mercoledì 20 luglio 2011

 Il metodo della nuova evangelizzazione indicato da Benedetto XVI - Se la felicità ha il nome di Gesù di Francesco Ventorino

Mostrare che la felicità desiderata dal cuore umano ha un solo nome, quello di Gesù. Ecco il metodo della nuova evangelizzazione che il Papa ha suggerito il 13 giugno scorso, inaugurando il convegno ecclesiale della diocesi di Roma. Ha voluto riferirsi, per questo, a uno dei padri della Chiesa, sant’Ilario di Poitiers. Secondo la sua stessa testimonianza, Ilario divenne credente nel momento in cui comprese che per una vita veramente felice erano insufficienti sia il possesso, sia il tranquillo godimento delle cose. Qualcosa di più importante e prezioso lo attraeva: la conoscenza della verità e la pienezza dell’amore donati da Cristo (cfr. De Trinitate 1, 2). «Non dobbiamo anche noi oggi — si è chiesto pertanto Benedetto XVI — mostrare la bellezza e la ragionevolezza della fede, portare la luce di Dio all’uomo del nostro tempo, con coraggio, con convinzione, con gioia?».

Mostrare la «ragionevolezza della fede». Ecco uno dei temi ricorrenti nel magistero di Joseph Ratzinger, il quale già nel 2003 aveva annotato con coraggio: «Deve addirittura apparire un miracolo che nonostante tutto si continui a credere cristianamente». Al tempo stesso, egli si rendeva conto che la fede aveva ancora una possibilità di successo ai nostri giorni. Come mai? Per l’intima ragionevolezza della verità cristiana, cioè per la sua corrispondenza al cuore dell’uomo: «Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere» (Joseph Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 143).

Mostrare la ragionevolezza della verità della fede, e non soltanto dell’atto del credere, è un’arte alla quale siamo stati poco adusati. Secondo un certo metodo apologetico, le ragioni per aderire alla rivelazione cristiana sono fondate soprattutto sull’argomento dell’autorità divina che rivela e non sulla corrispondenza alla ragione della verità rivelata. Si tende, così, in forza di una sottolineatura eccessiva del suo carattere soprannaturale, a concepire tale verità come priva di qualsiasi forma di evidenza di fronte alla ragione dell’uomo; per lo meno, non è questa evidenza che innanzitutto viene cercata. In una simile prospettiva, infatti, tutte le energie della ragione sono convogliate nell’accertamento fattuale della rivelazione di Dio. Agli argomenti desunti dalla corrispondenza della religione cattolica alle aspirazioni del cuore umano non si accorda un valore apodittico, semmai di conferma.

E così può accadere — ha detto il Papa al convegno della diocesi di Roma citando anche Giovanni Paolo II e la sua insistenza sulla necessità di una nuova evangelizzazione — che tanti, «pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano, non conoscono più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità». Si consuma una scissione tra la verità cristiana e la soddisfazione del cuore, come se la felicità potesse risiedere altrove, in qualcosa che l’uomo è in grado di darsi da sé. Da qui gli idoli con i quali essa è stata sostituita: la lussuria, l’avarizia e il potere, i nuovi dei di cui parlava Thomas S. Eliot nei Cori della Rocca. L’itinerario alla fede proposto da Benedetto XVI si radica invece su una più antica tradizione ecclesiale. Secondo il pensiero di Agostino e di Tommaso d’Aquino, infatti, l’uomo è «fatto per Dio» e pertanto reca in sé questa paradossale situazione storica, per la quale è destinato dalla sua natura a conseguire un fine, la vita eterna, che non può raggiungere con le proprie forze, ma solo in virtù della grazia (cfr. Summa Theologiae, I-II, 114, 2, ad 1). È per questo che l’incontro con Cristo e la fede che ne consegue sono l’inizio della felicità eterna (cfr. De Veritate, I, 14, 2, c).

Ecco la ragione dell’accorata insistenza del magistero di Benedetto XVI: «Perciò oggi desidero ripetere quanto dissi ai giovani nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia: “La felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell’Eucaristia”!».

Non esiste, infatti, evangelizzazione compiuta, se non quella che termina nel riconoscimento di Cristo, avvertito come la risposta a tutte le domande del nostro cuore e alle esigenze più profonde della nostra ragione.

© L'Osservatore Romano 17 luglio 2011

mercoledì 13 luglio 2011

In vista della Giornata per la pace e la giustizia del 27 ottobre ad Assisi

Dalla novità cristiana
uno sguardo davvero ecumenico

  Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e liberazione
 http://www.osservatoreromano.va     14 luglio 2011


