venerdì 31 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Un filosofo rilancia la scommessa del papa: vivere come se Dio ci fosse - È il tedesco Robert Spaemann. In un libro su quella "diceria immortale" che è l'esistenza di Dio, sempre viva e sempre controversa. Sullo sfondo del consiglio dato da Benedetto XVI "anche ai nostri amici che non credono" - di Sandro Magister
2) La vita: fragilità e pienezza - L’esistenza umana al centro di un convegno dell’associazione “Identità e Confronti”
3) Benedetto XVI: il dialogo tra culture e religioni, un “dovere sacro” - Ricevendo in udienza una delegazione ebraica
4) Benedetto XVI chiede a novembre preghiere per i cristiani dell'Asia - Perché trovino i modi più appropriati di annunciare Cristo
5) 30/10/2008 11:38 - CINA - HONG KONG - Le autorità sapevano delle uova alla melamina, ma hanno ordinato di “tacere” - Le autorità sanitarie del Liaoning hanno censurato la notizia, finché è emersa a Hong Kong. Lo scandalo si allarga a nuove ditte di uova. Ma Pechino tace, mentre cresce la confusione e il timore per consumatori e produttori. La Fao chiede “notizie” sulla sanità della carne.
6) Dal Senato italiano - Approvata una mozione - contro la persecuzione dei cristiani
7) Italia, la ricchezza sono i valori - Giorgio Vittadini - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) EDUCAZIONE/ Israel: ora più che mai è importante incontrare veri maestri INT. Giorgio Israel - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ Due buone notizie dalla giornata dello sciopero insensato - Renato Farina - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) IL FUTURO DI SCUOLA E UNIVERSITÀ - ORA UN’IDEA FORTE CHE SBLOCCHI LA CONTRAPPOSIZIONE - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 31 ottobre 2008
11) PER LASCIARSI VIVERE SENZA TROPPI SIGNIFICATI - Se la morte perde l’epica ecco tornare Halloween - PIO CEROCCHI – Avvenire, 31 ottobre 2008


Un filosofo rilancia la scommessa del papa: vivere come se Dio ci fosse - È il tedesco Robert Spaemann. In un libro su quella "diceria immortale" che è l'esistenza di Dio, sempre viva e sempre controversa. Sullo sfondo del consiglio dato da Benedetto XVI "anche ai nostri amici che non credono" - di Sandro Magister
ROMA, 31 ottobre 2008 – È uscito in questi giorni in Italia, dopo che era già uscito in Germania, un libro davvero importante. Ha per autore un filosofo cristiano di prima grandezza, Robert Spaemann (nella foto). Ha per titolo "La diceria immortale", nell'originale tedesco "Das unsterbliche Gerücht". Un titolo che l'autore spiega così:
"Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama 'Dio' è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere. Questo essere non fa parte di ciò che esiste nel mondo. Dovrebbe essere piuttosto la causa e l’origine dell’universo. Fa parte della diceria, però, che nel mondo stesso ci siano tracce di quest’origine e riferimenti ad essa. E questa è la sola ragione per cui su Dio si possono fare affermazioni tanto diverse".

Il libro, edito in Italia da Cantagalli, è il primo di una collana che si intitola, non a caso: "Come se Dio fosse".

Vivere "come se Dio fosse" – si creda o no in Lui – è la proposta paradossale lanciata da Benedetto XVI alla cultura e agli uomini d'oggi.

Questa proposta Joseph Ratzinger la formulò per la prima volta, da filosofo oltre che da teologo, nel memorabile discorso da lui pronunciato a Subiaco il 1 aprile 2005, ultima sua conferenza pubblica prima d'essere eletto papa.

Ratzinger la espose così:

"Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide 'etsi Deus non daretur', anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale. La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita 'veluti si Deus daretur', come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno".

Letto su questo sfondo, il libro di Spaemann riesce ancor più avvincente.

Qui di seguito ne è riportato un assaggio, per frammenti tra loro concatenati, ripresi dalle pagine 24-42 dell'edizione italiana:



"Con il venir meno dell’idea di Dio viene meno anche quella di un mondo vero" - di Robert Spaemann
La storia degli argomenti in favore dell’esistenza di Dio è enorme. Ci sono sempre stati uomini che hanno cercato di assicurarsi della ragionevolezza della loro fede. [...] Le classiche prove dell’esistenza di Dio cercavano di mostrare che è vero che Dio c’è. Presupponevano che la verità c’è e che il mondo possiede delle strutture comprensibili, accessibili al pensiero. Queste trovano il loro fondamento nell’origine divina del mondo. Sono direttamente accessibili a noi e per questo sono atte a condurci a questo fondamento.

Questo presupposto è contestato a partire da Hume e soprattutto da Nietzsche. [...] L'intera opera di Nietzsche può essere letta come una parafrasi della lapidaria espressione di Hume: "We never really advance a step beyond ourselves", noi davvero non avanziamo di un gradino oltre noi stessi [...] Nietzsche scrive che "anche noi illuministi, noi spiriti liberi del XIX secolo, prendiamo ancora il nostro fuoco dalla fede cristiana – che era anche la fede di Platone – secondo cui Dio è la verità, e la verità è divina". Ma proprio questo pensiero per Nietzsche è una auto-illusione. Non c’è verità. Ci sono soltanto reazioni utili o dannose. "Non dobbiamo illuderci che il mondo ci mostri un volto leggibile", dicono Michel Foucault e Richard Rorty. [...] Con il venir meno dell’idea di Dio viene meno anche quella di un mondo vero. [...]

Il neopragmatista Rorty sostituisce la conoscenza con la speranza in un mondo migliore, dove non si può neanche più dire in che cosa questa speranza dovrebbe consistere. [...] Non è che una conseguenza se Rorty non recepisce come un’accusa nemmeno più quella di parlare in modo oscuro e contradditorio. Infatti, nell’ambito di un pensiero che non si sente più obbligato alla verità ma al successo, nemmeno può più essere detto chiaramente in che cosa quel successo dovrebbe consistere. Pensieri oscuri possono essere più efficaci di pensieri chiari. La nuova situazione è caratterizzata dal fatto che noi decidiamo "uno actu", di nostra pura volontà, se pensare un assoluto, se pensare questo assoluto come Dio, se riconoscere qualcosa come una verità non relativa a noi, e infine se considerarci autorizzati a ritenere noi stessi esseri capaci di verità, ovvero persone. [...]

