospitare Satana o Dio. L’amore vero proviene dal "cuore intero", totalmente rivolto al Signore e all’altro.
Nell’ottica biblica l’uomo è essenzialmente uno, al punto che "anima, spirito, corpo, cuore" sono in reciproca relazione. Ciò significa che non sono parti del "composto umano", ma manifestazioni dell’uomo. Non vi è nella Bibbia la concezione dualistica di tipo platonico per cui il corpo è la prigione dell’anima, che ha perduto le ali.
La violenza, la concupiscenza, l’egoismo, la contrapposizione sono il frutto del peccato che è fondamentalmente una divisione, mentre l’uomo è chiamato ad essere uno come il Signore.
La concezione biblica dell’uomo è positiva: è stata creata da Dio (cf Gen 1-2); "il Verbo si fece carne (sarx)" (Gv 1,14) e visse come noi, con tutti i nostri bisogni fisici-psichici-spirituali; Gesù è stato molto attento a tutte le necessità dell’uomo (ha moltiplicato i pani, senz’essere richiesto, ha guarito i malati, ha perdonato, ha cacciato i demoni); Cristo risorto non è "un fantasma": può essere "toccato" e può mangiare (cf Lc 24,30-43); il giudizio finale sarà sulle concrete opere di misericordia a partire da quelle corporali. Confessare Gesù "venuto nella carne" è criterio per distinguere tra fede e incredulità (cf 1 Gv 4,2; 2 Gv 7). "Masticare la carne e bere il sangue di Cristo" è condizione per avere la vita eterna, per rimanere in Gesù (cf Gv 6,53.56).
1.3. Vocabolario sull’amore rivelato
"La caratteristica essenziale dell’ahabâ israelitica, cioè dell’amore, è il suo esclusivismo. L’Eros greco è un amore cosmico, vasto, indiscriminato, incurante della fedeltà; l’amore celebrato nell’A.T. è l’amore geloso che sceglie il suo oggetto fra migliaia d’altri, lo domina con tutta la forza della passione e della volontà e non ammette infrazioni alla fedeltà. Proprio nella qin’â (gelosia) si manifesta la potenza divina dell’ahabâ" 3.
Quindi l’amore biblico, espresso normalmente con agapao-agape include anche il significato dell’amicizia (phileo) e della passionalità erotica (erao). Si tratta di un amore che nella forma ideale è globale, integrato e ordinato. Tutte e tre le componenti dovrebbero convergere in maniera armonica, nel senso che si rafforzano, si completano, sempre nell’ordine: spirito, anima, corpo. È quello che esprime lo shema. "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze" (Dt 6,4-5).
Gesù porta al massimo compimento l’amore nei confronti del Padre ("Io e il Padre siamo una cosa sola": Gv 10,30) e nei nostri confronti ("ci ha amati fino alla fine": Gv 13,1). La sua Passione contiene davvero l’Amore appassionato di Dio: "Ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua" (Lc 22,15). "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra…" (Lc 12,49). "Lo zelo per la tua casa mi divora" (Gv 2,17). È questo Amore appassionato e totale, ossia il fuoco dello Spirito di Dio, che porta Gesù a consumarsi come olocausto sulla croce e a farsi nostro pane.
L’amore "appassionato" porta Gesù ad accettare liberamente e coraggiosamente la sua "Passione, morte e risurrezione", ossia la sua Pasqua, che Egli chiama la sua Ora (secondo l’evangelista Giovanni). Gesù è l’Agnello immolato che consente l’esodo pasquale dell’umanità dalla morte alla vita. Il passaggio di Cristo da questo mondo al Padre è anche la nostra pasqua. S. Paolo esclama con gioia: "Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!" (1 Cor 5,7). Gesù, con la sua Passione e morte, cioè con la sua sofferenza fino all’immolazione (verbo greco: páschein = soffrire: cfr Lc 24,46) che comporta un amore "appassionato", apre e conduce l’esodo dell’umanità o la pasqua dell’umanità verso il Padre (cf Eb 2,9).
L’amore puro di Cristo ha saputo armonizzare eros-filia-agape in modo profondo e stupendo, portando così a compimento l’amore (cf Gv 19,1 con 19,28-30). Un amore davvero smisurato, non razionale, esagerato, eccessivo. Secondo Paolo lo scandalo e la follia di Cristo crocifisso è la vera sapienza e potenza di Dio (cf 1 Cor 1,20-25).
Potremmo ben dire che Gesù ha portato ad una inimmaginabile perfezione l’eros-filia-agape. "Il Logos, la ragione primordiale, è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape" 4.