La «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo», convocata ad Assisi il prossimo 27 ottobre da Benedetto XVI, è un gesto audace, così come lo fu venticinque anni fa l’iniziativa del beato Giovanni Paolo II.
«In nome di che cosa (papa Wojtyła) può chiamare gli esponenti di tutte le religioni a pregare insieme ad Assisi?», si chiese di slancio don Luigi Giussani venticinque anni fa. E rispose. «Ecco: se uno capisce che la natura dell’uomo, il cuore dell’uomo, è il senso religioso, è proprio nel senso religioso che tutti gli uomini trovano una uguaglianza e una identità. L’istanza più profonda del cuore umano è il sentimento religioso, il senso del destino da una parte e dell’utilità del presente dall’altra. Se si vuole usare un termine giusto, il senso religioso è l’unico senso veramente cattolico, che vuol dire adatto a tutti, che è di tutti».
Il senso religioso — questo nucleo originale di esigenze ed evidenze (di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità) con cui ogni uomo è lanciato nell’impatto con il reale — è ciò che accomuna gli uomini di ogni tempo e di ogni spazio. Esso esprime la coscienza di originale dipendenza dal Mistero che fa tutte le cose. Per questo don Giussani ci ha sempre insegnato a stimare la «creatività religiosa considerando la dignità di questo sforzo dell’uomo. Ogni essere umano ha una inevitabile esigenza di cercare quale sia il senso ultimo, definitivo, assoluto del suo punto contingente. Ogni costruzione religiosa riflette il fatto che ognuno fa lo sforzo che può ed è proprio questo che tutte le realizzazioni religiose hanno in comune di valido: il tentativo. Tutto ciò che di differente hanno è il modo d’espressione, che dipende da molti fattori; ma tali varianti mai intaccano il valore detto» (Luigi Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Milano, Rizzoli, 2001, p. 18).
Questa perseguita serietà fa anche emergere nel tempo l’ambiguità con cui l’essere umano realizza il rapporto oggettivo col proprio senso religioso. Quest’ultimo, che dovrebbe essere come la luce che illumina gli uomini nel cammino della vita, si trova — essendo il suo oggetto ancora mistero e la ragione umana ferita dal peccato — alla mercé dell’interpretazione del singolo, così che l’imponenza concreta della vita quotidiana lo fa facilmente dimenticare o ridurre.
Il rischio di «eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti», è sempre in agguato, come ci ha ricordato di recente Benedetto XVI (Udienza generale, 1 giugno 2011). Come l’uomo può avere la coscienza chiara e l’energia affettiva per aderire al Mistero fintanto che questo Mistero resta mistero ignoto? Fino a quando l’oggetto è oscuro ciascuno può immaginare quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto secondo la propria interpretazione. Come efficacemente dice san Tommaso d’Aquino all’inizio della sua Summa Theologiae: «La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori» (I, 1, 1).
Pensiamo all’esperienza amorosa: una persona desidera di amare ed essere amata, ma fin quando il volto della persona amata è sconosciuto che cosa fa? Quello che ritiene soggettivamente più opportuno. È soltanto quando il volto compare che introduce realmente una possibilità di calamitare l’io. Perché io so che desidero l’infinito, che questo infinito c’è perché ho sempre nostalgia di lui — come diceva Lagerkvist — ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualunque oggetto che poi mi lascia insoddisfatto.
E questo è il destino dell’uomo, a meno che capiti quel che ipotizza Wittgenstein: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (...). Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire. (...) Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena... mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti» (Ludwig Wittgenstein, Movimenti di pensiero, Macerata, Quodlibet, 1999, p. 85).
Per vivere all’altezza del senso religioso, da uomini veramente religiosi, e affinché ciascuno non si esaurisca nel fissare lo sguardo sulle cose terrene, occorre che «Dio» ci visiti. Come? «Ciò che occorre è un uomo, / non occorre la saggezza, / ciò che occorre è un uomo / in spirito e verità; / non un paese, non le cose, / ciò che occorre è un uomo, / un passo sicuro, e tanto salda / la mano che porge che tutti / possano afferrarla e camminare / liberi, e salvarsi» (Carlo Betocchi, «Ciò che occorre è un uomo», in Dal definitivo istante, Milano, Bur, 1999, p. 247).
Con Gesù di Nazaret, «il Mistero è diventato un fatto umano, è diventato un uomo, un uomo che si muoveva con le gambe, che mangiava con la bocca, che piangeva con gli occhi, che è morto: questo è il vero oggetto del senso religioso. Allora, scoprendo questo fatto di Cristo mi si rivela, mi si chiarisce in modo grandioso anche il senso religioso» (Luigi Giussani, L’autocoscienza del cosmo, Milano, Bur, 2000, p. 17) ci ha detto don Giussani ricordando l’incontro di Giovanni e Andrea con Lui. E il retore romano Mario Vittorino descrive esattamente in questi termini la propria conversione: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo» (In Epistola ad Ephesios, ii, 4, 14).
Ancora don Giussani sottolinea che «Cristo è venuto nel mondo per rendere l’uomo a se stesso ed è in Lui che il senso religioso ha acquistato il suo significato puro, è diventato lucido, limpido, senza possibilità di equivoco. Per questo è nella fede cristiana che il richiamo ad ogni cuore umano trova il suo centro preciso, inconfondibile. La fede, cioè, svolge, afferma questa cattolicità del senso religioso». Con Gesù, il Figlio di Dio, il Mistero di Dio personale è diventato «presenza affettivamente attraente», al punto di accendere il desiderio umano e di sfidare come nessun altro la sua libertà, cioè la sua capacità di adesione. All’uomo basta cedere all’attrattiva vincente della Sua persona, alla Sua attrattiva, come accade all’uomo innamorato: è la presenza affascinante della persona amata che desta in lui tutta la sua energia affettiva. Basta cedere al fascino di chi si ha davanti.
Come afferma don Giussani, «una valorizzazione profonda della sostanza del cuore dell’uomo può essere fatta in modo mirabile, lucido, solo nella coscienza destata da Cristo, solo nella coscienza cristiana». Chi altri, infatti, può compiere il senso religioso se non Colui che ne è l’oggetto proprio? Ecco il punto di partenza di ogni autentico dialogo interconfessionale e interreligioso: nel Suo rapporto col Padre Gesù Cristo non attua un superamento del senso religioso — relegandolo in un «già saputo», riducendolo quasi a una premessa, sminuendolo a momento propedeutico — bensì lo fa «esplodere» in tutta la sua potenzialità. Solo un cristianesimo che conserva la sua natura originale, i suoi tratti inconfondibili di presenza storica contemporanea — la contemporaneità di Cristo — può essere all’altezza del reale bisogno dell’uomo, ed è perciò in grado di compiere il senso religioso (cfr. Dominus Iesus).
Non si tratta di un postulato da accettare, ma di una novità umana da sorprendere in atto: l’annuncio cristiano si sottopone a questa verifica, al tribunale dell’umana esperienza. Se nell’uomo che accetta di appartenere a Cristo attraverso la realtà della Chiesa accade quello che egli stesso con le sue forze non è in grado di raggiungere — un impensabile risveglio e compimento dell’umano in tutte le sue dimensioni fondamentali — allora il cristianesimo si rivelerà credibile e si renderà verificabile nella sua pretesa.
«Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto» (Luca, 6, 44): ecco il formidabile criterio di verifica che Gesù stesso ci offre. Il cambiamento generato dal rapporto con Cristo presente è tale che san Paolo non esita a esclamare: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Corinzi, 5, 17). La creatura nuova è l’uomo in cui il senso religioso si realizza nella sua — altrimenti impossibile — pienezza: ragione, libertà, affezione, desiderio! Questo è il contributo che il cristiano che vive veramente la sua fede può dare agli uomini veramente religiosi, testimoniando il compimento della religiosità nel riconoscimento e nell’adesione amorosa a Dio, in modo tale che possa diventare «tutto in tutto» (cfr. Efesini, 1, 23) e offrendo loro un criterio di giudizio per vagliare la propria esperienza religiosa.
Questa novità umana diventa uno sguardo veramente ecumenico, nel senso che l’antichità cristiana dava alla parola, in quanto «vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c’è in tutto ciò che si incontra, in quanto glielo fa riconoscere partecipe di quel disegno la cui attuazione sarà compiuta nell’eternità e che in Cristo ci è stato rivelato» (Luigi Giussani – Stefano Alberto – Javier Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Milano, Rizzoli, 1998, p. 157). Per questo l’ecumenismo non si riduce, come in tanti equivoci tentativi, a una tolleranza generica che può lasciare l’altro ultimamente estraneo, ma «è un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento in chiunque. Ogni volta che il cristiano incontra una realtà nuova l’abborda positivamente, perché essa ha qualche riverbero di Cristo, qualche riverbero di verità» (Ivi).
Questa è l’esperienza maturata in questi ultimi anni del quasi sessantennale cammino del movimento di Comunione e liberazione, non solo con i nostri fratelli ortodossi in Russia, i protestanti in Germania e negli Stati Uniti, gli anglicani nel Regno Unito, ma anche attraverso incontri inaspettati con amici ebrei, musulmani e buddisti. Come non citare la vicenda più che ventennale dei rapporti con i monaci del Monte Koya in Giappone, esponenti del buddismo shingon che già aveva colpito per il senso del mistero il grande missionario san Francesco Saverio? Come non essere grati della presenza nella nostra vita del professore egiziano Wael Farouq e dei suoi amici che è sfociata nell’ottobre 2010 nel grande Meeting del Cairo? Come non accogliere con gratitudine e sempre nuovo stupore la testimonianza di commovente fedeltà quotidiana all’Alleanza di tanti «fratelli maggiori» ebrei in Italia, in Israele, negli Stati Uniti, a cominciare dal professore Joseph Weiler di New York?
È una rete di rapporti in cui ciascuno aiuta l’altro a essere sempre di più se stesso, protagonista di quella pace — per cui «chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere pace, chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio» (Benedetto XVI, Angelus, 1 gennaio 2011) — di quella tensione alla bellezza, di quell’impeto di amore che diventa generatività e affermazione del Destino buono, di quel Dio che noi riconosciamo mentre si curva su di noi e ci abbraccia:Cristo.

domenica 10 luglio 2011

1)    Il Papa all'Angelus: Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira col suo amore. Appello per i marittimi sequestrati dai pirati (Radio Vaticana) domenica 10 luglio 2011
2)    Emancipate e depresse di Costanza Miriano, 08-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3)    Dat, la legge va avanti Pessina: «Non chiamatelo fine vita» di Riccardo Cascioli, 08-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4)    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - SUDAN, GLORIA DI UNA CHIESA CROCIFISSA E MISERIE DELL’IDEOLOGIA - Da “Libero”, 10 luglio 2011
5)    Avvenire.it, 8 luglio 2011 - Polemiche fuorvianti sul «fine vita» - L’invettiva e la ragione di Francesco D’Agostino
6)    Malesia, il paese che teme la Bibbia di Danilo Quinto, 09-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
7)    La schiavitù nei secoli Di Francesco Agnoli - 08/07/2011,  http://www.libertaepersona.org

Il Papa all'Angelus: Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira col suo amore. Appello per i marittimi sequestrati dai pirati (Radio Vaticana) domenica 10 luglio 2011

Il Papa all'Angelus: Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira col suo amore. Appello per i marittimi sequestrati dai pirati

Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira con la verità e la bontà perché l’amore rispetta sempre la libertà: è quanto ha affermato il Papa, oggi, durante l’Angelus nel cortile del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, dove è giunto giovedì scorso per un periodo di riposo. Benedetto XVI, in occasione della “Domenica del Mare”, ha lanciato anche un appello in favore degli ostaggi dei pirati. Il servizio di Sergio Centofanti.

Calorosa accoglienza per il Papa, al suo primo Angelus del periodo estivo a Castel Gandolfo. Benedetto XVI ha commentato la parabola del seminatore proposta dalla liturgia odierna. Gesù - ha detto - “si identifica con il seminatore, che sparge il buon seme della Parola di Dio, e si accorge dei diversi effetti che ottiene, a seconda del tipo di accoglienza riservata all’annuncio”:

“C’è chi ascolta superficialmente la Parola ma non l’accoglie; c’è chi l’accoglie sul momento ma non ha costanza e perde tutto; c’è chi viene sopraffatto dalle preoccupazioni e seduzioni del mondo; e c’è chi ascolta in modo recettivo come il terreno buono: qui la Parola porta frutto in abbondanza”.