In Nietzsche viene a compimento e a compiuta coscienza di sé la "via moderna", cioè il nominalismo. [...] In questa situazione, perciò, gli argomenti per pensare l’assoluto come Dio possono essere soltanto argomenti "ad hominem". [...] Se non lo vogliamo, non c’è alcun argomento che possa convincerci dell’esistenza di Dio. [...]

Con il venir meno del pensiero della verità viene meno anche il pensiero della realtà. Il nostro dire e pensare ciò che è, è strutturato in forma inevitabilmente temporale. Non possiamo pensare qualcosa come reale senza pensarla nel presente, cioè come reale "adesso". Qualcosa che sia sempre stata soltanto passato, o che sarà soltanto futuro, mai c’è stata e mai ci sarà. Ciò che è adesso, un tempo era futuro e sarà a suo tempo passato. Il "futurum exactum", il futuro anteriore, è inseparabile dal presente. Dire di un evento del presente che in futuro non sarà più stato, significa dire che in realtà non è neppure ora. In questo senso tutto il reale è eterno. Non potrà esserci un momento in cui non sarà più vero che qualcuno ha provato un dolore o una gioia che prova adesso. E questa realtà passata prescinde assolutamente dal fatto che ce la ricordiamo.

Ma qual è lo statuto ontologico di questo diventare passato se tutte le tracce saranno cancellate, se l’universo non ci sarà più? Il passato è sempre il passato di un presente; che ne sarà del passato se non ci sarà più alcun presente? L’inevitabilità del "futurum exactum" implica quindi l’inevitabilità di pensare un "luogo" dove tutto ciò che accade è custodito per sempre. Altrimenti dovremmo accettare l’assurdo pensiero che ciò che ora è, un giorno non sarà più stato; e di conseguenza non è reale neppure adesso: un pensiero che solo il buddismo tende a sostenere. La conseguenza del buddismo è la denegazione della vita.

Nietzsche ha riflettuto, come nessun altro prima di lui, sulle conseguenze dell’ateismo, con l'intento di percorrere la strada non della denegazione della vita, ma dell’affermazione della vita. [...] La conseguenza più catastrofica gli sembrò che l’uomo perdesse ciò a cui tende la sua autotrascendenza. Infatti, Nietzsche considerò come il più grande acquisto del cristianesimo l’aver esso insegnato ad amare l’uomo per amore di Dio: "il sentimento finora più nobile e alto raggiunto fra gli uomini". Il superuomo e l’idea di un eterno ritorno dovevano fungere da sostituto per l’idea di Dio. Infatti, Nietzsche vedeva chiaramente chi avrebbe determinato altrimenti in futuro il volto della terra: gli "ultimi uomini", che credono di aver inventato la felicità e si fanno beffe dell’"amore", della "creazione", della "nostalgia" e della "stella". Occupati soltanto a manipolare la propria lussuria, ritengono pazzo ogni dissidente che tenga seriamente a qualcosa, come ad esempio la "verità".

L’eroico nichilismo di Nietzsche si è dimostrato, come egli stesso temeva, impotente di fronte agli "ultimi uomini". [...] Il banale nichilismo dell’ultimo uomo viene propagato oggi, tra gli altri, da Richard Rorty. L’uomo che, insieme all’idea di Dio, ha accantonato anche la verità, ora conosce soltanto i propri stati soggettivi. Il suo rapporto con la realtà non è rappresentativo, ma solo causale. Vuole concepire se stesso come una bestia astuta. Per una bestia del genere non si dà conoscenza di Dio. [...]

Ma se vogliamo pensare il reale come reale dobbiamo pensare Dio. "Temo che non ci libereremo di Dio fintantoché crederemo alla grammatica", scrive Nietzsche. Avrebbe potuto anche aggiungere: "... fintantoché continueremo a pensarci come reali". Un argomento "ad hominem".


La vita: fragilità e pienezza - L’esistenza umana al centro di un convegno dell’associazione “Identità e Confronti”
di Luca Marcolivio

