mercoledì 29 dicembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    L'evidenza di un miracolo di Aldo Trento - TEMPI 21 Dicembre 2010
2)    Nella Festa dei Santi Martiri Innocenti, gli insegnamenti del Papa che invitano a custodire la stagione dell'infanzia (Radio Vaticana) - martedì 28 dicembre 2010 - © Copyright Radio Vaticana
3)    Meditazione sul Natale - Il Bambino abbandonato - La notte di Natale del 1994, Christian de Chergé, priore del monastero cistercense Notre-Dame de Atlas a Tibhirine, in Algeria, teneva un'omelia a commento del passo evangelico "Questo per voi il segno:  troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia". Del testo della meditazione, tratto da L'Autre que nous attendons (Editions de Bellefontaine, 2006), pubblichiamo passi in una traduzione di Ferdinando Cancelli. di Christian de Chergé (©L'Osservatore Romano - 29 dicembre 2010)
4)    Il mistero dell'Incarnazione secondo Ireneo di Lione - Una logica della somiglianza di Luigi Padovese (©L'Osservatore Romano - 29 dicembre 2010)
5)    Cattolici, qualcosa in più dell'etica di Andrea Tornielli 28-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Con la Cina i tentennamenti non pagano. Non abbandonare le comunità della Chiesa clandestina. - 28-12-2010 - di Benedetta Cortese da http://www.vanthuanobservatory.org
7)    Il laicismo che torna all'Antico regime di Marco Invernizzi 29-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    «Continuate a proclamare il Vangelo». Così Benedetto XVI ai cattolici del Vietnam di Massimo Introvigne 29-12-2010 da http://labussolaquotidiana.it
9)    Vietnam, continua la resistenza silenziosa dei Montagnard di Antonio Giuliano 29-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      La parola chiave è “sacrificio” Lorenzo Albacete - mercoledì 29 dicembre 2010 da il sussidiario.net
11)                      NIGERIA/ Il vescovo: così ho convinto i miei giovani a non vendicare il massacro dei cristiani - INT. Ignatius Kaigama - mercoledì 29 dicembre 2010 – il sussidiario.net
12)                      Avvenire.it, 29 dicembre 2010 - L'ODISSEA NEL SINAI - L’Egitto ammette: sono 300 gli ostaggi eritrei di Paolo Lambruschi
13)                      Avvenire.it, 28 dicembre 2010 - LO SCONTRO CON LA CIVILTA' CATTOLICA - Rosmini: i dolori dopo le «Piaghe» di Giovanni Sale
14)                      Rinnovamento nella continuità. Operazione "bottom up" Di Lorenzo Bertocchi - 29/12/2010 - Cultura e religione – da http://www.libertaepersona.org
15)                      IL CASO/ 2. La fiction inglese che offende il Natale dei cristiani Luca Volontè - mercoledì 29 dicembre 2010 – il sussidiario.net
16)                      E la «farfalla» in carrozzella scrisse al Papa - Rita Coruzzi, disabile, 24 anni, narra la sua conversione e le lettere con Giovanni Paolo II DI GIANPAOLO SARTI, Avvenire, 29 dicembre 2010

L'evidenza di un miracolo di Aldo Trento - TEMPI 21 Dicembre 2010

Caro padre Trento, non sto a farle perdere tempo raccontandole chi sono. Sono un poveretto. Mi sveglio di notte e ho paura di morire; ho paura che i miei figli non avranno mai un lavoro, una famiglia, non saranno mai felici. Mi sveglio di notte con un tarlo nel cervello che mi sussurra che sono un fallito. È vero. Ho perso il lavoro, sono fuori dai “giri” che contano, senza soldi, con una moglie che mi sopporta, con un fisico che fa schifo perché mi sto lasciando andare. Perché le scrivo? Non la conosco, ma qualcuno mi ha detto: «Non crederti un grande perché sei un poveraccio, e non fare la vittima. C’è un prete diverso dagli altri, era fuori di testa e adesso è un uomo felice, in mezzo a bambini, uomini e donne che muoiono di Aids. E lui tiene loro la mano mentre stanno morendo, ed è felice e loro sono felici». Padre Trento, perché è felice in mezzo a tante persone che soffrono? E perché sono felici anche loro, che stanno morendo come sto morendo io? Si può credere, qui e adesso, che una vita non si perda nel nulla?
Lettera firmata

Davvero simpatico quell’amico che ti ha detto quelle cose. E ha ragione, caro mio, perché Dio ha bisogno anche dei pazzi, ha bisogno di persone “politicamente scorrette”, ha bisogno dei peccatori per mostrarci la sua onnipotenza e la sua misericordia. Per questo sono felice, perché Dio ha scelto la mia “pazzia”, la mia miseria. Ha scelto uno che non è mai stato politicamente – e direi neanche a livello ecclesiale – corretto, per trasformarlo in uno strumento della Sua misericordia. Il metodo di Dio è completamente diverso da quello degli uomini. Però, come sempre, davanti al dolore che mi circonda e a quello dei molti che ogni giorno mi scrivono, preferisco che alle domande che mi fai risponda una testimonianza. Solo stando davanti a un’evidenza che si impone uno intravede una speranza per se stesso. Come compagnia alla tua solitudine, alla tua disperazione, ti offro un bellissimo regalo: una lettera di una mamma che racconta la sua drammatica storia, la sua conversione, e quello che per lei significa il dolore che sta provando. Ti affido alla Vergine affinché il tuo cuore sia semplice come il suo, e sappia riconoscere la dolce presenza di Gesù, che ti sta cercando e a cui apparteniamo dall’eternità.
padretrento@rieder.net.py

Carissimo padre Aldo, ti scrivo per raccontarti la grazia che ho ricevuto nell’ultimo anno: la conversione. Da dieci anni vivo in una situazione di grande sofferenza a causa di una lombalgia ormai cronica di cui non si capisce l’origine e che quindi non si riesce neppure a curare. Pur non trattandosi di una malattia grave che mette in pericolo la vita, il dolore è molto forte e sempre presente, non mi permette di stare in piedi e neppure seduta se non per breve tempo. Vivo quasi sempre sdraiata su un lettino. In questi dieci anni ho attraversato momenti di grande difficoltà: passavo continuamente da medico a medico, da cura a cura, ossessionata dalla guarigione perché pensavo che la mia vita fosse definita dalla malattia, e quindi rimandavo a quando sarei guarita il momento di iniziare a vivere, essere madre e moglie. Per anni ho vissuto sospesa sul nulla, convinta di non poter essere me stessa finché fossi stata limitata dalla malattia. Tuttavia non ho mai ceduto alla disperazione. Nel mio cuore c’era come una percezione che tutta quella situazione avesse un senso; era come un presentimento che ci fosse qualcosa d’altro, non capivo cosa fosse, mi sfuggiva ma non se ne andava, anzi scavava nella mia anima facendosi sempre più concreto. Poi un giorno mi capitò di leggere un intervento di un certo Mario Dupuis che parlava della figlia Anna e rimasi folgorata: uno sconosciuto parlava di me, della mia vita come nemmeno io sarei stata capace di fare, eppure lì c’era la mia vita!
Davanti a tutta quella verità non potevo fermarmi e ho iniziato a cercare altri articoli, ho iniziato a interessarmi al movimento di Comunione e liberazione fino ad arrivare a Tempi e ai tuoi articoli che mi hanno definitivamente aperto gli occhi. Finalmente sono riuscita a dare un nome a quel “senso della vita” che si era fatto strada nel mio cuore tra le pieghe della sofferenza: Gesù Cristo! Per mezzo della testimonianza tua e di altri, l’ho riconosciuto. Che grazia. Finalmente tutto ha un senso: tutti quegli anni di sofferenza incomprensibile sono stati il modo che Cristo mi ha dato per incontrarlo e riconoscerlo. La sofferenza mi ha riportato a Lui. Oggi io benedico questo dolore e non lo considero più un limite, ma una risorsa, perché è ciò che spalanca la mia domanda, che mi spinge a cercarlo con una tensione davanti al reale che mi permette di riconoscerlo in ogni circostanza della mia vita. È nella fatica che ho imparato a domandare. Io che sono una persona a cui piace prendersi cura degli altri. Ho sempre pensato che sarei stata una moglie e una madre premurosa, di quelle che tengono tutto sotto controllo. Le circostanze della vita, invece, mi hanno messo nella condizione opposta, quella di avere bisogno di aiuto, di dover chiedere, ed è stato difficile da accettare. Noi, infatti, cadiamo spesso nell’errore di vedere la vita secondo la nostra misura, abbiamo delle pretese e quando queste vengono deluse siamo incapaci di accettarlo. La sofferenza, invece, ci spoglia di tutto e ci mette in una posizione di mendicanza, che è una grazia perché è l’unica con cui possiamo veramente dire”si!” a Cristo. La sofferenza mi ha inseganto anche il valore dell’umiltà che mi educa ad affidarmi totalmente a Lui. Oggi, mentre ancora soffro, dico con convinzione che il dolore è una grazia perché obbliga a porci la domanda sul senso delle cose. La sofferenza non ci dà scampo: non si può eludere la domanda, non si può voltare la faccia dall’altra parte, non ci può essere distrazione perché quando mi sveglio al mattino e non riesco a mettermi in piedi a causa del dolore, sono costretta a chiedermi cosa c’entra questa sofferenza con il mio desiderio di felicità. Non è una questione di coraggio o di eroismo, si tratta di essere leali di fronte alla realtà.
A questo punto le strade che si possono prendere sono solo due. La prima è che ci fermiamo al limite, non andiamo oltre, pretendiamo di rispondere con le nostre sole forze alla domanda che ci troviamo addosso e non ci riusciamo. Siamo quindi in balìa delle circostanze che ci soffocano, non abbiamo certezze né speranza, viviamo la sofferenza come una maledizione, cadiamo nella disperazione e arriviamo a negare tutto, anche la vita stessa.
La seconda strada che si può prendere è quella della ricerca del senso. Io ho avuto la grazia di essere stata presa per mano da Cristo che mi ha portato oltre il limite e mi ha fatto intravvedere una speranza. Non importa quanto faticoso sia il cammino, perché ho la certezza che Cristo mi accompagna e so che Lui è la risposta a tutti i desideri del mio cuore. Mi sono messa in cammino, ho iniziato un lavoro personale: dopo anni di latitanza ho ripreso ad andare a Messa, ad accostarmi alla preghiera, alla Confessione e all’Eucarestia.