I discepoli chiedono a Gesù perché parli in parabole e Lui risponde ponendo una distinzione tra loro e la folla:

“Ai discepoli, cioè a coloro che si sono già decisi per Lui, Egli può parlare del Regno di Dio apertamente, invece agli altri deve annunciarlo in parabole, per stimolare appunto la decisione, la conversione del cuore; le parabole, infatti, per loro natura richiedono uno sforzo di interpretazione, interpellano l’intelligenza ma anche la libertà”.

San Giovanni Crisostomo spiega che “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà”:

“In fondo, la vera ‘Parabola’ di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato: l’amore, infatti, rispetta sempre la libertà”.

Il Papa ha quindi ricordato che domani la Chiesa celebra la festa di San Benedetto, Abate e Patrono d’Europa:

“Alla luce di questo Vangelo, guardiamo a lui come maestro dell’ascolto della Parola di Dio, un ascolto profondo e perseverante. Dobbiamo sempre imparare dal grande Patriarca del monachesimo occidentale a dare a Dio il posto che Gli spetta, il primo posto, offrendo a Lui, con la preghiera del mattino e della sera, le attività quotidiane. La Vergine Maria ci aiuti ad essere, sul suo modello, 'terra buona' dove il seme della Parola possa portare molto frutto”.

Dopo l’Angelus, in occasione della cosiddetta “Domenica del Mare”, cioè la Giornata per l’apostolato nell’ambiente marittimo, ha rivolto un particolare pensiero ai Cappellani e ai volontari che si prodigano per la cura pastorale dei marittimi, dei pescatori e delle loro famiglie. Quindi, ha assicurato la sua preghiera "per i marittimi che purtroppo si trovano sequestrati per atti di pirateria". A tutt'oggi sono circa 800 persone ancora in ostaggio dei pirati, per un fenomeno che non accenna a diminuire:

"Auspico che vengano trattati con rispetto e umanità, e prego per i loro familiari, affinché siano forti nella fede e non perdano la speranza di riunirsi presto ai loro cari”.

Rivolgendosi pio ai pellegrini di lingua francese ha invitato “a ritemprare le energie" in questo tempo di vacanze "ammirando lo splendore della creazione”:

"Parents, apprenez à vos enfants..."
"Genitori, insegnate ai figli ad osservare la natura, a rispettarla e proteggerla come un magnifico dono che ci fa intuire la grandezza del Creatore! Parlando in parabole, Gesù ha utilizzato il linguaggio della natura per spiegare ai suoi discepoli i misteri del Regno. Le immagini che usa ci diventino familiari! Ricordiamo che la realtà divina è nascosta nella nostra vita quotidiana come il seme posto nel terreno. Sta a noi farlo fruttificare!”.

Parlando in inglese, ha esortato a impiegare le vacanze “per avvicinarsi al Signore attraverso la preghiera regolare, la partecipazione all'Eucaristia e con generosi atti di carità”.

“Il tempo delle vacanze, nel quale in queste settimane tanti cercano il riposo – ha detto in tedesco - è anche un invito a prendere maggiore coscienza della Creazione di Dio:

"Die Erlösung, die uns in Jesus Christus geschenkt ist..."
"La redenzione che ci è donata in Gesù Cristo significa responsabilità nei riguardi dei nostri fratelli e di tutto quello che Dio ha creato. Egli vuole che noi ci liberiamo dall’avidità distruttrice e da falsi legami, che viviamo come uomini nuovi, come suoi figli e figlie, e che in questo modo portiamo al mondo la sua pace”.

Salutando i Polacchi, ha detto che “Cristo, il Seminatore della Parola sul Regno di Dio del Vangelo odierno, ci incoraggia ad essere la terra fertile per il seme, la parola che viene seminata. Possa essa produrre molto frutto! Non la offuschino le cose di questo mondo, né il desiderio della ricchezza. Auspico che il riposo estivo sia anche occasione opportuna per la lettura della Sacra Scrittura”.

Infine, in italiano, ha ringraziato i fedeli per l'affettuosa accoglienza:

"A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana! Grazie per il vostro entusiasmo! Buona domenica! Grazie!

© Copyright Radio Vaticana


Emancipate e depresse di Costanza Miriano, 08-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

In Inghilterra una donna su tre prende psicofarmaci contro la depressione. Prozac e Cipramil vanno via come acqua fresca. Lo riferisce il quotidiano britannico The Independent, citando studi medici.
Ora, non vorrei entrare con la mia rinomata delicatezza da elefante in un ambito tanto privato e delicato come la salute mentale, ma qualche domanda vorrei farmela. Perché le donne? Perché con una frequenza che ha indotto il ministero della salute a parlare di “crisi nazionale”? E perché in un paese che è stato ed è all’avanguardia nella battaglia per l’emancipazione, per la parità dei ruoli di uomo e donna?

Se trentatré donne su cento, che è una cifra esorbitante, devono prendere antidepressivi per andare avanti, siamo autorizzati a pensare che sia un fatto culturale, sociale, di identità collettiva, e non di malattia, perché nessuna malattia può avere un’incidenza tanto alta.

Le femministe diranno come al solito che le donne devono fare troppe cose, tutte da sole, e daranno la colpa agli uomini e allo stato sociale che non le aiutano. La solita solfa. Io però ne ho conosciute di donne che hanno tirato avanti la carretta della famiglia, numerosa magari, in tempo di guerra, magari, con i buoni per il pane e lo zucchero, e il mercato nero, e le scarpe da mettere solo per andare in chiesa. Non ho mai sentito da loro la parola depressione, che ha molto più a che fare con la perdita di senso che con la fatica vera e propria.

Penso piuttosto che possa entrarci il fatto che la donna si è persa, non sa più chi è. Ha perso il bandolo della matassa. Noi donne per secoli siamo state le culle della vita nascente, depositarie di questo fuoco da tenere sempre acceso, di generazione in generazione. Da quando abbiamo cominciato a dire che questo non era abbastanza, e ce ne siamo liberate, vivendo la nostra sessualità in modo emotivo e disordinato, libero da rischi di concepimento (rischio? o miracolosa fortuna, piuttosto?), non sappiamo più da che parte andare. Anche se abbiamo figli, ci teniamo a dire che ci realizziamo anche fuori, e ci sentiamo in dovere di fare tutto, di essere tutto, di vivere troppe vite. Una fatica bestiale, insostenibile. Un continuo, frenetico, insensato multitasking, a volte imposto (e ci sarebbe da ragionare su alcuni meccanismi economici), a volte abbracciato con zelo.

In entrambe le eventualità, comunque, difficilmente l’essere madre, o comunque l’essere accogliente verso la vita, viene vissuta come una profonda, gratificante avventura che consente il dispiego di tutto il nostro genio. “Voglio di più, l’uomo non mi può dominare, costringere a questo”. Ma dove li vedranno poi tutti questi maschi dominanti e coercitivi? Io ne vedo tanti persi e disorientati, piuttosto.

E con le dimensioni dell’epidemia di depressione deve entrarci anche il fatto che rimuovendo la croce dal nostro orizzonte esistenziale, tutti - uomini e donne - pensiamo che ogni fatica, difficoltà, sofferenza vada evitata. Da chi non ha Cristo come compagno di strada, cadere e sbucciarsi le ginocchia non viene sentito come un prezzo da pagare per salire un po’ più su, ma come una fregatura, dalla quale quindi è meglio svicolare il più possibile. Se una pillola permette di farlo, ben venga.

Non è che noi cattolici siamo cretini, e ci piaccia soffrire. E’ che anche alla sofferenza, che neanche a Gesù piaceva (i malati li guariva, mica dava loro un buffetto sulle guance), Lui ha dato un senso. Ed è il senso che fa la differenza.

Quanto a me, lo ammetto, lamentarmi mi piace molto. Lo saprei fare molto bene. Sono creativa, attenta (trovo il pelo nell’uovo), resistente, tenace. Se un’amica ha da fare ne posso sempre chiamare un’altra, non mi arrendo facilmente. Se il lamento diventasse una specialità olimpica punterei al podio. Voglio l’oro nel lamento carpiato, perché posso rigirare il discorso di 360 gradi e giungere a una lamentela, in  qualsiasi punto della conversazione mi trovi.
Mi sforzo a volte di non farlo, però, perché ultimamente vedo musi così lunghi, intorno a me, che penso che un’altra lagnanza in più porterebbe il mondo oltre la soglia accettabile di entropia. 
E così, a parte il fatto che nonostante i colpi di sole di vari parrucchieri continuo a portare in testa un ratto muschiato (ma lo faccio con disinvoltura), mi faccio andare bene quello che ho.