ROMA, giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org) – Non si può parlare di difesa della vita senza una seria riflessione sul suo significato. Ed è impossibile comprenderne il valore profondo, se non si contemplano la caducità e la sofferenza che spesso scaturiscono da essa. Questi in sintesi i contenuti del convegno “La vita: fragilità e pienezza”, tenutosi il 28 ottobre sera nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura.
L’incontro, organizzato dall’associazione “Identità e Confronti” in occasione del Giubileo Laurenziano, ha visto la partecipazione di medici, psicologi, prelati, parlamentari e giornalisti. Ognuno dei relatori ha affrontato la tematica della vita nella propria ottica professionale ma sempre corroborata da una concezione etica cristiana.
Punto di partenza del dibattito è stata la relazione “Al centro la persona umana” di monsignor Elio Sgreccia, Presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita. “Già Socrate – ha esordito Sgreccia – esortava l’uomo a conoscere se stesso, ovvero conoscere soprattutto le proprie fragilità e i propri limiti. Questo concetto è stato rafforzato con il pensiero cristiano”.
“Lo stesso primo kerigma ‘convertitevi e credete al Vangelo’ (Mc 1,14-20) – ha proseguito il presule – implica un ‘ritorno su di sé’, un giro di introspezione e di cambiamento. Anche Sant’Agostino misurò il proprio passaggio dal paganesimo al cristianesimo, seguendo una voce interiore e divina che gli suggeriva ‘entra in te stesso’”.
“La dottrina dei diritti dell’uomo – ha aggiunto – ne tutela la dignità per il fatto stesso che è uomo. E noi siamo tenuti a interpretare la fragilità, guardando dentro il cuore dell’uomo. Tuttavia l’essere umano sussiste in sé e per sé ma non da sé”.
“L’uomo – ha spiegato Sgreccia – è fatto di una corporeità biologica, a cui però si aggiunge una forza superiore: la spiritualità. Soltanto lo spirito infonde nel corpo la forza di esistere, gli dona capacità e risorse, lo eleva a una superiore dignità. Se il corpo esiste è perché lo spirito gli conferisce la vita, dando luogo a una soggettività unica”.
“Pertanto gli atti che una persona compie – ha poi osservato – rivelano la persona ma non la esauriscono. È sufficiente che esistano delle potenzialità a compiere tali atti, per rendere uguale la dignità di ogni persona”.
“Ben diversa è la moderna mentalità del contratto sociale che considera degne soltanto le persone in grado di prendere decisioni. Anche le religioni orientali, essendo dominate dall’impersonalismo, con molta difficoltà riescono a concepire la responsabilità personale”, ha poi concluso l’Arcivescovo.
Nella prima tavola rotonda, avente ad oggetto “Le sfide della vita”, è spiccato l’intervento dell’europarlamentare Carlo Casini, fondatore e presidente del Movimento per la Vita. L’onorevole Casini ha esordito ricordando uno degli ultimi discorsi pubblici di Papa Giovanni Paolo II che, rivolto al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, aveva indicato la sfida della vita come “la più importante dell’uomo moderno”.
Richiamando, poi, l’imminente 40° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, Casini ha sottolineato come “in un momento angoscioso della storia dell’umanità, a soli tre anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, un nuovo ‘atto della mente’, come la proclamazione dell’uguale dignità dei cittadini, poneva nuove basi per la speranza dell’umanità”.
“Come sottolinea la Evangelium Vitae, i diritti umani precedono le leggi e le giudicano – ha aggiunto Casini –. Se però perdiamo di vista chi è l’uomo, il quadro di tali diritti va in pezzi. In questo ambito la sfida, infatti, non è provare l’esistenza di Dio ma l’esistenza dell’uomo”.
“Ma chi è davvero l’uomo? L’allora cardinal Ratzinger ce ne fornì una risposta illuminante, nel 1987, durante un incontro con noi del Movimento della Vita. Spiegò che la vera natura umana è svelata da Pilato nell’Ecce homo (Gv 19,5). Quel Cristo piagato e sanguinante è l’emblema dell’uomo nei suoi momenti di massima fragilità. È in quelle circostanze che cogliamo l’essenza della nostra vita”.
Secondo Casini, la mentalità contro la vita, in special modo contro la vita nascente, si è diffusa tra le masse ed è vista da molti come una conquista della civiltà, “perché esiste una mentalità materialista che non vuole indagare il mistero dell’uomo. È un tipo di cultura che non vede, non spera, non progetta”.
“Alla radice di tale cultura della morte – aggiunge Casini – c’è la corruzione del concetto di libertà, che porta a vedere, ad esempio, la nascita di un figlio come un ostacolo all’autodeterminazione”.
La seconda tavola rotonda ha affrontato il tema dei “Contenuti elementari per la ricerca del vivere umano”. In questa sede lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione Psicologi e Psichiatri Italiani, ha tracciato l’identikit dell’uomo del terzo millennio alla luce della crisi delle relazioni interpersonali e delle ‘tecnodipendenze’.
“Noi psicoterapeuti ci troviamo di fronte ad un tipo umano alquanto più depresso e più ansioso che in passato – ha spiegato il professor Cantelmi -. È più soggetto ad attacchi di panico ed è diventato dipendente da comportamenti ed abitudini che ripete in modo compulsivo, siano essi il sesso, il gioco, lo shopping o la navigazione in Internet”.
L’uomo del terzo millennio, secondo Cantelmi, è schiavo delle tecnologie moderne, in special modo della comunicazione: SMS, videofonini, chat line, social network. “In particolare i social network, attraverso i quali l’utente può pubblicare un proprio profilo, mettere in rete le proprie foto e costruirsi un immagine pubblica, sono la spia di una grandissima solitudine”, ha affermato.
“Il successo delle moderne tecnologie della comunicazione – ha aggiunto lo psichiatra – cela la più straordinaria crisi delle relazioni interpersonali che la nostra società abbia mai conosciuto. Siamo diventati abili a ‘tecnologizzare’ le nostre relazioni, con il risultato che le relazioni ‘faccia-a-faccia’ sono diventate più problematiche”.
“La gioventù attuale – ha concluso Cantelmi – è la generazione dei nativi digitali, coloro che a differenza dei loro genitori, a tre anni sanno già maneggiare un cellulare e sanno far funzionare altri strumenti senza bisogno del libretto di istruzioni. Non si tratta di un semplice cambiamento culturale: è un cambiamento antropologico che coinvolgerà lo stesso cervello umano”.
Lo sconfortante scenario illustrato da Cantelmi, ha avuto come contraltare l’intervento “Un percorso di risveglio”, a cura dello psichiatra Alessandro Meluzzi. Partendo da una tematica sempre più rimossa nelle discussioni dell’uomo contemporaneo, come quella della fine dei tempi, Meluzzi ha sottolineato come, anche nel Vangelo, l’umanità tenda ad ‘addormentarsi’ proprio nei momenti cruciali della storia della salvezza.
“Si addormentano le vergini stolte (Mt 25,1-13) – ha osservato Meluzzi – si addormentano gli apostoli durante la preghiera di Nostro Signore nel Getsemani (Lc 22,45)… . Anche quest’epoca ha bisogno di uno scossone e di un risveglio. Per farlo dobbiamo imparare a contemplare lo scandalo degli scandali: il dolore. E, per farlo dobbiamo contemplare scandalosamente come il Dio cristiano abbraccia la Morte”.
“Abbiamo cancellato Dio, e soprattutto Cristo, dalle nostre conversazioni d’ogni giorno – ha concluso Meluzzi -. Ciò è segno che abbiamo a che fare con un Dio ‘politicamente scorretto’ e di un Cristo che continua a ‘scandalizzare’. L’essenza della nostra fede, in fondo, è proprio questo”.