Questo è il cammino dell’uomo, chiamato ad amare come Gesù: coniugare in termini sempre più armoniosi eros-philia e agape.
È molto interessante la riflessione dello psichiatra V. Andreoli, laico non credente, su alcuni testi mistici di S. Gemma Galgani, nei quali si leggono espressioni di tipo erotico, molto cariche di amore passionale nel rapporto con Gesù. Scrive Andreoli: "Confesso di essere meravigliato che sia dominata nella Chiesa la tendenza a dare poco spazio a queste espressioni straordinarie di amore che Gemma esprime nei confronti di Gesù… Io le trovo una testimonianza di come una ragazza possa manifestare il proprio amore, l’unica via per poterlo esprimere pienamente. L’amore che comprende il corpo, la psiche (e certo per i cristiani l’anima) non può essere che così e se non è così non è grande amore… Insomma la partecipazione del corpo testimonia la potenza e la forza con cui si sentiva legata a Dio. Io confesso, reciterei queste espressioni d’amore in chiesa come parte importante della liturgia del legame tra fedele e Dio" 5. Scrive un noto esegeta, concludendo il commento al Cantico: "Solo degli innamorati sono in grado di diventare dei partners di un Signore che è innamorato di Israele, della Chiesa e dell’umanità" 6.
2. Storia d’amore di Dio nei confronti dell’umanità (cf Gen 1-11).
2.1 La creazione del mondo e dell’uomo
È la prima prova che Dio è amore. Le creature parlano del suo amore e della sua eterna misericordia (cf Sal 136). Come un ritornello è detto: " E Dio vide che era cosa buona", mentre la creazione dell’uomo e della donna fu cosa "molto buona" (Gen 1,31).
Il Dio biblico è colui che creando "lascia spazio" alle sue creature e allo stesso tempo Colui che se ne prende amorevolmente cura, come Creatore provvidente, come un padre e una tenera madre che per amore mettono al mondo i figli. I primi 11 capitoli della Genesi ci parlano di questo Amore misericordioso di Dio per tutte le sue creature, per ogni uomo.
2.2 "Una carne sola" (Gen 2,24)
Il racconto più antico della creazione "si conclude con una profezia su Adamo: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24)" 7. Il male della solitudine è superato nella comunione uomo-donna. "Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Gen 2,18). Solo insieme, l’uomo e la donna, "rappresentano l’interezza dell’umanità, diventano «una sola carne»" e quindi "l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo" 8.
Ma occorre aggiungere un altro aspetto strettamente connesso: nella creazione biblica " l’eros rimanda l’uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività… all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano"9.
Già nella creazione dell’uomo e della donna eros e agape si richiamano e si illuminano a vicenda. È scritto nella natura dell’uomo e della donna creati a immagine di Dio. La vocazione dell’uomo e della donna è quella di seguire la forza dell’eros – agape per formare "una carne sola". Questa vocazione originaria troverà il suo compimento nella preghiera di Gesù affinché i suoi siano una "cosa sola" come lui e il Padre (cf. Gv 17).
Quando si trova dinanzi la donna, l’uomo l’accoglie col primo canto d’amore: "È carne della mia carne e osso dalle mie ossa" (Gen 2,23). La prima parola umana nella Bibbia è il canto d’amore di Adamo per Eva (Gen 2, 23). L’ultima parola è l’invocazione di un incontro, rivolto da una donna a un uomo: "Lo Spirito e la sposa dicono: "Vieni!", a cui segue la risposta affermativa di Lui: "Sì, vengo presto!" (Ap 22, 17). E quindi l’ultima invocazione, l’«Amen! Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22, 20), il grido di attesa impaziente che riempirà i secoli. Così nel Cantico, e in tutta la Bibbia, risuona la voce di Lui: "Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!" (Ct 2, 13) a cui lei replica: "Vieni, mio diletto!" (Ct 7, 12).
Un ritorno al paradiso perduto o una profezia del tempo avvenire?
L’uomo lascerà suo padre e sua madre "e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (Gen 2, 24). È nel dialogo d’amore con l’altro sesso che l’uomo ritrova se stesso. Nel dono di sé ci si ritrova. Uscendo da sé, dalla solitudine, si incontra non solo il tu, ma anche l’io. È questa la legge di base che Gesù svilupperà così: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35).