Il fatto è che siamo adulti quando desideriamo ciò che abbiamo. E abbiamo tantissimo, tanti di noi. Quasi tutti, a parte quelli colpiti dalla sofferenza degli innocenti, che è una prova sconvolgente. Eppure non siamo capaci di gioirne. Così mi viene spesso in mente quel banchetto di cui parla il Vangelo: nessuno degli invitati viene alla festa, e allora il padrone di casa comincia a radunare in giro gli scarti, i malati, i poveri, un’accozzaglia di gente che almeno si goda la festa meravigliosa che era preparata per noi.


Dat, la legge va avanti Pessina: «Non chiamatelo fine vita» di Riccardo Cascioli, 08-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Dopo l’approvazione degli articoli 1 e 2 della Legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), avvenuta mercoledì, l’aula della Camera ha approvato il 7 luglio due emendamenti all’articolo 3 – presentati da Paola Binetti (Udc) e Lucio Barani (Pdl) – che prevedono di poter indicare nel testamento biologico solo i trattamenti terapeutici cui si vuole essere sottoposti in caso di perdita di coscienza e non quelli a cui invece non si vuole essere sottoposti. Un altro “paletto” importante che si aggiunge ai primi due articoli che escludono qualsiasi forma di eutanasia e prevedono l’obbligo del consenso informato.

Per avere una prima valutazione su quanto sta avvenendo in Parlamento abbiamo chiesto un parere al professor Adriano Pessina, docente di Filosofia Morale all’Università Cattolica di Milano e noto esperto di bioetica, nonché membro della Pontificia Accademia della Vita.


Professor Pessina, quanto si può essere soddisfatti di questi principi fondamentali approvati dalla Camera?

Penso che sia molto importante ribadire, anche con una legge, il divieto di ogni forma di suicidio assistito e di eutanasia, e di tornare a qualificare l’operato del medico all’interno dei due parametri decisivi del curare e del prendersi cura. Il fatto che una legge che riguarda le dichiarazioni anticipate di trattamento debba aprirsi con queste dichiarazioni, di principio, ma sostanziali, è però indice di un fatto: in modo improprio, finora, si è cercato di utilizzare il riferimento alla volontà pregressa del paziente per aprire le porte a forme di abbandono terapeutico, se non di esplicita eutanasia, come si è visto con il caso Englaro. Per questo motivo, proprio per un uso distorto e ideologico delle dichiarazioni anticipate di trattamento, la legge che le regola deve prestarsi il meno possibile ad interpretazioni che ne violino la lettera e lo spirito. Ma più si entra nel merito di quanto si può o no rifiutare, più facilmente si apre la possibilità del fraintendimento, o si rischiano eccessi ingiustificati. Penso che si debba aspettare la formulazione definitiva per giudicare, anche perché sembra che verranno apportate delle modifiche anche da parte del relatore di maggioranza. Aggiungo che le informazioni sui lavori in corso non sono poi facilmente reperibili.


Non ritiene che il solo fatto di arrivare a discutere una legge che cerca di regolamentare un momento così particolare e importante come è il fine vita sia già una sconfitta culturale?

La questione, a mio avviso, particolarmente delicata, è data dal fatto che questa legge fa riferimento a situazioni tra loro molto differenti. Di solito, si dice che riguarda il fine vita, ma in realtà molti dei suoi articoli non riguardano affatto dei morenti, ma pazienti, come quelli in stato vegetativo, che spesso hanno lunghe aspettative di vita, anche se rarissime possibilità di ripresa di alcune attività coscienziali. A ciò si aggiunga che, in linea di principio, le Dat dovrebbero servire per regolare le situazioni nelle quali il soggetto non può più esprimere la sua volontà, e questo potrebbe essere il caso delle malattie neurodegenerative, che sono diverse dalle situazioni precedenti. A mio avviso, la sconfitta culturale è iniziata nel momento in cui si sono fatte troppe confusioni di situazioni e si è usata l’arma della retorica al posto dell’informazione corretta. Può, una legge, fare finalmente chiarezza? Ce lo auguriamo, ma è certo che non si può assolutamente pensare che basti una legge per creare una adeguata attenzione alle situazioni critiche dell’esperienza della malattia, o delle situazioni di fine vita. Tra l’altro non si sottolinea abbastanza che le Dat non sono obbligatorie, e che nei Paesi in cui sono legalizzate sono poco utilizzate, e che quindi restano aperte tutte le questioni che non vengono, per così dire, coperte dalle Dat.


Dopo l’approvazione dei primi articoli, esponenti dell’opposizione hanno già lanciato una sfida sul modello di quanto accaduto per la legge 40, affermando che ci sarà un “grosso lavoro per i giudici”.

Non è impossibile, anche a motivo delle diverse tematiche presenti in questa legge, che potrebbero prestarsi a diverse interpretazioni. A suo tempo avevo formulato alcune osservazioni di merito, su possibili lacune dell’impianto legislativo, ma non sappiamo quale sarà il prodotto finale dei lavori. Va anche aggiunto che i radicali, che sono trasversali ai vari schieramenti, sono da tempo sostenitori di eutanasia e suicidio assistito e che sono i responsabili di quello stravolgimento del significato delle Dat che ha spinto molti a ritenere necessaria una legge. L’importante è creare un consenso nel Parlamento e soprattutto nel Paese sul significato di questa legge e, a mio avviso, sul fatto che laddove c’è una buona medicina non c’è bisogno di Dat.


Qualcuno critica il progetto di legge perché, seppure con le migliori intenzioni, apre la strada al principio dell’autodeterminazione?

Non dobbiamo avere paura né dell’autodeterminazione, né della libertà di scelta del cittadino: ciò che va messo in discussione è il contenuto delle scelte. Non si tratta di negare la libertà, ma di ribadire che alcune scelte sono moralmente sbagliate e illegali. Se vogliamo promuovere una cultura dell’assistenza non rinunciataria, ma equilibrata, dobbiamo ristabilire un nesso fiduciario tra medico e paziente che abbia solide basi valoriali. Tutta questa enfasi sull’autodeterminazione finora è servita soprattutto per disimpegnarsi nei confronti delle situazioni difficili, secondo lo slogan “lo vuole il paziente”. Del resto costa meno sospendere i trattamenti, valorizzare la rinuncia, valorizzare la libertà del suicidio assistito e dell’eutanasia che costruire itinerari di assistenza integrale e integrata, che preveda nuove forme di aiuto e di supporto non soltanto ai malati ma ai familiari e a chi si prende cura di loro. Dobbiamo essere onesti: l’etica non è gratis. Dobbiamo decidere se a guidare l’assistenza è l’economia o se l’economia e l’assistenza debbano essere guidate da una nuova consapevolezza di quali beni sono da tutelare senza se e senza ma, mostrando che ci sono campi in cui, invece, sarebbe doveroso tagliare costi e prestazioni. La libertà si esercita anche qui, non mettendo tutte le situazioni sullo stesso piano e non facendo gravare sui più deboli i costi di altri sprechi.


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - SUDAN, GLORIA DI UNA CHIESA CROCIFISSA E MISERIE DELL’IDEOLOGIA - Da “Libero”, 10 luglio 2011

Da oggi il sud del Sudan è finalmente uno stato libero e indipendente (se non verrà strozzato nella culla).

Lì è stato perpetrato l’ultimo genocidio del Novecento, ma un genocidio ignorato dai media e dal “partito umanitario” nostrano. Forse perché le vittime non erano “politically correct”, trattandosi di neri cristiani e animisti.

Autore di quell’orrore è stato il regime arabo- musulmano del nord che ospitò negli anni novanta anche Osama bin Laden  e che, da qualche anno, è in combutta con la Cina comunista interessata al petrolio sudanese.

I media si sono occupati del Sudan solo di recente, quando è scoppiata l’emergenza Darfur, che derivava da un conflitto non religioso (erano tutti musulmani).

Invece per la Jihad – la guerra santa islamica – che per decenni ha sterminato il Sud cristiano e animista non hanno avuto tempo.

Eppure le cifre sono terrificanti: due milioni di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese. 

