mercoledì 30 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Caterina… in sospeso - 29 settembre 2009 – Antonio Socci.
2) Infermiera cristiana discriminata perché indossava la croce - Farà causa al Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito - di Nieves San Martín
3) Avvenire 27 Settembre 2009 - IL NOBEL RUSSO - Dalla Vandea ai gulag Il filo rosso di Solzenicyn
4) Nell'Europa scristianizzata, Ratzinger punta sulle "minoranze creative" - La trascrizione integrale dell'intervista con Benedetto XVI durante il viaggio aereo da Roma a Praga, la mattina del 26 settembre. Libertà, verità, dialogo. E un'anticipazione sul secondo volume del "Gesù di Nazaret"
5) L'evoluzione e il "naturalismo" filosofico - Oltre gli orizzonti e i metodi della scienza - di Fiorenzo Facchini - L'Osservatore Romano - 30 settembre 2009
6) Tv o verità? - Lorenzo Albacete mercoledì 30 settembre 2009 – ilsussidiario.net
7) LETTERA/ Rose Busingye: l’Africa ha bisogno della “pazzia di Dio” - Rose Busingye mercoledì 30 settembre 2009 – ilsussidiario.net
8) Eutanasia, uno spettro si aggira per l’Europa - Londra ha aperto una breccia, altri pronti a seguire – DA LONDRA ELISABETTA DEL SOLDATO – Avvenire, 30 settembre 2009 – Segue la situazione in: Svizzera, Francia, Belgio, Spagna, Germania, Olanda, Lussemburgo


Caterina… in sospeso - 29 settembre 2009 – Antonio Socci.
Cari amici, ormai Caterina è figlia, sorella e amica di tutti voi. Tantissimi di voi mi scrivono accoratamente per avere notizie di lei. Purtroppo in questi drammi le cose evolvono con enorme lentezza.

Con angosciante e impercettibile lentezza. E talora c’è il rischio che evolvano verso il peggio anziché verso il meglio. O facendo passi avanti e passi indietro. Quindi si cammina sull’abisso…

Non posso qui riportare un bollettino medico quotidiano, fatto di analisi e test che peraltro neanche io conosco, quindi – per quanto sia difficile – provo a riassumere. La sostanza è questa: la situazione neurologica di Caterina (se si sveglierà e in quali condizioni) è tutta aperta. Non ci sono certezze.

E’ possibile tutto, dal peggio al bene, ma la situazione è obiettivamente grave. Ogni giorno siamo sospesi su una voragine, le nostre coronarie “ballano”, ed è chiaro che la Madonna ci chiede di affidarci completamente a lei. Con totale fiducia. Ce lo chiede anche facendoci sentire questo stupefacente abbraccio di un popolo accorato e bellissimo…

Mi sono interrogato su questo imprevisto e commovente sommovimento che – per l’emozione della storia di Caterina – ha coinvolto migliaia di persone, anche lontane dalla fede, inducendole ad implorare una grazia dal Cielo, talvolta anche a fare digiuni e offrire a Dio propri sacrifici, perché questa ragazza di 24 anni torni a vivere.

Mi è tornato in mente quanto diceva santa Bernardette, nella sua semplicità: “la Madonna ama farsi pregare”. Perché la Madonna ama farsi pregare? La ragione è profonda: penso che sia perché pregare, aprendo il cuore a Lei, serve a noi, perché così può cambiarci e stringerci a sé, ottenerci grandi grazie e soprattutto convertirci. Farci ritrovare noi stessi.

Perché infine impariamo ad affidarci totalmente a Lei, con fiducia totale, senza riserve, sospetti o timori. Perché ci accorgiamo di avere una Madre, immensamente buona. Che al Figlio può chiedere tutto, quindi che può tutto. E che è la mediatrice di tutte le grazie.

Mi ha colpito fin dall’inizio che il dramma di Caterina sia cominciato il 12 settembre che era la solennità del Nome di Maria. E’ certamente un caso, ma mi è venuto in mente che una delle ultime cose su cui avevo lavorato, cioè il mio ultimo libro su papa Giovanni Paolo II, uscito a giugno, per uno strano presagio si conclude proprio con le parole “il nome della Vergine era Maria”.

E’ infatti il testo della famosa e bellissima preghiera di Bernardo di Chiaravalle proprio sul “nome di Maria”, che avevo riprodotto sul finale del libro perché ci fa capire cosa significa questo affidarci alla nostra buona Madre.

Avendola scritta così recentemente l’ho subito ricordata. Bernardo parla del “nome di Maria” interpretandolo come “stella del mare”. Ecco le ardenti parole del grande santo:



“O tu che sei immerso nelle vicissitudini della vita e, più che camminare sulla solida terra, hai l’impressione di essere sballottato fra tempeste e uragani: se non vuoi finire travolto dall’infuriare dei flutti, non distogliere Io sguardo dal chiarore di questa stella!

Se insorgono i venti delle tentazioni, se t’imbatti negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria!

Se vieni assalito dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, dell’invidia, della gelosia: guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira, l’avarizia o le lusinghe della carne scuotono la navicella della tua anima: guarda la stella, invoca Maria.

Se turbato dall’enormità dei tuoi peccati, confuso per le brutture della tua coscienza, atterrito dal rigore del giudizio stai per venire risucchiato dal baratro della tristezza e dall’abisso della disperazione, guarda la stella, invoca Maria.

Nei pericoli, nelle difficoltà e nei momenti di incertezza, guarda la stella, invoca Maria. Abbi il suo nome sempre sulle labbra, abbila sempre nel cuore e se vuoi ottenere l’aiuto della sua preghiera, non tralasciare di imitarne gli esempi.

Seguendo lei non andrai fuori strada, pregandola non dispererai, pensando a lei non sbaglierai.

Se ella ti sostiene non cadrai, se ella ti protegge non avrai nulla da temere, se ella ti guida non ti affaticherai, se ti sarà favorevole giungerai alla mèta e così potrai sperimentare tu stesso quanto giustamente sia stato detto: ‘e il nome della vergine era Maria’ “.



I santi hanno sempre saputo che tutto passa attraverso Maria. Infatti don Giussani, negli ultimi anni, ripeteva sempre: “Maria, tu sei la certezza della nostra speranza”. E proprio questa frase era stata posta anche da padre Pio sopra la porta della sua cella.

Del resto nelle vostre mail ci sono decine e decine di testimonianze sulla forza della preghiera e sul soccorso che la Regina del Cielo corre a dare ai suoi figli.

Io prego che il Signore guardi quanti cuori – anche di tantissimi giovani – si sono aperti a Lui in questa drammatica circostanza, per una commozione per Caterina che solo Lui può aver suscitato. E che guardando l’attesa e il grido di tanti cuori, Lui li voglia consolare, rafforzando la loro fede: accogliendo la loro implorazione.

E’ la Chiesa stessa che ci esorta a implorare la Regina che ha le chiavi del cuore di Dio e dei suoi tesori di grazie. Paolo VI diceva: “Dobbiamo pregare e invocare di più la Madonna. Ella, come nel Vangelo, interviene presso il Figlio e ottiene da Lui miracoli”.

Allora io non mi stanco di mendicare ai piedi della nostra Regina. Anche perché Suo Figlio ci ha insegnato a “svegliarlo anche di notte” (come dice una sua parabola) e a essere seccatori e petulanti con Lui….

Antonio Socci


Infermiera cristiana discriminata perché indossava la croce - Farà causa al Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito - di Nieves San Martín
LONDRA, martedì, 29 settembre2009 (ZENIT.org).- Un'infermiera cristiana del Regno Unito colpita da un'azione disciplinare perché portava una catenina con una croce ha accettato l'offerta di reinserimento temporaneo, ma, consigliata dai suoi avvocati, farà causa per discriminazione.

Shirley Chaplin, di 54 anni, ha accettato martedì l'offerta "sotto coazione", secondo l'Associazione per la Stampa del Regno Unito. Il suo avvocato ha detto che intraprenderà un'azione presso il Tribunale del Lavoro per discriminazione, visto che la signora Chaplin pensa di essere stata discriminata a causa della sua fede, come ha riportato il Christian Post.

In precedenza, i responsabili dell'Ospedale Royal Devon and Exeter avevano detto alla signora Chaplin che non poteva portare al collo il ciondolo d'argento a forma di croce delle dimensioni di 2,5 centimetri perché violava la politica sulla divisa ed era un rischio per i pazienti, ha ricordato il quotidiano Telegraph.

Le è stato detto che o accettava il reinserimento in un ruolo non da infermiera o sarebbe stata licenziata. Il Servizio Sanitario Nazionale ha insistito sul fatto che il ciondolo potrebbe mettere in pericolo la donna o un paziente se vi rimanesse attaccato.

La signora Chaplin ha detto che porta la croce da quando ha iniziato a lavorare all'ospedale trent'anni fa e accusa di essere attaccata per il suo credo cristiano.

Ad ogni modo, l'ospedale accetta altri simboli di fede, come nel caso delle infermiere musulmane che indossano lo chador, informa il Daily Express.

Il quotidiano ha detto che la signora Chaplin, che ha due figli e viene da Kem, vicino Exeter, andrà in pensione tra otto mesi.

"Porto una croce da anni e ora, alla fine della mia carriera, mi dicono di toglierla", ha dichiarato.

"Non posso spiegare quanto sia importante la croce per me. E' il modo in cui io esprimo la mia fede. Sentirmi dire che la dovevo togliere mi ha sconvolta. La mia fede cristiana è ciò che mi spinge a prendermi cura degli altri", ha rivelato al Daily Express.

"Sento di essere intimidita e accusata per la mia fede. Sono rimasta colpita quando l'Esecutivo per la Salute e la Sicurezza mi ha detto che non c'è alcun caso riportato di danni provocati da un ciondolo".

La signora Chaplin è stata sostenuta dal Centro Cristiano Legale (CLC), un gruppo di pressione che lotta per la libertà religiosa.

Andrea Minichiello Williams, avvocato e direttore, ha detto: "Oggi un'infermiera che ha servito fedelmente il pubblico di Exeter con le sue abilità professionali è stata costretta ad abbandonare l'infermeria e ad assumere un ruolo amministrativo, il tutto perché non le viene permesso di portare una croce, l'immagine del cristianesimo riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo".

"Alla signora Chaplin non è stata lasciata altra scelta che accettare, ma oggi ci ha dato l'incarico di avviare un'azione presso il Tribunale del Lavoro per discriminazione contro i suoi datori di lavoro", ha aggiunto come riportato dall'Associazione per la Stampa del Regno Unito.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


Avvenire 27 Settembre 2009 - IL NOBEL RUSSO - Dalla Vandea ai gulag Il filo rosso di Solzenicyn
Due terzi di secolo fa, quand’ero bambino, leggevo già con ammirazione nei libri il racconto che rievocava l’insorgenza della Vandea, così coraggiosa e così disperata. Sono passati venti decenni, decenni diversi a seconda dei diversi Paesi, e non solo in Francia, ma anche altrove, l’insorgenza vandeana e la sua sanguinosa repressione sono state sempre di nuovo illuminate. Infatti gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.

Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa! I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gli istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarli, veniva già considerato un crimine. Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo.

Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un Paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio Paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione. Il termine stesso "rivoluzione" – dal latino revolvo – significa "rotolare indietro", "ritornare", "provare di nuovo", "riaccendere", nel migliore dei casi mettere sossopra, una sequenza di definizioni poco desiderabili. Attualmente, se da parte della gente si attribuisce a qualche rivoluzione la qualifica di "grande", lo si fa ormai solo con circospezione, e molto spesso con molta amarezza.

Ormai capiamo sempre meglio che l’effetto sociale che desideriamo tanto ardentemente può essere ottenuto attraverso uno sviluppo evolutivo normale, con un numero infinitamente minore di perdite, senza comportamenti selvaggi generalizzati. Bisogna saper migliorare con pazienza quanto ogni giorno ci offre. E sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana. Ebbene, la Rivoluzione francese, e in modo assolutamente particolare la nostra, la Rivoluzione russa, avevano avuto questa speranza. La Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: «Libertà, uguaglianza, fraternità». Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una della funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere.

Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un’aggiunta avventizia allo slogan: la vera fraternità non può essere costruita da disposizioni sociali, è di ordine spirituale. Inoltre, a questo slogan ternario veniva aggiunto con tono minaccioso «o la morte», il che ne distruggeva ogni significato. Mai, a nessun Paese, potrei augurare una "grande rivoluzione". Se la Rivoluzione del secolo diciottesimo non ha portato la rovina della Francia è solo perché vi è stato Termidoro. La rivoluzione russa non ha conosciuto un Termidoro che abbia saputo arrestarla, e, senza deviare, ha portato il nostro popolo fino in fondo, fino al gorgo, fino all’abisso della perdizione.

L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché i nostri organizzatori razionalisti della "felicità del popolo" ne traessero lezioni. Ma no! In Russia tutto si è svolto in un modo ancora peggiore, e in una dimensione senza confronti. Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leninisti e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini. Non abbiamo avuto un Termidoro, ma – e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza – abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi insorgenze contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche, hanno marciato su Tambov al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciate dalle mitragliatrici.

L’insorgenza di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti, per reprimerla, abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, di Tersk, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio. Vedo con la mente i monumenti che verranno eretti un giorno, in Russia, testimoni della nostra resistenza russa allo scatenamento delle orde comuniste. Abbiamo attraversato il secolo ventesimo, un secolo di terrore dall’inizio alla fine, terribile coronamento del Progresso tanto sognato nel secolo diciottesimo. Oggi, penso, crescerà sempre più il numero dei francesi che capiscono meglio, che valutano meglio, che conservano con fierezza nella loro memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.
Aleksandr Solzenicyn


Nell'Europa scristianizzata, Ratzinger punta sulle "minoranze creative" - La trascrizione integrale dell'intervista con Benedetto XVI durante il viaggio aereo da Roma a Praga, la mattina del 26 settembre. Libertà, verità, dialogo. E un'anticipazione sul secondo volume del "Gesù di Nazaret"
D. – Santità, come lei ha detto all’Angelus di domenica scorsa, la Repubblica Ceca si trova non solo geograficamente, ma anche storicamente nel cuore dell’Europa. Vuole spiegarci meglio questo "storicamente" e dirci come e perché pensa che questa visita possa essere significativa per il continente nel suo insieme, nel suo cammino culturale, spirituale ed eventualmente anche politico, di costruzione dell’Unione Europea?

R. – In tutti i secoli, la Repubblica Ceca, il territorio della Repubblica Ceca è stato luogo di incontro di culture. Cominciamo nel IX secolo: da una parte, in Moravia, abbiamo la grande missione dei fratelli Cirillo e Metodio, che da Bisanzio portano la cultura bizantina, ma creano una cultura slava, con i caratteri cirillici e con una liturgia in lingua slava; dall’altra parte, in Boemia, sono le diocesi confinanti di Regensburg e Passau che portano il Vangelo in lingua latina, e, nella connessione con la cultura romano-latina, si incontrano così le due culture. Ogni incontro è difficile, ma anche fecondo. Si potrebbe facilmente mostrare con questo esempio.

Faccio un grande salto: nel XIII secolo è Carlo IV che crea qui, a Praga, la prima università nel Centro Europa. L’università di per sé è un luogo di incontro di culture; in questo caso, diventa inoltre un luogo di incontro tra cultura slava e germanofona. Come nel secolo e nei tempi della Riforma, proprio in questo territorio gli incontri e gli scontri diventano decisi e forti, lo sappiamo tutti.

Faccio ora un salto al nostro presente: nel secolo scorso, la Repubblica Ceca ha sofferto sotto una dittatura comunista particolarmente rigorosa, ma ha anche avuto una resistenza sia cattolica, sia laica di grandissimo livello. Penso ai testi di Václav Havel, del cardinale Vlk, a personalità come il cardinale Tomášek, che realmente hanno dato all’Europa un messaggio di che cosa sia la libertà e di come dobbiamo vivere e lavorare nella libertà. E penso che da questo incontro di culture nei secoli, e proprio da questa ultima fase di riflessione, non solo, di sofferenza per un concetto nuovo di libertà e di società libera, escano per noi tanti messaggi importanti, che possono e devono essere fecondi per la costruzione dell’Europa. Dobbiamo essere molto attenti proprio al messaggio di questo Paese.

D. – Siamo a vent’anni dalla caduta dei regimi comunisti nell’Est europeo; Giovanni Paolo II, visitando diversi paesi reduci dal comunismo, li incoraggiava ad usare con responsabilità la libertà recuperata. Qual è oggi il suo messaggio per i popoli dell’Europa orientale in questa nuova fase storica?

R. – Come ho detto, questi paesi hanno sofferto particolarmente sotto la dittatura, ma nella sofferenza sono anche maturati concetti di libertà che sono attuali e che adesso devono essere ancora ulteriormente elaborati e realizzati. Penso, per esempio, ad un testo di Václav Havel che dice: "La dittatura è basata sulla menzogna e se la menzogna andasse superata, se nessuno mentisse più e se venisse alla luce la verità, ci sarebbe anche la libertà". E così ha elaborato questo nesso tra verità e libertà, dove libertà non è libertinismo, arbitrarietà, ma è connessa e condizionata dai grandi valori della verità e dell’amore e della solidarietà e del bene in generale.

Così, penso che questi concetti, queste idee maturate nel tempo della dittatura non debbano andare persi: ora dobbiamo proprio ritornare ad essi! E nella libertà spesso un po’ vuota e senza valori, di nuovo riconoscere che libertà e valori, libertà e bene, libertà e verità vanno insieme: altrimenti si distrugge anche la libertà. Questo mi sembra il messaggio che viene da questi paesi e che dev’essere attualizzato in questo momento.