Io sono tua
È così che mi sono trovata tra le mani il libretto Vivere è la memoria di me. Di nuovo una folgorazione! Un altro sconosciuto, Carrón, che parlava di me e della mia vita con un’intelligenza e una chiarezza incredibili. E più leggevo, più rimanevo incantata perché era come se lo avessero scritto per me. Lo sguardo di Cristo su di me come su Zaccheo, la conversione, lasciare entrare questo Amore infinito che si è curvato sul mio nulla, la coscienza di appartenergli, appartenere al Suo corpo che è la Chiesa e appartenere a questa compagnia cristiana in quanto luogo del mio rapporto con Lui. Quante volte ho letto nei tuoi articoli «Io sono Tu che mi fai» senza però capirne fino in fondo il significato. Ora è diventata carne della mia carne, fuoco che brucia nella mia anima. Lo sguardo di Cristo a Zaccheo è divenuto il contenuto della mia coscienza. Ora vivo nella coscienza di appartenergli. Nel momento in cui il mio cuore ha gridato «Io sono tua, Cristo!» una pace incredibile è scesa nella mia anima tormentata. Sono stata liberata e la mia vita è cambiata, si è riempita di gioia e la sofferenza si è riempita di significato. Ora sono felice. E sono io la prima a stupirmi di questa letizia che mi ha travolto improvvisamente, in modo inaspettato e attraverso circostanze che potrebbero sembrare un’obiezione alla felicità. Oggi a 43 anni sono finalmente me stessa. Nel momento in cui ho riconosciuto di appartenere ad un Altro, ho ritrovato me stessa! Ora so chi sono e so cosa voglio fare. Con affetto.
Lettera firmata


Nella Festa dei Santi Martiri Innocenti, gli insegnamenti del Papa che invitano a custodire la stagione dell'infanzia (Radio Vaticana) - martedì 28 dicembre 2010 - © Copyright Radio Vaticana

Nella Festa dei Santi Martiri Innocenti, gli insegnamenti del Papa che invitano a custodire la stagione dell'infanzia

“Le vittime immolate dalla ferocia di Erode”, che rendono testimonianza a Cristo “non con le Parole, ma con il sangue”, ci ricordano che “il martirio è dono gratuito del Signore” e ricordano anche “l'eminente dignità dei bambini nella Chiesa”. Sono queste alcune parole del Messale Romano con le quali la liturgia di oggi celebra la memoria degli Innocenti Martiri, fatti uccidere dal re Erode che intendeva colpire Gesù Bambino. In questo servizio, Alessandro De Carolis ripropone alcune considerazioni di Benedetto XVI sul tema dell’infanzia e della sua protezione:

Il frastuono dei cavalli lanciati al galoppo o la cadenza militare di un reparto di soldati che avanza, echeggianti tra le case della Betlemme dell’anno zero, non sono poi così lontani dai suoni della violenza che oggi troppo spesso imperversa su bambini e bambine che non saranno mai adulti, di età o di mente: perché trasformati in ridotte e stordite macchine da guerra in guerre che capiscono solo i grandi, o schiavizzati da soprusi abominevoli dentro case che sono sporchi “paradisi” solo per i grandi, o venduti perché sfortunatamente sono una bocca di troppo da sfamare o soppressi perché del sesso sbagliato o non adeguatamente sani e selezionati, o considerati un mero assemblaggio di pezzi di ricambio e quindi deturpati da un bisturi o nemmeno mai dati alla luce, perché ciò che ai grandi interessa non è il loro sorriso sul viso paffuto, ma solo qualche filamento del loro Dna.

L’Erode il grande sanguinario, che roso dal sospetto manda a sterminare gli Innocenti celebrati e pianti oggi dalla Chiesa, rivive nei tanti “Erode” che fanno altrettanto venti secoli dopo, solo con armi diverse e talvolta nemmeno con quelle. La follia omicida del re biblico, e di tanti violenti di oggi, è una furia che si abbatte – aveva osservato un anno fa Benedetto XVI – sui più inermi, coloro nei cui occhi si riflettono intatti i colori del vero Paradiso:

“I volti dei bambini sono come un riflesso della visione di Dio sul mondo. Perché allora spegnere i loro sorrisi? Perché avvelenare i loro cuori? Purtroppo, l’icona della Madre di Dio della tenerezza trova il suo tragico contrario nelle dolorose immagini di tanti bambini e delle loro madri in balia di guerre e violenze: profughi, rifugiati, migranti forzati”. (Messa 1 gennaio 2010)

I “volti dei piccoli innocenti”, “scavati dalla fame e dalle malattie, volti sfigurati dal dolore e dalla disperazione”, aveva scandito il Papa, “sono un appello silenzioso alla nostra responsabilità”:

“Di fronte alla loro condizione inerme, crollano tutte le false giustificazioni della guerra e della violenza. Dobbiamo semplicemente convertirci a progetti di pace, deporre le armi di ogni tipo e impegnarci tutti insieme a costruire un mondo più degno dell’uomo”. (Messa 1 gennaio 2010)

I Martiri Innocenti di Betlemme sono dunque l’icona dell’infanzia violata, da cui parte un grido muto che attraversa tutta la storia e tutte le coscienze. Un grido al quale un paio d’anni fa, con grande partecipazione personale, Benedetto XVI ha prestato queste parole:

“Vorrei cogliere l'occasione per lanciare un grido a favore dell'infanzia: prendiamoci cura dei piccoli! Bisogna amarli e aiutarli a crescere. Lo dico ai genitori, ma anche alle istituzioni. Nel lanciare questo appello, il mio pensiero va all’infanzia di ogni parte del mondo, particolarmente a quella più indifesa, sfruttata e abusata. Affido ogni bambino al cuore di Cristo, che ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me!”. (Angelus, 2 marzo 2008)


Meditazione sul Natale - Il Bambino abbandonato - La notte di Natale del 1994, Christian de Chergé, priore del monastero cistercense Notre-Dame de Atlas a Tibhirine, in Algeria, teneva un'omelia a commento del passo evangelico "Questo per voi il segno:  troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia". Del testo della meditazione, tratto da L'Autre que nous attendons (Editions de Bellefontaine, 2006), pubblichiamo passi in una traduzione di Ferdinando Cancelli. di Christian de Chergé (©L'Osservatore Romano - 29 dicembre 2010)


Questo è il segno per i pastori (...) per noi ancora, qui, lo stesso segno perché Gesù, nella sua umanità, ci dice qui qualcosa di definitivo. Gli anni sono passati. La vita pubblica è iniziata, e alla fine quell'essere avvolto nel suo lenzuolo, e quell'altro giacere nel freddo del sepolcro, a vedere bene, il Segno resta lo stesso.
La meraviglia di Dio per noi, la meraviglia dell'uomo per Dio è questo piccolo bambino avvolto in fasce, giacente,  legato,  affidato,  abbandonato!
"Gesù abbandonato":  il grande sostegno spirituale di Monsignor Miloslav Vlk durante i suoi anni neri potrebbe non essere che il passivo del verbo abbandonare:  noi sappiamo che vi sono allo stesso modo "bambini abbandonati" dalla loro nascita, come degli adulti (un uomo di 45 anni è morto questa notte su una panchina a Parigi), intere nazioni (Bosnia, Cecenia). Da qualche parte molti algerini si sentono abbandonati, lasciati al loro destino, tenuti in nessuna considerazione - e Dio stesso tace!
Si è potuto così contemplare Gesù abbandonato da tutti, anche da suo Padre. Si udirà questo grido "Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato?". Questa parola dell'uomo scritta in un salmo che fu veramente, per Lui, parola di Dio. Il vangelo non ha timore di metterla nella sua bocca. Si trova là un mistero che bisogna cercare altrove. Maria, sua madre, non l'ha abbandonato. E neanche Dio poteva abbandonare il suo Santo, il suo Giusto... Luca mette allora sulla bocca di Gesù in croce un altro versetto di un salmo che offre la chiave di lettura del "Gesù abbandonato":  "nelle tue mani consegno il mio spirito"!
Abbandonato anche un significato attivo, di colui che si lascia fare, condurre, portare, guidare; colui che abbandona la volontà propria per quella di un altro. Questo tipo di abbandono è "la morte della propria volontà", diceva Francesco di Sales. È anche il "muoio prima di morire" dei sufi. Il bambino che cade all'indietro nelle braccia di suo Padre (Teresa del Bambino Gesù).
Per me "Gesù abbandonato" è là ed è il segno che ci è donato nella nostra notte, in tutte le nostre notti - non c'è abbandono senza notte, senza quest'atto di fiducia che implica l'ignoto. È questo che distingue l'abbandono dall'obbedienza, dalla sottomissione a una volontà espressa, manifestata, conosciuta (a differenza dell'islam).
L'abbandono non è nemmeno rassegnazione, accettazione, indifferenza dal momento che in tutte queste cose vi è qualcosa di passivo, di subìto, una nota negativa.
L'abbandono è vicino a quello che l'arabo (musulmano) chiama tawakkul. Dipende innanzitutto dal buon volere di Dio, ridâ, da una volontà che si manifesta passo passo, istante dopo istante, oltre la legge. Ed ecco precisamente che su questa culla di neonato, tutto abbandonato, è proclamata la Buona Novella della Pace per gli uomini che Dio ama, gli uomini ai quali va la sua benevolenza, ai quali vuole bene! Pace agli uomini che si abbandonano all'amore di Dio allo stesso modo di Questi, "il Figlio in cui si è compiaciuto".
Questo significa:  che l'umanità può dare ormai un volto a Dio, quello di questo piccolo bambino, così dipendente in tutto, e liberamente offerto per restare tale - stadio spirituale che non potrebbe essere superato:  quello in cui lo Spirito può sussurrarci senza trattenersi:  "Abbà, Padre!" (...); che Dio ha anche assunto un altro volto per l'uomo:  non più l'Onnipotente che si impone dall'alto, da lontano, ma questo Dio che si abbandona, fragile, dipendente, consegnato al ben volere di una madre, di una famiglia, e anche ai capricci di un popolo. In Dio, il Figlio non è che questo nelle mani del Padre. Ed è questo che viene a vivere tra le nostre mani affinché noi possiamo entrare in corrispondenza di cuore con Dio attraverso la piccola via di Natale, quella dell'abbandono amoroso al quotidiano dell'Eterno una piccola via per noi, qui, adesso.


Il mistero dell'Incarnazione secondo Ireneo di Lione - Una logica della somiglianza di Luigi Padovese (©L'Osservatore Romano - 29 dicembre 2010)