Il regime di Karthoum ha fatto del Sudan – che sarebbe ricchissimo di petrolio e altre risorse – uno dei paesi più poveri della terra (è al 150° posto su 182), un paese dove si vive ancora in capanne di fango, seminudi e si muore come mosche per fame e malaria. Per questo molti fuggono, cercando di arrivare all’Italia e in Europa.

Siccome scrivo e parlo del genocidio sudanese da quindici anni, su giornali e in tv (prendendomi anche qualche insulto), permettetemi di togliermi un po’ di sassolini dalle scarpe.

Perché il “caso Sudan” è un’occasione preziosa per riflettere sulla famosa coscienza “umanitaria” a intermittenza che caratterizza questa sinistra che ci è toccata in sorte e i nostri media che in gran parte vengono culturalmente da lì.

Piazze urlanti

C’era una volta il Vietnam. Ricordate? E’ stato il mito fondativo della sinistra sessantottina la quale poi ha riempito giornali e tv continuando l’intossicazione ideologica con altre armi.

Quella del Vietnam è stata la madre di tutte le cause umanitarie della sinistra e conteneva tutte le sue contraddizioni e le sue ipocrisie.

Per anni manifestazioni, cortei, assemblee, articolesse, indignazione a senso unico.

Uno dei famosi inviati, Giorgio Bocca, anni dopo, confessò: “feci dei servizi che piacquero alla sinistra italiana: in parte perché raccontavo la verità sulla formidabile guerriglia vietnamita, in parte perché mi autocensuravo”.

Poi spiega: “la mitizzazione della rivolta vietnamita e la demonizzazione degli americani erano giunte a un tale livello che non era possibile raccontare una verità che avesse però il marchio di informazione Usa”.

Non c’era posto per la verità. E questa era la stampa libera e indipendente.

Finalmente i comunisti del Nord conquistarono il Sud Vietnam e iniziarono dittatura e massacri: di colpo nessuno degli indignati più si curò del Vietnam e di quello che stava capitando ai vietnamiti “liberati” dai comunisti di Ho Chi Min.

Migliaia di quei poveri vietnamiti – a cui avevamo imposto di subire la conquista comunista – fuggirono dal “paradiso marxista” su barche di fortuna. Molti annegarono, altri furono divorati dagli squali. Alcuni furono soccorsi. E cosa dicevano i compagni italiani di quei “boat people”?

Rossi di vergogna

Posso testimoniarlo in prima persona. A quel tempo frequentavo il liceo a Siena.

Collaboravo con la Caritas per organizzare l’ospitalità in Italia per quei profughi che riuscirono ad arrivare vivi e ricordo bene che distribuendo i volantini in piazza a Siena ci prendevamo gli insulti dei compagni che chiamavano quei profughi “fascisti e reazionari”.

Essendo in fuga dal comunismo, agli occhi loro quei profughi non erano da considerare come oggi consideriamo quelli che arrivano con i barconi a Lampedusa.

Questa era la coscienza umanitaria della sinistra. Che in questi mesi, peraltro, vede i profughi e ne reclama l’accoglienza, ma non vede le cause della loro fuga: per esempio quell’orrida guerra contro la Libia tanto voluta dal compagno-presidente Napolitano.

Anche in questo caso la coscienza umanitaria e pacifista dei compagni è andata in vacanza (bombardiamo pure Tripoli, il pacifismo pensa all’abbronzatura).

Errori e orrori

Torno al Vietnam. L’altro mito gemello del ‘68 fu la Cambogia. Anche quella doveva essere “liberata” dall’okkupazione americana. “I Khmer rossi ci sembravano l’unica via d’uscita dall’incubo della guerra”, scriverà anni dopo Tiziano Terzani in un famoso articolo su “Repubblica” intitolato “Pol Pot, tu non mi piaci più”.

Questo articolo di revisione uscì nel 1985 e ormai già si sapeva tutto del genocidio di due milioni di cambogiani innocenti perpetrato dai Khmer rossi.

Quello che il “grande inviato” avrebbe dovuto fare e non fece era raccontare prima, quando era sul posto, mentre accadevano i fatti, la mostruosità sanguinaria dei guerriglieri comunisti.

Ma sebbene abbia visto, non credette a quei “massacri comunisti”. Sospettò che fossero manipolazioni della Cia. E oggi viene celebrato dal pensiero conformista come un grande giornalista testimone delle atrocità del Novecento.

Chi invece, come il missionario padre Gheddo, denunciò le stragi comuniste in Indocina mentre accadevano, negli anni Settanta, si prese del “reazionario” e “finanziato dalla Cia”. “Nessuno mi credette”, ricorda. E nessuno poi gli ha riconosciuto il coraggio della verità, né ha chiesto scusa.

Nei decenni successivi la “sinistra umanitaria” ha continuato ad alimentare le sue mitologie, sebbene più in sordina. Ma sempre con un’accurata selezione ideologica.

Contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan dei primi anni Ottanta – per esempio – non fiatarono (a quel tempo scendevano in piazza per protestare contro gli euromissili americani, risposta a quelli sovietici).

Ma contro la guerra di Bush all’Afghanistan dei talebani e di Bin Laden hanno scatenato il finimondo (ovviamente senza mai chiedere il parere delle donne afghane).
Contro la Cina che massacrava gli studenti  in piazza Tien an men nessuna manifestazione, né indignazione di massa. Così pure sull’oppressione del Tibet. Silenzio anche sui lager cinesi tuttora funzionanti.

Invece è divampata la polemica su Guantanamo e, da anni, la protesta contro Israele che sarebbe reo di opprimere i palestinesi.

Gli “umanitari” indignati infine hanno protestato per anni contro gli Stati Uniti rei di aver posto l’embargo a Cuba (ovviamente senza denunciare la schifosa dittatura comunista di Fidel Castro).

Perciò, con tutte queste “cause umanitarie” che permettevano loro di sentirsi buoni e puri, denunciando come oppressori Stati Uniti e Israele, gli umanitari progressisti di casa nostra non ebbero tempo di accorgersi del genocidio sudanese, cioè della “più lunga guerra del ‘900” (dal 1956 al 2005) nel paese più grande dell’Africa.

Erano tutti distratti e così in Italia nessuno sa qualcosa di quel genocidio che è stato definito dall’africanista Giampaolo Calchi Novati “la più dura operazione di islamizzazione forzata del ‘900”.

Solo la voce della Chiesa

L’unica voce, inerme e martire, come al solito, è stata quella della Chiesa, una “Chiesa crocifissa”, come l’ha definita Giovanni Paolo II.

Una Chiesa che ha il volto del grande vescovo missionario monsignor Mazzolari, che “comprende in sé una capacità di denuncia del male unita a un’indomita fantasia di bene che ha costruito scuole, ospedali, missioni, chiese, dispensari, vite future di ragazzi un tempo schiavi e poi laureatisi a Oxford”, come scrive Lorenzo Fazzini nel bel libro “Un Vangelo per l’Africa”, dedicato a Mazzolari e al Sudan.

Il cristianesimo è arrivato nei regni nubiani addirittura nel VI secolo. Poi ha portato libertà e dignità umana in Sudan, nell’Ottocento, con un grande santo, padre Comboni. 

Oggi la Chiesa accompagna questo popolo alla libertà e all’indipendenza. Il cristianesimo si conferma come culla di umanità e come l’unica vera forza liberazione dei popoli. Mentre i nostri intellettuali gli riservano (oggi come ieri) parole sprezzanti…



Avvenire.it, 8 luglio 2011 - Polemiche fuorvianti sul «fine vita» - L’invettiva e la ragione di Francesco D’Agostino

Finalmente alla Camera dei deputati sono iniziate le votazioni sulla proposta di legge sul "fine vita" e puntualmente è tornato ad affacciarsi sulla prima pagina della "Repubblica" Stefano Rodotà, con il compito di vituperarla. Questa volta, però, sembra proprio che Rodotà abbia passato ogni limite nella sua, aggressività verbale, peraltro ormai ben nota: la legge sarebbe «ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale». Basta? Certo che no. A questa sfilza di complimenti, Rodotà ne aggiunge altri: la legge disprezzerebbe l’opinione pubblica, sarebbe la «quintessenza di un dispotismo etico», rifletterebbe «un fondamentalismo cattolico incomprensibile», farebbe «scempio» del «diritto fondamentale» all’autodeterminazione, trasformerebbe le dichiarazioni anticipate di trattamento in «macchine inutili, frutto di un delirio burocratico» e attraverso di essa il presidente del Consiglio «e la sua docilissima schiera» metterebbero «le mani sul corpo di ciascuno di noi». Potrei continuare con le citazioni.