D. – Santità, la Repubblica Ceca è un paese molto secolarizzato in cui la Chiesa cattolica è una minoranza. In tale situazione, come può contribuire la Chiesa effettivamente al bene comune del paese?

R. – Direi che normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale. La Chiesa deve attualizzare, essere presente nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per un concetto vero di libertà e di pace.

Così, può contribuire in diversi settori. Direi che il primo è proprio il dialogo intellettuale tra agnostici e credenti. Ambedue hanno bisogno dell’altro: l’agnostico non può essere contento di non sapere se Dio esiste o no, ma deve essere in ricerca e sentire la grande eredità della fede; il cattolico non può accontentarsi di avere la fede, ma deve essere alla ricerca di Dio ancora di più, e nel dialogo con gli altri ri-imparare Dio in modo più profondo. Questo è il primo livello: il grande dialogo intellettuale, etico ed umano.

Poi, nel settore educativo, la Chiesa ha molto da fare e da dare, per quanto riguarda la formazione. In Italia parliamo del problema dell’emergenza educativa. È un problema comune a tutto l’Occidente: qui la Chiesa deve di nuovo attualizzare, concretizzare, aprire per il futuro la sua grande eredità.

Un terzo settore è la "Caritas". La Chiesa ha sempre avuto questo come segno della sua identità: quello di venire in aiuto ai poveri, di essere strumento della carità. La Caritas nella Repubblica Ceca fa moltissimo nelle diverse comunità, nelle situazioni di bisogno, e offre molto anche all’umanità sofferente nei diversi continenti, dando così un esempio di responsabilità per gli altri, di solidarietà internazionale, che è anche condizione della pace.

D. – Santità, la sua ultima enciclica "Caritas in veritate" ha avuto un’ampia eco nel mondo. Come valuta questa eco? Ne è soddisfatto? Pensa che effettivamente la crisi mondiale recente sia un’occasione in cui l’umanità sia divenuta più disponibile a riflettere sull’importanza dei valori morali e spirituali, per fronteggiare i grandi problemi del suo futuro? E la Chiesa, continuerà ad offrire orientamenti in questa direzione?

R. – Sono molto contento per questa grande discussione. Era proprio questo lo scopo: incentivare e motivare una discussione su questi problemi, non lasciare andare le cose come sono, ma trovare nuovi modelli per una economia responsabile, sia nei singoli paesi, sia per la totalità dell’umanità unificata. Mi sembra realmente visibile, oggi, che l’etica non è qualcosa di esteriore all’economia, la quale come una tecnica potrebbe funzionare da sé, ma è un principio interiore dell’economia, la quale non funziona se non tiene conto dei valori umani della solidarietà, delle responsabilità reciproche e se non integra l’etica nella costruzione dell’economia stessa: è la grande sfida di questo momento.

Spero, con l’enciclica, di aver contribuito a questa sfida. Il dibattito in corso mi sembra incoraggiante. Certamente vogliamo continuare a rispondere alle sfide del momento e ad aiutare affinché il senso della responsabilità sia più forte della volontà del profitto, che la responsabilità nei riguardi degli altri sia più forte dell’egoismo; in questo senso, vogliamo contribuire ad un’economia umana anche in futuro.

D. – E per concludere, una domanda un po’ più personale: nel corso dell’estate, vi è stato il piccolo incidente al polso. Lo considera ora pienamente superato? Ha potuto riprendere pienamente la sua attività e ha potuto anche lavorare alla seconda parte del suo libro su Gesù, come desiderava?

R. – Non è ancora pienamente superato, ma vedete che la mano destra è in funzione e l’essenziale posso farlo: posso mangiare e, soprattutto, posso scrivere. Il mio pensiero si sviluppa soprattutto scrivendo; così per me è stata veramente una pena, una scuola di pazienza, non poter scrivere per sei settimane. Tuttavia ho potuto lavorare, leggere, fare altre cose e sono anche andato un po’ avanti con il libro. Ma ho ancora molto da fare. Penso che, con la bibliografia e tutto quello che segue ancora, "Deo adiuvante", potrebbe essere terminato nella prossima primavera. Ma questa è una speranza!

da: www.chiesa


L'evoluzione e il "naturalismo" filosofico - Oltre gli orizzonti e i metodi della scienza - di Fiorenzo Facchini - L'Osservatore Romano - 30 settembre 2009
Che le specie viventi cambino nel tempo e non corrispondano a singoli atti creativi di Dio è oggi comunemente accettato. Che la selezione naturale rappresenti il grande fattore dell'evoluzione è stata la scommessa di Darwin, che ha avuto molti riscontri, anche se richiede delle integrazioni. Che l'evoluzione renda superflua la creazione e tutta la natura si sia autoformata è un passo decisamente troppo lungo per essere vero - non l'aveva compiuto neppure Darwin che al termine della seconda edizione della sua opera, Le origini delle specie, e nelle edizioni successive, parla della creazione - ma che molti fautori del darwinismo, a partire dai primi discepoli di Darwin (Huxley, Haeckel e gli altri), sostengono connotando in questo modo ideologicamente la teoria evolutiva.
Non ci sarebbe alcun bisogno di Dio, di cui mancano le evidenze, né della dimensione spirituale per spiegare l'uomo, il pensiero, la coscienza, la libertà. È questa un'estensione non richiesta dalla scienza. Nessun scienziato serio potrebbe farla in nome della scienza. Si tratta di posizioni ideologiche, riferibili al naturalismo filosofico e sostenute da molti darwinisti che mal sopportano critiche di chi cerca di ragionare sulle acquisizioni della scienza distinguendole dalle interpretazioni che vengono fatte.
Ne è un esempio il lungo intervento su "MicrOmega" di due filosofi, Orlando Franceschelli e Telmo Pievani circa il pensiero da me espresso in due articoli su "L'Osservatore Romano" e su "Avvenire". Franceschelli e Pievani si dimostrano particolarmente risentiti per alcune mie valutazioni di posizioni darwiniste che ritengono riferite a loro, e sviluppano considerazioni e giudizi che non sono certo dialoganti (nonostante uno strano richiamo biblico al dialogo che appare più patetico che reale); un intervento molto polemico e in qualche punto offensivo, in cui un argomento ricorrente è l'accusa a me rivolta di neointegralismo ratzingeriano, spesso l'ultima sponda dei ragionamenti.
I due filosofi interlocutori lamentano anche la mancanza di argomentazioni, nei miei articoli, sulla conciliabilità di evoluzione e creazione, dimostrando di non ricordare altri miei interventi e soprattutto il mio volume Le sfide dell'evoluzione (Milano, Jaca Book, 2008) pubblicato lo scorso anno e a essi inviato, sul quale avevo anche avuto occasione di discutere con loro. Anche questo un motivo di stupore: memoria corta?
Mi sono chiesto se valeva la pena riprendere il discorso su questa sede, poi ho pensato che ribadire le posizioni già espresse può essere utile almeno per chi legge e vuole conoscere le cose, anche se non sarà di grande utilità per chi fatica a capire o non vuole capire.
Il passaggio dal naturalismo metodologico, che utilizza i metodi della scienza per spiegare le modalità con cui si sono evolute le specie, compreso l'uomo, al naturalismo filosofico, che emancipa la natura dal Creatore, continuo a ritenerlo una estensione arbitraria, nel senso che non è richiesta dalla scienza e riflette posizioni soggettive, entro le quali vengono interpretati, con evidenti forzature, alcuni dati scientifici. I due studiosi citati rivendicano una plausibilità del naturalismo filosofico - Franceschelli in un suo saggio parla di plausibilità scientifica! - affermando che esso "è in sintonia con i dati che oggi provengono dalla scienza", ma a ben riflettere la sintonia non è con la scienza, ma con la loro interpretazione di alcuni dati della scienza e con l'allargamento che ne fanno. Dispensano a piene mani accuse di arroganza e intolleranza per chi non la pensa come loro. Un'accusa non nuova perché ricorre più volte nei confronti dei teologi nell'ultima opera Darwin e l'anima. L'evoluzione dell'uomo e i suoi nemici (Roma, Donzelli, 2009) di Franceschelli (in cui si parla di arroganza creazionista, metafisica, emergentista).
Il naturalismo, inteso come visione esauriente della conoscenza della natura, esorbita dalla scienza, rientra nella filosofia e come tale va valutato anche nel confronto con altre visioni, come quella che si allarga alla trascendenza, che pure rientra in un orizzonte filosofico. In ogni caso l'onere di argomentare le proprie posizioni è di tutti, non credenti e credenti, e non solo di questi ultimi come affermano i miei interlocutori.
Al naturalismo filosofico si ricollegano le posizioni espresse da vari scienziati darwinisti sull'uomo, inteso come scimmia evoluta, come pure l'estensione di specifiche attività umane al mondo animale. A mio modo di vedere, come antropologo e naturalista, ritengo che si dovrebbero evitare due estremi: l'appiattimento dell'uomo sull'animale e l'innalzamento dell'animale all'uomo. Il risultato è il medesimo: l'annullamento delle differenze e delle identità.
Sorprende il largo uso promiscuo di termini come mente, libertà, coscienza, morale, cultura, riferiti oltre che all'uomo, ai primati non umani, ad altri mammiferi e anche ad altre classi di vertebrati. Ciò si basa su qualche analogia di comportamento, peraltro segnalate dallo stesso Darwin, ma corrisponde a una generalizzazione che non coglie ciò che è proprio a ogni specie. Non si tratta di negare le somiglianze, ma di cogliere l'identità di ciascuna senza annebbiare le differenze. Dentro al livellamento c'è un modo di pensare, un pregiudizio che non vuole riconoscere la specificità dell'uomo. È una impostazione di tipo riduzionistico.
L'appartenenza dell'uomo, di tutto l'uomo alla condizione umana, e quindi la naturalità dell'essere umano non richiede che tutto debba essere spiegato con la biologia escludendo altri approcci conoscitivi. Questa posizione, espressione del naturalismo filosofico, non appartiene alla scienza, ma è una libera interpretazione di alcuni aspetti della realtà naturale secondo una personale posizione ideologica. Si vuole spiegare tutto il comportamento specifico dell'uomo "intelligenza simbolica, linguaggio articolato, il nostro particolare senso morale, il senso religioso, senza il ricorso a sfere trascendenti e interventi divini di cui non si ha alcuna evidenza o necessità". Si deve accettare che "la scienza naturale non ha limiti di principio nell'indagare ogni specifica caratteristica umana, nessuna esclusa". Così affermano Franceschelli e Pievani. A me sembra che certi comportamenti dell'uomo vadano oltre gli orizzonti e i metodi della scienza, anche se certamente vi sono connessioni tra la dimensione fisica e quella spirituale nell'unità della persona. Sarebbe come se volessi capire il significato e il valore artistico di un quadro di Raffaello con le analisi dei pigmenti utilizzati e delle fibre vegetali della tela.
Per conoscere e spiegare l'uomo occorre allargare l'orizzonte e sviluppare argomentazioni sul piano filosofico, andando oltre i metodi della scienza, senza preclusioni ideologiche. Si tratterà di vedere, nei confronti che si possono fare, quale visione generale della realtà può essere più soddisfacente nell'interpretare i dati della scienza e nelle conseguenze che se ne possono trarre per valutare le scelte dell'uomo, la cui forza persuasiva è molto diversa se si ammette Dio o lo si esclude.
Per il dialogo occorre chiarezza e la chiarezza richiede, oltre al rispetto delle persone, che si distinguano i diversi campi di analisi e il livello a cui sono interessati, evitando inutili polemiche, di cui non di rado mi capita di fare esperienza in pubblici dibattiti. Personalmente posso dire che nel mio impegno di paleoantropologo e di sacerdote ho sempre cercato di tenere distinti l'ambito scientifico e quello teologico e di avere cercato un dialogo evitando la confusione dei piani.
Certamente per chi si apre alla luce della Rivelazione la creazione e la relazione particolare dell'uomo con Dio emergono in tutta la loro ricchezza e dinamicità. L'allargamento della razionalità scientifica, che Benedetto XVI più volte ha sollecitato, non mortifica l'autonomia della scienza, non rappresenta una invasione di campo - come viene spesso ingiustamente rilevato - perché c'è anche una razionalità filosofica aperta al trascendente e c'è una razionalità teologica. Esse rispondono a un'apertura ad altri orizzonti, e rappresentano un arricchimento, uno sguardo sul futuro. Escluderle è sempre possibile, per chi non è interessato a domande di significato, ma non è richiesto dalla scienza e si collega a scelte personali con cui ci si autolimita nelle proprie conoscenze.
(©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2009)


Tv o verità? - Lorenzo Albacete mercoledì 30 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Prima di tutto, devo correggere le mie previsioni della settimana scorsa sull’Assemblea Generale dell’Onu qui a New York. Al di là di ogni dubbio, la performance di Hugo Chavez è stata oscurata completamente dallo spettacolo che ha messo in piedi a sorpresa Gheddafi. Il leader libico ha rischiato di cancellare perfino l’interesse per il debutto alle Nazioni Unite di Obama. Comunque, ora sono tornati tutti a casa e l’attenzione della nazione si è concentrata su altri spettacoli.


Alessandra Stanley, critico TV del The New York Times, ha scritto un brillante articolo su ciò che lei definisce “una delle perversioni della vita pubblica” negli Stati Uniti di oggi. Si tratta dell’incrocio tra due modalità di riportare le notizie: da un lato, abbiamo “politici in disgrazia che, per tornare sulla scena, puntano su una clownesca parodia di se stessi”; dall’altro vi sono “ artisti che si camuffano da commentatori di fatti morali, e immorali”.



La Stanley porta come esempio Tom Delay, il leader della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti che fu costretto a dimettersi nel 2006 e ancora in attesa di processo per violazione delle leggi sul finanziamento delle campagne elettorali. La settimana scorsa, nello spettacolo TV “Dancing with the Stars” (Ballando con le stelle), “più di 17 milioni di spettatori hanno visto Mr. Delay scivolare per il palco sulle proprie ginocchia ballando il cha cha”, nel tentativo di cambiare la sua immagine di duro politico conservatore e guadagnarsi la simpatia del pubblico.



Stanley commenta: “Era stranamente rilassato, mentre si pavoneggiava sul palcoscenico con scarpe da ballerino e un bolero ornato di pelle di leopardo. Con i capelli cotonati, la faccia melliflua e uno smagliante sorriso, l’ex deputato sembrava più simile a Wayne Newton (famoso cantante e attore americano) che a Sam Rayburn (speaker della Camera dei Rappresentanti per 17 anni, la più lunga durata nella storia degli USA)” (anche il presidente Obama è andato in televisione per difendere il suo piano di riforma della sanità, facendosi intervistare dagli attori David Letterman e Jay Leno).

Sull’altro versante, abbiamo visto MacKenzie Phillips dichiarare all’Oprah Winfrey’s Show che, “come servizio pubblico”, voleva che tutti sapessero che aveva fatto sesso consenziente con suo padre, John Phillips, uno dei fondatori del gruppo rock the Mamas and the Papas, morto nel 2001 (la Phillips sta promuovendo il suo nuovo libro aperto “High on Arrival.” Senz’altro scritto come servizio pubblico). La Stanley fa notare che perfino Oprah Winfrey ha trovato la relazione incestuosa della Phillips “sbagliata, volgare e vergognosa” e conclude: “Di questi tempi, a Hollywood e Washington, questo è il prezzo del rientro”.



Perché sta succedendo tutto questo? È ciò che abbiamo chiamato la “morte del giornalismo”. Anche nel passato ci sono stati comportamenti sbagliati, volgari e vergognosi di giornalisti, ma almeno avevano la pretesa di comunicare una verità oggettiva. Quando scompare la preoccupazione per la verità, questo è quanto succede: la politica diventa spettacolo e lo spettacolo diventa politica.



Di fatto, la situazione è perfino peggiore. Il problema oggi non è soltanto la mancanza di preoccupazione per la verità, è la perdita di interesse per la verità. Quando questo accade, prima o poi, essa viene sostituita da una violenza crudele, esercitata sia contro le celebrità che la gente comune. È un altro risultato della separazione tra fede e conoscenza e della inevitabile conseguenza: la distruzione della ragione.


LETTERA/ Rose Busingye: l’Africa ha bisogno della “pazzia di Dio” - Rose Busingye mercoledì 30 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Il titolo del Sinodo africano è “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La realizzazione di questo programma dipende tutta dal cuore dell’uomo africano e dalla sua educazione.


Cristo è venuto, la questione è accorgersi che questo cambia tutto, cambia il mio modo di trattare me stessa e di comportarmi con gli altri e con le cose. La questione è l’appartenenza a Lui. Appartenenza vuol dire essere stata preferita, vuol dire che Qualcuno mi ha voluto. Questo supera tutti i contrasti che abbiamo fra tribù, politici e altri interessi costituiti.



Veramente la pace per l’Africa dipende dall’incontro tra il cuore dell’uomo e Cristo. Perché l’appartenenza a Cristo supera l’appartenenza al gruppo tribale e colloca quest’ultima al giusto posto, col giusto valore. Ma questo avviene solo se la fede penetra gli strati profondi dell’umanità, arriva là dove si formano i criteri di percezione delle cose. Allora l’appartenenza diventa la forza dell’io, e la persona diventa libera e protagonista.


Perché questo avvenga è fondamentale l’educazione. L’uomo africano ha un altissimo senso religioso, ha un fortissimo senso dell’appartenenza, ma essi devono essere educati. Ci si deve educare ad accorgersi che il compimento è già con noi, che la risposta è già presente, e non è una magia o un modo di credere sentimentale che la rendono presente.



L’uomo africano possiede un senso religioso veramente alto, non c’è un africano che non sia consapevole di dipendere da Qualche cosa di Altro, che non abbia questo senso di dipendenza da Qualcosa. Lo chiama “Spirito” o con un altro nome, lo cerca nelle magie, ma comunque non può vivere senza avere qualcosa da cui dipendere. Nessun africano mai direbbe, come fanno tanti europei, «sono nato, adesso sto qua e questo è tutto». No: l’africano ha sempre viva la questione dell’origine.