Il Papa: la libertà non è un valore assoluto dell'individuo - Nell'udienza alla nuova ambasciatrice del Canada presso la Santa Sede
di Inma Álvarez

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nel suo discorso alla nuova ambasciatrice del Canada presso la Santa Sede, la signora Anne Leahy, Benedetto XVI ha affermato questo giovedì che la libertà “non può essere invocata per giustificare certi eccessi”, che potrebbero portare a “un regresso nel concetto dell'essere umano”, soprattutto in questioni come la vita e la famiglia.
E' necessaria, ha spiegato, una “ridefinizione del senso della libertà”, sempre più percepita come “un diritto intoccabile dell'individuo”, mentre si ignorano “l'importanza delle sue origini divine e la sua dimensione comunitaria”.
“In base a questa interpretazione, l'individuo potrebbe da solo decidere e scegliere la fisionomia, le caratteristiche e le finalità della vita, della morte e del matrimonio”, ha spiegato il Papa.
Nonostante questo, ha aggiunto, “la vera libertà si fonda e si sviluppa in Dio. E' un dono che è possibile accogliere come un germe e far maturare in modo responsabile per arricchire realmente la persona e la società”, e ha come riferimento “una legge morale naturale di carattere universale, che precede e unisce tutti i diritti e i doveri”.
Il Pontefice si è detto convinto che “una cultura della vita”, soprattutto relativamente alla difesa della vita e della famiglia, “possa rivitalizzare il congiunto dell'esistenza canadese a livello personale e sociale”.
“So che è possibile e che il suo Paese è capace di farlo”, ha detto all'ambasciatore.
Dall'altro lato, si è riferito alla questione dell'insegnamento religioso, ricordando che è “un diritto inalienabile dei genitori assicurare l'educazione morale e religiosa dei propri figli”.
“L'insegnamento della religione, a causa del contributo specifico che può apportare, rappresenta una risorsa fondamentale e indispensabile per un'educazione che abbia tra i suoi primi obiettivi la costruzione della personalità dell'alunno e lo sviluppo delle sue capacità, integrando le dimensioni cognitive, affettive e spirituali”, ha commentato.
Benedetto XVI ha affermato che i Canadesi sono “eredi di un umanesimo estremamente ricco, grazie all'associazione di numerosi elementi culturali diversi”, tra i quali ha sottolineato “la concezione spirituale e trascendentale della vita, fondata sulla Rivelazione cristiana, che ha dato un impulso vitale al suo sviluppo come società libera, democratica e solidale”.
Rivelante è poi l'impegno del Canada a favore dei Paesi più poveri del pianeta, così come il suo ruolo nella proibizione delle mine antiuomo e “il suo contributo alla stabilità, alla pace e allo sviluppo nella regione dei Grandi Laghi in Africa”.
Benedetto XVI ha quindi ricordato che tra il Canada e la Santa Sede “c'è una lunga storia di dialogo”, specificando che “è stato significativo che Giovanni Paolo II abbia compiuto tre viaggi apostolici in Canada, l'ultimo in occasione della XVII Giornata Mondiale della Gioventù”.
“Come lei ha sottolineato”, ha aggiunto riferendosi al discorso pronunciato dal nuovo ambasciatore, “grazie alle istituzioni che ha creato e alla cultura che ha promosso, il cattolicesimo ha rappresentato una pietra angolare dell'edificio della società canadese”.
Il Papa si è detto convinto che “le vecchie radici dell'albero del cattolicesimo siano ancora vive in Canada e che possano farlo rifiorire”, e ha esortato i cattolici del Paese a impegnarsi nella società come “espressione di una amore che cerca il bene integrale dell'uomo”.
La signora Anne Leahy ha 56 anni ed è originaria di Québec. In precedenza è stata ambasciatore in Camerun, Polonia e nella Federazione Russa, ed è stata la coordinatrice generale per la Giornata Mondiale della Gioventù 2002 a Toronto.


Benedetto XVI: il dialogo tra culture e religioni, un “dovere sacro” - Ricevendo in udienza una delegazione ebraica
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nel complesso mondo odierno, il dialogo tra le culture e le religioni è “un dovere sacro”, ha dichiarato questo giovedì Benedetto XVI ricevendo in udienza i membri di una delegazione dell'“International Jewish Committee on Interreligious Consultations”.
Ricordando che da oltre trent'anni questa realtà e la Santa Sede hanno “regolari e fruttuosi contatti, che hanno contribuito a una maggiore comprensione e accettazione tra cattolici ed ebrei”, il Papa ha affermato di voler approfittare di questa occasione per ribadire “l'impegno della Chiesa nell'implementazione dei principi espressi nella storica Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II”.
Il documento, ha spiegato, “condannava fermamente ogni forma di antisemitismo, rappresentava una significativa pietra miliare nella lunga storia delle relazioni ebraico-cattoliche e un incoraggiamento a una rinnovata comprensione teologica dei rapporti tra la Chiesa e il popolo ebraico”.
Al giorno d'oggi, ha affermato Benedetto XVI, i cristiani sono “sempre più consapevoli del patrimonio spirituale che condividono con il popolo della Torah, il popolo scelto da Dio nella sua inesprimibile misericordia, un patrimonio che chiede più apprezzamento reciproco, rispetto e amore”.
Allo stesso modo, gli ebrei sono chiamati a “scoprire ciò che hanno in comune con tutti coloro che credono nel Signore, il Dio di Israele, che si è rivelato attraverso la sua potente parola donatrice di vita”.
Questa Parola, ha osservato il Pontefice, “ci esorta a dare una testimonianza comune dell'amore, della misericordia e della verità di Dio”, “servizio vitale nella nostra epoca, minacciata dalla perdita dei valori morali e spirituali che garantiscono la dignità umana, la solidarietà, la giustizia e la pace”.
Nel mondo odierno, spesso caratterizzato da povertà, violenza e sfruttamento, il dialogo tra le culture e le religioni deve essere sempre più visto come “un dovere sacro che spetta a tutti coloro che sono impegnati a costruire un mondo degno dell'uomo”, ha constatato il Papa.
La capacità di accettarsi e rispettarsi e di parlare la verità dell'amore è “essenziale per superare le differenze, prevenire i fraintendimenti ed evitare confronti inutili”.
Il dialogo, ha aggiunto, è “serio e onesto” solo quando “rispetta le differenze e riconosce gli altri proprio nella loro alterità”.
Un dialogo sincero, inoltre, “ha bisogno di apertura e di un solido senso di identità da entrambe le parti, perché ciascuna sia arricchita dai doni dell'altra”.
Ringraziando il Signore per “i progressi nei rapporti ebraico-cattolici” riflessi negli incontri che ha avuto con le comunità ebraiche a New York, Parigi e in Vaticano, il Papa ha incoraggiato i presenti a portare avanti la loro opera “con pazienza e rinnovato impegno”.
“Con questi sentimenti, cari amici, chiedo all'Onnipotente di continuare a vegliare su di voi e sulle vostre famiglie, e di guidare i vostri passi sulla via della pace”, ha concluso.
Il mese prossimo, l'“International Jewish Committee on Interreligious Consultations” incontrerà a Budapest (Ungheria) una delegazione della Commissione vaticana per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo per discutere sul tema “Religione e società civile oggi”.