Credo che sia molto difficile convincere Rodotà ad assumere toni laicamente più sobri e, pur criticandola, a manifestare un minimo di rispetto per una proposta di legge che è comunque condivisa da un consistente e maggioritario numero di deputati, tra i quali vanno annoverati anche – e Rodotà lo sa benissimo – non pochi rappresentanti dell’opposizione. Un testo – particolare di non poco conto, anche se Rodotà finge di non notarlo – che a ogni scrutinio segreto raccoglie ulteriori adesioni di coscienza e, dunque, procede nel suo iter con un consenso trasversale ancora più ampio del previsto. E credo anche che ormai sia un’impresa disperata aprire un dialogo con lui. Non certo perché non si possano smontare, senza troppe difficoltà, le sue argomentazioni (lo testimoniano diversi editoriali su questo tema apparsi su "Avvenire" e tutti sistematicamente ignorati da Rodotà), ma perché non vale la pena farlo.

Che senso mai può avere cercare di ragionare pacatamente con chi usa espressioni parossistiche come quelle che ho citato? O ricordare all’illustre collega che non è corretto invocare l’autorità di «cento giuristi» ostili alla legge, facendo sprofondare gli studiosi di diritto che hanno una diversa opinione (e ce ne sono tanti!) nel limbo dei non giuristi o dei giuristi non meritevoli di attenzione alcuna? O imputargli la curiosa citazione di un documento della Conferenza episcopale tedesca, da lui utilizzato solo per contrapporre scorrettamente l’opinione dei vescovi tedeschi a quella delle «gerarchie vaticane»?

La sostanza della questione è una sola ed è sempre la stessa. Non si tratta di dire di no alle Dichiarazioni anticipate (che qualcuno chiama, forzando, Testamento biologico), ma di regolarle per legge in modo intelligente ed equilibrato, come capì benissimo, a suo tempo, il Comitato nazionale per la bioetica, quando formulò un parere che, proprio per il suo equilibrio, fu condiviso da laici e cattolici. Prima di insistere sul diritto, di rango costituzionale, a rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (diritto pensato dai padri costituenti con riferimento a soggetti lucidi, capaci, consapevoli, adeguatamente informati), prima di dipingere irreali scenari di espropriazione del nostro corpo, riflettiamo con un po’ di buon senso alle specialissime condizioni in cui si trova una persona che, avvicinandosi alla fine della sua vita, abbia perso coscienza.

Un suo "testamento biologico", magari redatto molto anni prima, può aver perso di attualità o può essere stato sottoscritto in condizioni di incredibile fragilità psicologica, economica, sociale e mentale, tali da renderne molto discutibile l’attendibilità o anche sulla base di informazioni inadeguate, frettolose o carenti. Come pretendere di rendere «vincolante» un documento che può avere caratteri così problematici? È più che giusto che un medico «tenga conto» (come dice la Convenzione di Oviedo) delle dichiarazioni anticipate ed è giustissimo obbligarlo a motivare in forma scritta perché le osservi o perché non le osservi, ma non lo si può vincolare a un’ ubbidienza cieca e passiva nei confronti dei desideri di un paziente incompetente, più di quanto non abbia senso vincolarlo a quelli di pazienti pur capaci di intendere e di volere.

La questione è tutta qui ed è di questo soltanto che dobbiamo discutere: esaltare l’autodeterminazione nei momenti di fine vita o è un’imperdonabile ingenuità illuministica o è un ancor meno perdonabile tentativo di introdurre surrettiziamente l’eutanasia nel nostro sistema giuridico, senza avere il coraggio di chiamarla col suo proprio nome.



Malesia, il paese che teme la Bibbia di Danilo Quinto, 09-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Solo per le elezioni dello scorso mese di aprile, il Governo della Malesia ha autorizzato la stampa delle Bibbie in tutte le lingue, compreso il malese. Come ha riferito nel marzo scorso l'agenzia AsiaNews, la comunità cristiana della Malesia ha criticato aspramente la decisione delle autorità del Paese asiatico di porre il sigillo ufficiale del Ministero degli Interni su circa 5.100 esemplari della Bibbia in lingua malay, importati dall'Indonesia per conto della Società Biblica della Malesia (BSM) e bloccati dal 20 marzo 2009 nel porto di Klang, nello Stato di Selangor (Malesia Occidentale o Peninsulare).

Anche se la BSM non aveva dato alcun permesso, il Ministero ha informato l'organizzazione di aver provveduto alla stampigliatura sulla copertina di ogni copia del seguente testo: "Avvertenza: questo 'Al Kitab Berita Baik' è solo per l’uso dei cristiani. Per ordine del ministro degli Interni". Secondo le autorità malesi, "timbrare" e numerare ogni esemplare per garantirne la "rintracciabilità" è l'unica via per lo sblocco delle copie della Sacra Scrittura o "Al Kitab" ("Lo scritto" o "Il libro" in arabo e in malay). Come riporta l’ Agenzia Zenit del 16 marzo scorso, la reazione della BSM è stata questa: "La Società Biblica della Malesia è preoccupata per il modo in cui la Bibbia cristiana viene deturpata da parte di non cristiani e sigillata con parole che i cristiani non hanno accettato o consentito. In quanto libro sacro dei cristiani, la Bibbia va trattata con il dovuto rispetto, consultando i competenti organi rappresentativi cristiani prima di inserire qualsiasi testo esterno nelle Bibbie".

Netto è stato anche il rifiuto da parte della Federazione Cristiana della Malesia (CFM), l'organizzazione fondata nel 1985 che raggruppa la quasi totalità delle denominazioni cristiane del Paese, inclusa la Conferenza dei Vescovi Cattolici della Malesia. "Ogni persona che rispetta le Sacre Scritture sarebbe inorridita da questa azione. Non accetteremo mai una sconsacrazione della Bibbia, perché la parola di Dio è sacra per noi", afferma un comunicato del presidente della CFM, Ng Moon Hing (“AsiaNews”, 18 marzo). Per il vescovo anglicano della Malesia occidentale, l'intervento del Ministero degli Interni fa capire che la Bibbia in lingua Bahasa (la lingua standard delle Malesia) è "ora trattata come un prodotto controllato e la parola di Dio è fatta oggetto di controllo da parte dell’uomo. Questo è pienamente offensivo per i cristiani".

Già nel gennaio scorso avvenne un altro "sequestro" di 30mila copie della Bibbia, importati sempre dall'Indonesia per conto della sezione locale di “Gideons International” e bloccati nel porto di Kuching, nello Stato del Sarawak (Borneo nordoccidentale), perché "contenevano parole che si trovano anche nel Corano" (“Compass Direct News”, 14 marzo). Gli esemplari del Nuovo Testamento, dei Salmi e dei Proverbi dovevano essere distribuiti in alcune aree cristiane del Sarawak. Come ricordato da “Compass”, quasi due terzi dei cristiani della Malesia (il 64%) appartengono alla popolazione indigena degli Stati di Sabah e Sarawak, che come lingua corrente utilizzano il malay. Il Vescovo Ng, presidente del CFM, ha denunciato così questi accadimenti: "Il CFM è fortemente deluso, stufo e furioso per la ripetuta detenzione di Bibbie scritte nella nostra lingua nazionale", si legge in un comunicato diffuso il 10 marzo (“Compass”, 14 marzo). "Sembrerebbe - così continua il testo dell'organismo interconfessionale - che le autorità stiano portando avanti un continuo, subdolo e sistematico programma contro i cristiani nella Malesia, negando loro l’accesso alla Bibbia (in malay)".

All'origine dei ripetuti blocchi delle Bibbie in lingua malay (non accade infatti con le copie nelle altre lingue, ad esempio inglese) è la questione dell'uso da parte cristiana della parola "Allah" per indicare o nominare Dio, scoppiata il 7 gennaio del 2009, quando il Ministero degli Interni vietò all'Arcidiocesi di Kuala Lumpur di usare il termine nella sezione in lingua malay del suo settimanale, l'”Herald Weekly”. Secondo il Ministero, l'uso del termine da parte non musulmana rischierebbe infatti di "creare confusione e danneggiare l’ordine pubblico" (AsiaNews, 25 febbraio 2009) ed inoltre potrebbe indurre i musulmani a convertirsi al cristianesimo. Un ricorso contro il divieto presentato dall'Arcivescovo di Kuala Lumpur, monsignor Tan Sri Murphy Pakiam, è stato accolto il 31 dicembre dello stesso anno dall'Alta Corte, la quale ha confermato il diritto costituzionale dei cristiani ad usare la parola. Ad impedire l'applicazione della sentenza, che ha provocato violente proteste da parte musulmana (una decina di Chiese attaccate nel gennaio 2010), è la decisione del Ministero di impugnare il verdetto emesso dal giudice Lau Bee Lan.