L’incontro che manca

Il problema è che la maggior parte degli africani, e anche dei cristiani, non può testimoniare di un incontro in cui si è sentito dire: «Sono Io che cerchi». Perché troppo spesso Cristo non è stato presentato come qualcosa che è già presente in noi, ma come qualcosa che arriva dal di fuori. Così oggi tanti studiosi africani scrivono che il Dio cristiano è stato importato dai bianchi e che il cristianesimo non è riconciliato con l’identità e la cultura africane.



Per me e per tanti amici non è così, perché il modo in cui ci è stato presentato il cristianesimo, attraverso la persona di don Luigi Giussani e di chi lo seguiva, è stato diverso. È come se ci fosse stato detto: «Tutto quello che hai cercato negli spiriti, nelle magie, c’è già, è presente, è quello che ha fatto te, ti ha fatto nascere, ti fa respirare. E io ti dico il suo nome». Invece è come se a tanti africani chi ha presentato il cristianesimo avesse detto: «Metti via tutti gli idoli, tutte le tue cose, io ti ho portato Dio, io ti ho portato Cristo». Come se Cristo fosse una proprietà. Ma Cristo non lo possiede nessuno, viene come vuole Lui, come disegna Lui, viene in ogni uomo di questo mondo.

La magia, gli spiriti e la vita quotidiana



La conseguenza del non presentare Cristo come qualcosa che è in te, ma come qualcosa che viene da fuori, fa sì che alla fine, per molti, c’è un Dio del bianco e un Dio dell’africano. E quando c’è una difficoltà, una malattia, anche i cristiani a volte guardano dalla parte del Dio africano e dicono: «Forse sono gli spiriti». Così vanno da quelli che voi europei chiamate gli “stregoni”. Che riempiono la loro mente di paura. Gli stregoni li terrorizzano, la loro mente si riempie di reazioni che vengono dalla paura: e loro stessi si convincono che per guarire la loro mente dovrà essere torturata e riempirsi di credenze frutto della paura.



Anche le sètte che mescolano il cristianesimo con gli spiriti, quelle dei cosiddetti “salvati”, seguono lo stesso metodo degli stregoni: producono agitazione e suggestione nella mente, ti convincono che la presenza di Dio o degli spiriti buoni è legata a una magia, e che tutto nella vita può essere ottenuto in modo magico. È un Dio che ti dice: «Posso farti avere tutto per magia». Ma non è un Dio che entra nella tua vita normale, che la vive con te, che la porta con te. È un Dio della suggestione psicologica: alla fine della preghiera ti senti guarito, ma il giorno dopo stai peggio di prima.


Ma Dio è questa tenerezza che è venuta nel mondo, che ha avuto pietà di noi e ci tocca tutti quanti. È ciò che Benedetto XVI ha espresso nelle sue tre encicliche, soprattutto nella Deus caritas est, dove descrive Dio con questo amore infinito: «la pazzia divina», come ha scritto. La pace e la riconciliazione nascono da questa esperienza di Dio: Dio ha preso me, che ero niente e che sono niente, mi ha preso così come sono, e nella quotidianità.



Quel che viene naturale dire è: «Io voglio partecipare a questa pazzia di Dio, a questo essere di Dio». Questa cosa, nel tempo, fa sì che non mi adiro più per i peccati altrui, per le ingiustizie che l’altro ha compiuto nei confronti miei e di altre persone. Nell’esperienza dell’amore divino, non ha più senso che io misuri i peccati miei e degli altri. Nel tempo questo produce serenità e il desiderio che il mio incontro con ogni essere umano sia tenerezza, non uno sforzo o un ripetere parole o un cercare di essere più bravi degli altri.


Qui da me a Kampala arrivano ragazze di tribù ostili alla mia, giovani che hanno combattuto o sono stati bambini soldato. Dovrei averne paura o provare disprezzo per loro. E invece queste cose non mi toccano più: per me sono persone amate e volute da Dio, che hanno continuamente bisogno di essere amate e volute. Se hanno bisogno di mangiare do loro da mangiare, se hanno bisogno delle medicine do loro le medicine. Quando arrivano le accolgo come tutti gli altri bambini, non in base al discrimine se hanno rubato e ucciso oppure no. Appartengono a Cristo, e quindi appartengono anche a me.


Eutanasia, uno spettro si aggira per l’Europa - Londra ha aperto una breccia, altri pronti a seguire – DA LONDRA ELISABETTA DEL SOLDATO – Avvenire, 30 settembre 2009 – Segue la situazione in: Svizzera, Francia, Belgio, Spagna, Germania, Olanda, Lussemburgo
U na piccola breccia a Londra potreb­be provocare una valanga in Euro­pa. E lo spettro dell’eutanasia legale comincia ad aleggiare sul Vecchio Conti­nente, dopo gli strappi – pur diversi nella for­ma legislativa – di Belgio, Olanda, Lussem­burgo e Svizzera. Il suicidio assistito in Gran Bretagna è reso illegale dal Suicide Act, una legge del 1961 nella quale si stabilisce che chiunque aiuti o inco­raggi un’altra persona a togliersi la vita è punibi­le con la reclusione fino a 14 anni. Nonostante vari tentativi di modifi­care la norma, la pratica del suicidio assistito con­tinua a essere illegale, con il sostegno della maggioranza della po­polazione e del governo di Gordon Brown. Il premier ha infatti più volte rimarcato quan­to sia importante, per il rispetto della vita u­mana, aiutare chi è in una condizione di vul­nerabilità e non metterlo sotto pressione.
Nelle ultime settimane tanta stampa ha ti­tolato che la Gran Bretagna ha legalizzato il suicidio assistito, ma ciò non corrisponde al vero, sebbene con l’introduzione di nuove 'linee guida' da parte del direttore della Pro­cura generale, Keir Starmer, il dibattito si è acceso e molti temono che esse potrebbero rappresentare il primo passo verso un at­teggiamento più tollerante nei confronti di chi aiuta un’altra persona a morire.
Le linee guida sono state pubblicate dopo le molte richieste di una malata di sclerosi mul­tipla, Debbie Purpdy, la quale voleva che fos­se chiarito dal giudice se il marito rischia l’in­criminazione quando egli l’accompagnerà alla clinica svizzera Dignitas dove sarà assi­stita dai medici a morire. La richiesta della Purdy, bocciata due vol­te dai giudici, è poi stata accolta dalla Camera dei Lord.
Poco dopo la Procura Generale è intervenuta sostenendo la necessità di specificare chi è puni­bile tra coloro che aiuta­no una persona a suici­darsi. Sono seguite le li­nee guida: è punibile chi spera in un ritorno economico dalla morte della persona suici­da; è punibile chi mette sotto pressione la persona suicida; non è necessariamente pu­nibile una persona che ne accompagna un’altra in un Paese dove il suicidio assistito è legale. Finora sono più di cento i britanni­ci che si sono recati in Svizzera per porre fi­ne volontariamente alla propria esistenza: tutti erano accompagnati da almeno un fa­miliare, nessuno di essi è stato incriminato.
La legge inglese non cambia, ma le linee guida per chi accompagna persone al suicidio assistito sono un cedimento


SVIZZERA - LA TRISTE PATRIA DELLA «DOLCE MORTE»
La Svizzera è diventata, negli ultimi anni, la “patria” della dolce morte. Ogni anno sono più di un centinaio le persone, provenienti da ogni parte del mondo, che vi si recano e che si rivolgono ad organizzazioni di assistenza al suicidio. Un fenomeno inizialmente tollerato dalle autorità elvetiche, che ha però assunto dimensioni preoccupanti anche per la Commissione nazionale di etica per la medicina. Stando alle statistiche ufficiali, su 1.400 suicidi registrati nel Paese, 272 (quasi il 20%) sono stati “assistiti”. Ad aver innescato questo «turismo del suicidio» è la presenza di una zona grigia nel diritto, che garantisce l’impunibilità di tale pratica purché non vi siano «motivi egoistici» da parte di chi assiste il candidato suicida, come sancisce l’articolo 115 del Codice penale. Il canton Zurigo e la stessa Confederazione hanno tollerato la presenza di organizzazioni come Dignitas o Exit, ma ora si trovano a dover fare i conti con una situazione fuori controllo. Vengono prodotti con regolarità atti parlamentari sul tema, ma la soluzione appare lontana: è possibile legiferare senza, di fatto, legittimare l’operato di tali organizzazioni?
Federica Mauri Luzzi

FRANCIA - UN NO CHIARO, MA ANCHE EPISODI ESTREMI
Il suicidio assistito non è ammesso in nessun caso dalla legge francese e negli ultimi anni le istituzioni di garanzia del mondo sanitario hanno ricordato al corpo medico i propri obblighi deontologici. Il codice penale prevede una serie di reati specifici, fra cui quello di « somministrazione di sostanze tossiche » . Un profondo dibattito è stato sollevato da due destini estremamente angoscianti di malati: il “caso Humbert” e il “caso Sébire”. Dopo il primo episodio, quello di una madre che ha staccato la spina al proprio figlio tetraplegico, il Parlamento ha fatto chiarezza votando una « legge sulla fine della vita » . Il testo prevede una netta distinzione fra il divieto assoluto del « far morire » ( suicidio assistito e ogni forma attiva di eutanasia) e una regolamentazione molto stringente di casi in cui, per evitare l’accanimento terapeutico, diventa legittimo il « lasciar morire » . Votata da quasi tutto l’arco parlamentare, la legge ha indebolito gli argomenti dell’agguerrito fronte che chiede il suicidio assistito. Ma quest’ultimo non s’arrende e pubblicizza storie di francesi recatisi in Svizzera in ragione della legislazione elvetica « liberale » .
Daniele Zappalà

BELGIO - INTRODUZIONE NEL 2002, SI VUOLE ACCELERARE
In Belgio l’eutanasia è diventata legale nel 2002. Da quel momento si sono succeduti continui tentativi per allargarne i criteri di applicabilità. Già nel 2005 in farmacia si poteva acquistare il kit per l’eutanasia. A metà del 2008 è iniziato il dibattito sulla possibilità di estendere le pratiche eutanasiche, con la proposta che per coloro che a causa di danni cerebrali avessero perso la capacità di esprimersi, fossero ritenute valide le dichiarazioni anticipate di volontà. Anche i minori finirono al centro del dibattito: partendo da uno studio pubblicato sulla rivista «Lancet» nel 2000, secondo il quale nelle Fiandre più della metà delle morti neonatali è da ricondurre ad interventi diretti dei medici, i sostenitori dell’eutanasia si dissero convinti che si doveva rendere legale ciò che di fatto era già praticato.
Successivamente fu preso un provvedimento per facilitare la richiesta di eutanasia, grazie al quale è possibile recarsi nel proprio Comune per depositare le dichiarazioni anticipate di volontà. Tutto così facile in Belgio che Amelie, 93 anni, nell’aprile scorso ha chiesto ed ottenuto il suicidio assistito nonostante godesse di buona salute.
Lorenzo Schoepflin

SPAGNA - L’ANDALUSIA AUTONOMA FA DA APRIPISTA
Il dibattito in Spagna è caldo da anni ( ne è prova il noto caso di Ramon Sampedro, che ispirò il film « Mar Adentro » del regista Alejandro Amenabar). Ma il primo passo concreto – sul piano legale – l’ha fatto l’Andalusia. Lo scorso giugno il governo della comunità autonoma meridionale ha approvato e inviato al Parlamento regionale il progetto della « Legge sui diritti e garanzie della dignità delle persone nel processo di morte » . Secondo l’esecutivo andaluso, il testo esclude l’eutanasia diretta e il suicidio assistito, figure che in Spagna sono tipizzate nel Codice penale.
Quello che la norma andalusa consentirà – se approvata – sarà il rifiuto di un trattamento medico ( dai farmaci al respiratore artificiale) e dell’accanimento terapeutico. Nel testo si tratta anche di cure palliative, sedazione e dichiarazione anticipata di volontà. La questione è aperta, ma se il Parlamento approvasse la legge è probabile che altre regioni ( o lo Stato) seguirebbero l’esempio. I timori di parte degli esperti sono chiari: leggi ambigue aprirebbero le porte alla regolarizzazione dell’eutanasia.
Michela Coricelli

OLANDA - LA «PIONIERA» CHE NON RISPARMIA I BAMBINI
L’Olanda è stata l’apripista per l’eutanasia in Europa, con l’approvazione della legge avvenuta nell’aprile 2002. La legge prevede che la scelta del paziente, «volontaria» e «ben meditata», sia redatta in forma scritta. Negli anni il dibattito non si è sopito e l’eutanasia ha progressivamente allargato le sue maglie. È del 2005 la pubblicazione sul «New England Journal of Medecine» del «Protocollo di Groeningen» elaborato dal dottor Eduard Verhagen per codificare le procedure di eutanasia su minori e in particolare su neonati in grave stato di sofferenza. Nel Protocollo veniva introdotto il concetto di «qualità della vita», in base al quale si catalogavano i bambini, decidendone le sorti. Alla tendenza a estendere i criteri di applicabilità dell’eutanasia corrisponde un numero sempre crescente di richieste: è del giugno scorso un rapporto delle Commissioni regionali che certifica l’aumento delle richieste nel 2008 pari al 10% rispetto al 2007. E non mancano gli abusi: risale a giugno l’arresto del presidente di una associazione pro-eutanasia: ha collaborato al suicidio assistito di una malata di Parkinson alla quale ero stato rifiutato poiché non si erano riscontrate sofferenze insopportabili.
(P.M.Al.-L.Sch.)

GERMANIA - TESTAMENTO BIOLOGICO VINCOLANTE PER I MEDICI
Durante il nazismo più di 70.000 persone in Germania furono vittime del programma Aktion T4, che impose un’eutanasia di massa a persone con disabilità fisiche e mentali. Dopo la caduta del regime nazista qualunque forma di eutanasia venne considerata illegale; negli ultimi anni, tuttavia, si è aperto un dibattito sulla questione soprattutto da quando è diventata legale nella vicina Olanda. Lo scorso anno provocò proteste l’iniziativa dell’ex ministro della Giustizia di Amburgo, Roger Kusch, che presentò la sua 'macchina per il suicidio legale'. Il 18 giugno il Bundestag ha approvato un disegno di legge in base al quale la Patientenverfügung (testamento biologico) sarà vincolante per i medici. Il volere del paziente avrà così la priorità e i medici dovranno rispettarlo indipendentemente dal tipo e dalla gravità della malattia. Ciò significa che il biotestamento dovrà essere rispettato anche se la malattia non sarà di tipo mortale. Soltanto nel caso in cui il paziente non avrà sottoscritto il testamento biologico o questo non corrisponderà più al quadro clinico, la decisione sull’eventuale interruzione delle cure e dell’alimentazione spetterà al medico o alla persona designata come responsabile per il malato. In caso di conflitto, la parola passerà al tribunale. Il codice civile prevede che ogni persona in grado di decidere autonomamente abbia il diritto di rifiutare medicinali o qualunque terapia che lo aiuti a tenerlo in vita.
Vincenzo Savignano

LUSSEMBURGO - « ESAUTORATO » IL GRANDUCA PER AVERE IL SÌ
È il febbraio del 2008 quando in Lussemburgo viene adottato in prima lettura alla Camera il “Progetto di legge sul diritto a morire con dignità”. Nel testo vengono fornite le definizioni di eutanasia e suicidio assistito e si precisano le condizioni per le quali un medico non commette reato nell’eseguire le volontà del paziente. La richiesta di morire deve essere effettuata da un maggiorenne o « minorenne emancipato » , pienamente consapevole e libero da pressioni esterne. Nella legge si affronta anche l’argomento del « testamento di vita » , col quale una persona può chiedere che un medico di fiducia possa praticare l’eutanasia una volta accertata una sopravvenuta situazione di salute « grave e incurabile » . La legge, prima di essere approvata il 18 dicembre 2008, trovò un inatteso ostacolo nell’opposizione del Granduca Henri di Nassau­Weilburg, che si rifiutò di firmarla per la ferma volontà di tutelare la vita umana. Il Granduca fu privato dei suoi poteri grazie ad una legge voluta dal governo del cristiano sociale Juncker e votata a larga maggioranza. Per la sua fiera opposizione il Granduca ha ricevuto in Vaticano il premio Van Thuan.
( L. Sch.)

lunedì 28 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa affida la Repubblica Ceca e la sua Chiesa a Maria - Intervento in occasione dell'Angelus
2) Omelia di Benedetto XVI nella Messa a Brno
3) IDEOLOGIA/ Lo sapevate? Un vero matematico non può essere credente. L’attacco di Odifreddi a Israel - Renato Farina lunedì 28 settembre 2009 – ilsussidiario.net
4) CHARLES TAYLOR/ Perché gli uomini non si chiedono più il senso della vita? Angelo Campodonico lunedì 28 settembre 2009 – Ilsussidiario.net


Il Papa affida la Repubblica Ceca e la sua Chiesa a Maria - Intervento in occasione dell'Angelus
BRNO, domenica, 27 settembre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI recitando insieme ai fedeli la preghiera mariana dell'Angelus al termine della Santa Messa nella spianata accanto all'Aeroporto di Brno.
* * *

Cari fratelli e sorelle!
Siamo giunti al termine di questa solenne Celebrazione e l'ora del mezzogiorno ci invita alla preghiera dell'Angelus. Sono lieto di recitarla qui, nel cuore della Moravia, regione fraternamente unita alla Boemia, terra segnata da molti secoli di fede cristiana, che richiama all'origine la coraggiosa missione dei santi Cirillo e Metodio.