Il verbo "unirsi a" (dabaq) designa una comunione profonda che va dal rapporto sessuale (cf Gen. 34,3), all’unione affettiva (cf Sal 63,9), alla comunione spirituale dell’alleanza (cf Ger 13,11; Dt 10,20: Dio si unisce totalmente al suo popolo) 10. L’uomo "si attacca, si unisce" alla sua donna e i due diventeranno una carne sola. C’è chiaramente la dimensione erotica, ma anche quella dell’amicizia (vedi il canto) e dell’agape (quest’unione è voluta e benedetta da Dio).
L’unica carne significa allora unità completa, inseparabile ed esclusiva. È questa "la rivelazione ed insieme la scoperta del significato sponsale del corpo" 11.
La nudità senza vergogna è l’affermazione che il corpo, la psiche e lo spirito sono in perfetta armonia.
Dio ha chiamato l’uomo all’esistenza per amore e allo stesso tempo l’ha chiamato all’amore. "Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è , pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano" 12.
Il peccato rompe la comunione con Dio, la relazione di coppia e il rapporto col creato (cf Gen 3). L’amore diventa ambiguo, si confonde col piacere, possedere, dominare, soddisfare il proprio egoismo sfruttando l’altro.
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1 L. MAGGI, "Plasmati dall’amore",in AAVV, Dio amore, Paoline 2006, pp 80s.
2 DCE, nn. 1 e2.
3 E. STAUFFER, Agapao, GLNJ, 1 (Brescia 1965), col 102.
4 DCE, n. 10.
5 La follia del mondo, Marietti, 2003, pp 213s.
6 F. ROSSI DE GASPERIS, Prendi il libro e mangia, edb Bologna 18, 2003, p.64.
7 DCE, n. 11.
8 Ibid.
9 Ibid.
10 Il verbo dabaq, che ricorre una cinquantina di volte nell’A. T., significa "attaccarsi fortemente, saldamente a qualcuno" sia a livello erotico-sessuale (es Gen 34,3), sia a livello affettivo (Rut 1,14b: "si attaccò a Noemi" e non volle lasciarla), sia a livello religioso-spirituale: attaccarsi al Signore, obbedendo ai suoi comandi. Si veda Dt 10,20; 11,22; 13,5; 30,20; Gios. 22,5; 23,8; 2 Re 18,6: Ezechiele si mantenne attaccato al Signore, senza minimamente staccarsi da Lui; Sal 63,9: "A te si stringe, si attacca, l’anima mia" in senso religioso-affettivo-erotico; Sal 119,31.
Particolarmente interessante Ger 13,11: "Così come si attacca la cintura ai fianchi dell’uomo, così io avevo fatto attaccare a me l’intera casa d’Israele e di Giuda perché fosse mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria… ma non hanno ascoltato"
11 Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino, EditriceVaticana 1980, p. 67.
12 Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 11.
[La seconda parte verrà pubblicata il 14 aprile 2009]


Eros, philia e agape (parte II)
COLLEVALENZA, martedì, 21 aprile 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte dell'intervento pronunciato da padre Domenico Cancian, fam, al Convegno svoltosi a Collevalenza, dal 27 al 29 ottobre 2006, sulla prima Enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”.
La prima parte è stata pubblicata il 7 aprile.


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3. La storia d’amore di Dio nei confronti d’Israele
3.1. "Una fiamma d’amore del Signore" (Ct 8,6)
Il Cantico dei Cantici è un libretto ispirato, tutto dedicato alla celebrazione dell’amore ("il canto più bello", la più bella canzone d’amore ispirata da Dio, Parola di Dio). Può avere tre interpretazioni: l’amore di una coppia, l’amore tra Dio e il suo popolo (come nei profeti), l’amore tra Dio e una singola persona. L’amore è allo stesso tempo umano e divino, coinvolge la persona tutta in un crescendo ideale di reciproca donazione mai compiuta 13.
Si raccolgono in modo armonico e si fondono bene: natura, corpo e sesso; sentimenti ed emozioni; desideri, sogni e realtà; volontà, impegno, fedeltà; una amore che è "fiamma di Yahvé" (Ct 8,6).
È la celebrazione della fedeltà monogamica (non molto presente neanche nell’A.T.) come amore appassionato, oltre l’erotismo e l’idealismo romantico. Per questo ha ispirato e continua a ispirare: coppie (cristiane e non), persone celibi e consacrate, mistici, uomini e donne che vogliono imparare ad amare.
La storia un po’travagliata del riconoscimento della canonicità e dell’ispirazione del Cantico (qualcuno ha pensato che fosse stato inserito in un momento di distrazione o di seduzione) rispecchia il carattere paradossale del libro che può apparire allo stesso tempo come il più profano (parla di Dio solo una volta: cf Ct 8, 6) e come "il più santo dei libri santi".