Le fonti confermano infatti che i cristiani della Malesia usavano la parola "Allah" ben prima della nascita dello Stato federale della Malesia, avvenuta nel 1963. Un dizionario latino-malese del '600 dimostra senza equivoci l'uso del termine in senso cristiano. Si tratta del "Dictionarium Malaicum-Latinum" e "Latinum-Malaicum" pubblicato nel lontano 1631 a Roma e ristampato di recente proprio per sostenere la posizione della Chiesa cattolica. Inoltre, come ha spiegato in un'intervista all’ Agenzia Zenit (6 gennaio 2010) il Vescovo della diocesi cattolica di Melaka-Johor (Malesia Peninsulare), monsignor Paul Tan Chee Ing, "nel Sacro Corano, alla Sura 5,69 e alla Sura 22,17, anzi più esplicitamente alla Sura 2,62 si dice che gli ebrei, i cristiani, i sabei e i musulmani hanno il culto di Allah". "Come può dunque – ha detto il presule - un musulmano andare contro il suo Sacro Corano? Non è possibile. E se lo fa è per mera ignoranza o per ragioni di opportunità politica". Per monsignor Tan, "è solo in tempi recenti che non solo 'Allah' ma anche altre parole e frasi di origine araba - ad esempio 'rasul', 'baitullah' ecc. - sono state vietate ai fedeli non musulmani. Non è allora una battaglia linguistica. È invece una battaglia per i voti, dunque politica".

In Malesia – dove esistono due sistemi giuridici, quello islamico e quello basato sul diritto consuetudinario di matrice anglosassone - l’Islam è la religione di Stato, ma la legge islamica dovrebbe valere solo per i musulmani, anche se si sono verificati casi in cui ha pericolosamente prevaricato la legge comune e la libertà personale di scegliere la propria religione, come sancito dalla Costituzione. Emblematico – lo riporta il rapporto dell’Istituto di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre” - il caso di Banggarma Subramaniam, giovane donna di 27 anni, che nel 2001 si è sposata con un uomo di religione indù. Il National registration department non le ha permesso di registrare il suo matrimonio, perché è schedata come musulmana. La ragazza, tuttavia, ha dichiarato di essere stata di religione indù per la maggior parte della propria vita, anche se all’età di sette anni i funzionari del welfare l’avevano registrata come musulmana. Alla ragazza è stato detto che deve recarsi alla Corte Syariah per intraprendere tutte le procedure previste dalla legge islamica in caso di abbandono della religione musulmana. P. Thomas Philips, presidente del “Malaysian consultative council of Buddhism, Christianity, Hinduism, Sikhism and Taoism”, ha protestato in quanto la Corte Syariah ha giurisdizione solamente sulle persone di fede islamica, mentre Banggarma Subramaniam dice di essere un’indù” e non dovrebbe dunque passare attraverso nessuna procedura.

La Costituzione della Malesia garantisce la libertà di scegliere e professare la propria religione. Nonostante questo, il governo appoggia, anche economicamente, la religione islamica e cerca di limitare la libertà delle altre confessioni religiose. È durata tre anni la battaglia del settimanale cattolico “Herald” contro il governo per ottenere il permesso di utilizzare la parola “Allah” in riferimento al Dio cristiano. Nel 2007 il governo aveva vietato l’utilizzo della parola “Allah” “da parte di non mussulmani” perché “può far crescere tensioni e creare confusione fra i musulmani del Paese”. L’arcivescovo della capitale, Monsignor Murphy Pakiam, aveva reagito citando in tribunale il governo. L’arcidiocesi di Kuala Lumpur rivendica il diritto di usare la parola “Allah”, rifacendosi all’art. 10 della Costituzione (libertà d’espressione) e all’art. 11 (libertà di praticare la propria religione). Di fatto, i cristiani hanno definito “Dio” con la parola “Allah” perfino prima che esistesse lo stato malaysiano; senza contare che in lingua malese esiste solo questa parola per nominare Dio. A febbraio 2009, l’”Herald” ha subito minacce e pressioni da parte di giornali musulmani, con l’accusa di voler rovinare la nazione con il suo proselitismo. Dopo mesi di tensioni, il 31 dicembre 2009 l’Alta Corte di Kuala Lumpur ha autorizzato il settimanale cattolico “Herald” a usare la parola “Allah”, nella lingua malese, in riferimento al Dio cristiano. Il governo, in risposta, ha annunciato che farà ricorso, pur invitando i fedeli alla calma.

La settimana dopo la sentenza dell’Alta Corte, la chiesa cattolica dell’Assunzione a Petaling Jaya è stata attaccata da alcuni musulmani che hanno lanciato al suo interno una bomba incendiaria. L’8 luglio, due cattolici hanno denunciato il mensile “Al-Islam” per un reportage dedicato a presunte conversioni forzate al cristianesimo. Due giornalisti musulmani si sono finti cattolici, hanno partecipato a due messe e ricevuto la comunione dissacrando l’ostia di cui hanno anche pubblicato un immagine. I due non hanno raccolto prove a sostegno della loro tesi, ma accusano i cattolici di usare la parola Allah per definire Dio durante le celebrazioni in lingua locale. Interpellato da “AsiaNews”, Padre Lawrence Andrew, direttore dell’”Herald”, afferma che “la vicenda di ‘Al-islam’ ha umiliato i cattolici della Malaysia ed è una violazione dei diritti dei cristiani oltre che una sfida alla Costituzione federale che sancisce la libertà di religione”. In seguito alla disputa sull’uso del termine “Allah”, una settimana dopo la sentenza del 31 dicembre 2009, sono state attaccate tre Chiese protestanti. In particolare, un’esplosione ha danneggiato gli uffici amministrativi della Metro Tabernacle Church, una Chiesa protestante di Kuala Lumpur.

A luglio, sono stati arrestati nove cristiani con l’accusa di voler convertire alcuni studenti musulmani della University Putra Malaysia, a Serdang. In Malaysia il proselitismo è proibito per legge e nella maggior parte dei distretti è punito con la prigione. I nove ragazzi sono stati accusati di aver distribuito volantini e opuscoli sul cristianesimo. A ottobre, la polizia malaysiana ha sequestrato oltre 15mila bibbie perché nel testo esse contengono il termine “Allah” per riferirsi a Dio. Le bibbie erano destinate ai cristiani che usano la lingua malese, sia nella Malesia peninsulare che negli stati di Sabah e Sarawak. Il tribunale islamico non ha mai riconosciuto la conversione di membri dell’etnia malay, considerati per legge come musulmani, ad altre religioni. La shari’a proibisce la conversione di qualunque musulmano ad altre religioni, anche se di etnia differente da quella malay.

L’unico caso di conversione avvenuto nel 2009 è quello di Tan Ean Huang,una donna originariamente buddista. Nel 2006 ha chiesto di tornare alla propria religione dopo che era stata registrata come musulmana per aver sposato un iraniano islamico. Dopo essere stata abbandonata dal marito, ha chiesto inutilmente di tornare al Buddismo. Solo dopo aver fatto ricorso, il 19 marzo 2009, la Corte d’appello del tribunale islamico le ha permesso di tornare alla sua fede, dopo tre anni dalla richiesta. In aprile, il governo ha annunciato che 29 templi indù dovevano essere spostati entro 30 giorni, pena la loro distruzione, nonostante che la maggior parte di questi fosse stata costruita su suolo privato.

Riferisce “Aiuto alla Chiesa che soffre” che negli anni scorsi il Governo ha bollato come “deviate” 56 interpretazioni dell’Islam, tra cui quelle di gruppi quali Ahmadiyya, Islamailiah, Shi’a e Baha’i. Nel 2009, ha limitato i visti a membri stranieri del clero musulmano per impedire che entrassero nel Paese, in quanto “militanti” di interpretazioni “deviate”dell’Islam.


La schiavitù nei secoli Di Francesco Agnoli - 08/07/2011,  http://www.libertaepersona.org

Per tanto tempo la storiografia sulla schiavitù è stata, per lo più, parziale e incompleta. Per due motivi. Da una parte perché si è privilegiato lo studio dello schiavitù praticata dagli europei e dai coloni americani in età moderna, ingenerando così in molti la convinzione che lo schiavismo sia stato un vizio tipicamente nostrano, una colpa limitata ad una sola epoca e ad alcuni singoli popoli.