Che salvezza avrebbe potuto sperare l'uomo se il Salvatore non avesse assunto la sua realtà? E che tipo di speranza avrebbe dovuto nutrire questo uomo se Gesù non gli avesse insegnato come sperare? Il Cristo per Ireneo di Lione diviene l'oggetto e il "maestro della speranza". Ne è l'oggetto proprio attraverso la sua carne terrena. Difatti "sulla carne del nostro Signore irrompe la luce del padre, e brillando a partire dalla sua carne, viene su di noi, e così l'uomo giunge all'incorruttibilità". E altrove:  "Se non è nato [Cristo], neanche è morto; e se non è morto, neanche è risorto dai morti. E se non è risorto dai morti, neanche ha vinto la morte, e non è stato distrutto il regno di questa; e se non è stata vinta la morte, come ci innalzeremo alla vita noi, sin dall'inizio soggetti alla morte?" Di questa speranza si mostra, poi, il maestro per tutti gli uomini avendo passato le età dell'uomo e quindi fattosi partecipe dell'esperienza d'ognuno. Questa piena condivisione, trova naturalmente delle applicazioni concrete. Nel momento delle tentazioni, ad esempio, non è il Figlio di Dio che vince il demonio, ma il Figlio dell'uomo. "Le sue armi furono, da un lato, la preghiera e la santità di vita, e dall'altro la "parola di Dio" evocata nella sua vera luce per dissipare la frode e docilmente accettata".
Non dovette far ricorso al miracolo:  gli bastò essere docile alla parola del Creatore. Il potere del Verbo gli si lasciò sentire, più che per comunione ipostatica con lui, mediante la fede nella Parola di Dio, norma della propria vita in corpo e anima. Per la stessa ragione, anche nella passione è l'uomo Cristo che, proprio in forza della sua umanità ci insegna a lottare e a vincere il demonio. Il carattere "esemplare" dell'agire di Cristo è messo in evidenza da Ireneo nel testo che segue:  "Se non ha patito davvero, non gli si deve alcuna gratitudine, non essendoci stata la passione. E quando noi dovremo soffrire veramente, apparirà come un impostore esortandoci a porgere anche l'altra guancia, quando si è percossi, se non ha patito veramente egli inganna anche noi esortandoci a sopportare ciò che lui stesso non ha sopportato; e noi saremo al di sopra del maestro, patendo e sopportando ciò che il maestro non ha patito e non ha sopportato".
Resta comunque vero che se Cristo diviene causa esemplare della nostra speranza, non è soltanto in forza della sua umanità. Pertanto "quanti dicono che egli è stato generato da Giuseppe, scrive Ireneo, e hanno speranza in lui, si escludono dal regno". Il motivo di queste parole è evidente:  il Verbo doveva essere uomo per mostrar la bontà della carne da Lui creata e perché il demonio che aveva vinto l'uomo fosse ora sconfitto da un uomo. Al tempo stesso, però, occorreva che fosse Dio a venirci incontro perché "se non fosse stato Lui a donarci la salvezza, non l'avremmo ricevuta stabilmente. E se l'uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto divenire partecipe della incorruttibilità". Queste considerazioni d'Ireneo approfondiscono quanto s'è affermato prima:  la speranza dell'uomo nasce dall'uomo, ma non da uno qualsiasi bensì da chi "per il suo sovrabbondante amore s'è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso".
Alla luce di queste parole va colto il senso profondo dell'Eucaristia che è una delle "economie parziali" nell'unico piano di salvezza. Per capirne il significato, Ireneo rileva il suo legame con l'incarnazione, poiché tanto in quella che in questa è lo stesso evento che si realizza:  una unione salvifica con Dio operata tramite la carne di Cristo. "Poiché pieno di Spirito Santo, il Cristo è, nel senso più rigoroso del termine un uomo spirituale, e il sacramento che ci fa partecipare alla sua carne ci dà in potere, sotto apparenze terrestri, una realtà celeste:  la sua umanità tutta penetrata dallo Spirito di Dio, divenuta Spirito Vivificante. Essa ci vivifica. L'uomo non può fare a meno di questo contatto con la carne di Cristo; dev'essere innestato in Lui come l'ulivo selvatico sull'ulivo domestico. Rifiutare questa unione significa condannarsi a essere ulivo secco, infruttuoso. Ciò comporta, infatti, un discostarsi dal modello di uomo perfetto che è Cristo. Da queste considerazioni scaturisce una conseguenza che Ireneo tiene a sottolineare nei testi propriamente eucaristici del Contro le eresie. Se, cioè, l'incontro col Verbo Incarnato dà salvezza, questa abbraccerà tutto l'uomo, non esclusa la carne. Anzi, la salvezza sarà più evidente in quell'elemento dell'uomo che solo è passibile di morte e corruzione:  la carne. "Il Verbo, infatti, non è venuto a santificare le menti, ma gli uomini. La sua missione non fu quella d'innalzare le sole anime alla visione del Padre, bensì gli uomini, facendo la loro carne atta alla visione di Dio". Contro l'obiezione gnostica fondata sull'espressione di Paolo "la carne ed il sangue non possono ereditare il regno di Dio (1 Corinzi, 15, 50), Ireneo risponde osservando che da soli effettivamente non lo possono, ma per il fatto che ricevono il corpo di Cristo e il pegno dello Spirito Santo, essi vengono assimilati a Lui. In quanto membra del corpo di Cristo comunicano alle qualità del medesimo, quindi anche alla sua incorruttibilità. Eppure questa comunicazione o assimilazione, ha luogo progressivamente. Non si tratta già di disprezzare la realtà creata, corpo e anima, ma di conformarsi al modello che Cristo ci offre nella sua carne "pneumatica". E questo processo richiede tempo. In fondo l'Eucaristia rientra nel disegno educativo di Dio che, progressivamente, dispone l'uomo a scegliere Dio, a obbedirgli, a conformarsi a Lui. In questo processo di graduale osmosi tra sostanza divina e umana, va accantonato l'equivoco di ritenere l'incorruttibilità come il risultato d'un processo quasi biologico più meno dipendente dall'incarnazione, una specie di divinizzazione "per contatto", quasi che questo bastasse.
Ireneo rimuove questa falsa interpretazione facendo presente che se "i nostri corpi ricevono l'Eucaristia e non sono più corruttibili perché hanno speranza della resurrezione, occorre che siano anche in grado di produrre frutti spirituali.
A questo punto il nostro discorso si volge allo Spirito Santo. Il senso della sua azione nell'uomo è compendiato da Ireneo in queste parole:  "Dov'è lo Spirito del Padre, lì è l'uomo vivente: il sangue razionale custodito da Dio per la vendetta e la carne ereditata dallo Spirito, dimentica di sé per aver acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio". È significativa l'espressione finale "carne conforme al Verbo di Dio". Lo Spirito sarebbe allora presente in noi per conformarci al Verbo di Dio. Questi infatti, quale secondo Adamo, ha realizzato in sé la perfetta somiglianza con Dio che il primo Adamo aveva smarrita. Ma come l'ha realizzata? Se si tiene conto che è lo Spirito l'operatore della "somiglianza", anzi, che Egli stesso è questa "somiglianza" smarrita da Adamo per il peccato, si può dedurre che Cristo lo possedette in pienezza. Dal canto suo l'uomo, conformandosi a Cristo, ripristina il piano originale divenendo pienamente "ad immagine e somiglianza di Dio". Soltanto così torna a essere l'uomo perfetto, perché come Cristo, è costituito di anima, di carne e di Spirito. "Ireneo - afferma G. Joppich - non vede nella nostra unione con lo Spirito Santo il termine dello sviluppo, ma piuttosto l'opera dello Spirito Santo è da intendersi come l'ultima fase del nostro essere trasformati a somiglianza del Lògos".
È per la sua somiglianza che dobbiamo attenderci l'incorruttibilità. Lo Spirito Santo ci dispone a essa; ne è altresì il pegno, il suggello e, in quanto tale, il principio della speranza seminato nel nostro corpo. Argomentando a fortiori, Ireneo dichiara:  "Se fin d'ora, avendo ricevuto il pegno dello Spirito, gridiamo:  "Abba, Padre", che cosa accadrà quando, risuscitati, lo vedremo faccia a faccia, quando tutte le membra faranno zampillare abbondantemente un inno di esultanza, glorificando colui che li avrà risuscitati dai morti e avrà donato loro la vita eterna? Infatti, se già il pegno abbracciando l'uomo da ogni parte in sé stesso, gli fa dire:  "Abba, Padre", che cosa farà la grazia intera dello Spirito, quando sarà data agli uomini da Dio? Ci renderà simili a lui e porterà a compimento la volontà del Padre, perché farà l'uomo a immagine e somiglianza di Dio". Quest'opera di progressiva assimilazione al Figlio, ovvero questa ricomposizione della somiglianza con Dio che si compie per tappe successive, non termina neppure con la morte, ma anzi continua in quel regno messianico che, secondo Ireneo, si pone tra la resurrezione e il giudizio finale. Lo scopo di questo regno è quello di preparare gli uomini, gradualmente, a ricevere l'incorruttibilità che proviene dalla visione di Dio. In esso, dunque, Cristo porterà a compimento il senso dell'incarnazione, quello cioè di adattare gli uomini al Padre perché Egli comunichi a essi la sua incorruttibilità. Essere "incorruttibili" significa allora partecipare alla natura di Dio. Ma tutto ciò è opera di Dio. L'uomo deve soltanto lasciar fare, non sottrarsi. In tal caso egli sarà sempre discepolo e Dio sempre maestro. Per questa ragione, secondo Ireneo, il trinomio fede/speranza/carità, inteso come espressione di dipendenza, non cesserà mai, nemmeno nell'altra vita. Conseguentemente l'incorruttibilità che Ireneo addita come il fine del cammino umano, non va intesa come una partecipazione "statica" alla vita di Dio, quasi che egli ce la conferisca una tantum.
Essa, piuttosto, proprio perché è vita, è partecipazione "dinamica" all'essere divino. Per questa ragione la speranza in Dio non verrà mai meno perché sempre aspetteremo che Egli, attingendo alla pienezza del suo essere, ci stupisca con doni sempre più grandi. "Speriamo - scrive Ireneo - di ricevere e di imparare qualcosa di più da Dio, poiché è buono e ha infinite ricchezze e un regno senza limiti e una sapienza immensa". Stando dunque a quanto s'è venuto dicendo, la speranza, per Ireneo, non sfocia in un "compimento" che la rende inutile. Essa è invece una virtù "dinamica" perché da un lato poggia sul continuo divenire dell'uomo e dall'altro sulla realtà effusiva di Dio che mai cesserà "di distribuire al genere umano in misura sempre maggiore la sua grazia e onorare continuamente con doni sempre più grandi coloro che gli piacciono". La spiritualità d'Ireneo si configura, dunque, come spiritualità attenta all'uomo concreto, alla sua carne. Proprio per questa ragione è una spiritualità ricca di speranza.


Cattolici, qualcosa in più dell'etica di Andrea Tornielli 28-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

Su La Stampa di oggi, Gian Enrico Rusconi firma un interessante editoriale intitolato «Le amnesie dei cattolici in politica». Si chiede se i cattolici «torneranno a condizionare direttamente» la politica italiana, osserva come «grazie al berlusconismo» essi abbiano «creato un consistente “pacchetto cattolico”, con scritto sopra la perentoria frase “valori non negoziabili”».

Rusconi ritiene che anche i futuro i cattolici continueranno a costituire una «lobby dei valori» senza riuscire ad essere «una vera classe politica dirigente». E ritiene che le ragioni della debolezza cattolica siano da ricercare anche «nell’elaborazione religiosa di cui si sentono tanto sicuri».

L’editorialista de La Stampa nota infatti come la presenza pubblica della religione, «forte sui temi eticamente sensibili» sia accompagnata però «da un sostanziale impaccio comunicativo nei contenuti teologici che tali temi dovrebbero fondare. O meglio, i contenuti teoligici vengono citati solo se sono funzionali alle raccomandazioni morali».

I contenuti di verità religiosa teologicamente forti e qualificanti, risulterebbero pertanto «rimossi dal discorso pubblico». Rusconi concorda dunque con quanti affermano che oggi vi sia una evidente crisi di fede, e che la rilassatezza morale, il venir meno di punti di riferimento saldi e di valori condivisi sui temi “eticamente sensibili” sia una conseguenza della secolarizzazione. In effetti, come ha più volte ricordato anche Vittorio Messori, nella nostra epoca gli ecclesiastici insistono tanto sulla morale perché non c’è più fede.