Quando, venti anni or sono, Giovanni Paolo II decise di visitare l'Europa centrale ed orientale dopo la caduta del totalitarismo comunista, volle cominciare il suo viaggio pastorale da Velehrad, centro dei famosi Congressi unionistici precursori dell'ecumenismo tra i popoli slavi, e conosciuto in tutto il mondo cristiano. Voi ricordate inoltre un'altra sua visita, quella del 1995 a Svatý Kopeček, presso Olomouc, con l'indimenticabile incontro con i giovani. Vorrei idealmente riprendere l'insegnamento di questo mio venerato Predecessore e invitarvi a mantenervi fedeli alla vostra vocazione cristiana e al Vangelo per costruire insieme un avvenire di solidarietà e di pace.

La Moravia è terra ricca di santuari mariani, che folle di pellegrini visitano durante tutto l'anno. In questo momento vorrei recarmi in ideale pellegrinaggio presso la montagna boscosa di Hostýn, dove venerate la Madonna come vostra Protettrice. Maria tenga desta la fede di tutti voi, la fede alimentata anche da numerose tradizioni popolari che affondano le loro radici nel passato, ma che giustamente voi avete cura di conservare perché non venga meno il calore della convivenza familiare nei villaggi e nelle città. A volte si constata, con una certa nostalgia, che il ritmo della vita moderna tende a cancellare alcune tracce di un passato ricco di fede. E' importante invece non perdere di vista l'ideale che le usanze tradizionali esprimevano, e soprattutto va mantenuto il patrimonio spirituale ereditato dai vostri antenati, per custodirlo ed anzi renderlo rispondente alle esigenze dei tempi presenti. Vi aiuti in questo la Vergine Maria, alla quale rinnovo l'affidamento della vostra Chiesa e dell'intera Nazione ceca.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Omelia di Benedetto XVI nella Messa a Brno
BRNO, domenica, 27 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica mattina presiedendo la Santa Messa nella città di Brno.

* * *
Milí bratři a sestry!

„Pojďte ke mně, všichni, kdo se lopotíte a jste obtíženi, a já vás občerstvím" (Mt 11,28). Ježíš zve každého svého učedníka, aby s ním zůstal, aby v něm našel posilu, oporu a útěchu.

[Cari fratelli e sorelle!
"Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro" (Mt 11,28). Gesù invita ogni suo discepolo a sostare con Lui, a trovare in Lui conforto, sostegno e ristoro.]

L'invito lo rivolge in particolare alla nostra Assemblea liturgica, che vede raccolta idealmente, con il Successore di Pietro, l'intera vostra Comunità ecclesiale. A tutti e a ciascuno va il mio saluto: in primo luogo al Vescovo di Brno - al quale sono grato anche per le cordiali parole che mi ha rivolto all'inizio della Messa - ai Signori Cardinali e agli altri Vescovi presenti. Saluto i sacerdoti, i diaconi, i seminaristi, i religiosi e le religiose, i catechisti e gli operatori pastorali, i giovani e le numerose famiglie. Rivolgo un deferente pensiero alle Autorità civili e militari, in modo speciale al Presidente della Repubblica con la gentile consorte, al Sindaco della Città di Brno e al Presidente della Regione della Moravia del Sud, terra ricca di storia, di attività culturali, di industrie e di commercio. Vorrei inoltre salutare con affetto i pellegrini provenienti da tutta la regione della Moravia e dalle diocesi della Slovacchia, della Polonia, dell'Austria e della Germania.

Cari amici, per il carattere che riveste l'odierna Assemblea liturgica, ho condiviso volentieri la scelta, a cui ha accennato il vostro Vescovo, di intonare le letture bibliche della Santa Messa al tema della speranza: l'ho condivisa pensando sia al popolo di questo caro Paese, sia all'Europa e all'umanità intera, che è assetata di qualcosa su cui poggiare saldamente il proprio avvenire. Nella mia seconda Enciclica - la Spe salvi -, ho sottolineato che l'unica speranza "certa" e "affidabile" (cfr n. 1) si fonda su Dio. L'esperienza della storia mostra a quali assurdità giunge l'uomo quando esclude Dio dall'orizzonte delle sue scelte e delle sue azioni, e come non è facile costruire una società ispirata ai valori del bene, della giustizia e della fraternità, perché l'essere umano è libero e la sua libertà permane fragile. La libertà va allora costantemente riconquistata per il bene e la non facile ricerca dei "retti ordinamenti per le cose umane" è un compito che appartiene a tutte le generazioni (cfr ibid., 24-25). Ecco perché, cari amici, noi siamo qui prima di tutto in ascolto, in ascolto di una parola che ci indichi la strada che conduce alla speranza; anzi, siamo in ascolto della Parola che sola può darci speranza solida, perché è Parola di Dio.

Nella prima Lettura (Is 61,1-3a), il Profeta si presenta investito della missione di annunciare a tutti gli afflitti e i poveri la liberazione, la consolazione, la gioia. Questo testo Gesù l'ha ripreso e l'ha fatto proprio nella sua predicazione. Anzi, ha detto esplicitamente che la promessa del profeta si è compiuta in Lui (cfr Lc 4,16-21). Si è completamente realizzata quando, morendo in croce e risorgendo da morte, ci ha liberati dalla schiavitù dell'egoismo e del male, del peccato e della morte. E questo è l'annuncio di salvezza, antico e sempre nuovo, che la Chiesa proclama di generazione in generazione: Cristo crocifisso e risorto, Speranza dell'umanità!

Questa parola di salvezza risuona con forza anche oggi, nella nostra Assemblea liturgica. Gesù si rivolge con amore a voi, figli e figlie di questa terra benedetta, nella quale è stato sparso da oltre un millennio il seme del Vangelo. Il vostro Paese, come altre nazioni, sta vivendo una condizione culturale che rappresenta spesso una sfida radicale per la fede e, quindi, anche per la speranza. In effetti, sia la fede che la speranza, nell'epoca moderna, hanno subito come uno "spostamento", perché sono state relegate sul piano privato e ultraterreno, mentre nella vita concreta e pubblica si è affermata la fiducia nel progresso scientifico ed economico (cfr Spe salvi, 17). Conosciamo tutti che questo progresso è ambiguo: apre possibilità di bene insieme a prospettive negative. Gli sviluppi tecnici ed il miglioramento delle strutture sociali sono importanti e certamente necessari, ma non bastano a garantire il benessere morale della società (cfr ibid., 24). L'uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. E chi può salvarlo se non Dio, che è Amore e ha rivelato il suo volto di Padre onnipotente e misericordioso in Gesù Cristo? La nostra salda speranza è dunque Cristo: in Lui, Dio ci ha amato fino all'estremo e ci ha dato la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), quella vita che ogni persona, talora persino inconsapevolmente, anela a possedere.

"Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro". Queste parole di Gesù, scritte a grandi lettere sopra la porta della vostra Cattedrale di Brno, Egli le indirizza ora a ciascuno di noi ed aggiunge: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita" (Mt 11,29-30). Possiamo restare indifferenti dinanzi al suo amore? Qui, come altrove, nei secoli passati tanti hanno sofferto per mantenersi fedeli al Vangelo e non hanno perso la speranza; tanti si sono sacrificati per ridare dignità all'uomo e libertà ai popoli, trovando nell'adesione generosa a Cristo la forza per costruire una nuova umanità. E pure nell'attuale società, dove tante forme di povertà nascono dall'isolamento, dal non essere amati, dal rifiuto di Dio e da un'originaria tragica chiusura dell'uomo che pensa di poter bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero; in questo nostro mondo che è alienato "quando si affida a progetti solo umani" (cfr Caritas in veritate, 53), solo Cristo può essere la nostra certa speranza. Questo è l'annuncio che noi cristiani siamo chiamati a diffondere ogni giorno, con la nostra testimonianza.

Annunciatelo voi, cari sacerdoti, restando intimamente uniti a Gesù ed esercitando con entusiasmo il vostro ministero, certi che nulla può mancare a chi si fida di Lui. Testimoniate Cristo voi, cari religiosi e religiose, con la gioiosa e coerente pratica dei consigli evangelici, indicando quale è la nostra vera patria: il Cielo. E voi, cari fedeli laici giovani ed adulti, voi, care famiglie, poggiate sulla fede in Cristo i vostri progetti familiari, di lavoro, della scuola, e le attività di ogni ambito della società. Gesù mai abbandona i suoi amici. Egli assicura il suo aiuto, perché nulla è possibile fare senza di Lui, ma, al tempo stesso, chiede ad ognuno di impegnarsi personalmente per diffondere il suo universale messaggio di amore e di pace. Vi sia di incoraggiamento l'esempio dei santi Cirillo e Metodio, Patroni principali della Moravia, che hanno evangelizzato i popoli slavi, e dei santi Pietro e Paolo, ai quali è dedicata la vostra Cattedrale. Guardate alla testimonianza luminosa di santa Zdislava, madre di famiglia, ricca di opere di religione e di misericordia; di san Giovanni Sarkander, sacerdote e martire; di san Clemente Maria Hofbauer, sacerdote e religioso, nato in questa Diocesi, e canonizzato 100 anni fa e della beata Restituta Kafkova, religiosa nata a Brno e uccisa dai nazisti a Vienna. Vi accompagni e protegga la Madonna, Madre di Cristo, nostra Speranza. Amen!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


IDEOLOGIA/ Lo sapevate? Un vero matematico non può essere credente. L’attacco di Odifreddi a Israel - Renato Farina lunedì 28 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Possibile che un uomo astuto come Piergiorgio Odifreddi, rotto a tutte le matematiche del successo, inciampi così rovinosamente in un caso palese di odio personale, ma in fondo anche mistico, anche – Dio ci scusi – di razzismo religioso. Non scrivo antisemita perché poi mi fulminano, ma il sospetto ce l’ho…
Il fatto è questo. Anzi l’antefatto. Il professor Giorgio Israel, insigne matematico, nonché collaboratore del ministro Mariastella Gelmini, viene accusato in maniera ignobile e anonima, proprio per il contributo dato alla riforma delle scuole superiori. Il nome non inganna: Israel è ebreo, e per di più non è di sinistra, dà una mano (istituzionalmente) al governo Berlusconi.
Bersaglio perfetto delle classiche accuse sugli ebrei da far fuori. Sui blog viene anonimamente preso di mira con queste parole studiatamente infami: “Dicono sia lui il vero autore della riforma Gelmini. Non ti è venuto il prurito a leggerne il cognome?”. E via così. A questo punto Odifreddi interviene a difendere il matematico, docente alla Sapienza, solidarizza contro questo assalto antisemita.
Si capisce però che la cosa non gli va, gli sta qui. Israel porta questo nome con cognizione di fede, non se lo trascina come un attributo secondario, è la sua essenza di uomo.
Odifreddi al contrario è un militante dell’ateismo. Ce l’ha a morte con la Bibbia (in particolare con il cattolicesimo, ma anche con Abramo e i suoi primi seguaci nonché fratelli maggiori dei cristiani, non scherza). Ed allora esplode.
Lui è disponibile a dare solidarietà, a piegarsi un attimo dal pulpito della sua pretesa superiorità intellettuale e morale, dando solidarietà a un perseguitato per antisemitismo.
Ma essere messo a pari con lui, lui che è ateo, lui che è di sinistra, con un credente ebreo di destra, proprio no. Così quando Israel viene premiato a Torino, la citta di Odifreddi (sacrilegio!) con lo stesso premio per la matematica assegnato nel 2002 all’Ateo Supremo, esplode: scoppia proprio come un petardo.
Restituisce il premio Peano – che nessuno sapeva cosa fosse al di fuori di chi maneggia numeri in università – fa sapere di averlo vinto lui, ma di restituirlo visto che viene ora attribuito a «un fondamentalista». Fondamentalista, nel linguaggio di Odifreddi, non significa uno che abbandona la ragione per appoggiarsi a credenze da propagandare e imporre con la violenza.
No, per Odifreddi fondamentalista è chi usa la ragione in alleanza con la fede. Questo è insopportabile. Se uno credesse in privato e appoggiandosi al sentimento, sarebbe graditissimo a Odifreddi. I nemici degli atei non sono i credenti nel privato delle stanze, ma chi onora la ragione credendo.
Per questo Odifreddi ha – come si dice – sbroccato, o più semplicemente ha applicato a se stesso la regola fisica che nulla si crea e nulla si distrugge in natura: un pirla resta un pirla (sia detto in senso etimologico: vuol dire trottola).
P.S. Arrivi da parte mia un cordiale saluto e un forte abbraccio a Giorgio Israel. Senza se e senza ma, testimone della rettitudine e della potenza spirituale degli uomini razionali.


CHARLES TAYLOR/ Perché gli uomini non si chiedono più il senso della vita? Angelo Campodonico lunedì 28 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Da pochissimi mesi è stata pubblicata in lingua italiana la traduzione dell’ultimo volume del noto filosofo canadese Charles Taylor che raccoglie le sue Gifford lectures (L’età secolare). Dal momento che il volume conta più di mille pagine e che anche solo per questa ragione non molti lo leggeranno per intero, è utile recensirlo. Occorre notare, tuttavia, che chi avesse la pazienza di affrontare l’opera ne trarrebbe giovamento e si risparmierebbe forse la lettura di molti altri volumi sull’argomento. Anche chi non la condividesse si troverebbe a riconoscere che essa solleva problemi reali e ineludibili.

La domanda cui Taylor cerca di rispondere in questo volume è per tutti, credenti o meno, di estrema attualità: per quale motivo chi fosse nato nel Cinquecento o prima avrebbe aderito pacificamente nella sua vita ad una determinata religione e invece oggi, se vuole rispondere alla domanda di senso della vita, si trova di fronte ad una molteplicità di scelte esistenziali religiose o meno? La stessa formulazione “domanda di senso della vita” – nota l’autore - è esito della modernità. Che cosa è accaduto in Occidente perché si determinasse una situazione di questo tipo che Taylor identifica con la secolarizzazione della società e della cultura? Charles Taylor, che non fa mistero della sua fede cristiana, cerca di rispondere facendo rivivere al lettore la plausibilità delle diverse alternative esistenziali che tutti oggi possono ritrovare in se stessi e che hanno la loro origine in un passato più o meno remoto.

L’autore parte da lontano. Nelle culture primitive - ma la cosa vale in Occidente fino alla prima età moderna e per molti uomini fino ad epoche assai più vicine a noi - l’individuo umano è un individuo “poroso”, in continua relazione con la natura e gli altri uomini. L’universo parla all’uomo immediatamente del divino attraverso i simboli. Religione e società si sostengono a vicenda secondo un’interpretazione che Taylor fa risalire al sociologo Durkheim. Ma che cosa è successo in Occidente più o meno a partire dal Cinquecento? Dall’individuo “poroso” si è gradualmente passati all’individuo moderno, “schermato” di fronte alla realtà e agli altri: l’individuo che si difende di fronte alla realtà e agli altri, che oggettiva, guarda con distacco, privilegia anche in religione la dimensione impersonale rispetto a quella personale, scinde la razionalità dall’affettività ecc. Molti fattori hanno contribuito a ciò. In particolare: la nuova scienza “oggettivante” e le guerre “di religione” che hanno costretto a cercare nuove ragioni di unità fra gli uomini. Questo passaggio non ha assunto subito un carattere antireligioso. Anzi. Anche la modernità è frutto del Cristianesimo. Essa è nata in maniera rilevante all’interno del cristianesimo riformato e, in parte, anche cattolico, da un’esigenza di pienezza, di ascesi, di purificazione e di personalizzazione della fede e di nuovo e più autentico universalismo anche se poi a partire dall’illuminismo questa centratura dell’individuo su di sé ha gradualmente assunto per una sorta di “astuzia della ragione” un carattere antropocentrico e anticristiano.

Il processo di secolarizzazione proprio della modernità non si spiega come vorrebbero alcune interpretazioni tradizionali anche cattoliche, solo “per sottrazione”, cioè per il venir meno di certi aspetti che prima erano presenti: l’universo simbolico, la società gerarchizzata ecc. Esso è esito, secondo Taylor, anche di una proposta positiva, di un’esigenza di pienezza, di autenticità (di essere veramente se stessi), di poter scegliere in prima persona, di affermare l’uguaglianza fra gli uomini, esigenza impensabile senza il cristianesimo, che culmina anche nell’umanesimo esclusivo e anticristiano. Non solo: nella modernità si attua anche spesso una nuova alleanza fra religione e società. Si tratta di un “nuovo durkheimianesimo”. Pensiamo all’identità degli Stati Uniti d’America (“God save America”- “In God we trust”), ma non solo a questa.