Benedetto XVI chiede a novembre preghiere per i cristiani dell'Asia - Perché trovino i modi più appropriati di annunciare Cristo
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI chiede nel mese di novembre preghiere perché i cristiani del continente asiatico, quello meno evangelizzato, trovino i modi più appropriati di annunciare Cristo.
Lo propone nelle intenzioni dell'Apostolato della Preghiera, iniziativa seguita da circa 50 milioni di persone nei cinque continenti.
Il Papa presenta due intenzioni di preghiera: una generale, l'altra missionaria.
L'intenzione missionaria di novembre dice così: “Perché le comunità cristiane dell'Asia, contemplando il volto di Cristo, sappiano trovare le vie più consone per annunciarLo alle popolazioni di quel vasto continente, ricco di cultura e di antiche forme di spiritualità, nella piena fedeltà al Vangelo”.
L'intenzione generale si ispira alla solennità di Tutti i Santi, con cui inizia il mese di novembre.
La proposta recita: “Perché la testimonianza di amore offerta dai Santi fortifichi i cristiani nella dedizione a Dio e al prossimo, imitando Cristo, che è venuto per servire e non per essere servito”.


30/10/2008 11:38 - CINA - HONG KONG - Le autorità sapevano delle uova alla melamina, ma hanno ordinato di “tacere” - Le autorità sanitarie del Liaoning hanno censurato la notizia, finché è emersa a Hong Kong. Lo scandalo si allarga a nuove ditte di uova. Ma Pechino tace, mentre cresce la confusione e il timore per consumatori e produttori. La Fao chiede “notizie” sulla sanità della carne.
Hong Kong (AsiaNews/Agenzie) - Hong Kong trova melamina in una terza ditta di uova cinesi e il Segretario alla Sanità York Chow vuole “chiedere alla Cina se sia possibile istituire un certificato di ‘assenza di melamina’ per le uova esportate a Hong Kong”. Intanto fonti di stampa riportano che già dal 6 ottobre il Dipartimento della sanità animale del Liaoning ha scoperto melamina nelle uova locali e disposto accertamenti sulla ditta di mangimi Mingxing Feed Company, ma ha censurato la notizia.
Un documento del 22 ottobre del Dipartimento alla sanità – riporta il Beijing News – dispone che “non deve essere accettata nessuna intervista dei media sulla questione”. Finché il 26 ottobre la sostanza è stata trovata a Hong Kong nelle uova dell’Hanwei Group di Dalian (Liaoning), leader del settore. Han Wei, titolare della ditta omonima e anche chiamato “Il re del pollame cinese”, è un alto consigliere del governo centrale, che si è distinto per le battaglie a favore della sicurezza alimentare. I blog cinesi sono pieni di critiche e riportano le sue appassionate parole, in incontri ufficiali e anche davanti all’Assemblea nazionale del popolo, sulla “priorità del popolo” e della “sicurezza alimentare”. Ora il governo di Dalian ha proibito l’esportazione dei prodotti della Hanwei, che vende in Giappone e altrove.
Intanto a Hong Kong è stata trovata melamina nelle uova di una ditta dell’Hubei: 3.1 milligrammi per chilogrammo, poco oltre il limite consentito di 2,5 milligrammi. Ma è già grave che la sostanza chimica, usate per produrre plastica ma velenosa per l’uomo, sia contenuta nelle uova. Ora i supermercati di molte città rifiutano varie marche di uova, come la Hanwei. C’è confusione anche perché manca qualsiasi indicazione ufficiale. Ci si chiede perché Pechino ancora tace sulle cause della contaminazione. Esperti commentano che un derivato della melamina è molto usato nei mangimi animali e ritengono che sia stata assorbita dal pollame. Zhang Zhongjun, funzionario cinese presso la Fao, dice che è stato chiesto al ministero cinese per l’Agricoltura se la melamina sia stata usata in mangimi animali: si teme possa essere stata assorbita nelle carni di pollame, bovini, maiali, pesce. Di certo le uova contaminate provenivano da regioni distanti: Hubei, Shanxi, Liaoning, e le autorità per la sicurezza alimentare le hanno indicate come “prodotto biologico”.
Wang Zhongqiang, portavoce dell’Associazione dell’industria per il pollame nazionale, ha spiegato ieri che “l’intera industria del pollame è nella completa disperazione”, “da giorni produttori e agricoltori chiedono un intervento, perché la domande e i prezzi delle uova crollano. Mi risulta che nel Jiangsu i prezzi sono scesi da 3,6 a 3 yuan (da circa 36 a 30 centesimi di euro) per mezzo chilo di uova e in alcune province nordorientali i grossisti non ordinano più uova”. “Stiamo iniziando un’ampia indagine per accertare cosa è successo. Avremo un’idea generale in un paio di giorni”.
Oltre 53mila neonati si sono ammalati ai reni (con 4 morti) per avere consumato latte in polvere di grandi ditte cinesi contenente elevate quantità di melamina.