La critica che l’editorialista de La Stampa muove agli uomini di Chiesa è dunque quella di concentarsi esclusivamente, nel discorso pubblico, sui valori (vita, famiglia e problemi bioetici). Mentre la crescita «delle ineguaglianze sociali e della povertà… sollevano sempre meno scandalo». In questo però, Rusconi è ingeneroso, perché la Chiesa – sempre in prima fila su fronte della carità e della solidarietà – fa sentire sempre la sua voce anche su questi temi e su queste emergenze.

«Se i cattolici hanno l’ambizione di ridiventare diretti protagonisti della politica – conclude l’editorialista – dovrebbero riflettere più seriamente sul loro ruolo», perché il discorso politico «deve rimanere rigorosamente laico», ma nello spazio pubblico bisognerebbe dare prova di maturità «nell’interpretare e nel gestire l’etica pubblica», senza ridursi a una «lobby in difesa di quelli che in esclusiva proclama i propri valori».

La riflessione contiene passaggi condivisibili: è vero che esiste una crisi di fede ed è vero che proprio la nuova evangelizzazione è fondamentale nelle nostre società scristianizzate. È vero anche che la voce della Chiesa viene enfatizzata quando parla di morale e della morale che ha ricadute politiche, finendo per far passare quasi esclusivamente il messaggio concentrato su alcuni valori e meno su altri.

Ma una cosa è l’azione dei cattolici in politica – e pur appartenendo a vari partiti e schieramenti, la loro unità, ha ribadito anche di recente il cardinale Bagnasco, va costruita proprio attorno ai principi non negoziabili – un’altra cosa sono la catechesi e l’evangelizzazione. In ogni caso l’invito a essere testimoni nello spazio pubblico non soltanto di alcuni valori, ma anche e soprattutto della loro radice del loro fondamento, è una provocazione che va presa sul serio.

Che i laici chiedano ai cattolici di essere cattolici fino in fondo anche nello spazio pubblico è comunque un buon segnale.


Con la Cina i tentennamenti non pagano. Non abbandonare le comunità della Chiesa clandestina. - 28-12-2010 - di Benedetta Cortese da http://www.vanthuanobservatory.org

Non ci sono molti dubbi: in materia di libertà religiosa con la Cina non conviene cercare l’accomodamento. La Chiesa cattolica ha deciso di rialzare la voce, dopo un lungo periodo di disponibilità al compromesso. Il 17 dicembre scorso una dura Nota della Sala Stampa della Santa Sede aveva protestato nei confronti della convocazione dell’Assemblea dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi che si è tenuta dal 7 al 9 dicembre a Pechino.
Come è noto in Cina esistono una chiesa “ufficiale” e una chiesa “clandestina”. La legge cinese impedisce alle religioni di avere qualche forma di rapporto o dipendenza con l’estero. In Cina esistono due enti preposti al controllo della chiesa cattolica “ufficiale”. L’Amministrazione statale per gli affari religiosi, meglio nota con la vecchia denominazione di Ufficio per gli affari religiosi, e L’Associazione patriottica dei cattolici cinesi. Roma non riconosce naturalmente alcun valore a tutto ciò e la recente Nota della Sala Stampa della Santa Sede del 17 dicembre lo ha ribadito. L’Assemblea nazionale dei Rappresentanti cattolici deve esser convocata ogni 7 anni. L’ultima riunione era avvenuta a Pechino nel luglio del 2004, quindi la nuova convocazione doveva avvenire nel 2009, ma è stata rimandata di un anno. Tra l’altro l’Assemblea nazionale avrebbe la funzione di eleggere il Presidente della Conferenza episcopale “ufficiale” ed anche il Presidente della Associazione patriottica dei cattolici cinesi. La Chiesa “ufficiale” è quindi controllata e formata dal potere politico, preti e vescovi hanno tra l’altro il dovere di partecipare alle conferenze di formazione all’ideologia del regime.
Il rinvio dell’ Assemblea sembrava dimostrare una volontà di moderazione e tolleranza. Inoltre dal 2006 il potere politico si asteneva dal nominare nuovi vescovi “ufficiali”, come contropartita dei vari passi fatti dalla Santa Sede per favorire l’avvicinamento tra le “due chiese”. Anche il Papa, infatti, non ha più nominato vescovi “clandestini”, mentre alcuni vescovi ufficiali sono stati riconosciuti e validati anche da Roma. Ma nei giorni scorsi è successo il fatto nuovo. Il 20 novembre scorso P. Giuseppe Guo Jincai è stato ordinato vescovo di Chengde (Hebei) senza mandato del Papa e, ciò che è più grave, all’ordinazione hanno partecipato otto vescovi in comunione con Roma. A ciò si è aggiunta la Convocazione dell’Assemblea dei cattolici cinesi ed a quel punto le speranze che le cose cambiassero si sono definitivamente involate.
Con le nuove ordinazioni in presenza anche di vescovi legittimi la situazione per i fedeli cinesi si complica ancora di più: in gioco c’è la validità dei sacramenti. La chiesa “clandestina” è costituita dai vescovi nominati dalla Santa Sede, dai sacerdoti da loro ordinati e dai fedeli che non accettano di dipendere dal potere politico cinese. Queste comunità rifiutano di farsi registrare dalle autorità locali, i loro vescovi e preti non sono stati omologati dalle autorità, spesso si riuniscono in luoghi privati perché in Cina le riunioni religiose possono avvenire solo in edifici approvati dallo Stato, rifiutano la presenza tra di loro dei rappresentanti della Associazione patriottica dei cattolici cinesi, perché il governo li utilizza per spiare, controllare e, spesso, per devitalizzare le attività religiose.
Nel 2009 era stato sostituito il direttore dell’Ufficio per gli affari religiosi. Il nuovo funzionario – Wang Zuo’an – era il vice del precedente, quindi le agenzie avevano parlato di cambiamento nella continuità. Del resto la politica religiosa del governo cinese non dipende dalle singole persone che la incarnano, come i fatti recenti hanno dimostrato.
I tentennamenti di parte cattolica non pagano in Cina e la Chiesa clandestina soffre di sindrome di abbandono. Per fortuna che la voce sonora del Cardinale Zen di Hongkong, sostituito alla guida della diocesi il 15 aprile 2009 per limiti di età da mons. John Tong Hon, continua a farsi sentire. Il 19 giugno 2009, davanti alla stampa riunita al Foreign Correspondents’ Club di Hongkong, aveva denunciato i numerosi fenomeni di intimidazione e di corruzione esercitati sui vescovi “ufficiali”. In occasione di ordinazioni illecite, il governo – ha dichiarato il cardinale Zen – ha elargito ingenti finanziamenti a favore delle loro diocesi ad alcuni vescovi “ufficiali” già convalidati anche dalla Santa Sede per indurli a partecipare alle ordinazioni. Il 16 luglio 2009, il cardinale Zen si era rivolto tramite il suo blog ai vescovi “ufficiali” della Cina, sostenendo che la convocazione dell’Assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici era da ritenersi “inaccettabile”. Le modalità di elezioni sono “una farsa” – egli ha detto – e “una simile assemblea mina l’autorevolezza dei vescovi e si oppone alla Lettera del Papa”. Egli aggiungeva anche che i vescovi che erano in comunione con Roma avrebbero dovuto astenersi. A come si è visto non tutti hanno seguito queste indicazioni.
Il 19 novembre scorso, prima dell’ultimo Concistoro, il cardinale Zen ha fatto un aggiornamento sulla situazione cinese davanti ai suoi colleghi Cardinali sostenendo che il governo non ha cambiato la sua politica di controllo assoluto sulle religioni e sulla Chiesa cattolica, manipolando ordinazioni e corrompendo vescovi, anche quelli legittimati dal papa. Il vescovo emerito di Hong Kong ha detto che vi sono tentennamenti anche nella politica vaticana, che rischiano di dare un’errata interpretazione alle indicazioni di Benedetto XVI, contenute nella sua Lettera ai cattolici della Cina. Ma con la Cina i tentennamenti non pagano e le comunità clandestine chiedono di non essere abbandonate e sacrificate ad una nuova Ostpolitik.



Il laicismo che torna all'Antico regime di Marco Invernizzi 29-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

Qualcuno vorrebbe che i cristiani ritornassero ad assumere la posizione pubblica che avevano negli Antichi regimi, con tanto di Chiese di Stato, e reciproche interferenze fra l’autorità politica e quella religiosa? Se poi questo qualcuno è un autorevole esponente del pensiero laicista (lo scrivo senza alcuna intenzione offensiva, ma non uso laico perché anch’io sono laico) come Gian Enrico Rusconi, allora viene automatico porsi qualche domanda.

La sostanza dell’intervento su La Stampa del 28 dicembre di Rusconi è che, nello spazio pubblico, i cattolici dovrebbero impegnarsi per difendere soprattutto i valori fondamentali e specifici della loro fede, invece di concentrarsi sui valori non negoziabili, cioè vita, famiglia e libertà di educazione. Su tanti aspetti di questo intervento del politologo ha già ben scritto Andrea Tornielli.
Non posso però non notare il singolare suggerimento di Rusconi che, se messo in pratica, riporterebbe la presenza cattolica all’epoca precedente la Rivoluzione francese, quando la religione cattolica era largamente maggioritaria nella popolazione e la Chiesa era, di fatto, al servizio dello Stato. Era una brutta conseguenza delle guerre di religione che avevano diviso l’Europa in Paesi protestanti e cattolici, secondo il principio nefasto cuius regio eius religio, che obbligava i sudditi a seguire la religione professata dal loro sovrano.

Allora era frequente la confusione fra vescovi e sacerdoti che cercavano di piegare la politica a fini clericali, così come i politici si servivano spesso e volentieri della Chiesa per interessi mondani. Rompendo questa situazione di confusione, il Risorgimento ha creato altre e peggiori ferite.
I cattolici sono comunque diventati una parte della società in lotta contro altre famiglie ideologiche, all’interno di uno Stato formalmente laico, spesso laicista.

Ma il Magistero della Chiesa oggi non invita i cattolici a operare in politica per affermare i principi specifici della loro religione, che appunto sono ritenuti importanti solo da chi ha il dono della fede cattolica. Coltivare la propria specificità religiosa è importantissimo, soprattutto nella società secolarizzata di oggi, ma è compito della catechesi, non dell’attività politica. Quest’ultima, nelle intenzioni del Magistero che propone i principi non negoziabili, ha ben altra ambizione, quella di proporsi a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro fede religiosa. Perché soltanto laddove saranno garantiti il diritto alla vita, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, e la libertà dei genitori di educare i propri figli secondo il proprio progetto educativo e senza oneri aggiuntivi, soltanto in questo caso il bene comune di tutti sarà realizzato.

Questo è il senso dei valori non negoziabili, questo è il motivo per cui Benedetto XVI li richiama costantemente e ricorda come la ragione sia presente in ogni uomo e quindi sia la base (laica) del possibile dialogo con tutti gli altri uomini, anche in politica. Non facciamoci confondere!


«Continuate a proclamare il Vangelo». Così Benedetto XVI ai cattolici del Vietnam di Massimo Introvigne 29-12-2010 da http://labussolaquotidiana.it

Il 28 dicembre Benedetto XVI ha reso pubblica la lettera Evangelici nuntii, datata 21 dicembre e indirizzata al cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli. Il 18 dicembre lo stesso cardinale era stato nominato Inviato Speciale del Santo Padre alle celebrazioni di chiusura dell'Anno Giubilare della Chiesa in Vietnam, nel 350° anniversario della creazione dei due primi Vicariati Apostolici e nel 50° anniversario dell'istituzione della gerarchia cattolica nel Paese asiatico. Le celebrazioni sono in programma presso il santuario mariano di La Vang, carissimo ai cattolici vietnamiti, nei giorni 4-6 gennaio 2011.