Il verbo "amare" dilaga nel libro. La donna arriva a dire: mio diletto, amore dell’anima mia (cf Ct 1, 7; 3, 1-4). L’uomo la chiama: amica, compagna mia (cf Ct 1,9.15), sposa, fidanzata cf Ct 4, 8-12), sorella mia (cf Ct 4, 8-12). Il linguaggio del corpo è estremamente variegato e delicato. Perfino il cosmo è coinvolto. È cantato tutto il mistero dell’amore.
La dinamica di questo amore si sviluppa in un cammino a tre tappe: innamoramento, crisi, compimento.
La donna alla fine chiede: "Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio" (Ct 8,6). Vuol dire: considerami come sigillo (= particolarissima proprietà) dal quale tu non ti separi più, porti sempre con te (cf Ge 22, 24) e che ti servi per autenticare i desideri, i pensieri del cuore, le tue azioni. Portami come porti le parole dello Shema che devono essere fisse nel cuore, legate alla mano come un segno e come un pendaglio davanti agli occhi, scritte sugli stipiti delle case (cf Dt 6,6-9). Come la Nuova Alleanza scritta nel cuore (Ger 31,33).
Questo "perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione" (Ct 8,6). Si instaura una lotta tra l’amore e la morte. Alla fine vince il primo, perché "le grandi acque non possono spegnere l’amore" (Ct 8, 7). L’amore infatti viene prima, viene da Yahvé, come fiamma sua (Ct 8, 6), è la "fiamma più ardente che ci sia" 14. L’amore è la fiamma del Signore, una scintilla di Yahvé.
Lei intuisce il perché della forza dell’amore sponsale e apre la strada alla grande rivelazione che sarà esplicitata nel Nuovo Testamento: l’amore è invincibile perché è fuoco che viene da Dio (cf 1 Gv 4,17) e viene da Dio perché Dio è amore (1 Gv 4,8.16).
Dinanzi a tutte le devianze e le aberrazioni del rapporto d’amore uomo-donna, il Cantico "tiene alto il senso e la speranza indefettibile dell’Amore vero, che è sempre casto; della bellezza incancellabilmente scritta in ogni corpo di uomo e di donna; della tenerezza e delle carezze amorose e rigeneratrici; dei baci puri e della passione ardente e accogliente dell’intero essere di uno/a per l’essere intero dell’altra/o" 15.
3.2. "Ti farò mia sposa per sempre" (Os 2,21).
Tra tutti i popoli, Dio sceglie Israele, rivelando in questa elezione un amore assolutamente gratuito e immotivato umanamente. "Il Signore si è legato a voi (hsq = unirsi) e ci ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri" (Dt 7,7-8). Possiamo vedere qui, dopo la creazione, la seconda prova che Dio è amore. Yahvé ama il suo popolo in modo smisurato, straordinario, inspiegabile… pazzo.
Dio ama così Israele per rivelare che questo stesso amore lo ha per tutti, per salvare tutti. I profeti Isaia, Ezechiele, Osea "hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche" rivelando che questo amore divino "può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape" 16. Vengono impiegate tutte le note dell’amore: eros, amicizia, innamoramento passionale, fidanzamento, matrimonio, adulterio, prostituzione, gelosia, vendetta, fedeltà, perdono, amore maturo.
Yahvé ha per Israele un amore paterno e materno. "Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, Dio spiegò le ali, lo prese (il popolo d’Israele) e lo sollevò sulle sue ali" (Dt 32,11; Es 19,4; Sal 91,4; Is 31,5; Mt 23,37). Come "un bimbo svezzato in braccio a sua madre" (Sal 131,2), dopo essere stato portato nel seno materno (cf Is 46,3), così Israele. Il Signore si commuove per Israele, come una madre si commuove per il figlio delle sue viscere (cf Is 49,15).Continua Isaia: "I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò" (Is 66,12-13).
"Io sono un padre per Israele… Efraim è un figlio caro.. le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza/compassione (rachem ‘ arachamenn)" (Ger 31,9.20. Is 63,15-16; 64,7).
Uno dei temi dominanti nella predicazione dei profeti è l’alleanza sponsale di Dio con Israele: Yahvé è lo sposo fedele, Israele è la sposa, spesso adultera e traditrice. Il rapporto sponsale umano diventa segno dell’alleanza divina. Il rapporto sposo – sposa è figura del rapporto Dio – uomo. In questo senso "il femminile diventa simbolo di tutto l’umano (MD, n. 25), carico di "profetismo particolare" (MD, n. 29), in quanto svela all’uomo la sua incredibile identità: l’uomo è la sposa di Dio, simile a lui perché suo partner, chiamato all’amore sponsale.