Dall’altra perché gli stessi storici che, per motivi ideologici, hanno puntato i riflettori solamente sullo schiavismo europeo, nell’ambito della stessa forma mentis hanno privilegiato, rispetto ad una visione d’insieme, la ricerca di eventuali omissioni della Chiesa cattolica, sovente accusata di non essere stata “sufficientemente” contraria allo schiavismo stesso.

Per questo mi sembra necessario salutare con riconoscenza l’ennesima fatica di Rodney Stark, “A Gloria di Dio” (Lindau), che tra le altre cose tenta di proporre una visione globale dello schiavismo nella storia. Stark, sviscerando e comparando una sterminata quantità di studi, con una lucidità e una capacità di sintesi straordinarie, riassume dunque alcuni fatti fondamentali. La constatazione basilare di Stark è che lo schiavismo “è stata una caratteristica quasi universale della ‘civiltà’, ma era anche comune in un certo numero di società aborigene sufficientemente ricche da potersela permettere”.

Anche Roma e la Grecia antiche prevedevano “un uso estensivo del lavoro degli schiavi”, considerati oggetti, beni di proprietà, e come tali privi di qualsiasi diritto e sottoposti all’arbitrio più totale da parte dei padroni. Si può aggiungere, come ampiamente dimostrato da Aldo Schiavone in “Spartaco. Le armi e l’uomo”, che in epoca pagana non esisteva neppure il sospetto che la schiavitù in quanto tale fosse iniqua: i ribelli come Spartaco miravano alla propria liberazione, non certo alla condanna della schiavitù medesima, che anzi praticarono in prima persona nel breve periodo della loro libertà.

Se dalla Roma e dalla Grecia pagane ci spostiamo nell’Islam, scopriamo che i “musulmani raccoglievano un gran numero di schiavi nelle regioni slave dell’Europa, come pure europei presi prigionieri in battaglia o catturati dai pirati”; inoltre catturarono sempre grandi quantità di schiavi africani, prediligendo la cattura di donne, per gli harem e la servitù domestica, di bambini e di adulti maschi che però spesso venivano “evirati al momento della cattura o dell’acquisto”.

Anche l’Islam, come pure i popoli politeisti, non ha mai conosciuto alcun movimento abolizionista, ma ha subito, al contrario, l’abolizionismo europeo dell’Ottocento, ad opera di schiere di missionari e della marina britannica. Se ci spostiamo poi nell’ Africa animista, i fatti sono ben conosciuti dagli esperti, ma piuttosto ignoti al grande pubblico: “molte delle società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su sistemi schiavistici”, ed anzi, lo schiavismo europeo si innestò sempre su quello islamico ed interafricano.

Solo dopo questo sguardo d’insieme, sostiene Stark, possiamo contestualizzare e comprendere le specificità dello schiavismo europeo moderno.

Riguardo al quale si può sostenere, in sintesi, che le condizioni peggiori furono vissute dagli schiavi dei britannici “anglicani”, dal momento che gli inglesi non solo erano ferocemente sfruttatori, ma non battezzavano neppure i loro schiavi, né cercavano di convertirli, perché, in fondo, così facendo, impedivano che fossero in qualche modo accomunabili, almeno di fronte a Dio, a loro stessi.

Al contrario, ad “avere la legge schiavista più umana” era la Spagna, “seguita dalla Francia”: questo a causa della influenza esercitata dalla Chiesa cattolica, in prima linea, in generale se non sempre in particolare, nella difendere la natura umana e di creature di Dio anche degli schiavi.

Stark si sofferma su alcune bolle papali spesso trascurate, dalla Sicut Dudum di Eugenio IV (1431-1447), a quelle di Pio II, Sisto IV e Paolo III (1534-1549), in cui lo schiavismo appare una colpa suggerita agli uomini da Satana stesso, il “nemico del genere umano”. “Il problema non era che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che erano in pochi ad ascoltarla”, e che questa condanna, assente nel resto del mondo, anche dall’Inghilterra anglicana o dalla Danimarca protestante, scatenò spesso le ire e le persecuzioni nei confronti dei cattolici più coraggiosi nel difendere il diritto alla libertà.

Stark conclude analizzando con cura il movimento abolizionista ottocentesco: mette in luce la sua unicità (non è nato mai nulla di simile in nessun’altra cultura), la sua carica di idealismo e la sua origine prettamente religiosa. Tutto i leader abolizionisti ottocenteschi, americani ed inglesi in particolare, erano credenti e fondarono le loro argomentazioni su categorie evangeliche (Dio, Creazione, peccato…), e non su motivazioni filosofiche di altro tipo. Un’unica lacuna, nel preziosissimo testo di Stark: manca un’ analisi dell’ “abolizionismo” cristiano di età alto medievale, che, pur diverso da quello ottocentesco, fu però fenomeno di portata storica ben più rilevante Ne parleremo la volta prossima. continua (da Il Foglio, 7 luglio, 2011)


E se le carrozzelle… facessero la rivoluzione? - July 6th, 2011 – di Carlo Bellieni, http://carlobellieni.com/

E se i disabili si «arrabbiassero» una volta per tutte? Voi non avete idea di che forza sarebbero i disabili e le loro

famiglie coalizzati contro un sistema che li discrimina 24 ore su 24. Avrebbero se non altro un peso politico fortissimo (sono milioni di voti!), ma anche un potere contrattuale senza pari. Io già vedo decine di migliaia di persone in carrozzella che fermano il traffico sul Lungotevere per una settimana di fila, per dire alla Rai: vogliamo esserci e apparire non come macchiette, ma come protagonisti alla pari degli altri. Vedo il Palazzo Comunale di Milano, Bologna e Catania assediati da bambini Down e dalle loro famiglie, stufi della ricerca accanita con tutti i mezzi e senza badare a spese di «quelli come loro » prima che nascano… per lo più per evitare che nascano, discriminando e facendo sentire indesiderati loro già nati, facendoli sentire di troppo e facendo sentire come marziani le famiglie che li hanno messi al mondo (invece di complimentarsi e dargli una mano). Vedo le persone con malattie degenerative e con malattie rare che assediano Montecitorio perché la prossima finanziaria tagli pure quello che deve, ma dia i soldi a loro - e tanti – invece di moltiplicare macchine blu o ospedali che restano a mezza strada nel deserto. Sarebbe bellissimo, perché la società deve essere studiata a misura dei piccoli e malati, non di chi ha quattrini e un bel sorriso; questi vengono dopo.

Se si vuole una «nuova politica», se si chiede «una nuova classe di politici cattolici», non basta (anzi, non serve a niente) mettere facce nuove o quelli tesserati a questa o quella associazione, se poi vanno a far politica con gli stessi principi dei loro predecessori (quasi tutti). I nuovi politici ci sono: sono quelli che lavorano davvero con «gli ultimi ». Ma chi gli fa fare strada? Sarebbe buono e giusto per l’Italia che la nuova politica seguisse loro. Altrimenti il rinnovamento è una presa in giro. Ma perché succeda questo, i disabili e le loro famiglie si devono arrabbiare. Come e dove non si sa; ma a quando la rivoluzione? Temo che non arriverà; perché per fare la rivoluzione bisogna essere arrabbiati; e i malati sono stati così umiliati e abituati ad accontentarsi, a chiedere le briciole e dover ringraziare delle briciole. Perché gli è stato fatto credere da massicce campagne stampa che loro sono al mondo perché siamo buoni noi. E non arriverà, perché per farla bisogna essere uniti; ma li hanno costretti a vivere nascosti, a vergognarsi della loro malattia, a vergognarsi di avere un figlio Down, ad avere addirittura pudore a guardarsi in faccia per cercare solidarietà. Il paradosso è che non si capisce che esiste non solo un livello di disabilità, ma tre: quella mentale, quella fisica e quella affettiva. E al mondo non c’è chi non ricada in almeno una di queste tre. Solo che ci sono quelli che la nascondono bene. e per nasconderla davvero bene devono far risaltare di più quella di coloro che non possono nasconderla; e devono vessarla, calpestarla, per far sentire «più normali» se stessi. Vi ricorda o no la Germania degli anni ’30? Ebbene: quella Germania non si chiama più Germania, ma si è universalizzata, e non opprime solo un’etnia, ma tutti coloro che sono disabili, ma non possono nasconderlo.

Vi sembra un progresso?