La lettera cade in un momento particolare. Nei giorni scorsi l'agenzia Asianews ha riferito di "disturbi" amministrativi e di polizia a cerimonie natalizie cattoliche, e si è fatta eco di preoccupazioni dei vescovi vietnamiti per il rilievo dato dalla stampa di Stato alle iniziative di Natale del “Comitato vietnamita per la solidarietà dei cattolici”, equivalente locale dei cattolici patriottici cinesi, che dal 1955 - in verità con risultati assai scarsi - tenta di creare una Chiesa “nazionale” separata da Roma.

Il Papa nella sua lettera si tiene lontano dalle polemiche, e fa appena un cenno alle difficoltà che hanno sempre segnato la storia della Chiesa Cattolica vietnamita, una storia nobilitata dalla presenza di un buon numero di martiri e di santi. Benedetto XVI vola, per così dire, più in alto, celebrando il profondo radicamento della Chiesa in Vietnam come un esempio di evangelizzazione ben riuscita.

Nello stesso tempo, chiamando anche i cattolici del Vietnam a una «nuova evangelizzazione», il Papa traccia una strada che va oltre la semplice amministrazione del culto cui qualche burocrate del governo vorrebbe ridurre la missione della Chiesa. Benedetto XVI collega questa nuova evangelizzazione in Vietnam alla profonda devozione mariana dei cattolici locali, chiamati - afferma - ad «andare a proclamare il Vangelo insieme alla Madre", tenendo sempre presente l'esempio glorioso dei martiri».

Il fatto stesso che la lettera sia stata pubblicata, e che in essa il Papa confidi che sarebbe stato suo desiderio recarsi personalmente in Vietnam, è un grande aiuto per la Chiesa vietnamita. Il Papa attira su questa gloriosa e tormentata comunità cattolica l'attenzione della Chiesa universale, raccomandandola alle preghiere e alla solidarietà di tutti. Non dobbiamo lasciare soli i fratelli cattolici del Vietnam.


Vietnam, continua la resistenza silenziosa dei Montagnard di Antonio Giuliano 29-12-2010 da http://www.labussolaquotidiana.it

Loro da sempre si definiscono degar, “figli delle montagne”. Sebbene siano noti con l’appellativo francese di montagnard (“montanari”). Abitano in maggioranza nelle Terre Alte del Vietnam al confine con la Cambogia e sono una delle popolazioni più antiche del sud-est asiatico con una storia di almeno duemila anni alle spalle. Il loro nome da oltre tre decenni è fumo negli occhi del governo comunista vietnamita che non ne ha mai riconosciuto l’identità e la fede cristiana: i Montagnard sono infatti cattolici (circa 200 mila) e protestanti convertiti dai missionari negli ultimi due secoli. Cinquant’anni fa, alla fine della colonizzazione francese, erano circa tre milioni.

Oggi invece, dopo le terribili persecuzioni dei regimi comunisti, sono stati ridotti a poco meno di un milione di individui. Un genocidio perpetrato a lungo nel silenzio che continua a mietere martiri ed episodi di eroismo. Dalla caduta di Saigon nel 1975 (che segnò la fine della Guerra del Vietnam) l’unico Partito riconosciuto è quello comunista, gli altri sono considerati illegali. La Costituzione del 1992 garantisce solo sulla carta la libertà religiosa. Nei fatti, le limitazioni e i controlli sono soffocanti. Per essere ammessi al sacerdozio bisogna superare una serie di esami che attestino “la fedeltà allo Stato”, i nuovi parroci devono ottenere l’approvazione del governo e la nomina dei vescovi è un procedimento estenuante che lascia per anni le sedi episcopali vacanti.

Formalmente si viene incriminati non per la fede, ma per attentato “alla sicurezza nazionale” e “propaganda contro il regime socialista”. Basta pensare al calvario di padre Taddeo Van-Ly, imprigionato nel 2007 con una condanna di 8 anni di prigione e 5 di residenza sorvegliata per l’opera in favore della democrazia. Nel marzo scorso è stato liberato per gravi motivi di salute, ma dopo le cure dovrà tornare in prigione. Dal 2004, anno della “Pasqua di sangue” con una caccia al cristiano che costò la vita a 400 fedeli, il governo di Hanoi ha impresso un’ulteriore giro di vite al dissenso e alla repressione dei credenti. Molti arresti fanno notizia solo dopo lunghi mesi di carcere. Le restrizioni e la sorveglianza sono ormai asfissianti. Se nella Germania Est c’era una spia ogni 50 persone, ora nel Vietnam si stima una spia ogni 40 persone…

Sotto la lente del regime ci sono sempre loro: i Montagnard. Il mese scorso la polizia li ha sopresi in preghiera all’aperto, nel villaggio di Ploi Kret Kot, e ha picchiato senza pietà anche donne e bambini ferendo 22 persone. L’ultimo atto intimidatorio è avvenuto il giorno di Natale. I rappresentanti del governo hanno proibito a Michael Hoang Duc Oahn, vescovo di Kontum, di celebrare la messa natalizia con i fedeli di Son Lang. L’agenzia AsiaNews riferisce che le autorità insieme con poliziotti e picchiatori si son presentati dinanzi al prelato la mattina del 25 dicembre e gli hanno intimato: «Se vuoi celebrare la messa, puoi farlo, ma non qui e non per tutti. Devi andare nelle famiglie ad una ad una e ogni messa che celebri non deve durare più di un’ora». E il vescovo per protesta si è limitato solo a una benedizione.

Il regime è preoccupato dall’ondata di conversioni: negli ultimi anni si sono convertiti al cattolicesimo circa 50 mila Montagnard. E l’indiziato numero uno di questa "esplosione" è proprio il poliglotta monsignor Hoang, che dal suo insediamento, nell’agosto del 2003, continua a percorrere in lungo e in largo questa regione. Lo chiamano “il vescovo vagabondo (itinerante)” per i molti chilometri che si sobbarca in macchina per andare a visitare le sue comunità. Le autorità seguono passo dopo passo i suoi spostamenti.

Alla vigilia di Natale, la polizia ha fatto irruzione in un convento sicura di braccare lì monsignor Hoang. Lui però si era fermato per strada a soccorrere una ragazza che voleva suicidarsi e l’ha accompagnata all’ospedale. Dopo aver dormito all’aperto, al mattino presto il vescovo ha celebrato un’altra messa a Yang Trung, prima di essere bloccato a Son Lang. Ma non si perde affatto d’animo e non teme di dormire ancora all’aperto sotto il cielo stellato: «Io dormo - ripete sarcasticamente - in un hotel da un milione di stelle».


La parola chiave è “sacrificio” Lorenzo Albacete - mercoledì 29 dicembre 2010 da il sussidiario.net

Sto scrivendo questo articolo alla fine di una colossale tempesta di neve, una bufera che ha paralizzato la maggior parte della costa orientale degli Stati Uniti durante il weekend di Natale. La forza del vento ha raggiunto dimensioni da uragano in New England, New York e New Jersey.

A differenza dello scorso anno, però, Washington DC ha evitato gran parte della tempesta, e ha recuperato anche dalla tempesta politica della settimana prima di Natale, durante la quale la “bufera Obama” aveva sorpreso tutti, eliminando l’opposizione ad alcune sue proposte legislative determinanti.

Obama ora è alle Hawaii, lontanissimo dalla tempesta, crogiolandosi al sole e nelle calde acque del Pacifico meridionale, mentre Washington si riprende. Cosa succederà, però, al suo ritorno, quando dovrà fronteggiare un’opposizione alla sua politica decisamente più forte?

Questo è il primo Congresso spaccato dal 2002 e, secondo i commentatori politici della CNN, l’opinione comune porta a dire che il passaggio dal controllo di un unico partito (i Democratici) su entrambe le Camere a una situazione in cui il Partito Repubblicano controlla la Camera dei Rappresentanti e ha una minoranza più forte al Senato, porterà a una crescente impasse nei prossimi due anni.

Tuttavia, questa stessa opinione comune è stata rovesciata completamente dopo il 2 novembre, quando alla batosta elettorale inflitta a Barack Obama e ai Democratici ha fatto seguito uno dei risultati più produttivi mai raggiunti al Congresso in un dopo elezioni.
I Repubblicani non possono più continuare a “star semplicemente seduti e dire no”, ha detto il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs, riferendosi all’atteggiamento ostruzionista dei leader Repubblicani negli ultimi due anni. Con una disoccupazione ancora vicina al 10% e un deficit federale che continua a espandersi, Obama e i leader di entrambi i partiti devono trovare una strada per accelerare la ripresa dalla recessione economica e contemporaneamente impostare politiche e strategie di lungo termine per equilibrare meglio entrate e spese.

Una commissione bipartisan, nominata da Obama, ha concepito un piano radicale di riduzione del deficit, che comprende tagli di spesa, aumento delle imposte, aggiustamenti nella previdenza sociale e altre proposte normalmente considerate politicamente un tabù. Il piano è stato approvato dalla maggioranza della commissione, ma con un margine insufficiente a evitare il voto nel Congresso.

I Repubblicani hanno messo in chiaro che il taglio alla spesa è la loro prima priorità. Lo speaker della Camera entrante, il Repubblicano dell’Ohio John Boehner, ha promesso votazioni settimanali sui tagli, e il senatore Repubblicano conservatore Tom Coburn, dell’Oklahoma, ha detto a Fox News: “Non vi sarà un solo americano che non sarà chiamato a far sacrifici per via dei tagli necessari”.

Coburn ha respinto le critiche dei suoi colleghi conservatori per aver sostenuto il piano di riduzione del deficit approvato dalla commissione bipartisan: “Non sono al Senato per il Partito Repubblicano” ha detto Coburn, che è stato rieletto il mese scorso per il suo secondo e, sostiene, ultimo mandato di sei anni. “Io sono al Senato per l’America e per il futuro del nostro Paese. E se continueremo a misurare tutto sul metro Repubblicano/Democratico, continueremo su questa strada che sta portandoci al fallimento”.
Quindi, la parola chiave è “sacrificio”. Ogni americano è chiamato al sacrificio. Senza questo sacrificio, il Paese andrà certamente al collasso. Anche Papa Benedetto XVI, nel suo messaggio natalizio della scorsa settimana, ha messo in guardia sulla possibilità di un crollo: “Se ciascuno guarda solo ai propri interessi, il nostro mondo si avvierà sicuramente al collasso”.

Smettere di guardare ai propri personali interessi è senza dubbio un sacrificio! Secondo il Papa: “Dove un sempre più incerto futuro viene considerato con preoccupazione, perfino in nazioni ricche possa la Luce del Natale continuare a risplendere e a incoraggiare le persone a fare la loro parte in uno spirito di autentica solidarietà”.