Il rapporto sponsale di Dio con l’uomo, sua sposa, dice l’«eccessivo amore» (Ef 2,4), un "grande mistero" (Ef 5,42) che si è perfettamente realizzato in Gesù: in Lui, Dio si è sposato indissolubilmente con la nostra umanità, sua sposa per sempre, essendo risorta gloriosa alla destra del Padre.
Il Profeta Osea è il primo a sviluppare l’immagine del matrimonio per espriemere il rapporto di Dio con il suo popolo. La sua esperienza di marito tradito e pur sempre innamorato, cioè fedele da parte sua, è il luogo dove il profeta scopre l’amore sconfinato di Dio e il peccato assurdo dell’uomo. Yahvé ama sempre Israele, benché sposa infedele; dopo averla purificata, la risposerà rendendo indefettibile il suo amore. Questo messaggio profetico è sviluppato seguendo l’azione simbolica di un amore tradito e rinnovato: tutte le emozioni e le reazioni sono registrate come rivelazione del rapporto Yahvé-popolo suo. Ci vuole tutto il coraggio profetico per applicare a Dio le caratteristiche di una simile vicenda umana. Naturalmente nell’intendere il messaggio c’è da fare lo scarto di una descrizione antropomorfica (Dio non è un uomo), ma è sicuramente vero che il nostro Dio ci ama totalmente, appassionatamente, fedelmente.
"Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (Os 2 ,21-22). Il verbo "ti farò mia sposa" è "usato nella Bibbia unicamente per una figlia vergine. Dio abolisce così totalmente il passato adultero d’Israele, che diventa una creatura nuova… Il fidanzato le offre come dote la giustizia, il diritto, la benevolenza, la fedeltà ossia le disposizioni interiori richieste affinché il popolo sia d’ora innanzi fedele all’alleanza" 17.
Yahvé, lo Sposo ingannato e tradito, risponde donando una nuova verginità alla prostituta Israele e celebra con lei il matrimonio definitivo, la nuova alleanza.
"Con simili accenti Osea ha descritto con inaudita audacia l’appassionata gelosia dell’amore divino. Per Osea, la divinità di Yahvé si manifesta non nella potenza distruggitrice, bensì nella tenerezza della sua amorosa misericordia, che anticipa sempre l’amore che l’uomo gli può restituire e soffre per l’infedeltà del suo popolo, ma senza abbandonarlo in preda al caos" 18.
Ezechiele 16 (cf anche 23), sviluppa una lunga allegoria che riproduce tutta la storia d’Israele intesa come sposa infedele di Yahvé e prostituita agli dei stranieri, dopo che lo sposo l’aveva curata, educata, resa bella (cf 6,8-14). La storia si conclude con la nuova ed eterna alleanza (cf 16,60) 19.


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13 Per una lettura documentata e alla portata di tutti è raccomandabile il libro di V. MANNUCCI, Il Cantico dei Cantici, Elle Di Ci, 1983 ed anche G. RAVASI, Il cantico dei Cantici, Edb Bologna 1992.
14 L’espressione infatti può essere resa con un superlativo: cf Sal. 3,7.
15 F. ROSSI DE GASPERIS, Prendi il libro e mangia, edb Bologna n.18, p. 58. Si leggano anche le bellissime pagine 60-65 sull’interpretazione simbolica.
16 DCE, n. 9. Al n. seguente il Papa ribadisce l’idea: "L’eros di Dio per l’uomo –come abbiamo detto – è insieme totalmente agape" (n. 10).
17 Cf GIOVNNI PAOLO II, Dives in Misericordia, nota 52.
18 AA.VV., Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Ed Bologna 1976, p. 94.
19 Altri testi profetici: Is 1,21; 50,1; 54; 56,6ss; 62,4-5; Ger 2,2-25; 3,1-12; 30,14; 31,3. ecc.
Si legga in proposito il commento rabbinico in riferimento a Es 15,17 riportato in AA. VV., Dio è amore, p. 31ss.


[La terza parte verrà pubblicata il 28 aprile prossimo]


Eros, philia e agape (parte III)
COLLEVALENZA, martedì, 28 aprile 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la terza parte dell'intervento pronunciato da padre Domenico Cancian, fam, al Convegno svoltosi a Collevalenza, dal 27 al 29 ottobre 2006, sulla prima Enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”.