Dal Senato italiano - Approvata una mozione - contro la persecuzione dei cristiani
Roma, 30. Il Senato italiano ha approvato all'unanimità una mozione sottoscritta da tutti i gruppi politici contro la persecuzione subita dalle comunità cristiane nel mondo. Il testo ha unificato le quattro mozioni presentate da Lega, Partito democratico, Popolo delle libertà e Unione di centro. La mozione così unificata e approvata in aula impegna il Governo "ad adoperarsi in tutte le sedi comunitarie e internazionali, nonché nell'ambito dei rapporti internazionali bilaterali, affinché vengano garantiti i diritti fondamentali della persona e le libertà religiose e venga posta fine alle violenze e alle persecuzioni alimentate dal fondamentalismo etnico e religioso in ciascun Paese o area di crisi mondiale". In particolare, la mozione impegna il Governo "ad assumere iniziative volte a contrastare le persecuzioni delle comunità cristiane in India, Iraq e in altri Paesi da parte di gruppi estremisti e fondamentalisti; a promuovere il rafforzamento del ruolo internazionale dell'Unione europea quale modello culturale, sociale e istituzionale di riferimento per la tutela e la promozione su scala mondiale dei diritti umani e della pace; a considerare il dramma delle persecuzioni come prioritario nell'ambito delle relazioni bilaterali e internazionali". Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso dell'intervista rilasciata a "L'Osservatore Romano", aveva espresso l'auspicio che si levasse più alta la voce dell'Occidente per fermare le persecuzioni.
(©L'Osservatore Romano - 31 ottobre 2008)


Italia, la ricchezza sono i valori - Giorgio Vittadini - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Nell’attuale crisi di origine finanziaria il dibattito rischia di fermarsi a livello economico, mentre molti elementi inducono a pensare che sono in gioco questioni cruciali per gli stessi valori alla base della convivenza. Infatti molti degli errori che stanno alla radice di questa crisi nascono da una distorsione del rapporto tra uomo e realtà.
Si è pensato che la finanza potesse generare valore e ricchezza prescindendo da un loro corrispettivo reale legato a un valore d’uso di beni e servizi che solo può generare il loro valore di scambio non drogato. Si è ritenuto che i finanzieri, quasi nuovi alchimisti, potessero rispondere magicamente al pur giusto desiderio di migliorare le condizioni di vita di larghi strati della popolazione (es. mutui per case, credito al consumo) superando il limite imposto dalla realtà e dalla effettiva capacità personale e familiare di generare reddito, in grado di restituire prestiti ricevuti.
Si è concepito uno sviluppo che potesse prescindere dall’equilibrio tra tutti i fattori della personalità del singolo e dell’umanità nel suo complesso, dalla necessità di preservare e incrementare i suoi legami religiosi, familiari, sociali e di rispettare l’ambiente in cui si vive.
Si sono considerati ininfluenti i valori umani per la vita economica, per scoprire oggi che la conseguenza più grave della crisi finanziaria è una perdita generalizzata di fiducia (etimologicamente anche alla radice del “dar credito” in senso economico), fondamentale non solo per la vita personale, ma anche per l’economia reale, per la possibilità di investire, consumare, perfino fare transazioni economiche e finanziarie e per i rapporti fra stati.
Già dieci anni fa, nell’aprile del 1998, don Giussani scriveva su un quotidiano nazionale che «l’unico dio reale nella società di oggi è il soldo. Eppure tutto il potere in atto, nella sua impotenza, sembra tante volte non offrire neanche un accenno di speranza per il popolo. Così che gli uomini, quando guardano l’orizzonte, e anche il cielo, debbono accusare paura. E anche i più saggi del mondo, coloro che passano per ispiratori della verità dell’uomo e del benessere del popolo, i guru, non sanno che fare».
La risposta a questa crisi non può limitarsi quindi alle pur sacrosante misure per rilanciare l’economia, ad una fiducia fideistica nella capacità di autoregolamentazione del mercato o al rilancio di un intervento statale che, se fatto senza criterio, incrementerà quello statalismo già tanto pernicioso verso la capacità di iniziativa e di aggregazione sussidiaria degli uomini.
Mentre si ricercano nuovi e più adeguati modelli economici, occorre ascoltare il monito contenuto nel discorso che il papa ha rivolto al mondo della cultura a Parigi, secondo cui l’economia non può prescindere dai valori fondamentali dell’uomo nella sua integralità. Un duraturo ed equilibrato sviluppo economico può nascere solo dal desiderio di verità, giustizia, bellezza, che alberga nel cuore dell’uomo e che neanche la corruzione del suo limite e del suo peccato possono distruggere. Questo desiderio, educato per secoli nell’esperienza della Chiesa, coltivato in realtà sociali e popolari ad alto connotato ideale, socialista o liberale, ha generato nel nostro Paese un mondo di piccole, medie e grandi imprese, attente a innovazione e progresso, uno sviluppo attento a carità e solidarietà, una miriade di famiglie e realtà sociali capaci di farsi carico di molti bisogni personali e collettivi, una democrazia ad alto tasso di partecipazione, un sistema in cui la salute è statisticamente tutelata come in pochi altri punti nel mondo. Per anni si è pensato che questo portato religioso o ideale in ambito economico e sociale fosse il passato: ma il degrado, già presente nel nostro Paese anche prima della crisi economica, dipende invece dall’abbandono di questa esperienza ideale, personale e sociale. Oggi questa è invece la nostra grande risorsa per ripartire di fronte alla crisi, con rinnovata fiducia e speranza.
(Il Sole 24 Ore, 31 Ottobre 2008)


EDUCAZIONE/ Israel: ora più che mai è importante incontrare veri maestri
INT. Giorgio Israel - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net