Il sacrificio cui ci chiama la Luce del Natale è l’origine di una “autentica solidarietà” tra i popoli del mondo. È questo il sacrificio che ha in mente il senatore Coburn? E Obama? I Repubblicani? I Democratici? E i cattolici saranno capaci di testimoniare la solidarietà creata da Uno che è la Luce del Natale? Altrimenti, la bufera politica ritornerà e paralizzerà il Paese, come la bufera di neve ha paralizzato il nord-est.


NIGERIA/ Il vescovo: così ho convinto i miei giovani a non vendicare il massacro dei cristiani - INT. Ignatius Kaigama - mercoledì 29 dicembre 2010 – il sussidiario.net

Un sopralluogo nel centro di Jos, la città della Nigeria dove i cristiani sono stati braccati in chiesa dai musulmani proprio la vigilia di Natale. A condurre in esclusiva Ilsussidiario.net nel cuore di uno dei luoghi simbolo della persecuzione anti-cristiana è l’arcivescovo di Jos, Ignatius Kaigama, raggiunto telefonicamente proprio mentre visitava il centro della città devastato dagli attacchi alle chiese. Dopo tre giorni passati nascosto in casa per la paura di essere ucciso dagli estremisti islamici, ieri Kaigama è uscito per la prima volta recandosi in ospedale dove ha incontrato i feriti degli attentati degli estremisti islamici di Boko Haram. E sempre ieri si è saputo che le vittime degli attacchi della vigilia di Natale sono state in tutto 86. L’arcivescovo ha rivelato di avere dovuto convincere i giovani cristiani ad abbandonare la volontà di organizzare rappresaglie e a perdonare i musulmani. Ora nel Nord della Nigeria sta tornando la calma, per merito anche delle parole del Papa durante l’Angelus che hanno avuto ampia risonanza su tutti i quotidiani nazionali e sono state bene accolte dall’opinione pubblica nigeriana.


Arcivescovo Kaigama, com’è ora la situazione nel Nord della Nigeria?

A Jos le persone stanno ritornando a camminare per strada e a riprendere la loro vita come prima. Gli ultimi tre giorni sono stati molto difficili, ma ora la situazione è migliorata.


In quale contesto sono maturati gli attacchi musulmani alle chiese cristiane?

I rapporti tra musulmani e cristiani sono sempre molto problematici. La situazione non è facile perché ci sono stati episodi in cui i musulmani hanno attaccato i cristiani e altri casi in cui sono stati i cristiani ad attaccarli. Soprattutto nel Nord della Nigeria, basta un nulla a scatenare gli scontri. Tutt’ora a Maiduguri, nello Stato di Borno, ci sono tensioni provocate dal gruppo islamico Boko Haram, lo stesso che la vigilia di Natale ha attaccato le chiese a Jos. I cristiani sono molto arrabbiati e tristi, perché sono convinti che gli attacchi con le bombe abbiano distrutto le celebrazioni del Natale. I fedeli della mia arcidiocesi la vedono come un’offesa all’essenza e ai simboli più importanti del Cristianesimo. Al punto che alcuni di loro volevano vendicarsi per quanto è accaduto, anche se per fortuna non lo hanno fatto.


I cristiani in Nigeria sono discriminati da parte dei musulmani?

La situazione è diversa in base alle varie aree del Paese. Nella parte meridionale della Nigeria i cristiani sono la maggioranza della popolazione, al contrario del Nord dove i musulmani sono più numerosi. E negli Stati che rappresentano il nucleo della Nigeria del Nord, come Kano, Sokoto, Katsina e Kebbi, i cristiani non godono di pieni diritti. E questo soprattutto da quando è stata introdotta la Sharia come legge dello Stato, a causa della quale la libertà dei cristiani è stata calpestata. Ma da un punto di vista generale non si può affermare che in Nigeria tutti i cristiani siano attaccati o discriminati.


In molti hanno accusato la polizia di non avere difeso i cristiani dagli attacchi terroristici. E’ stato veramente così?

Di recente, quando i cristiani a Jos sono stati minacciati, la polizia ha cercato di difendere tutti i cittadini. Anche se in molti hanno sostenuto che in qualche modo la polizia sta consentendo ai militari di diventare di parte. Nel senso che agenti e soldati cristiani tendono a proteggere solo i cristiani, mentre i poliziotti musulmani proteggono solo i musulmani. Questa è l’accusa di alcune persone e io ritengo che se le cose stanno così questa situazione non è salutare. Voglio però credere che negli sviluppi di quanto accaduto il 24 dicembre, agenti e militari si mostrino imparziali e tentino di offrire protezione a tutti i cittadini e non solo di promuovere il gruppo cui appartengono. C’è un miglioramento nel senso che le forze dell’ordine stanno cercando di proteggere tutte le persone e non solo alcune.


Chi sono i gruppi radicali che fomentano l’odio in Nigeria?

Boko Haram è uno di questi. Ma ci sono anche altri gruppi di estremisti islamici, che vogliono promuovere e difendere la loro religione, anche se non si presentano con una sigla che li renda riconoscibili. Sono impazienti di sostenere l’Islam e di aumentarne il numero di membri. Alla minima provocazione o incomprensione, sono pronti a distruggere, uccidere o bruciare le proprietà.


Dopo quanto accaduto ritiene che la sua vita sia in pericolo?

Tutti in questo momento hanno paura, incluso me dal momento che sono un leader cristiano. E questo nonostante sia un buon amico di molti capi e personalità musulmane di spicco. Ma quando si scatenano gli attacchi ai cristiani sono i giovani a scendere nelle strade. Non sanno e non gli importa di sapere chi sei, si limitano a spararti senza farsi troppe domande. E quindi ovviamente sono preoccupato e devo prendere molto sul serio le misure di protezione personale. Per esempio da quando ci sono stati gli attacchi con le bombe a Jos, non sono mai uscito di casa. Oggi (ieri, ndr) è il primo giorno che visito la città.


Che cosa ne pensa delle parole che all’Angelus il Papa ha dedicato ai cristiani in Nigeria?

Il Papa ha molto a cuore i problemi della Nigeria. Ed è sempre molto in apprensione quando viene a sapere delle uccisioni dei cristiani e delle distruzioni delle chiese. Nel marzo scorso, quando a Jos si erano verificati analoghi attacchi ai cristiani, Benedetto XVI aveva inviato un cardinale da Roma per portarci le sue condoglianze. Mentre in questo momento a Jos come rappresentante del Papa c’è il Nunzio Apostolico, arcivescovo Augustine Kasujja, con cui sono continuamente in contatto. Il Papa desidera molto l’armonia e la coesistenza pacifica tra musulmani e cristiani in Nigeria. Sui giornali nigeriani ho letto diversi articoli dedicati alle dichiarazioni del Papa. E questo significa che il popolo nigeriano ha preso le sue parole molto sul serio e le ha accolte positivamente. Stiamo quindi camminando verso la pace lungo la linea tracciata da Benedetto XVI.


Ma il perdono è veramente possibile?

Non è facile per i cristiani porgere davvero l’altra guancia. Ma io continuo a insegnare il Vangelo del perdono, della riconciliazione e dell’amore a tutti i edeli della mia diocesi. Molti cristiani sono pronti ad ascoltare le parole di Gesù Cristo sul perdono, ma alcuni sono molto arrabbiati e offesi. Noi però continuiamo a predicare loro che il bene deve trionfare sul male, e non viceversa.


E questa può essere un’opportunità per l’intera Nigeria?

Sì, se ci perdoniamo a vicenda sarà possibile la pace in Nigeria. I cristiani dovrebbero quindi porgere la mano ai leader, ai giovani e alle donne islamiche, e i musulmani dovrebbero fare altrettanto. Questo è l’unico rimedio, non le bombe e i fucili.

(Pietro Vernizzi)


Avvenire.it, 29 dicembre 2010 - L'ODISSEA NEL SINAI - L’Egitto ammette: sono 300 gli ostaggi eritrei di Paolo Lambruschi

Dopo 35 giorni crolla il muro di gom­ma eretto dalle autorità egiziane at­torno al sequestro degli eritrei ed e­mergono nuove, importanti prove sull’in­ferno del Sinai. La stessa polizia egiziana e fonti a Rafah vicine agli stessi trafficanti, i clan beduini Rashaida, hanno confermato all’Ansa e ad altre agenzie occidentali la presenza dei 300 ostaggi. Inoltre gli arresti effettuati nel deserto nei giorni scorsi dal­le autorità egiziane riguardano ostaggi ri­lasciati prima di Natale dai rapitori dopo il pagamento del riscatto. Appurata anche l’e­norme entità del traffico.

Ma i banditi re­stano impuniti. Ieri è stato chiarito il numero delle perso­ne catturate dalla polizia. Si tratta di 27 mi­granti africani, fermati nel deserto in due ri­prese. Il primo gruppo, composto da otto eritrei e sette etiopi, è stato arrestato tre giorni fa, mentre il secondo, di sette eritrei, tre sudanesi e due etiopi, è stato fermato lu­nedì alla frontiera con Israele. Confermato che i 300 eritrei sono ancora in mano ai banditi. Circa 80 provengono dalla Libia, dove alcuni erano stati respinti nel Medi­terraneo dalle nostre motovedette. Gli altri arrivano dall’Eritrea attraverso il Sudan.

So­no stati tutti venduti da una banda di traf­ficanti senza scrupoli all’altra, come ab­biamo appreso in questo mese ascoltando le testimonianze di ostaggi rilasciati, dei parenti e della suora comboniana Azezet Kidane, che ha curato i superstiti giunti in Israele. I predoni hanno inoltre imprigio­nato 900 migranti di altre nazionalità – su­danesi, etiopi, somali – i quali hanno pagato le somme richieste e aspettano di poter ten­tare l’ingresso in Israele. In tutto sono coin­volte 1200 persone, è la conferma che nel Sinai è in corso da tempo un giro d’affari cri­minale di svariati milioni di dollari sulla pelle dei disperati del pianeta. Durante la detenzione in baracche e container inter­rati hanno tutti subito torture e violenze, le donne sono state abusate.

Un trattamento disumano condito da minacce di morte e di espianto di reni. Per contattare l’esterno e raccontare l’orrore, ai rapiti è stato lasciato il telefono cellulare per accelerare i paga­menti del riscatto via Western Union a e­missari della banda al Cairo e a Gerusa­lemme. Ad eritrei ed etiopi è toccato il trat­tamento peggiore, come confermano le te­stimonianze raccolte ieri, come vendetta per l’uccisione di un carceriere durante un tentativo di fuga di 25 di loro, conclusosi tragicamente con l’assassinio di sei eritrei. Ribadito infine che almeno otto ostaggi sa­rebbero stati uccisi dai trafficanti, una de­cina di uomini bene armati che cambia spesso i luoghi di detenzione. La polizia e­giziana continua comunque a non inter­venire per catturare i mercanti di schiavi, anzi.

L’ultima volta che intervenne, ad a­gosto, aprì il fuoco su un gruppo di eritrei imprigionati a Rafah e lasciò impuniti i car­nefici. Stavolta ha ricevuto l’ordine di non sparare e limitarsi ad arrestare i migranti rilasciati per immigrazione clandestina. Al­le vittime il governo del Cairo, delle quali fi­no a ieri ha negato perfino la presenza nel­la zona al confine con Israele, lascia la vita, ma riserva una beffa atroce. I profughi ar­restati vengono consegnati alle rispettive ambasciate dei paesi di provenienza per il rimpatrio immediato, che può voler dire galera e morte.