Ma la modernità dell’individuo “schermato” nelle sue varie versioni determina nell’Ottocento e Novecento forti reazioni di rigetto: si tratta di quello che Taylor chiama “effetto nova”. Pensiamo alla riscoperta di dimensioni irrazionali nell’uomo da parte di Nietzsche e di Freud e in genere alla critica rivolta alla morale borghese. In questo rigetto anche il cristianesimo, nella misura in cui è alleato della modernità razionalistica e spassionata, ne fa le spese: bisogna guardare in faccia il non senso della realtà e non illudersi con la religione. Per di più dopo l’undici settembre anche la religione appare nuovamente una possibile fonte di violenza. La situazione attuale, secondo Taylor, è variegata e investe parimenti cristiani e non. I problemi dei cristiani sono anche i problemi degli altri. Da un lato si percepisce un’esigenza di ricuperare un senso della vita: l’umanesimo esclusivo chiuso al trascendente non basta più all’uomo. Per di più esso e non solo le religioni storiche ha prodotto violenza, come mostra la storia dei totalitarismi del Novecento. D’altro lato molti in Occidente non sono incoraggiati ad aderire al Cristianesimo, perché si teme che la religione sia irrimediabilmente superata dalla scienza in base ad una lettura a senso unico della storia della modernità. Ma quella scientista e materialista - nota Taylor - non è un’opzione scientifica, bensì filosofica, nutrita di una prospettiva morale secondo cui è eticamente più nobile non illudersi e guardare in faccia il nudo non senso, sostituendo ad una visione personalistica, che sarebbe proiezione delle esigenze del soggetto, una impersonalistica “più oggettiva”. L’uomo occidentale, quindi, non sceglie più necessariamente per le religioni costituite, né per le religioni “tout court” o preferisce spesso un’adesione generica al cristianesimo e una religione “fai da te”, soffermandosi in uno spazio neutrale di “non scelta”. Taylor ha il merito di presentare una visione non semplicistica e a senso unico della modernità (come “progresso” oppure come “regresso”), ma forse nel suo volonteroso irenismo trascura il fatto che ci può essere anche nel filone antropocentrico della ricerca moderna di pienezza qualcosa che non si può leggere solo come una nuova espressione della dimensione di apertura al trascendente, ma anche come volutamente antireligioso e addirittura demoniaco. Per Taylor la nostra epoca nella sua ambivalenza può essere un’occasione per la fede cristiana. Egli afferma che non sono esistite e non esistono epoche privilegiate per la fede e sembra suggerire che non basta certo per aderire ad essa la ragionevolezza di un’argomentazione cogente se non si fa esperienza di un avvenimento e di una bellezza che convincano. Di qui il suo interesse per quei cristiani della modernità che hanno saputo parlare all’uomo d’oggi senza moralismi e senza auspicare ritorni al passato: soprattutto poeti come Péguy e Hopkins.


domenica 27 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
2) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
3) Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
4) Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
5) Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009
6) Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
7) Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
8) Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
9) Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]
10) L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
11) A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009


Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.

Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…

Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…

In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.

E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.

La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…

Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.

E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.

Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.

Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…

Una mail che ho ricevuto dice:

“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.

Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.


Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.

Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…

Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…

In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.

E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.

La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…

Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.

E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.

Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.

Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…

Una mail che ho ricevuto dice:

“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.

Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.

Fra le migliaia (letteralmente) di mail che mi arrivano e a cui tento di rispondere come posso, ne trascrivo una, di una mamma, che dice tutte queste cose:

Cara famiglia che stai soffrendo in un modo tanto simile alla mia, nelle due settimane di coma profondo della mia piccola Elena, una città intera ha pregato per lei. Amici e conoscenti, miscredenti e persone lontane da Dio si sono inginocchiate nelle tante veglie notturne organizzate per la mia piccina. Hanno strappato a Dio una promessa che ora si sta compiendo.

Noi, in sala rianimazione, abbiamo sollecitato continuamente Elena pregando su di lei a voce alta, cantando i canti della messa domenicale che lei, anche se piccolissima, aveva ascoltato, facendole ascoltare tanto Mozart.

Un cervello che dorme va risvegliato! Le ho raccontato tutto quello che avevamo fatto insieme e le ho descritto tutte le cose belle che avremmo fatto ancora e tutte le meraviglie del creato che avrebbero visto i suoi occhi una volta guarita.

Si é svegliata. A dispetto delle sue condizioni definite gravissime. Il Signore ci ascolta. Anche Caterina vi sta sentendo come la mia piccolina. Anche la miocardiopatia dilatativa gravissima, di origine non virale e ancora oggi inspiegabile, si è risolta e il cuoricino di Elena batte senza bisogno di aiuto.

Coraggio, non pensate al domani, vivete giorno per giorno la vostra battaglia e il Signore vi darà forza e pace proprio come a noi.

Continuiamo a pregare per Caterina.

Alessandra.

Queste sono le bellissime testimonianze che mi state dando e che trascrivo qui perché penso possano essere di aiuto per molti. Mentre vi abbraccio tutti ringraziandovi per tutto quello che fate.

Tanti sono rimasti commossi nell’ascoltare “Ojos de cielo” cantata da Caterina con il coro Foné, degli universitari di CL. Nei prossimi giorni cercherò di mettere qui nel blog altri loro canti. Spero che sentire la sua voce e quella dei suoi amici sia un piccolo ringraziamento per le vostre preghiere e le vostre offerte di digiuni. Ma sono certo che la più grande ricompensa vi arriverà dal Cielo…

Antonio Socci




Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
"La carità nella verità di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita e, soprattutto con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera"

L’incipit dell’Enciclica ne è la fondamentale chiave interpretativa. Il mio compito questa sera è di aiutarvi a leggerla con questa chiave interpretativa; non di sostituirmi alla sua lettura attenta.

1. A modo di premessa al mio discorso parto da una domanda: di chi, di che cosa parla l’Enciclica? E quindi a chi si rivolge?

Per rispondere parto da due testi singolarmente sintonici: uno di G. Leopardi, e uno di S. Ambrogio.

Il testo leopardiano è desunto da una Operetta morale, Dialogo di un fisico e di un metafisico. In esso il grande poeta immagina che un fisico [oggi potremmo dire un biologo, un economista] abbia finalmente scoperto la modalità per tutti di vivere lungamente: di questa scoperta si mostra molto fiero. Il metafisico [oggi diremmo: uno che non si accontenta di usare la sua ragione in modo limitato] gli risponde di secretare subito la scoperta, fino a "quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente". E aggiunge: "se la vita non è felice …… meglio ci torna averla breve che lunga" dal momento che "la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio".

Questa ultima affermazione sembra risuonare e quasi ripetere una pagina di S. Ambrogio, citata da Benedetto XVI nell’Enc. Spe salvi [Cf. n. 10]. Dice dunque il grande Vescovo di Milano: "A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia".

I due testi narrano una quotidiana esperienza di ogni uomo: questi non desidera, non vuole semplicemente vivere: desidera, vuole vivere bene; vivere una buona vita.

Faccio una breve parentesi. In realtà l’Enciclica non usa questa terminologia. Parla di "vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera". Le due parole – "buona/vera vita – vero sviluppo" - denotano la stessa realtà. La seconda ha il vantaggio di sottolineare una proprietà essenziale della persona vivente: il suo sviluppo; il suo dinamismo intrinseco.

E’ dunque in questo contesto che l’Enciclica afferma che la "forza propulsiva" che sviluppa e la persona e la società; la "forza propulsiva" che fa vivere e alla persona e alla società una buona, una vera vita: che dà origine ad una buona vita ed a una buona società, è la carità nella verità. La qualità della vita personale e la qualità della vita associata dipende dalla messa in atto della "carità nella verità".

Abbiamo trovato la risposta alle due domande da cui siamo partiti. Prima domanda: di che cosa parla l’Enciclica? Parla di come e spiega perché la "carità nella verità" "produca" una buona vita associata [= produca il vero sviluppo]. Seconda domanda: a chi si rivolge l’Enciclica? Ad ogni uomo di buona volontà, cioè a chi vuole vivere una vita associata buona, e quindi "amare nella verità".

Ne deriva che la comprensione di ciò che significa "carità nella verità" o "amore nella verità" è la conditio sine qua non per comprendere il testo pontificio.

Nel secondo punto della mia riflessione cercherò di darvi un aiuto in questo senso. Prima però devo fare alcune considerazioni preliminari, molto semplici.

L’Enciclica non parla genericamente di "vita umana", ma di "vita umana associata": più semplicemente, di società umana. E’ quindi un discorso di dottrina della società, di dottrina sociale. Intendendo tutte le espressioni della socialità umana [escluse matrimonio e famiglia]: le società economiche, la società politica, la società internazionale. Per usare un’espressione molto cara al Magistero della Chiesa: parla della famiglia umana.

L’Enciclica quindi intende insegnare perché e come la carità nella verità è la principale forza costruttiva di una buona vita associata. Per usare l’espressione pontificia: l’Enciclica tratta della caritas in veritate in re sociali. E’ di questo che parla.

L’Enciclica fa perciò un’affermazione di grande importanza epistemica all’interno dell’enciclopedia del sapere teologico. La Dottrina sociale della Chiesa è la caritas in veritate - in re sociali – in quanto essa [la caritas in veritate] diventa dottrina, cioè pensiero sociale, economico, politico,……….. ma di questo non è il caso ora di parlare. Dico solo: che è un’affermazione di grande importanza.

2. In questo secondo punto vorrei aiutarvi a capire che cosa significa nell’Enciclica "caritas in veritate".

Quando la Dottrina sociale parla della carità, parla di una elevazione, di una capacitazione della nostra volontà che la rende capace di amare, cioè di volere il bene dell’altro nel modo con cui Dio stesso ha voluto e vuole in Cristo il bene dell’uomo. La carità è la forza divina creatrice e redentiva dell’uomo, che viene comunicata all’uomo che crede.

Proviamo ora a rispondere alla seguente domanda: che cosa produce, cementa e solidifica i rapporti sociali? Non possiamo ora dare una risposta molto articolata. Semplificando un poco, possiamo dire che noi rispondiamo a questa domanda a seconda che riteniamo o no che la persona umana sia originariamente, per natura sociale, oppure che ciascuno sia per natura un individuo isolato.

Partiamo da questa seconda ipotesi. Se ciascuno di noi è per natura un individuo a se stante, ciò che spinge ciascuno ad entrare in società con l’altro è l’utilità che può venirgli dal rapporto sociale. La società quindi si costruisce sulla base dello scambio di equivalenti. È in sostanza la contrattazione fra individui separati originariamente, che sono alla ricerca del proprio bene individuale in con-correnza con gli altri individui. Possiamo dire che "la principale forza propulsiva" di una società così pensata sia la carità? Non sembra. La principale forza propulsiva è che ……. alla fine i conti tornino: che cioè il "peso del vivere associato" sia almeno equivalentemente ricompensato dai vantaggi.

Se, al contrario, parto dalla certezza, generata dall’esperienza, che la persona umana è originariamente, per natura, relazionata ad ogni altra persona umana; che ogni uomo è il prossimo di ogni uomo, la società è edificata da relazioni istituite per il bene umano comune. Ritorneremo su questo concetto centrale nella Enciclica.

La forza propulsiva che produce, aumenta e solidifica i rapporto sociali non è principalmente la ricerca del mio bene a prescindere dal, o contro il tuo bene. È la ricerca del bene che è mio e tuo perché è il bene umano comune. Questa forza è la carità. L’Enciclica quindi dice che essa "è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, famigliari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici" [2,1].

Il primo modello di società mira a creare una società di uguali; il secondo, una società di fratelli. Si può essere uguali senza essere fratelli; non si può essere fratelli se non si è uguali nella diversità e diversi nell’uguaglianza.

La "cifra" del primo modello è lo scambio di equivalenti, e quindi l’assenza della gratuità; la cifra del secondo, è il principio di gratuità [Cf. 34,2].

Tutto questo non deve mai farci dimenticare che esiste ed opera dentro alla società umana una forza disgregatrice, "conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tener presente il peccato originale anche nell’interpretazione di fatti sociali e della costruzione della società" [34,1].

L’Enciclica però non dice semplicemente che la carità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. Ma insegna che tale è la carità nella verità. E’ il punto centrale del documento pontificio. Che cosa significa?

Potrei rispondere molto semplicemente e molto brevemente: significa che la carità non radicata nella verità "diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente" [3]; significa che la carità "va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità" [2,2].

Ma per capire e capirci, di quale verità si parla? Insomma di che cosa parliamo quando in questo contesto parliamo di verità? Parliamo di ciò che è bene per l’uomo; di ciò che è bene per l’uomo in quanto esso – il bene dell’uomo e per l’uomo – è indicato, è suggerito dalle fondamentali esigenze della persona umana come tale.

Faccio qualche esempio. Se un uomo ha fame, non è difficile capire ciò che è bene per quell’uomo: mangiare. Non è difficile sapere che cosa è il bene di quell’uomo: il cibo in quantità sufficiente. Vedete? Alla domanda circa il bene dell’uomo ho risposto con certezza: è il cibo. Ho detto la verità circa il bene dell’uomo. Se di fronte ad un affamato, ritenessi che il suo bene fosse il vestito, e gli donassi un vestito, e non il cibo, non lo amerei in verità: non vorrei il suo bene. La "carità nella verità" significa volere il bene reale, vero dell’altro.

Ho fatto di proposito un esempio assai semplice. Ma le cose purtroppo non lo sono, o comunque non lo sono sempre così chiaramente. Per due motivi.

Il primo. I fenomeni, i fatti sociali sono complessi. L’Enciclica, per esempio, parlando del mercato scrive: "E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché questo sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso" [36,2].

Il mercato è un fatto sociale imprescindibile. L’Enciclica fa su di esso una riflessione cha da una parte non può dimenticare che "il mercato non esiste allo stato puro ….. (ma) trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano"; ma dall’altra parte, l’Enciclica afferma che o il mercato è ispirato, governato anche dal principio di gratuità o altrimenti va contro al bene dell’uomo.

Potete costatare che è messo in atto lo stesso uso della ragione. Quale è il bene per chi ha fame? Il cibo. Quale è il mercato che risponde alle esigenze dell’uomo? Quello in cui trova posto il principio di gratuità e la logica del dono. Se tu a chi ha fame doni un vestito, non lo ami in verità; se tu costruisci un mercato dal quale escludi per principio gratuità e dono, non ami l’uomo in verità: non favorisci il vero sviluppo.

Il secondo fatto che complica la questione. Oggi è comune il pensiero che non esista una verità universalmente condivisibile circa ciò che è bene / male per l’uomo, ma tutto dipende esclusivamente dal consenso sociale. Non si dice più: "questo è bene; questo è male"; ma si preferisce: "oggi si ritiene che questo sia bene, che questo sia male".

Spero di aver chiarito che cosa significa "nella verità". Se ci sono riuscito, non vi sarà difficile comprendere e sottoscrivere, alcune gravi affermazioni; e dedurre due conseguenze.

Gravi affermazioni. Il Papa dice: "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità" [3]. Alla fine, se la comunità cristiana si lascia assoggettare dalla tirannia del relativismo, essa riduce la sua forza più grande, la carità, ad un fatto marginale nella società, relegato in un ambito privato e ristretto.

La prima conseguenza. Se non esiste una verità circa ciò che è bene / male per l’uomo, la ricerca e lo sforzo per edificare una vita associata non può non diventare e continuare ad essere uno scontro per imporre i propri interessi. Dice il S. Padre: "Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali" [5,2; cf. anche 4].

La seconda conseguenza. Possiamo comprendere meglio che cosa è la Dottrina sociale della Chiesa, e quale è la sua funzione. Essa è costituita dal Magistero della Chiesa che insegna quali sono le esigenze vere della persona umana e della vita associata; che cosa è chiesto alla carità per volere e promuovere il vero bene della persona umana.

La Dottrina sociale non intende offrire soluzioni tecniche ai problemi sociali, né ancor meno programmi politici concorrenziali con altri programmi politici nella vita democratica della società politica. Si pone su un altro piano. Indica quella verità circa il bene da compiere per una società a misura della dignità dell’uomo. Potrei dire: la Dottrina sociale è "caritas quaerens intellectum"; è la carità che diventa pensiero.

Ecco ho spiegato – spero di esserci riuscito – quale è la "vera forza propulsiva per il vero sviluppo": la caritas in veritate.

3. Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.

Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro–domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?

Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua "filigrana teoretica". Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro–domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro– domanda.

Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità – l’essere in più figli degli stessi genitori – mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore – quello dei genitori, appunto – è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.

L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: "Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"" [29].

Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, "l’assolutismo della tecnicità".

Ho parlato recentemente di questo tema, e non è tempo di riprenderlo ora. Che cosa significa "assolutismo della tecnocrazia"? Una cosa molto semplice: se qualcosa è fattibile ed io desidero che si faccia, nessuno – almeno in linea di principio – deve impedirmi di averla e al tecnico di compiere, su richiesta, la prestazione. In breve: l’unica domanda sensata di fronte ad un possibile corso d’azione, è se essa è tecnicamente possibile. Ogni altra domanda – è bene? è male? promuove il bene comune? – non ha senso. Si legga il n. 68. Assolutismo tecnocratico significa far coincidere il vero col fattibile [Cf. 70].

Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.

4. Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?

Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.

L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio della fede mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.

Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra "destra" e "sinistra" correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di "destra" o "sinistra" che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.


Il Foglio 29-7-2009

Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.


Ebbene, chi ama la storia sa che quello che succede oggi in questi due grandi paesi, che insieme costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale, è sempre accaduto, in passato, anche nella vecchia Europa o nel nuovo Mondo. Sino all'avvento del cristianesimo.

Una delle idee che più ricorrono negli scritti dei primi cristiani, è infatti il loro desidero di ribadire sovente un concetto: noi cristiani siamo diversi dai pagani, anche perché non uccidiamo i nostri figli, né nel grembo delle nostre donne, né fuori.


Minucio Felice, un apologeta del II secolo, nel suo "Ottavio", al capitolo XXX, paragrafo 2, paragonando l'insegnamento di Cristo con quello degli dei pagani, scrive: "Voi esponete i vostri figli appena nati alle fiere e agli uccelli, o strangolandoli li sopprimete con misera morte; vi sono quelle che ingurgitando dei medicamenti soffocano ancora nelle proprie viscere il germe destinato a divenir creatura umana e commettono un infanticidio prima di aver partorito. E questo apprendete dai vostri Dei, Saturno infatti non espose i propri figli, ma addirittura li divorò".

A sua volta, il grande Tertulliano, nel suo "Apologetico", cap. IX, ribadisce: "A noi cristiani l'omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell'utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme".

Un altro documento molto importante del cristianesimo del II secolo, proveniente dall'Asia Minore, la Lettera a Diogneto, ribadisce gli stessi ideali in questo modo assai sintetico: "i cristiani si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati".

Proprio su questo tema dell'infanticidio lo storico A. Baudrillart ha scritto: "Non vi è forse materia, in cui tra la società antica e pagana e la società cristiana e moderna, l'opposizione sia più accentuata che i loro modi rispettivi di considerare il fanciullo".