Professor Israel, alcuni anni fa personalità della società civile e della cultura lanciarono un appello per l’educazione, che prendeva spunto da un’affermazione di don Giussani: «Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio». Di fronte allo spettacolo di questi giorni, che ha coinvolti bambini, ragazzi, genitori e docenti, che ne è dell’emergenza educazione?
Quello di questi giorni è uno spettacolo che illustra lo sbando cui è arrivata parte della nostra società. La nota più caratteristica soprattutto dei fatti di ieri è che i presunti “giovani” che guidano la protesta sono in realtà gli anziani, gli ex-sessantottini invecchiati che trascinano irresponsabilmente i giovani veri, disinformandoli in modo spaventoso. A questo si aggiunge il fatto ancor più riprovevole dei bambini che vengono portati in piazza; si è arrivati anche al caso limite di maestri che hanno trascinato i loro alunni in spettacoli di dubbio gusto, con travestimenti che richiamavano a Berlusconi e alla Gelmini. Questo è un abuso di minore, né più né meno. Io genitore che mando il bimbo a scuola mi fido del maestro, proprio secondo quell’idea totale di fiducia di cui parlava don Giussani: mi fido cioè del fatto che il ruolo del maestro sia quello di essere educatore, che trasmette conoscenza e passione. E invece vengo tradito in modo indegno nella mia fiducia, perché il bambino viene usato. Ma c’è poi anche il problema che in alcuni casi sono i genitori stessi che tradiscono i loro bambini. È uno spettacolo veramente poco edificante.
Possiamo dunque dire che il problema principale, soprattutto sulla scuola, non è politico, bensì educativo: ma come fare per rilanciare veramente di fronte all’opinione pubblica l’importanza della questione educativa?
Bisogna avere un’infinta pazienza, perché chi lotta sul fronte dell’educazione autentica non ha gli strumenti della propaganda immediata. È più facile che si diffonda la menzogna. Io non sono però pessimista: sono convinto che nel campo della scuola e dell’educazione ci siano molte persone che si stanno rendendo conto del diastro cui siamo arrivati, e che la coscienza sia cresciuta molto da questo punto di vista. Inoltre mi pare che la reazione scomposta della piazza, tanto più perché mossa e guidata non da giovani ma da persone di una certa età, sia un segno di un mondo in crisi che sta reagendo per non essere privato del proprio potere sulla scuola. È un sussulto, un colpo di coda da parte di chi si sente in difficoltà per la prima volta in un terreno che ha sempre ritenuto di proprio dominio. Sono molti quelli che si stanno rendendo conto che da trent’anni abbiamo lasciato il sistema educativo a mani che non avevano a cuore l’educazione vera.
Sembrerebbe però esserci un ostacolo fondamentale: i giovani che seguono le ragioni di chi difende il proprio dominio nel campo educativo sono tanti, a giudicare dalle adesioni alle manifestazioni…
Sono tanti, ma meno di quanti si creda. E sono pienamente convinto che siano una minoranza, anche se naturalmente molto chiassosa. Per questo mi pare indegna l’affermazione di ieri di Epifani, che parlava di «un intero popolo che insorge». Non è così, e soprattutto non lo è per i giovani. Me ne rendo conto soprattutto in università: io ho difficoltà ad andarci in questo giorni a causa del clima di fanatismo di molti docenti, che hanno votato irresponsabilmente per la sospensione della didattica. Mentre gli studenti invece hanno votato contro. La situazione dunque non è così chiara come si vorrebbe far credere: quelli che protestano sono pochi, e non rappresentano nessuno
L’esigenza che muove questi giovani, al di là della condivisione o meno degli argomenti, è comunque un’esigenza positiva: come fare per dare credito all’esigenza buona, anche se male espressa, che li muove?
Molti studenti sono disorientati, e vorrebbero essere informati meglio su quello che accade. Certo, hanno un malessere, e hanno ragione: si trovano a studiare in strutture spesso pietose, e quando vanno all’estero vedono università, come quelle americane o anche di altri paesi europei, in condizioni molto diverse dalle nostre. Eppure da noi si vuole mantenere tutto com’è. Io, ad esempio, sono scandalizzato dal fatto che il senato accademico ammetta, a porte chiuse, le proprie colpe, e che poi gli stessi docenti vadano con l’eskimo in piazza a fare lezione. Stanno corrompendo i giovani, e noi dobbiamo fare uno sforzo per far capire quello che realmente sta accadendo. I ragazzi sono disposti a capire, quando qualcuno parla loro pacatamente. Ad esempio, capiscono benissimo che ha senso proporre un cospicuo aumento delle tasse universitarie, per poi dare borse ai meritevoli: chi vuole parcheggiare paghi salato, chi studia abbia borse. Oppure capiscono che è giusto chiudere le università di troppo, e ad esempio ricostruire al loro posto le case dello studente. L’università, i docenti invece no, non lo capiscono: reagiscono, fanno lezione in piazza, e danno un cattivo esempio. Rappresentano un fenomeno di diseducazione. Ma io invito i giovani a non andar dietro a questi cattivi maestri: protestino anche per quello che vedono che non va, ma non si facciano trascinare da chi non ha a cuore la loro educazione.
Dunque la questione educativa dev’essere riportata al centro. Un richiamo che però non deve rimanere in astratto, ma deve incidere di fatto anche sulle scelte concrete.
Io però credo poco alle soluzioni di carattere strutturale e tecnico: l’educazione è una questione direi quasi “missionaria”. È cioè necessario che si mobiliti la gente che ci crede profondamente, perché l’educazione è fatta da rapporti tra persone, e non si risolve con le formule. Questo è il momento che chi crede nella funzione educativa venga allo scoperto, perché si capisca veramente cosa significa essere un maestro, mostrarlo nella pratica, dare un lascito di conoscenza e passione. È qualcosa che si fa solo con la testimonianza. Non è una cosa che si conquista con la tecnica. Un po’ come nei concorsi: si tenta di renderli morali e perfetti, ma non c’è un meccanismo salvifico. Invece che studiare meccanismi perfetti, bisogna mobilitare le forze – e, ripeto, non sono poche – che credono nella questione educativa.