Le forze egiziane sostengono di non poter intervenire nel Sinai riparandosi dietro il Trattato di pace con Israele che impedisce di introdurre armi pesanti e blindati nella zona di frontiera. I Rashaida disporrebbe­ro invece di armi sofisticate, acquistate dai sudanesi come contropartita per il traffico di esseri umani. La notizia degli arresti ha intanto allarmato la diaspora eritrea, nella quale proseguono le collette per pagare i riscatti, che i predoni pretendono vengano rateizzati per non venire identificati. «Lunedì ho sentito mio fratello dal Sinai – di­chiara H., rifugiato eritreo che vive in Sviz­zera – e non mi ha detto nulla. Ho sentito anche altri parenti, noi continuiamo a pa­gare e a sperare». Ieri il sacerdote eritreo Mosè Zerai ha con­tattato gli ostaggi. «Non sanno nulla, mi chiedevano di fare presto a pagare per li­berarli.

Chiediamo al governo egiziano di consegnare i profughi nelle mani dell’Acnur e non alle ambasciate che li potrebbero rimpatriare. Ma questo potrà accadere so­lo se l’Europa dimostra fattivamente di es­sere disposta a dare asilo a queste persone. Mi preoccupa la sorte di chi non può pa­gare, un gruppo di almeno 15 persone che comprende sei donne, tre in stato di gravi­danza ». L’odissea nel deserto, insomma, è tutt’altro che finita.



Avvenire.it, 28 dicembre 2010 - LO SCONTRO CON LA CIVILTA' CATTOLICA - Rosmini: i dolori dopo le «Piaghe» di Giovanni Sale

Rosmini fu il rappresentante più autorevole in Italia di quel cattolicesimo liberale moderato che credeva nelle libertà moderne, ritenendole compatibili con i princìpi insegnati nel Vangelo. Anzi riteneva tali libertà indispensabili per rifondare in Europa l’ordine politico e per ridare nuovo slancio alla vita cristiana. Secondo gli intransigenti, che nella Chiesa di quel tempo rappresentavano la corrente maggioritaria, tutto il pensiero moderno era inquinato di «marcio razionalismo» ed era bollato come ereticale in quanto ritenuto fomentatore di ateismo e di ogni tipo di disordine sociale. Per essi il modello ideale di società politica era quello dell’ancien régime, fondato sull’alleanza fra trono e altare, mentre in campo religioso sostenevano un’ecclesiologia (marcatamente antigiansenista) che escludeva categoricamente ogni intervento dei laici nella vita interna della Chiesa. In ogni caso il liberalismo cattolico nella sua versione più moderata proposta dal Rosmini riuscì un poco alla volta a guadagnare alla causa delle libertà moderne una parte degli intellettuali cattolici italiani. All’estero, soprattutto in Francia e in Belgio, il movimento era molto battagliero e impegnato in lotte politiche in difesa del cattolicesimo, contro governi laicisti che volevano emarginare la Chiesa e ridurre la religione a un fatto privato. Il liberalismo cattolico ebbe però in Italia caratteristiche proprie rispetto ai movimenti cattolici d’Oltralpe: mentre questi invocavano le libertà costituzionali come mezzo di riconquista cristiana della società, che andava gradatamente secolarizzandosi, in Italia invece esse furono invocate come tutela della persona umana e come condizione per un rinnovamento della società politica e della Chiesa, nonché per risolvere in modo compatibile con la tradizione cattolica nazionale la questione romana. È in questo clima culturale che il Rosmini scrisse (a partire dal 1832) e successivamente pubblicò (1848) l’opera sua più celebre: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, che attirò su di lui e sui suoi scritti critiche severe da parte dei suoi avversari, in particolare i gesuiti romani. Con quest’opera il sacerdote roveretano non solo denunciava in modo preciso e puntuale – sebbene senza mai allontanarsi da quella «carità intellettuale» che attraversa tutta la sua opera – «i mali attuali della Santa Chiesa», indicandoli come «piaghe»; ma allo stesso tempo ne indicava anche i rimedi possibili e auspicabili. Intanto già il titolo sembrava a molti suoi critici audace e irrispettoso dell’autorità e santità della Chiesa. In realtà il Rosmini in questo aveva semplicemente ripreso, come egli stesso più volte confessò, una «figura» che papa Innocenzo IV, sulla base di indicazioni patristiche, aveva utilizzato nel discorso di apertura del Concilio di Lione del 1245. Il pontefice in quella sede infatti aveva paragonato la Chiesa al Cristo in croce, dimostrando «com’ella, a suo tempo, fosse di cinque acerbissime piaghe addolorata». «Se quel gran Papa – scriveva il Rosmini a un suo amico – trattò delle cinque piaghe della Chiesa in un Concilio ecumenico, non so come ora si possa ridire su questo titolo». In verità ciò che indisponeva i suoi critici era il fatto «che un uomo senza giurisdizione [componesse] un trattato sui mali della Chiesa», mentre tale sollecitudine per la Chiesa di Dio spetterebbe «di diritto ai pastori della medesima», perché essi soltanto ne conoscerebbero i rimedi necessari. Nell’introduzione all’opera l’autore a tale proposito scriveva: «Io non pronunciavo con intenzione di decidere cosa alcuna, ma intendevo anzi, esponendo i miei pensieri, di sottoporli ai pastori stessi e principalmente al Sommo Pontefice, i cui venerati oracoli mi saranno sempre norma e diritta e sicura, alla quale ragguagliare e correggere ogni mia opinione». Nonostante la prudenza dimostrata dal Rosmini nel trattare di un argomento così spinoso come quello della riforma della Chiesa – che fino a qualche tempo prima aveva alimentato in Italia la controversia giansenista – il libro fu messo all’Indice il 30 maggio 1849 insieme a un’altra importante opera del roveretano, La Costituzione civile secondo la giustizia sociale (1848), con la quale egli auspicava importanti riforme sociali in ogni Stato. In essa, inoltre, contrapponendosi a molti cattolici del suo tempo, criticava la teoria della religione di Stato in nome della libertà di coscienza, che deve essere inviolabile e riconosciuta ad ogni uomo. Sul tema della libertà della Chiesa scriveva: «La religione cattolica non ha bisogno di protezione dinastica, ma di libertà; ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro». Il Rosmini si sottomise prontamente al pronunciamento dell’Indice. «Coi sentimenti del figliolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede – scriveva alla Congregazione romana il 15 agosto 1849 – quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile». La condanna incoraggiò i gesuiti romani neotomisti, per sferrare un attacco frontale e duro contro il sistema filosofico-politico del Rosmini. Tale controversia, che purtroppo talvolta degenerò anche in attacchi personali, fu capeggiata da padre Antonio Ballerini, a quel tempo professore di morale al Collegio Romano, uomo «di notevole vigore intellettuale, ma fortemente polemico e poco prudente». Questi pubblicò un libello anonimo – senza indicare né il luogo né la data di pubblicazione – intitolato semplicemente Postille, nel quale si censuravano con un linguaggio violento e talvolta irrispettoso molte tesi del Rosmini, il quale era ingiustamente accusato di insegnare «le più solenni eresie; errori inauditi intorno alla Chiesa, alla gerarchia ecclesiastica, alla preghiera, ai sacramenti, all’incarnazione del Verbo, alla natura e operazioni della Grazia, al peccato originale e alla concupiscenza» e molte altre cose ancora. Lo scritto si diffuse dappertutto in Italia, creando sconcerto tra il clero e gli intellettuali cattolici; cosicché 18 vescovi denunciarono l’opera anonima alla Congregazione dell’Indice perché la esaminasse. Nonostante il parere negativo di questa, si preferì, per non indebolire il fronte antiliberale, e pare su richiesta di Pio IX, di non procedere alla censura. L’opera del Ballerini fu criticata, non solo dagli amici e sostenitori del Rosmini, ma anche da non pochi cattolici intransigenti, soprattutto per la durezza del tono e per la violenza degli attacchi scagliati non soltanto contro le tesi del roveretano. Il Papa stesso se ne lamentò con l’autore durante un’udienza privata. Va sottolineato, inoltre, che non tutti i gesuiti italiani erano d’accordo con le tesi del loro confratello, tanto meno con il suo modo esageratamente polemico di condurre la controversia. Poco dopo questo fatto il Ballerini discretamente uscì di scena.


Rinnovamento nella continuità. Operazione "bottom up" Di Lorenzo Bertocchi - 29/12/2010 - Cultura e religione – da http://www.libertaepersona.org

Il tema dell'interpretazione del Concilio Vaticano II ha aperto un vivace dibattito, segno che si tratta di tema cruciale. Oltre all’importante Convegno organizzato dai Francescani dell’Immacolata (dal 16 al 18 dicembre 2010, Roma) si sono susseguiti vari interventi come quello di Introvigne sul libro di de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta – Lindau 2010), poi ancora Introvigne sui lavori di Mons. Gherardini, quindi Tornielli sul suo blog rispetto alle derive del mondo cosiddetto “tradizionalista”.

Si può – e si deve – discutere a livello accademico di questo tema importantissimo, si può anche essere in disaccordo con l'ultimo libro scritto, o con il tal teologo, ma in merito al problema credo si debba e si possa fare innanzitutto un'opera di carità.

Penso a tutti fedeli che non sono specialisti, ma ancor più lo si deve a tutti coloro (e sono tanti, purtroppo) che hanno perso la fede o non l’hanno mai avuta.



L'opera di carità a cui mi riferisco è quella di chiarire con fermezza che rispetto al Concilio Vaticano II purtroppo “qualcosa è andato storto”: prima, durante e dopo.


Questo non significa affatto essere “anti-conciliaristi”, ma tentare di cogliere il suggerimento del Santo Padre per realizzare veramente il benedetto “rinnovamento nella continuità”. Dal servo di Dio Paolo VI, al venerabile Giovanni Paolo II, fino al regnante pontefice, tutti i successori di Pietro hanno evidenziato che la “giornata di sole” che ci si attendeva dopo il Concilio è stata seguita da un periodo buio e tempestoso (Paolo VI) che ha condotto ad una vera e propria “apostasia silenziosa” (Giovanni Paolo II) e, oggi, la tendenza generale del mondo è di “ostilità alla Chiesa” (Benedetto XVI, Luce del mondo, LEV, pag. 183).


Ostilità dice Benedetto XVI, qui non c'è bisogno di molte “ermeneutiche”, la parola “ostilità” significa esattamente “ostilità”. Si dirà che il trovare ostilità è normale, infatti, è proprio ciò che promette il Signore Gesù ai suoi discepoli che sono incaricati di annunciare il Vangelo, ma – e questo “ma” è grande come una casa – proprio il Vaticano II si proponeva nella sua finalità pastorale di “aprirsi al mondo” per essere “un potente e amichevole invito all’umanità di oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio dal quale allontanarsi è cadere…” (Paolo VI – discorso alla IX sessione pubblica del Concilio – 7/12/1965).


Invece – dice Benedetto XVI - “la tendenza generale del nostro tempo è di ostilità alla Chiesa”. E sono passati 45 anni, probabilmente pochi per capire quale importanza avrà nella storia della Chiesa il Vaticano II, ma abbastanza per dire che qualcosa deve essere andato storto. Ed è giusto capire se e dove, e in questa ricerca credo non si debba rimuovere nulla, compresa l’esperienza di Mons. Marcel Lefevbre.