In effetti, se guardiamo al mondo antico, notiamo che l'aborto e l'infanticidio sono assai diffusi. "Seneca – ricorda il sociologo americano Rodney Stark, in 'Ascesa e affermazione del cristianesimo' – riteneva l'annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole. Tacito accusava i giudei ai quali 'è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito', ritenendola un'altra delle loro usanze 'sinistre e laide'. Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balia delle intemperie e di animali e uccelli".

I bambini, a Roma come in Grecia, vengono dunque tranquillamente uccisi, oppure venduti, oppure esposti e lasciati morire di fame e di freddo, quando non vi è qualcuno a salvarli, solitamente per farne schiavi. Sappiamo di ritrovamenti, nelle fognature romane, di ammassi di ossa appartenute a neonati, abbandonati e poi gettati via come residui e immondizie.

Vittime dell'infanticidio sono più spesso le bambine, come nella Cina e nell'India di oggi, mentre l'aborto comporta, oltre alla morte del feto, non di rado anche il decesso, oppure la sterilità, della madre.

Il rifiuto dei primi cristiani di ricorrere all'aborto e all'infanticidio, connesso dunque a una loro alta fecondità, non è soltanto una grande conquista dell'umanità, ma anche uno degli elementi che permettono ai primi cristiani, insieme alle conversioni, di crescere sempre di più, sino a superare numericamente i pagani.

Ma l'infanticidio non è praticato soltanto a Roma, come testimoniato anche dalla leggenda di Romolo e Remo, o in Grecia, ma in tutto il mondo antico.

Il celebre bioeticista e animalista Peter Singer sostiene con forza l'idea che tale antica consuetudine sia da riscoprire anche oggi, assieme all'aborto legale. Infatti, se è vero che solo i cristiani la respinsero con forza – argomenta Singer –, perché mai dovremmo credere che essi siano stati gli unici ad aver ragione, mentre tutti gli altri popoli e religioni del passato, avrebbero avuto torto?

"L'uccisione dei neonati indesiderati – scrive Singer nel suo libro 'Ripensare la vita' – è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia. La troviamo per esempio nell'antica Grecia, dove i bambini handicappati venivano esposti sui pendii delle montagne. La troviamo in tribù nomadi, come quella dei Kung del deserto del Kalahari, dove le donne uccidono i bambini nati quando ci sia un figlio più grande non ancora in grado di camminare. L'infanticidio era prassi corrente anche su isole polinesiane come Tikopia, dove l'equilibrio tra risorse alimentari e popolazione veniva mantenuto soffocando i bambini indesiderati dopo la nascita. In Giappone, prima dell'occidentalizzazione, il 'mabiki', parola nata dalla prassi di sfoltire le piantine di riso per consentire a tutte quelle restanti di fiorire, ma che finì per indicare anche l'infanticidio, era ampiamente praticato non solo dai contadini, che potevano contare su modesti appezzamenti di terreno, ma anche dai benestanti".

Con la diffusione del cristianesimo in buona parte del mondo, aborto e infanticidio divengono fenomeni molto più rari e circoscritti, mentre le legislazioni, a partire da Costantino, intervengono nella tutela degli infanti e si sviluppano opere di carità e di assistenza per i bambini abbandonati e per le famiglie in difficoltà. Sino al ritorno dell'aborto nelle legislazioni comuniste e naziste, nel Novecento, e dell'infanticidio, con la nuova legge sull'eutanasia dei bambini fino ai dodici anni, in Olanda.


***

Se torniamo ora con la mente ai due grandi paesi in cui l'aborto, anche forzato, e l'infanticidio sono fenomeni di massa, è facile, dopo questo breve excursus, capire il perché di tutto ciò: Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo di Cristo è penetrato di meno, e con esso anche la cultura occidentale, portatrice, consapevole o no, di questo messaggio o almeno di parte di esso.

Quando i primi missionari gesuiti raggiungono la Cina, rimangono piuttosto ammirati da questa grande civiltà. Quello che però colpisce negativamente il grande Matteo Ricci, allorché nel 1583 mette piede nel Celeste Impero, è la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e, soprattutto, la diffusione della pratica dell'infanticidio. Il regime comunista, capace di pianificare milioni di aborti forzati, sterilizzazioni di massa, uccisione in serie di neonati, ha ancora lontano da venire, ma il rispetto dei fanciulli, in quel paese per altri aspetti ammirevole, manca del tutto.

Come scriverà J. J. Matignon ai primi del Novecento in "Superstition, crime e misère en Chine", i cinesi sovente vendono le loro figlie come prostitute, oppure le uccidono, per la povertà ma anche a causa delle loro superstizioni magiche, del loro ossessivo culto degli antenati: "Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica. Succede che dopo il parto la puerpera cada ammalata, e allora, per ingraziarsi gli spiriti, le bimbe o in certi casi i bimbi sono soppressi. Esistono delle donne che hanno il preciso compito di procurare la morte alle neonate… I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell'abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno ad ostruirne le vie respiratorie". Altre volte i bambini vengono annegati o soffocati con dei cuscini, anche se l'influenza degli europei, conclude Matignon, sembra avere qualche effetto limitante nei confronti di queste consuetudini.

Quasi negli stessi anni di Matignon, due missionari raccontano sulla Cina le medesime cose. Il primo è un gesuita, sant'Alberto Crescitelli, poi decapitato e sventrato, a 37 anni, il 21 luglio 1900, durante la rivoluzione dei Boxer. Il secondo è un missionario verbita della Val Badia, in Trentino Alto Adige, san Giovanni Freinademetz. Giunto nel paese che amerà per tutta la vita, sino a morirvi di tifo, egli scrive ai suoi cari, in più occasioni, che i cinesi hanno il "costume di esporre il proprio bambino o semplicemente scambiarlo oppure venderlo... Uno dei nostri migliori cristiani, prima della sua conversione, aveva ucciso la sua bambina scagliandola contro le pietre semplicemente perché piangeva troppo" (Sepp Hollweck, "Il cinese dal Tirolo", Athesia, 2003).

In un'altra lettera, scritta da Hong Kong il 28 aprile 1879, Freinademetz racconta come le monache cattoliche abbiano costruito due orfanatrofi, in cui raccolgono più di mille bambini all'anno. I cinesi "li danno per niente o per alcuni centesimi, e non se ne curano altro".
I missionari dunque – scrive da Puoli il 2 luglio 1882 – girano per le strade a raccoglierli, ne trovano a migliaia in fin di vita e si limitano a battezzarli, mentre quelli che possono li salvano: "Molte anime furono già salvate dopo che siam arrivati qui, molti bambini di pagani battezzati che poi se ne morirono ed ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno, che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz'ora prima di morire. Noi volevamo fare la sepoltura con tutta pompa per dimostrare ai pagani come onoriamo loro creature che essi gettano via. I pagani qui non usano scrigni da morte per piccoli bambini ma appena morti fanno un buco e lo gettano dentro. Noi gli facemmo a quella bambina un bel vascello tinto a rosso, la vestimmo con una bella veste azzurra, la portavamo in chiesa, noi tutti missionari accompagnati dai cristiani, che non avevano mai visto così. Molti pagani vennero a vedere…" (G. Freinademetz, "Lettere di un santo", Imprexa).

***

Come in Cina, dove l'infanticidio è oggi addirittura affare di Stato, analogamente in India. Anche nel grande paese dominato dalla religione induista l'uccisione, soprattutto delle bambine, è largamente diffusa, per motivi economici e non solo. L'agenzia missionaria "Asia News" riportava recentemente questa notizia: "Presso molte popolazioni tribali le figlie femmine sono considerate solo un peso e la mentalità sociale ne ammette sia il feticidio che l'infanticidio. Nel 2006 in un piccolo villaggio del distretto di Ranga Reddy, a 80 chilometri da Hyderabad, undici neonate sono state lasciate morire di fame dai genitori. Molti tribali sono soliti avvolgere la bambina non voluta dentro stracci e lasciarla morire. Secondo la stampa locale, Jarpula Peerya Nayak, padre di 27 anni, ha detto che 'mia moglie per la terza volta ha avuto una bambina. Una figlia femmina è un peso e abbiamo deciso di non darle da mangiare. Così è morta. È troppo difficile crescere una bambina e trovarle marito'. Il 25 febbraio anche suo cugino J. Ravi e la moglie hanno lasciato morire di fame la loro neonata. 'Mia figlia – racconta Ravi – è morta due giorni dopo la nascita, perché non l'abbiamo nutrita. Abbiamo già due figlie, non possiamo permetterci di averne un'altra'. Un tribale spiega che quale dote della figlia dovrà fornire 'uno scooter, fino a 70 grammi d'oro e 50 mila rupie, per avere un buon marito'. Dopo la morte, i tribali scavano una fossa e vi seppelliscono la neonata, con sopra una pietra. I cani hanno scavato la fossa e mangiato parte del corpo della figlia di Ravi, così l'hanno seppellita di nuovo. La maggior parte delle quaranta famiglie del villaggio hanno assistito a simili episodi o li hanno commessi, dopo avere già avuto due o più figlie femmine. Jarpula Lokya Nayak ha fatto morire di fame due figlie".

Anche in India l'impegno dei missionari e delle minoranze cristiane è votato, oltre che al tentativo di infrangere il muro delle caste e delle diseguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell'infanzia, in nome del Dio che si è fatto bambino. Basti un solo esempio: quello di Madre Teresa di Calcutta.

Tutti sanno che la missione di questa donna è stata quella di aiutare i poveri dell'India, gli emarginati, i deboli, gli ultimi. Tra costoro Madre Teresa non ha mai dimenticato di citare i bambini nel grembo materno, definiti da lei, i "più poveri tra i poveri". Nel libro "Dateli a me. Madre Teresa e l'impegno per la vita", Pier Giorgio Liverani riporta il pensiero della santa, espresso in mille circostanze, con una grande forza, come in queste sue frasi: "L'aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l'aborto con l'adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo diffuso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi" .

La lotta a favore dei bambini contro l'aborto e l'infanticidio è stata condotta da Madre Teresa e dalle sue suore, talora sino al martirio, con grande forza, scontrandosi con una cultura ignara della sacralità della vita sin dalla sua origine. Per gli induisti ad esempio, i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono, sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti. Le donne, in generale, e tanto più le bambine, sono costose, a causa della dote, e sono considerate inferiori al maschio, "fino al punto, non raramente, di avvelenarle al seno, cospargendolo di veleno, mentre succhiano il latte materno".

Così succede che vi sia talvolta un numero di nascite molto alto, per la ricerca del maschio a tutti i costi e per il conseguente alto numero di infanticidi femminili: si abortisce selettivamente, sino a quando non si ottiene il figlio desiderato, di sesso maschile. Madre Teresa e le sue suore hanno fondato numerose case della carità, scuole ed orfanotrofi, ottenendo grande apprezzamento, ma anche l'opposizione del primo ministro Morarij Desai, che nel 1979 le accusò di aiutare i bambini con le scuole e gli orfanatrofi al solo fine di battezzarli e di convertirli. Madre Teresa gli rispose: "Mi pare che lei non si renda conto del male che l'aborto sta provocando al suo popolo. L'immoralità è in aumento, si stanno disgregando molte famiglie, sono in allarmante aumento i casi di pazzia nelle madri che hanno ucciso i propri figli innocenti. Signor Desai: forse, tra poco lei si troverà faccia faccia con Dio. Non so quale spiegazione potrà dargli per aver distrutto le vite di tanti bambini non nati, ma sicuramente innocenti, quando si troverà davanti al tribunale di Dio, che la giudicherà per il bene fatto e per il male provocato dall'alto della sua carica di governo".

E Madre Teresa aggiungeva come nei 102 centri di Calcutta gestiti da lei fossero passate, nell'ultimo anno, 11.701 famiglie indù, 5.568 famiglie musulmane e 4.341 famiglie cristiane, a cui si era insegnato il senso della famiglia, il rispetto della vita, la necessità di una procreazione responsabile, arrivando a determinare la riduzione delle nascite, ma senza il ricorso né all'aborto né all'infanticidio! Il grido dei bambini non nati, degli infanti uccisi, diceva Madre Teresa, ripetendo in altro modo i concetti espressi secoli e secoli prima da Minucio Felice, Tertulliano e tanti altri, "ferisce l'orecchio di Dio".

Harry Wu, "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina", Guerini e Associati, Milano, 2009, pp. 192, euro 21,50.


Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009

Nel nostro mondo occidentale secolarizzato e multiculturalista sembra che, almeno negli ultimi anni, alla flessione dei fedeli "normali" corrisponda un numero crescente di conversioni o, più spesso, di "ritorni" alla Chiesa cattolica, da parte di persone appartenenti all'élite intellettuale e artistica, proprio quella da cui era partito, più di un secolo fa, l'esodo dalla fede cristiana. È un po' come se oggi il processo ricominciasse, ma al contrario: l'avanguardia che, a partire soprattutto dall'Ottocento, aveva guidato e predicato l'allontanamento dalla Chiesa, oggi, almeno in una parte piccola ma significativa, sta iniziando a proporre un riavvicinamento alla fede.
La qualità e le caratteristiche di tale movimento in gran parte elitario sono raccontate molto bene dalle dieci interviste a "nuovi cattolici" proposte in questo libro da Lorenzo Fazzini; interviste che sono anche un po' come scatole cinesi, perché ognuna è preceduta da una introduzione dove si delineano altri percorsi di conversione che si possono avvicinare a quello presentato. Gli esempi raccolti sono dunque molto più numerosi delle interviste, e servono a inquadrare i personaggi incontrati dall'autore nel clima di riavvicinamento alla Chiesa che caratterizza questi ultimi anni.
Le interviste - se pure molto diverse tra loro, così come è diversa la storia e l'indole degli intervistati - ci restituiscono quello che costituisce il carattere più vitale ed entusiasmante della conversione, e cioè il fatto che tutti i protagonisti vedono come nuove delle realtà che al resto dei fedeli sembrano polverose e risapute, e le fanno rivivere, ancora caricati da quella "grazia sorprendente che ha salvato uno sventurato come me", per esprimersi con le parole di un grande convertito, John Henry Newman. Possiamo quindi dire che la vitalità della fede ha sempre bisogno di nuovi convertiti, del loro sguardo nuovo e appassionato, della loro scoperta contagiosa dell'anima di una tradizione. I dieci personaggi narrati da Fazzini possono allora essere considerati una ricchezza del nostro tempo, per altri versi così difficile, e la sua idea di riproporci il loro originale percorso spirituale un dono che serve a risvegliare la fede cristiana. È anche una piacevole lettura: le storie di conversione si possono infatti considerare biografie avventurose a lieto fine, perché il protagonista riesce a trovare ciò che cerca, e dà un nuovo senso alla sua vita. Sono quindi letture apportatrici di speranza, e anche, ci auguriamo, contagiose, quindi capaci di suscitare altre conversioni, come lo sono stati gli scritti di grandi convertiti, ad esempio Chesterton.
Fra i dieci intervistati, tre sono italiani - Pera, Tosatti, Ferretti - molto diversi tra loro quanto possono esserlo un docente universitario prestato alla politica, un giornalista vaticanista - entrambi arrivati o tornati ad apprezzare la Chiesa attraverso un percorso intellettuale - e un musicista rock. Vi sono poi tre francesi - Schmitt, Guillebaud, Hadjadj - a testimoniare come l'importante tradizione della conversione degli intellettuali che ha segnato la cultura francese dell'Ottocento e del Novecento sia ancora viva. Seguono poi l'irlandese Waters, l'inglese Pearce e, infine, soltanto due donne, una studiosa di politica internazionale che ha fatto parte del governo norvegese, Matlary, e una saggista tedesca, Kuby.
Il fatto che in questa raccolta di interviste il numero delle donne sia così nettamente inferiore rispetto ai convertiti maschi mi sembra corrispondere a una realtà storica: le donne sono state le ultime ad allontanarsi dalla Chiesa, negli anni Settanta del Novecento, e oggi probabilmente saranno le ultime a rientrare, ancora in larga parte vittime di una ideologia femminista radicale che ha considerato la religione cattolica una della cause principali dell'oppressione delle donne.
Le scelte compiute da Fazzini si possono quindi considerare un campione significativo, da cui è allora legittimo trarre alcune considerazioni più generali: molti intervistati sono passati attraverso i movimenti di protesta del Novecento, o comunque risultano segnati da una vita avventurosa che tradisce una inquietudine profonda, una ricerca di giustizia e di verità che poi troverà una risposta nella fede cattolica. Anzi, leggendo con attenzione le loro parole, si direbbe che quanto più forti erano l'ansia ribelle e il desiderio di capire e rivoluzionare, tanto più lucide sono oggi le riflessioni sulla cultura attuale, che sanno giudicare dall'esterno. Al contrario, possiamo concludere che sono invece le persone più tranquille - quelle che si accontentano di una società in cui la libertà individuale e la possibilità di realizzare i propri desideri sono assicurati a quasi tutti - ad accettare senza porsi domande l'indifferenza religiosa e il relativismo dei valori.
Lo spiega bene John Waters: già sessantottino e già alcolista, oggi ha scoperto che "la Chiesa è il luogo che porta la verità nel mondo" e ha capito come in una cultura che cerca di soddisfare i nostri desideri subentri fatalmente la noia, perché il tempo dell'esistenza non si limita a regolarsi sul principio della soddisfazione del desiderio, "ma consiste in qualcosa di più straordinario", nella speranza di potere "ricevere qualcosa di più grande dalla vita". E Joseph Pearce, skinhead convertito dalla lettura di Chesterton, è ben consapevole che proprio l'arte costituisce oggi il tramite più fecondo verso la fede: "Se il cammino della religione è bloccato da un'ignoranza insormontabile, possiamo allora conquistare le anime a Cristo mediante il potere della bellezza. La letteratura, la musica e le arti visive sono come le vetrate colorate nel Medioevo".
La via dell'arte è anche quella percorsa da Giovanni Lindo Ferretti, che racconta la sua conversione come un ritorno alla casa del Padre dopo aver finito la sua "guerra personale con Dio". Tra i ribelli di una volta Ferretti è quello che si disegna più nitidamente e lucidamente nell'intervista, forse perché ha già riflettuto su se stesso in un libro autobiografico. L'antico musicista rock denuncia l'impoverimento della dimensione liturgica, contro il quale combatte Benedetto XVI, e confessa di avere raggiunto una serenità prima sconosciuta: "Ritorno a pensare, come quando ero bambino, che già essere vivi è un dono prezioso, mentre prima ritenevo che la vita fosse un inferno, per cui o pensavi di vivere per cambiare la vita e il mondo, oppure eri portato a cercare un'autodistruzione da praticarsi nel più glorioso dei modi". E denuncia lucidamente i mali contemporanei, come l'abitudine a lanciare contro la Chiesa accuse di carattere politico, mentre essa si muove su altri tempi e propone altri valori. Particolarmente acuta è la sua definizione di pacifismo: "Per i partiti la pace è la vittoria della loro parte sull'altro, la pace per il Papa è l'ordine nelle regole ed è un dono di Dio. Il pacifismo assoluto non sta nella dottrina della Chiesa". E ha il coraggio di dire che "senza il cristianesimo l'Europa non è niente".
Una conversione vera e propria, e non un "ritorno", è invece quella narrata da Fabrice Hadjadj, arabo di nome - la famiglia viene dalla Tunisia - ma di origine ebraica, che dice con semplicità: "Dio ci converte con la creazione tutt'intera (...). È questa pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà". In questa nuova apertura di speranza e di illuminazione intellettuale che ha conosciuto con la conversione, Hadjadj inventa nuove definizioni dei fondamenti della vita religiosa che aprono inedite porte di comprensione: "Il dogma è una finestra e non un muro. Ma, come quando vi è una finestra che si affaccia sul cielo, quelli che non alzano abbastanza la testa non vedono altro che il muro che la sostiene".
Anche Éric-Emmanuel Schmitt coglie la potenza eversiva del messaggio cristiano, quella forza che sembra ormai sbiadita nella vita quotidiana dei fedeli: "È una dinamite, una bomba, che distrugge tutte le nostre costruzioni umane e legislative. C'è nel cristianesimo un messaggio sempre inedito, nuovo, difficile da comprendere, utopico". Ma è proprio per questo entusiasmo, questa speranza così forte da scuotere il nichilismo contemporaneo, diffuso soprattutto nelle élite intellettuali, che i convertiti o ritornati incontrano spesso ostacoli nel loro ambiente, come spiega Jean-Claude Guillebaud che ha raccontato il suo percorso in un libro auto-biografico. Secondo Guillebaud, "di fronte alle barbarie contemporanee - in particolare quelle economiche e tecno-scientifiche - il cristianesimo sembra una controcultura, un dissidente prezioso".
Anche da queste poche citazioni si può capire come lo sguardo nuovo dei personaggi intervistati porti vita nella cultura cattolica, e una lucidità particolarmente interessante nella critica alla cultura contemporanea, conosciuta e attraversata dall'interno. I convertiti e i ritornati, quindi, sono linfa nuova per la Chiesa, ma non sempre questo loro apporto viene valorizzato. Se è vero infatti che spesso parroci od organizzatori di incontri spirituali sono a caccia della testimonianza di un convertito - possibilmente un po' famoso e non troppo intellettuale, come insegna la fortuna in questo ambito di Claudia Koll - al fine di riaccendere la tensione spirituale di un pubblico spesso assopito nell'abitudine, è anche vero, però, che non sempre l'atteggiamento dei cattolici abituali verso convertiti e ritornati, specialmente se intellettuali, è così aperto e affettuoso.
Anzi, i convertiti spesso sono visti con un po' di diffidenza, perché non hanno percorso l'iter abituale nelle organizzazioni cattoliche, non sanno bene come ci si deve comportare con le gerarchie, dimostrano un entusiasmo eccessivo, hanno troppe idee di cambiare e fare, ma anche perché spesso hanno un'identità che viene riconosciuta dal mondo laico. E dal momento che la cultura cattolica e quella laica costituiscono mondi separati che si ignorano fra loro, le persone che in qualche modo fanno parte di entrambe sono viste con un po' di sospetto, forse da ambo i lati. Non è quindi troppo comoda la vita dei convertiti, come traspare anche dalle parole degli intervistati: ma è proprio questo vivere sul confine, questa mancanza di facili consensi, questa "estraneità" percepita da ogni parte che li rende più acuti nell'osservare il presente e più profondi, spesso, nel rileggere la tradizione cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009)


Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
Lettera aperta al Ministro italiano per le politiche comunitarie, dott. Andrea Ronchi
al Segretario Generale della CEI, SER Monsignor Mariano Crociata

Certamente sapete più puntualmente di noi come sia iniziata male la VII legislatura del Parlamento Europeo per ciò che riguarda il rispetto delle competenze sancite dai Trattati, il rispetto e la difesa delle culture nazionali, il principio di sussidiarietà nell’ambito delle questioni etiche.

Anche in riferimento alla nota «In Europa iniziata la VII Legislatura – per i principi etici gran brutto segno», pubblicata su CulturaCattolica.it, Signor Ministro, Eccellenza reverendissima, come ritenete si possa procedere a salvaguardia delle peculiarità culturali, sociali e storiche del nostro Paese, di fronte al nostro impegno a rispettare la Carta dei diritti fondamentali e la giurisprudenza connessa, considerando il fatto che la ratifica del Trattato di Lisbona, avvenuta nell’indifferenza generale, nonostante timidi avvertimenti, ci vincola alle decisioni europee?

Grati per la Vostra attenzione; attendendo Vostre importanti indicazioni porgiamo i nostri distinti ossequi.


Gabriele Mangiarotti, responsabile CulturaCattolica.it
Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione europea per la Fondazione Europa
Enrico Leonardi, pensionato
Angelo Bignamini, Professore di Statistica Medica
Guido Guastalla, editore
Mauro Materno, operaio
Carmela Cossa, Docente
Ermanno Gaiardelli, Ragioniere pensionato
Rita Sorrentino, casalinga
Domenico Aiuto, Sacerdote
Maria Mirabella, Medico
Francesco Mancusi, professore
Giuseppina Giunta, Insegnante
Salvo Sorbello, impiegato
Porrino Ida, missionaria
Francesco Giuseppe Pianori, Fisioterapista
Alfredo Puzzello, Infermiere Profess. Endoscopia
Angelo Santambrogio, Artigiano-Pensionato
Matteo Dellanoce, Docente, Presidente Cooperativa Zero e Oltre
Maria Vittoria Pinna, pensionata
Giovanni Montisci, pensionato
Donatella Mansi, Insegnante
Massimo Caputo, Ragioniere pensionato
Angelo Busetto, parroco
Franca Pragliola, Insegnante
Tiziano Viganò, insegnante
Chiara Deppieri, insegnante
Cristina Ardigò, ricamatrice
Maurizio Muscas, Medico dentista
Pietro Sammarco, Docente Universitario
Claudio Rocchi, Ingegnere
Elisa Nicodema, insegnante
Stefania Fregni, impiegata
Elio Pastore, pensionato
Nicola Incampo, Insegnante
Paolo Marcon, Impiegato

Sottoscrivi anche tu


Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
In Europa iniziata la VII Legislatura
PER SOTTOSCRIVERE LA LETTERA APERTA
Giovedì scorso, 17 settembre 2009, esaminando una recente legge lituana, che prevede tra l’altro l’assenza di propaganda omosessuale dai luoghi abitualmente frequentati dai minori, il Parlamento Europeo ha ritenuto, a larga maggioranza, questa norma una riprovevole “discriminazione in base all’orientamento sessuale”, chiedendo alla Lituania di emendarla. Ogni commento, anche di semplice buon senso, è superfluo.

I Rappresentanti di «World Youth Alliance» (Alleanza mondiale della Gioventù) hanno emesso un comunicato sulla Risoluzione in oggetto in cui dicono tra l’altro: «I giovani europei, specialmente gli irlandesi, sono convinti che la Risoluzione votata giovedì 17 settembre dal PE contro una legge lituana riguardante questioni di famiglia, comprometta i principi di sussidiarietà, già tutelata dalla legislazione europea ed, in particolare, nel nuovo protocollo del Trattato di Lisbona. Su questa Risoluzione deve rimanere aperto il dibattito, dato che gli irlandesi voteranno nuovamente il Trattato di Lisbona il prossimo 2 ottobre.» Ed è da notare, come sostengono i Vescovi irlandesi in una recente nota, che «la situazione è cambiata dal referendum del giugno 2008 con l’aggiunta di garanzie giuridiche per rispondere alle preoccupazioni espresse in quel momento.»

Perché è un gran brutto segno? Perché conferma che anche il nuovo Parlamento europeo ha ed avrà un deriva relativista, che cercherà di imporre uniformemente in tutti i 27 Paesi. Ovviamente nel nostro Paese, salvo mio errore ma non credo, di ciò non è stata data alcuna informazione. È un gran brutto segno perché ancora una volta non sarà possibile alcun accordo per promuovere, nell’interesse di tutti, la vita, la famiglia, l’educazione, come nelle precedenti legislature. Ci si troverà di fronte ad un orientamento prevalente ostile all’uomo, e ad una burocrazia arrogante ed invadente. Tra poco più di tre mesi sarà il turno della Presidenza spagnola!

I quattro Paesi tuttora “recalcitranti” a ratificare il Trattato di Lisbona sono Irlanda, Polonia, Repubblica Ceca e, in misura minore, Germania. Almeno tre di questi (Irlanda, Polonia, Rep. Ceca, oltre alla Gran Bretagna) hanno negoziato ed ottenuto deroghe soprattutto per quel che riguarda la Carta europea dei diritti fondamentali e la giurisprudenza conseguente.

La Carta è un documento ambiguo, che, soprattutto per la difesa della vita, della famiglia e della libertà di educazione, prevede tutto ed il contrario di tutto. Il tristemente noto articolo 9 tratta del diritto di costituire una famiglia e, separatamente, del diritto di sposarsi. (Coppie di fatto, coppie omosessuali, ecc. tutto contemplato.)

Apparentemente comunque non dovrebbe sussistere alcun problema, visto che i Trattati riconoscono la competenza dei singoli Stati a proposito del diritto di famiglia; tutto vero, ma il Trattato di Lisbona recepisce al suo interno la Carta rendendola obbligatoria, così come la conseguente giurisprudenza della Corte di giustizia.

L’ambiguità della Carta e l’orientamento della maggioranza vanificano di fatto le competenze degli Stati e dell’Unione, previste dai Trattati. L’obbligatorietà della Carta prevede che i Paesi membri ne rispettino i contenuti, secondo l’interpretazione corrente in quel momento e secondo l’interpretazione giuridica della Corte di giustizia. L’Italia ratificando il Trattato di Lisbona senza eccezione alcuna, si è impegnata a questo.

Quale è la conseguenza pratica: possiamo smettere di accapigliarci per le coppie di fatto, per le unioni di persone dello stesso sesso, per il rispetto all’obiezione di coscienza: ci siamo solennemente impegnati a far decidere altri per noi, ed a rispettarne le decisioni.

Indipendentemente dagli orientamenti politici, quando recentemente il Governo ha preso posizione contro l’arroganza della Burocrazia europea, i nostri organi di informazione e le forze politiche, sapendo cosa c’è in gioco, come hanno appoggiato l’iniziativa? L’hanno strumentalizzata e asservita alle polemiche domestiche spesso banali e di “bassa cucina”, come per nessun altro Paese succede.

Questo, in un’atmosfera ovattata di retorico europeismo, ci dovrà capitare, probabilmente con l’accordo di parte della nostra opinione pubblica e delle forze politiche. L’Europa ci vuole, l’Europa la vogliamo, ma l’Europa dei popoli, rispettosa delle diversità culturali, e con una burocrazia che torni nell’ambito dei propri compiti istituzionali.


Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
Adesso che durante la pausa estiva l’Aifa ha approvato la Ru 486 (dopo la sperimentazione in alcuni ospedali) e che non si sa ancora se e come sarà attuato nei reparti di ginecologia l’aborto farmacologico, anche se non riguarderà direttamente chi lavora in reparto di cardiologia come me, mi sono interrogato profondamente, come medico e come neo-papà. L’aborto farmacologico – si è detto – è già attuato in altri paesi, è una possibilità in più per chi non può sottoporsi ad un intervento chirurgico, è meno traumatico… Sinceramente faccio fatica a capire queste motivazioni.
L’aborto farmacologico consisterebbe nella somministrazione di mifepristone (Ru 486) al primo giorno e poi di misoprostol (una prostaglandina) al terzo giorno, il primo antagonizzando il progesterone impedirebbe all’embrione di sopravvivere, il secondo indurrebbe le contrazioni uterine e farebbe espellere l’embrione. In questa maniera in realtà circa il 2-5% delle donne abortirebbe già al primo giorno, la maggior parte abortirebbe dopo la somministrazione del misoprostol con una percentuale di riuscita di circa il 92% (in base alle casistiche più numerose), mentre dal 4% al 6% circa (secondo una revisione della letteratura su 54 studi pubblicati tra 1991 e 1998) necessiterebbe comunque di un aborto chirurgico per prosecuzione della gravidanza. La reazione della donna alla somministrazione del farmaco non è prevedibile, può comportare qualche disagio, oppure tutto un corteo sintomatologico come dolori e crampi (93.2% e nel 43% dolore severo), nausea (66.6%), debolezza (54.7%), cefalea (46.2%), vertigini (44.2%), o in rari casi complicanze emorragiche severe tali da rendere necessaria un’emotrasfusione (0.16%) e perfino la morte stessa (dati tratti da Aborto farmacologico mediante mifepristone e misoprostol – It. J. Gynaecol. Obstet. 2008, 20: N. 1: 43-68).
Che senso ha tutto questo? Che peso psicologico, prima che fisico avrebbe sulla donna stessa? L’attesa più bella della vita, quella di veder nascere il proprio bimbo, quella creaturina che è stata per mesi nel grembo della mamma, diventa l’attesa che venga espulso l’embrione morto. Certo, è molto piccolo, quasi non si vede – si potrà fare solo entro le prime 7 settimane – le contrazioni non sono così intense come quelle del parto (ma comunque in molti casi ci sono). Ma che senso ha questa sofferenza? È una sofferenza che porta solo morte. Quando è nato mio figlio, poco meno di un mese fa, mia moglie ha sofferto il travaglio del parto, ma quando il piccolo Giovanni ha messo fuori la testolina ed ha cominciato a piangere, l’abbiamo messo subito con la mamma e la gioia di vederlo è stata più grande di qualunque sofferenza. Ma in questo nuovo ritrovato medico, nell’aborto farmacologico, che cosa porterà nel cuore della donna questa attesa e questa sofferenza?
Si è detto che è una possibilità in più per chi non può subire un’anestesia ed un intervento chirurgico. Ma che cosa avverrà per quelle poche situazioni (descritte in letteratura) in cui ci sono complicanze emorragiche maggiori che necessitano di un approccio chirurgico? E che cosa ne sarà di quella percentuale di donne non bassa nelle quali la gravidanza prosegue a meno di andare incontro ad un successivo aborto chirurgico (4-6%)? Senza contare il fatto che, secondo uno studio di M. Greene apparso nel 2005 sul New England Journal of Medicine, l’aborto con mifepristone/misoprostol a parità di età gestazionale avrebbe un tasso di mortalità dieci volte maggiore di quello chirurgico (1:100.000 contro 1:1.000.000).
Qualcuno ha anche osato pensare che, somministrata la pillola, non è sempre necessario ospedalizzare la donna, e che la si potrà rivedere ad aborto avvenuto (come avviene in Francia, ad esempio). Almeno da questo punto di vista sembra che sia rimasto un po’ di buon senso a chi ha approvato l’introduzione della Ru 486 e che in Italia si ospedalizzerà comunque la donna. Ma vorrei anche vedere! Neanche l’assistenza sanitaria dobbiamo garantire a queste donne? Davvero pensiamo che tutto avvenga in modo meccanico come negli animali?! Così fanno in Francia ed in altri civilissimi paesi. E quindi? L’evoluzione del sistema sanitario e della disciplina medica consiste forse nell’importare tutte le peggiori sozzure che esistono?
Hanno anche detto che così, finalmente, si applica appieno la legge 194. Ma di quale legge parlano? La nostra legge sull’aborto, anche se molti non lo sanno, ha la pretesa di nascere come legge in difesa della vita. All’articolo 1 si legge che lo stato “riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” e che “l’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. Questo strano paradosso – che la legge che ha legalizzato la soppressione di vite innocenti fosse in realtà una legge a difesa della vita – si fonda sul fatto che si intendeva porre dei limiti alla pratica dell’aborto clandestino ed indiscriminato. Ed infatti la legge prevede che nei primi 90 giorni di gravidanza la donna possa abortire solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”. Mentre dopo i 90 giorni l’interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata solo: “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; non solo, ma continua la legge: “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Già adesso, dietro al presunto pericolo per la salute psico-fisica della donna, la maggior parte degli aborti avviene in buona sostanza perché la gravidanza non era ricercata (altro che gli intendimenti degli estensori della 194), ma con la Ru 486 che proporzioni raggiungerà questa strage? Che rispetto vi può essere per la vita se la semplice prescrizione di una pillola basta ad eliminarla?
Guardo mio figlio Giovanni, che ha due mesi e penso a tutto questo. In queste prime settimane di vita nel nostro mondo esterno lui si attacca al seno della mamma, fa il ruttino, fa la cacca ed a volte piange tanto. Cosa capisci tu, piccolo Giovanni? A volte di notte non ci fai dormire e potrebbe sembrare che sei un fastidio, un peso. Ma sei così bello! Ci guardi con degli occhioni così grandi. Non so che cosa passa nella tua piccola testolina, ma di una cosa sono certo: sei un dono. Non ci appartieni. Non sei una nostra proprietà. Sei un mistero. Come posso pensare che non ci sia un legame tra quando eri una sola cellula (l’incontro tra il mio seme e l’ovulo di mia moglie), quando già si formava il tuo corpicino ed adesso che ti vediamo, o quando sarai grande. Chi stabilisce quando diventi persona. La legge? Chi decide quando non sei più violabile, quando ucciderti diventa un reato. Tre mesi dal concepimento? Sei mesi? Non lo so. Ma nessuno lo sa. Sono limiti convenzionali, che si fondano su studi senza senso, su teorie sbagliate. Su quale organo si sviluppa prima e quale dopo. Ma cosa cambia? Tu resti e sei un dono, e lo eri anche prima.
Per questo io come padre e come medico non potrò mai capire questo mondo che è a favore dell’aborto, in qualunque forma si attui. Perché con tutta la compassione che posso provare per le donne violentate, per chi attende un figlio malformato, per quelle che sono senza marito, con tutto questo non posso non gridare a tutti innanzi tutto che tu sei e resti una vita come me. Che lo eri già prima, anche se non ti vedevo. Mio piccolo Giovanni, se mai vorrai capire che strano mestiere è quello di un papà medico, vorrei innanzitutto dirti questo. Che amo la tua vita.