Le prime due parti sono state pubblicate il 7 e il 21 aprile.



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4. La storia d’amore raccontata dall’evangelista Giovanni.
Deus caritas est (o theòs agápe estín: 1 Gv 4,8.16).Questa "folgorante intuizione" che in qualche modo definisce Dio può esser considerata il vertice della rivelazione cristiana, la sua novità 20.
Ce la propone l’apostolo prediletto, o meglio "quello che Gesù amava (on x-agapa)" e che nell’ultima cena "si trovava (sdraiato a tavola) nel seno di Gesù… appoggiato nel suo petto" (Gv 13,23.25). Lo stesso apostolo che vide il cuore di Gesù aperto dal colpo di lancia e da esso uscire sangue e acqua (cf 19,34). A Giovanni Gesù affidò la persona più cara: Maria.
Dopo aver fatto assieme agli altri Apostoli l’esperienza straordinaria di aver udito, veduto, contemplato e toccato il Verbo della vita, ce la racconta affinché tutti quelli che vogliono credere entrino in comunione col Padre, col Figlio e tra di loro, gustando così la gioia perfetta (cf 1 Gv 1,1-3).
Dopo lunga meditazione Giovanni, per ultimo, scrive il Vangelo, tre lettere e forse anche l’Apocalisse. Egli ci consegna la sintesi della sua esperienza apostolica in due affermazione: "Dio è amore" (1 Gv 4,8.16) e "Amatevi gli uni gli altri come io vi amati" (Gv. 15,12; cf 13,34). L’una completa l’altra.
Vogliamo percorrere a grandi linee questa "storia d’amore" che Giovanni ci racconta nel Vangelo e nella sua prima lettera, perché a quest’ultima l’intera Enciclica si ispira per affrontare i problemi del nostro tempo.
4.1 "Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37)
Il punto vertice della rivelazione dell’Amore di Dio è il Cristo Crocifisso ed ancor più precisamente il cuore trafitto di Gesù.
Il Papa, almeno quattro volte, lo richiama 21. È "dal cuore trafitto di Gesù che scaturisce l’amore di Dio (Cfr Gv, 19,34)"; quel cuore è "l’originaria sorgente" dell’amore divino 22.
"Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cf 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: «Dio è amore» (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare" 23.
In questo modo il Papa si collega alla spiritualità del cuore di Gesù ed anche all’Amore Misericordioso che nel Crocifisso evidenzia il cuore con la scritta: caritas. Gesù ci ha rivelato, soprattutto nella morte di croce, il cuore di Dio, pieno di Amore divino. Tutta la sua vita, passione e morte, sono motivate da quell’Amore che, morendo, ha tutto donato a noi. L’Amore di Dio, effuso nei nostri cuori, è lo Spirito Santo. Nasce così l’uomo nuovo, il discepolo di Gesù che, sull’esempio di Giovanni, attinge l’amore direttamente alla sorgente e a sua volta lo comunica agli altri, suscitando la comunità cristiana.
Giovanni descrive con attenzione e sottolinea il mistero della morte di Gesù crocifisso e trafitto. Dopo averci assicurato che il fatto è storico, l’apostolo vede in questo evento il compimento di due profezie: quella dell’agnello pasquale (cf Es 12,46) e quella del popolo che, dopo aver ucciso il proprio re, lo contempla "trafitto" (cf Zac 12,10).
"Ed è tanto importante, per San Giovanni, questa visuale che io ritengo abbia scritto il suo vangelo tenendo davanti agli occhi proprio il Signore Gesù crocifisso da cui escono acqua e sangue. È una visuale riassuntiva, conclusiva, sintetica e ogni pagina del IV vangelo può essere riletta contemplandola a partire da essa" 24.
Gesù è il vero Agnello pasquale, la cui morte consente all’umanità intera il definitivo esodo pasquale, la liberazione più decisiva, la nuova alleanza dell’uomo con Dio, nel sangue di Cristo.
Il sangue versato significa la morte sacrificale dell’agnello per la nostra salvezza e l’acqua è simbolo dello Spirito che dà vita. La tradizione patristica ha sempre contemplato in questa scena la nascita della Chiesa e ha visto nell’acqua e nel sangue i due sacramenti fondamentali del Battesimo e dell’Eucaristia.
Volgere lo sguardo al Crocifisso significa per Giovanni vedere e comprendere, nella fede, il mistero dell’amore che salva, come già gli ebrei morsi dai serpenti velenosi erano salvati guardando il serpente di bronzo (cf Num 21,4-9). Cristo crocifisso si rivela così il Salvatore dell’umanità e il Signore della storia. "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32). Giovanni legge nel Crocifisso che versa acqua e sangue, l’espansione, nella storia umana, della gloria di Dio che risplende nel Figlio, pieno di grazia e di verità e che dona lo Spirito" 25.