Certo, come ricorda Tornielli nel suo intervento sul blog Sacri Palazzi, è vero che “molti tradizionalisti non amano l’ermeneutica della continuità di Benedetto XVI, perché, in fondo, ritengono che vada abolito il Concilio”. In questo Tornielli ha indubbiamente ragione, ma non sposta il problema di una virgola.


E’ anche vero che in questi 45 anni più volte (ad esempio l’enciclica Veritatis Splendor o la nota della Congregazione della Dottrina della Fede Dominus Iesus) il magistero è intervenuto per chiarire singoli problemi, ma già questo fatto è sintomatico della oggettiva presenza di un’ambiguità diffusa. Resta poi da dimostrare in che misura questi interventi abbiano cominciato a dare i loro frutti, o se, invece, siano ancora schiacciati dal “mito” dell’evento-concilio.


Per tornare a quell’opera di carità di cui sopra credo anche che vada evidenziato un altro fatto. Spesso nell’immaginario comune si confonde il mondo della tradizione con “quelli che vanno alla Messa in Latino”, oppure si confonde “tradizionalista” con “conservatore”, in altri casi con ancora più facilità si fa di tutta l’erba un fascio e si dice “lefevriani” (spesso senza neanche sapere di cosa si parla). Indubbiamente la galassia tradizionalista potrà peccare di eccessivi personalismi, di chiusure e durezze, ma certamente si deve anche a questa variegata realtà se oggi certi temi possono essere finalmente affrontati. Va detto anche che l’emarginazione attuata nei confronti di questo mondo non ha avuto pari, moltissimi teologi ed anche prelati hanno più volte sconfinato nell’eterodossia senza quasi mai ricevere il benché minimo richiamo.


Benedetto XVI – come ricorda anche Tornelli – si è certamente mostrato particolarmente sensibile ad alcune istanze legate al mondo della “tradizione” e penso che per stare vicini al Santo Padre sarebbe bene trovare unità fra tutte quelle persone che danno della realtà ecclesiale una lettura simile: fare rete per far emergere dal basso una “riforma della riforma” a 360°. Per la liturgia e per una sana dottrina, per un ritorno a quella ragione “autenticamente metafisica” (Giovanni Paolo II, Fides et Ratio) che in radice è il problema fondamentale (Cfr. discorso di Regensburg 2006, Benedetto XVI)


Forse semplifico un po’ troppo, ma penso che si possa dire che il mondo ecclesiale appartenente alla cosiddetta “tradizione”, pur nella varietà di posizioni, si possa ritrovare unita individuando nella confusione dottrinale il problema da cui derivano tutte le ambiguità che “squagliano” la fede come neve al sole. Allora l’indagine sulla natura del Vaticano II e la sua interpretazione, fermo restando il fatto che è a tutti gli effetti il XXI Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica, è lo strumento più importante per comprendere l’origine profonda di questa confusione. Con coraggio. Questo è il punto nevralgico su cui purtroppo sta appeso il problema. Invece, è tutto un gioco un po’ esoterico di “partiti” e “appartenenze ecclesiali”.


Come fa notare giustamente Francesco Colafemmina sul suo blog “Fides et Forma” gli amanti della tradizione il più delle volte  “sono silenziosi e devoti cattolici. Cattolici che ignorano anche la stessa esistenza di Introvigne o De Mattei, di Plinio Correa di Oliveira come di Alleanza Cattolica. Cattolici che l'esoterismo tradizionalista di questa o di quella corrente non lo conoscono nemmeno e, cosa forse ancor più grave, non lo sospettano!”


E ancora: “Cattolici che se leggono il libro di De Mattei, non vanno comunque a rivangare chi egli sia o non sia, ma si attengono a ciò che in quel libro è scritto, alla ricostruzione storica e alle prove portate dallo storico. E se è evidente che ci furono chiari intenti "di rottura" in numerosi conciliaboli ai margini del Concilio, cionondimeno nulla vieta che oggi si possa attuare una "ermeneutica della continuità".


Non credo che il punto di vista di Colafemmina sia ingenuo, anzi mi trovo d’accordo con il coraggioso Francesco che quasi in solitaria si è lanciato in una sincera espressione del suo pensiero. Penso che per attuare il “rinnovamento nella continuità” ci sia bisogno di questo coraggio, nell’obbedienza al Santo Padre, ma senza ipocrisie.


C’è la volontà di “fare rete”? Di superare i personalismi per far nascere dal basso questo movimento che sappia attuare il “rinnovamento nella continuità”?


In definitiva credo che occorra prendere atto dell’unico vero e grave problema: la divisione profonda in seno al mondo cattolico. Molti sostengono che c’è in atto uno “scisma sommerso”, se c’è si è indubbiamente sviluppato sulle ali di una “dottrina della fede” che si è sciolta come neve al sole di fronte alla “dittatura del relativismo” che, come “fumo di satana”, purtroppo è penetrata fin nel tempio di Dio.


Siamo tutti chiamati a resistere a quel “fumo” che divide.


IL CASO/ 2. La fiction inglese che offende il Natale dei cristiani Luca Volontè - mercoledì 29 dicembre 2010 – il sussidiario.net

Nel weekend precedente al Natale, la BBC aveva mandato in onda uno sceneggiato sulla natività. Nulla di strano, direte voi. Tuttavia, la stranezza risiede nell’insultante caricatura delle figure di San Giuseppe e della Santa Madre di Dio. È stato per renderle più realistiche e contemporanee, si sono giustificati i produttori e i commentatori sui quotidiani inglesi del 20 dicembre scorso, ma San Giuseppe era un poco di buono e la Madonna una teenager disponibilissima nel provare esperienze sessuali.

Insomma, tutta la storiella insultante era basata sulla povera teenager che non sapendo chi fosse il padre del piccolo che portava in grembo, convince Giuseppe a fare un’opera buona e sposarla per il bene del piccolo. Ovviamente, tutta la storia era presentata con tanto di abiti dell’epoca, romani diti al censimento, comunità ebraiche con i propri rabbini.

Il Times on line non ha riportato nei giorni successivi proteste veementi delle comunità cristiane e cattoliche di Inghilterra, ma c’e da scommettere che dev’essere successo un “patatrack”, come avrebbe detto mia nonna. Dopo un primo supporto ad ateisti e gruppi anticattolici nei nove mesi precedenti la visita del Papa, nel settembre scorso, e a seguito dello straordinario successo dei tre giorni di Benedetto XVI in Inghilterra, i media inglesi hanno cambiato atteggiamento nei confronti dei cattolici e del cristianesimo in generale: da oppressivo disinteresse ad attiva attenzione.
Infatti, la prova che l’insulto televisivo al Natale e alla Santa Madre di Dio non è passato sotto silenzio, l’abbiamo avuto nella breve e significativa intervista-messaggio del Santo Padre per il Natale, un messaggio ad hoc al popolo inglese attraverso la Radio della BBC. Il 24 dicembre, l’ennesima prima volta di un Papa cattolico in terra inglese, Benedetto ha registrato un messaggio originale a una radio britannica per rivolgersi esclusivamente ai cittadini d’Inghilterra.

Anche questa volta, alla faccia di detrattori e demoni anticristiani, il Papa ha detto chiaro e forte che il Natale è una “Presenza reale”, non una favola inventata, una presenza che cambierà il cuore e le menti anche dei responsabili della BBC. La Madonna, quella vera, penserà al resto.


E la «farfalla» in carrozzella scrisse al Papa - Rita Coruzzi, disabile, 24 anni, narra la sua conversione e le lettere con Giovanni Paolo II DI GIANPAOLO SARTI, Avvenire, 29 dicembre 2010

Rita ama, combatte.
Rita vola. E dove non può il fisico, può la fede. Oggi, a 24 anni, lei dice che no, non vorreb­be ritornare a muoversi con le sue gambe. È felice sulla carrozzina. «So che sembra incomprensibile, ma con la mia vita così pie­na, in comunione con Dio, rifiuterei volentieri la gua­rigione per il semplice fatto che voglio rimanere sulla croce con lui». Rita Coruzzi in Un volo di farfalla (Piemme, pp. 196, euro 13,50; prefazione del cardi­nale Camillo Ruini e invito alla lettura di Magdi Cri­stiano Allam) ci consegna una testimonianza forte e lucida su disabilità, soffe­renza e conversione. Ora nella vita di Rita c’è la luce, ma prima non era così.

Quando il medico le ha co­municato che l’intervento era fallito e che lei non a­vrebbe più potuto cammi­nare, tutto fu buio, terrore, angoscia. E rabbia. «Mi so­no arrabbiata tanto con Gesù – ricorda la ragazza –, ero troppo delusa e scon­fitta per fidarmi ancora di Dio». Nata prematura, Rita Coruzzi fino ai 10 anni ha dovuto convivere con una tetraparesi; cammina a fa­tica, ma cammina. Le gior­nate della bambina sono intessute di scuola e fisio­terapia, finché si apre la speranza di un’operazione chirurgica che avrebbe po­tuto darle una vita più nor­male. Pochi minuti, le di­cono, un intervento sem­plice. Qualcosa però va storto in sala operatoria e la piccola deve rassegnarsi a un’esistenza su una sedia a rotelle. «Perché mi hai fatto questo, Gesù, per­ché? ». Un urlo di dolore che Rita soffoca per 4 lun­ghi anni abbassando gli oc­chi e decidendo di non guardare più in faccia nes­suno. Prova conforto solo nell’affetto della mamma e nelle carezze della nonna.

Rialza il volto a Lourdes, in un pellegrinaggio, quando trova il coraggio di pregare davanti alla grotta: «Ho sentito la voce di Maria dentro di me e le ho chie­sto cosa desiderasse, vole­vo sapere perché mi ha vo­luto in queste condizioni, volevo sapere quale doveva essere il mio posto nel mondo». Un’altra voce, un sussurro: «Devi utilizzare la tua sofferenza per portare la testimonianza dell’amo­re di Dio». Rita riesce a di­plomarsi al liceo classico, si laurea in Lettere e frequen­ta la specializzazione in giornalismo. Ha capito la sua vocazione: «Scrivere e scuotere le coscienze per far capire quanto può esse­re bello vivere anche nella disabilità. Offrire conforto e speranza, perché la mia condizione mi ha dato molto di più di quanto mi è stato tolto». La ragazza rac­conta la sua storia nelle parrocchie o nelle scuole ed è stata spesso ospite in importanti trasmissioni te­levisive.

«Do voce ai disabi­li, parlo del mio amore per la vita e della mia conver­sione, che è poi il mio vero miracolo». Un volo di far­falla

si sofferma spesso sulla figura di Giovanni Paolo II e sui suoi ultimi mesi di vita nella malattia.

A Wojtyla Rita Coruzzi de­dicherà il prossimo libro, in cui pubblicherà il suo scambio epistolare con il pontefice e una serie di te­stimonianze di chi lo ha conosciuto da vicino. Par­lerà ancora di amore e di sofferenza, per continuare a dire a tutti che è felice, che per lei su quella carroz­zina, in fondo, è come stare sulle ginocchia di Gesù.