Dottor Alfredo Corticelli


Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]

Sappiamo come di recente il Papa, parlando dell'interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha rilevato l'esistenza di un' “ermeneutica della rottura", da lui giudicata fuorviante, e l'ha contrapposta all'ermeneutica giusta che ha chiamato "della continuità".

Il teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984), secondo quanto sta apparendo con sempre maggiore chiarezza da uno studio critico di molte delle sue opere condotto ormai da decenni, è forse l'esponente maggiore di tale ermeneutica della rottura, che da quarantenni ha attirato e continua ad attrarre schiere di teologi e pastori in tutto il mondo.

L'ermeneutica della rottura è una caratteristica di gran parte della teologia di Rahner, una teologia che enfatizza il nuovo, il moderno assolutizzato, fine a se stesso e senza discernimento, in modo tale da portarlo a una rottura con quel passato nel quale si trovano quelle radici cristiane, dalle quali soltanto può sorgere una sana modernità, che non può essere sana se non in continuità con quelle radici, che contengono valori divini, perenni e immortali.

La modernità secondo Rahner

Rahner ha avuto la buona idea di cercare di ammodernare il cristianesimo, di creare un dialogo del cristianesimo con la modernità. Ma ha sbagliato nel concepire il moderno. È rimasto vittima del mito idealista tedesco della "filosofia moderna". Non è sbagliato di per se aspirare a una filosofia moderna, apprezzare una filosofia moderna, perché si suppone che sia meglio informata, più sapiente, più solida e più intelligente dell'antica. Esiste un tomismo moderno certo migliore di quello del Sei o Settecento.

L'errore di Rahner è stato quello di optare per una filosofia "moderna", la quale è stata sì moderna nel senso temporale, ma non nel senso qualitativo. Che cosa conta che una filosofia sia temporalmente moderna se poi di fatto ricade in antichi errori pagani, che già erano stati corretti dalla filosofia cristiana medievale, autrice delle radici cristiane dell'Europa? Che "moderno" è quel moderno che distrugge un passato, quale quello delle radici cristiane dell'Europa, legato all'immutabilità della parola di Dio, quella parola della quale Cristo ha detto: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno?».

Rahner ha concepito il progresso come rottura, come contraddizione col passalo di una tradizione cristiana sacra e perenne, quella che appunto si chiama sacra Tradizione, sorgente della divina rivelazione insieme con la Sacra Scrittura, come da sempre insegna la Chiesa Cattolica. Questa rottura è nata dal fatto che Rahner non si è accorto della perenne validità di tale Tradizione, come condizione di vero progresso.

Da che cosa sorge, da quali radici sorge la modernità rahneriana? Da un idealismo come quello che - per sua espressa dichiarazione - trae origine da Cartesio, passa per Kant. Fichte. Schelling ed Hegel e giunge ad Heidegger. Ma la tanto declamata novità cartesiana, come dimostrano gli storici del pensiero, in realtà riprende le fila dell'antico pensiero greco presocratico dei parmenidei, degli eraclitei, dei sofisti e degli scettici. Anche la continuità non è un valore, se è la continuità di un vizio perenne della ragione, come quello che si trascina da Protagora ad Heidegger.

Continuità ed evoluzione

Rahner non ha capito qual è la legge dell'evoluzione dogmatica. La vera evoluzione non è rottura, ma esplicitazione nella continuità. Non suppone l'equivocità, ma la continuità analogica. Il dogma di Calcedonia contiene la stessa verità della cristologia del Vaticano II, solo che nel corso di quattordici secoli la Chiesa ha conosciuto meglio (e come diversamente avrebbe dovuto accadere?) quel medesimo mistero di Cristo che già è immutabilmente e definitivamente enunciato dal dogma calcedonese.

Rahner ha inteso gli insegnamenti del Concilio come rottura con la Tradizione. Egli distrugge la Tradizione e quindi non opera in nome di una sana modernità, ma di un rinnovato modernismo peggiore di quello dei tempi di san Pio X. Per Rahner la verità cristiana comincia col Vaticano II da lui interpretato peraltro in modo modernistico. Prima c'è la barbarie, il vuoto, il nulla. Nessuna radice. Nessuna sorgente, nessuna base o nessun principio. Ma tutto comincia con Cartesio per finire con Heidegger. L'idealismo tedesco poi si sposa in Rahner con l'influsso luterano.

Tuttavia uno potrebbe obbiettare: ma in fin dei conti, anche Rahner ha rispetto per il passato e per la Tradizione, giacché anch'egli, almeno a quanto pare, basa la tua teologia sulla Sacra Scrittura e sulla storia del Cristianesimo e della teologia cattolica.

Sì, ma con quale impostazione? Non con l'impostazione del vero cattolico, il quale accoglie docilmente e fiduciosamente tutti i pronunciamenti dottrinali o dogmatici del Magistero della Chiesa e dei concili ecumenici, quali pepite d'oro che appaiono via via nel fiume della storia, ma con l'atteggiamento tipicamente luterano del "libero esame" (con la scusa dell' "esegesi storico-critica''), che di volta in volta, con diversi pretesti, si permette di stabilire in questo preziosissimo e ricchissimo patrimonio della Tradizione, quello che gli garba o non gli garba alla luce di quella che egli chiama "filosofia moderna".

Qual è il risultato? Un puro e semplice gnosticismo (come rivelano chiaramente gli studi di don Ennio Innocenti), come è stato quello dell'idealismo tedesco fino ad Heidegger. Dove va finire la fede? Non e più virtù teologale soprannaturale con la quale si accoglie per vero quanto Dio ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, ma la famosa «esperienza trascendentale aprioristica ed atematica», ispirata all'ermetismo, alla teosofia, a Schleiermacher e ad Heidegger. Insomma, un rinnovato gnosticismo, col quale Rahner crede di conoscere Dio e Cristo meglio di quanto gli insegna la Chiesa Cattolica.

Rahner non è capace di unire l'immutabile col mutevole sul piano dei concetti. Immutabile e universale è soltanto l’ “esperienza trascendentale", ma essa è ineffabile ("Mistero assoluto") e non concettualizzabile; viceversa il concetto (il "categoriale"), anche quello dogmatico, è privo di universalità e immutabilità. Ne viene la conseguenza incresciosa che la verità teologica esiste, ma è inesprimibile; mentre ciò che può essere espresso appartiene solo al campo del particolare, del mutevole e dell'incerto.

Divinizzazione dell’uomo

L'etica rahneriana. come sempre avviene, è conseguenza logica dei suoi princìpi metafisici, gnoseologici e antropologici. La base fondamentale di tutto, come fu acutamente denunciato a suo tempo da Cornelio Fabro. è l'identificazione dell'essere col pensiero, identificazione che perla verità, è propria solo dell'essenza divina, ma che invece Rahner pone come principio di tutto il reale. Da qui il panteismo in metafisica e l'idealismo in gnoseologia.

Da qui viene anche l'identificazione dell'essere con l'agire e col divenire e la tendenza monistica che non distingue più adeguatamente il vero dal falso, il bene dal male, l'eterno dal temporale, il finito dall'infinito. Dio dal mondo. Ciò non gli impedisce peraltro di cadere in dualismi irresolubili, che qui non è il caso di esaminare. Per distinguere egli separa, e per unire, confonde.

Da questi principi fondamentali discende la sua concezione del rapporto dell'uomo con Dio: la ragione umana non dimostra l'esistenza di Dio partendo dagli effetti creati, come insegna san Paolo (Rm. 1,20) e il libro biblico della Sapienza (Sap. 13,5), ma possiede originariamente ed atematicamente un'«esperienza preconcettuale dell'essere» (“Vorgriff”). nella quale legge immediatamente la propria autocoscienza e l'esistenza di Dio. Come nella conoscenza divina, non si passa dalle cose a Dio, ma da Dio alle cose. Rahner confonde il sapere umano col sapere divino.

L'uomo dunque è già di per sé originariamente, benché "atematicamente". potenzialmente Dio; Dio non è che la piena attuazione dell'uomo (Dio è l' «orizzonte trascendentale dell’autotrascendenza umana»). Dunque nessuna reale distinzione tra natura umana e grazia. L'uomo è per essenza in grazia, la natura umana è definita dalla grazia, senza la grazia è nulla, è pura "astrazione", pura "possibilità" (polemica contro la "natura pura").

La quale grazia poi non è un dono di Dio, o un accidente (qualità) dell'anima, ma è Dio stesso, che così diventa il costitutivo sostanziale dell'uomo ("causa formale" dell'uomo), confondendo così Dio con l'anima umana. La grazia dunque è inammissibile, così come l'uomo non può perdere la sua essenza. Da qui l'estrema difficoltà con la quale Rahner cerca di spiegare l'esistenza del peccato.

La distruzione del cristianesimo

Da qui la tesi secondo la quale tutti per essenza tendono a Dio, tutti sono sempre in grazia, tutti si salvano ("buonismo"), il peccato diventa impossibile oppure è un costituivo irrilevante della natura perché sempre perdonato da Dio (Lutero), da qui la negazione della redenzione di Cristo come sacrificio espiativo e riparatore del peccato (e quindi la crisi del sacerdozio, della Messa e della Liturgia).

Da qui la negazione dì una natura umana oggettiva. universale e immutabile (difetto dell'esistenzialismo), dell'immortalità dell'anima (col rischio del materialismo), della legge naturale (con conseguente relativismo morale), dell'oggettività della conoscenza concettuale-razionale (con la conseguenza del relativismo dogmatico) e del libero arbitrio (con la conseguenza di un'etica spontaneistica, antiascetica e schiava delle passioni: Freud), la negazione della Parusia futura di Cristo (Parusia adesso), dei privilegi mariani (niente verginità), dell'esistenza degli angeli (sono solo "possibili"), di dannati nell'inferno (non c'è nessuno) e la tesi secondo la quale anche l'ateo è credente ("cristianesimo anonimo").

La cristologia è concepita hegelianamente in modo evolutivo-dialettico come passaggio dall'umano al divino e viceversa (riappare l'eresia di Eutiche), sicché Rahner giunge alla conclusione che antropologia, teologia e cristologia sono la stessa cosa (effetto del panteismo). Le tre Persone divine non sono tre relazioni sussistenti ovvero tre sussistenze, ma tre "modi di sussistenza" di un'unica persona-natura-sussistente (modalismo), mentre l'essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo («la Trinità immanente è la Trinità economica»). Allora Dio è obbligato a creare? È obbligato a incarnarsi? A manifestarsi all'uomo? Qui si vede l'influsso della fenomenologia di Husserl e viene anche in mente Hegel: «Senza il mondo. Dio non è Dio».

In particolare, in morale, la persona appare come soggetto meramente spirituale (cf. la res cogitans di Cartesio), che liberamente (come in Fichte, Gentile e Sartre) pone o progetta la propria essenza e quindi la legge morale, la quale quindi non è posta da Dio nella natura umana, ma il soggetto liberamente la pone da sé onde porre la propria essenza e la propria natura. Salvo poi a porre la persona come emergente dalla materia, per il fatto che viene negata la distinzione fra anima e corpo.

La persona non appare come «individua substantia rationalis naturae», ma alla maniera idealistica, come autocoscienza e libertà, come una specie di relazione sussistente in atto, sicché c'è poi da chiedersi come potranno essere persone quei soggetti i quali per vari motivi non possono o non vogliano relazionarsi a Dio ed agli altri.

Figlio dell'orgoglio moderno

I princìpi di fondo possono riassumersi in una divinizzazione gnostica dell'uomo e in una secolarizzazione del soprannaturale, si fanno sentire in vari modi: nel suo stesso metodo di pensare e di argomentare, dettato spesso da presunzione nei confronti delle massime autorità nel campo della filosofia come della religione, nell'aver sempre ignorato le osservazioni e le critiche che gli sono state fatte per decenni da eccellenti studiosi e teologi, nel sollecitare o suggerire una condotta morale improntata a un esagerato amore per la libertà personale, nel disprezzo dei valori oggettivi, eterni e universali, insomma un'esaltazione dell'io che ben poco ha a che vedere con un sano amore di sé riconosciuto dal cristianesimo, ma assomiglia molto di più al soggettivismo e alla presunzione tipici della religiosità luterana e al limite alla spropositata esaltazione dell'io propria dell’etica fichtiana.

Appare l'ombra sinistra di Nietzsche. Siamo ancora nel Cristianesimo? È questa l'interpretazione del Concilio?

© Radici Cristiane
www.radicicristiane.it/


L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
A quale futuro guarda oggi la Spagna?
Certamente a quello legato a una rapida ripresa economica, visto il pesante deficit pagato alla recente disfatta dei mercati finanziari. Non sembra però altrettanto preoccupata a fornire motivi di speranza alla sua storia e alla sua cultura, se è vero che sembra ormai assoggettata a quell’ideologia liberticida e relativistica, che fa delle questioni eticamente sensibili problemi relativi solo all’autogoverno della vita dei suoi singoli. Non sembra perciò dare risposta alle donne, ormai indirizzate a vedere la trasmissione della vita umana come una faccenda essenzialmente fisiologica, offrendo loro una soluzione molecolare, farmaceutica a un problema assai più ampio, in grado di toccare le corde profonde della loro coscienza.
È di ieri la notizia che il governo di Madrid ha varato un disegno di legge che di fatto depenalizza totalmente l’aborto, prevedendo la libera scelta della donna fino alla 14ª settimana e concedendo la facoltà anche alle minorenni fra i 16 e i 18 anni di abortire senza la consultazione dei genitori. C’è da sperare che il progetto, trasmesso al Parlamento, possa ricevere delle significative correzioni, visto anche le reazioni accorate del mondo cattolico spagnolo, che si riunirà il 17 ottobre per una grande manifestazione di protesta nella capitale, e la voce fortemente critica di alcuni pastori, come il cardinale Amigo, arcivescovo di Siviglia, che aveva già parlato, dalle pagine di 'Religíon Digital', di «inquisizione laica e agnostica, di statolatria e di indottrinamento laico», segnando ancora la distanza tra le politiche iperlibertarie di Zapatero e la voce profetica della Chiesa.
Nazione plurilingue e di ricchezza multietnica, questa Spagna sembra voler recidere le radici della sua esperienza storica e religiosa, per gettarsi sulle braccia dell’ideologia relativistica e nichilista, riconducendo tutte le pratiche abortive come faccende private, lasciate alla sola autodeterminazione delle donne. Sono quest’ultime, come si sa, a dover pesantemente portare l’emblema di questa mutazione etico-antropologica, dal momento che queste ulteriori liberalizzazioni dell’aborto, insieme alla paventata libertà e gratuità della pillola del giorno dopo, (per venire incontro alle 'difficoltà' delle adolescenti) non sono altro che sostegni legislativi volti alla soppressione culturale della coscienza dell’aborto. Non si tratta soltanto di eliminare il senso di colpa, privatizzando gli interventi atti a procurare la morte dei potenziali bambini, ma di considerare l’embrione non più come il soggetto della trasmissione della vita, ma qualcosa come un tessuto ormono- dipendente, il cui sviluppo e sopravvivenza può essere regolato attraverso antiormoni, come la Ru486 o la pillola del giorno dopo.
Ne va dell’idea stessa della vita, quasi che fosse possibile governarla attraverso l’intervento dei viventi, delle donne in particolare, non più custodi di questo bene, ma amministratrici di una risorsa da modellare a seconda delle leggi, dei desideri, delle idee, della conoscenza scientifica. La revisione nichilista della nozione di vita indotta da queste modalità di contraccezione non può che chiudere il futuro di una nazione, privata dall’immane schiera del popolo dei non-nati, orfana di inizi nuovi nella storia, prigioniera delle sue idolatrie. Il 17 ottobre a Madrid ci saremo idealmente tutti ad alzare un grido di rivolta e di riscatto.


A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009
« I l giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato». La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione. Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi. Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: 'papigno', 'mammastra', 'cugipote'. Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro.
'Papigno' è il maschile di 'matrigna', e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E 'papigno' è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto. Se c’è la 'mammastra' ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini 'tua madre' o 'tuo padre', perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: 'gli adulti che vivono con te'. La parola 'madre' è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola 'mamma' derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.
Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.