4.2. "Amatevi come Io vi ho amati" (cf Gv 13,34; 15,12).
Introducendo il racconto dell’ultima Pasqua di Gesù, Giovanni scrive: "Sapendo Gesù che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). L’evangelista presenta con queste parole tutta la parabola della vita di Gesù.
Per questo consegna il suo testamento con le seguenti parole: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35). Se tutta la vita di Gesù è stata spesa nel segno dell’amore che riassume la Legge e i Profeti, non poteva non lasciarci che quest’unico "comandamento".
E in cosa consiste la novità?
Nuovo, spiega Sant’Agostino, perché questo amore di Gesù" ci rinnova, rendendoci uomini nuovi, eredi del Testamento Nuovo, cantori del cantico nuovo" e crea di tutti coloro che lo accolgono e lo vivono "un sol popolo nuovo, il corpo della novella sposa dell’Unigenito Figlio di Dio della quale il Cantico dei Cantici dice: Chi è costei che avanza tutta bianca? (Ct 8,5). Sì, bianca perché rinnovata; e rinnovata da che cosa, se non dal comandamento nuovo?" 26.
Dunque il comandamento nuovo significa che quell’amore di Cristo rinnova dall’interno l’uomo trasformandolo, rigenerandolo ("chi ama è generato da Dio": 1 Gv 4,7), facendolo passare dalla morte alla vita (Cf 1 Gv 3,14), dalle tenebre alla luce (cf 1 Gv 2,8-11).
È nuovo perché – spiega San Tommaso – è "l’amore di Dio effuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo" (Rom 5,5), attuando in questo modo la Nuova Alleanza che consiste nel dono di un cuore nuovo 27.
È nuovo infine perché lo Spirito donandoci un cuore nuovo, ci offre realmente la capacità di amare come Gesù ha amato, in modo gratuito, abbondante, fedele, sincero. "Siccome Dio ci ha amati per primo (cf 1Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un «comandamento», ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro"28. "Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi" 29.
L’amore di Dio rivelato in Cristo, proprio perché divino "non avrà mai fine" (1 Cor. 13,8). È la "legge eterna", lo "statuto divino" e quindi l’unica legge che regola per sempre la comunità escatologica. Questo amore il mondo non lo conosce e non è capace di porre: infatti viene da Dio!
4.3 "L’amore è da Dio … Dio è amore" (1 Gv. 4,7-8.16).
"Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore" (1 Gv 4,7-8).
Non è una definizione metafisica, non si parla di un sentimento, non significa semplicemente che "Dio ama", tanto meno che l’amore è Dio. Giovanni ci presenta l’esperienza cristiana fondamentale: Dio ci ama in Cristo effondendo in noi dal suo cuore il suo stesso Amore che è lo Spirito. Se tutta la storia di Dio con l’uomo, la sua rivelazione è storia di amore, allora Dio è amore.
Tutta questa storia d’amore che la Bibbia ci racconta s’incentra proprio in Gesù. "In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui… ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4,9-10). Tutta la vicenda di Gesù, dalla nascita alla morte in croce ci racconta che Dio è amore. Amore totale e gratuito. "Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi" (4,10). Ci ha amati "per primo" (4,19).
Di quale amore si tratta? Facendo riferimento al Padre che manda/dona a noi il Figlio e Gesù che si consuma nel fuoco dell’amore, non possiamo intenderlo che come eros-filia-agape. "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui" (4,16).
Il Papa legge in questo versetto, l’immagine dell’uomo e del suo cammino, la formula sintetica dell’esistenza umana. "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" 30.
Allora noi stiamo (meglio: abitiamo) nell’amore, cioè in Dio, come nella casa che da sempre cercavamo e allo stesso tempo facciamo esperienza di essere abitati da Dio di essere "tempio di Dio". "Chi abita nell’amore, abita in Dio e Dio abita in lui". Questa è la formula dell’Alleanza: una reciproca e continua inabitazione di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio. Una comunione perfetta che è esattamente il cuore della nuova alleanza, lo scopo della Rivelazione e il desiderio più forte dell’uomo, l’incontro di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Condotto dallo Spirito che infonde in lui l’Amore di Gesù, l’uomo ritorna al Padre. L’uomo diventa una cosa sola in Gesù, come Gesù. Tutto questo ad opera dell’eros-filia-agape che è lo Spirito.




5. L’Eucaristia, il sacramento della
eros-philia-agápe di Gesù
Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, l’ultima cena di Gesù con i suoi costituisce il momento che sintetizza tutta la vita-morte-risurrezione sua.
Gesù è ben consapevole che quella è la sua Pasqua, la sua ora. Predice l’imminente tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, l’abbandono dei suoi. È la notte dei tradimenti che nel suo animo delicato pesano come macigni.
Gesù trasforma la Pasqua ebraica nella sua Cena, nella sua Pasqua. Con piena consapevolezza, animato dal suo eros-filia-agápe umano e divino, senza misura, compie alla perfezione, in modo inimmaginabile, tutti i simboli dell’Antico Testamento.
"Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione… questo è il mio corpo che è dato per voi… questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,15-20).
"Facendo del pane il Suo Corpo e del vino il Suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa una atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf 1 Cor. 15,28)… È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere. La vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo" 31.
Pane e vino diventano Corpo e Sangue di Cristo affinché noi pure mangiando lo stesso cibo possiamo diventare l’unico Corpo di Cristo, una cosa sola con Lui e tra di noi.
È questo il miracolo più grande ad opera dell’amore davvero straordinario di Gesù che si fa nostro pane. Un amore al di sopra di ogni nostra esperienza e immaginazione, per cui la Chiesa ha sempre detto che il mistero eucaristico è il sacramento più grande, quello che in qualche modo riassume tutti gli altri e al quale tutti rimandano. Il totalmente Altro viene dentro di noi e noi siamo in Lui.
"Fate questo in memoria di me" non significa ripetere la cena pasquale, ma entrare noi stessi nell’«ora» di Gesù, farla diventare anche nostra "lasciandoci tirare dentro quel processo di trasformazioni che il Signore ha di mira" 32: dall’odio all’amore, dalla maledizione alla benedizione, da una vita egoistica ad una vita aperta al dono e al servizio come quella di Gesù. "L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù… (in essa) veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione"33.
Quindi l’Eucaristia, facendo di tutti noi "un solo Corpo" ci fa fratelli "concorporei e consanguinei" e ci spinge all’amore del prossimo in modo concreto e universale (Cf Lc 10,25-37 e Mt 25,31-46).
Forse per questo l’evangelista Giovanni al posto del racconto dell’istituzione eucaristica, già ampiamente riferito dagli altri, pone il nuovo comandamento dell’amore. Ambedue, eucaristia e amore, sono chiamati "agape". L’eucaristia è il vertice dell’agápe e l’ agápe è il senso, il cuore dell’Eucaristia.
"Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Gv 6,56). Questa è la formula dell’Alleanza portata all’ultima conseguenza. Esprime la massima comunione le cui analogie, in verità molto povere, sono il rapporto sponsale e la relazione madre-figlio.
Se rimaniamo in Gesù, formando un tutt’uno con Lui, come il tralcio è un tutt’uno con la vite, noi portiamo molto frutto, possiamo amare come Gesù, vivere come Lui. Per cui un’altra versione del comandamento di Gesù ancora più sintetica è la seguente: "Rimanete nel mio amore (agape)" (Gv 15,9). Sant’Agostino scrive: " Prendere il calice della salvezza e invocare il nome del Signore significa essere ricolmi di carità in tale pienezza che si è pronti a morire per i fratelli", come ha fatto Gesù 34.
Il grido di Gesù in croce: "Tutto è compiuto" (Gv 19,30), rivela il dono totale di sé al Padre e agli uomini, il consumarsi perfetto del suo eros, philia,agape. Gesù ce lo dona in ogni Eucaristia per coinvolgerci a fare altrettanto.


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20 Cfr Benedetto XVI, "Dio è amore: questa la novità del cristianesimo", Udienza del mercoledì 9 Agosto 2006.
21 DCE, nn. 7.12.17.39.
22 Ibidem, n. 7.
23 Ibidem, n. 12.
24 C.M.MARTINI, Volgere lo sguardo al Signore della Chiesa, Ancora 1986, p. 61.
25 Ibid, p. 63ss.
26 Sant’Agostino, Opere di Sant’Agostino. Commento al Vangelo, 65, 1, p. 1141.
27 Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1953, p. 404.
28 DCE, n.1.
29 DCE,n . 17.
30 DCE, n.1.
31 Benedetto XVI, Omelia a Colonia, domenica 21 agosto 2005..
32 Ibid.
33 DCE, n. 13.
34 Meditazioni, V, 4, p. 135.