SCUOLA/ Due buone notizie dalla giornata dello sciopero insensato - Renato Farina - venerdì 31 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Le immagini e le fotografie dello sciopero sono quasi tutte allegre. Ma esse non dicono la verità, la pitturano, mascherano il vuoto e l’irresponsabilità. La realtà infatti è triste. La manifestazione nega la speranza, è una saracinesca tirata giù sulla possibilità di lavorare insieme per cambiare.
Detto questo: chi ci tiene all’educazione autentica, e che ogni giorno si impegna perché l’educazione trovi nella scuola un luogo di privilegiata espressione, non si arrende. Magari sarà una minoranza creativa, che ha dalla sua parte una maggioranza silenziosa e incapace di argomentare il suo sentimento positivo della vita; di certo è una minoranza creativa che ha contro il potere cui non interessa la crescita seria delle persone e attraverso i mass media appoggia le marce del nulla. Specialmente questa marcia su Roma del nulla.
Essa segnala la capacità nefasta di chiamare in piazza centinaia di migliaia di studenti, professori, mamme con bambini per mano o attaccati agli striscioni, solo per essere contro. Contro una persona in particolare, il cui nome appare anche qualificato come il diavolo, e comunque il nemico del loro futuro, persino sulle magliette dei più piccoli.
Poi in tivù ci sono immagini festose, ma in fondo il risultato è una banconota falsa: compra illusioni. Esse sono volutamente accattivanti, restano però la réclame del Paese dei Balocchi. Un posto dove alla fine ci si disumanizza. Slogan spiritosi, bambini in prima fila sorridenti. Vignette colorate. Ci sono - è vero - anche istantanee soffocanti: gli studenti che stringono d’assedio il ministero, con lancio di uova; bottiglie tirate dagli studenti ai poliziotti a Bologna con ferimento di una giornalista. Ma vengono messe in secondo piano, in fondo ritenute ovvie documentazione di banali incidenti.
Non va, proprio non va. Il primo motivo del mio dissenso l’ho dichiarato: il carattere di manifestazione contro. Di demonizzazione fintamente umoristica dell’avversario.
Ma ce n’è altre di ragioni. L’ignoranza assoluta riguardo al provvedimento contestato è incresciosa, e avallata dai leader di partiti e sindacati.
Il tema ufficiale riguarda i tagli previsti sulla scuola: falso. Nel decreto si parla solo di voto in condotta, di giudizio in decimali, di educazione civica, maestro prevalente (con garanzia di tempo pieno, a 40 ore prevista e garantita per legge!), regole per i testi scolastici in funzione di un risparmio delle famiglie.
Questi argomenti non sono minimamente richiamati. Infatti sono temi popolari: riscuotono tra il 60 e l’89 per cento di gradimento secondo i sondaggi di Renato Mannheimer-Ispo per il Corriere della Sera.
Allora, pur di indire scioperi, fare manifestazioni di massa, avere l’appoggio di chi non sa, si imbrogliano le carte e si parla di tagli e licenziamenti che non ci sono. Si allarmano le famiglie, sostenendo che le madri lavoratrici dovranno spendere otto euro all’ora per baby sitter nei pomeriggi senza scuola. In realtà per ora gli unici tagli sui bilanci familiari ieri li ha fatti questo sciopero, costringendo madri o padri a badare ai piccoli invece che andare al lavoro o cercando custodi improvvisati a pagamento.
Intanto finora gli unici tagli previsti dalla futura legge finanziaria sono quelli alla scuola non statale, specie le materne e le elementari. La pressione anche de ilsussidiario.net e di un gruppo di deputati del Pdl (tra i quali mi onoro di esserci) ha indotto Berlusconi a promettere il reintegro dei 133,4 milioni di euro tagliati.
Questa ieri era la buona notizia sulla scuola, insieme al senso di responsabilità di molti studenti e professori che hanno provato a fare scuola, non contro i manifestanti, ma perché questa è una buona cosa, anzi molto buona.


IL FUTURO DI SCUOLA E UNIVERSITÀ - ORA UN’IDEA FORTE CHE SBLOCCHI LA CONTRAPPOSIZIONE - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 31 ottobre 2008
Dov’era, ieri, il futuro della scuola e delle università italiane? Per le vie di Roma ribollenti di proteste e slogan stu­denteschi e sindacali o nei primi detta­gli del piano per gli atenei che il ministro della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca si appresta a presentare? Nell’articolato ancora fresco d’approva­zione della legge che da Maria Stella Gel­mini prende nome o nell’annunciato re­ferendum abrogativo di quello stesso te­sto? Nelle nuove assegnazioni di fondi che la Finanziaria 2009 sta per fissare o nell’ennesimo e feroce braccio di ferro tra Regioni e Stato che i governatori (o i loro assessori) preconizzano e i ministri minacciano di affrontare a colpi di «com­missariamento » degli enti locali?
La risposta non è semplice, ma neppu­re impossibile. Perché il futuro della scuola e dell’università – e, dunque, buo­na parte del futuro dell’Italia – passa per­sino drammaticamente un po’ per tutti questi eventi anche se in nessuno di es­si si esaurisce. Ma, soprattutto, perché per ragionare seriamente di futuro è in­dispensabile uno sforzo che in queste o­re può apparire titanico: proiettarsi ol­tre le guerre e guerricciole di posizione che stanno infuriando, per guardare dav­vero in avanti. Serve, insomma, archi­viare supponenze governative e dema­gogie oppositorie. Serve aprire canali di comunicazione e riaprire tavoli di con­fronto.
Riprendiamo e ampliamo, perciò, il filo della riflessione che abbiamo già avvia­to a caldo. Partendo da una constata­zione che a qualcuno apparirà forse ov­via, ma che – nel cozzo di opposte rigi­dità – temiamo si corra il rischio di tra­lasciare: il mantenimento dello status quo nei vari livelli del 'pianeta istruzio­ne' sarebbe solo una jattura per stu­denti, famiglie e docenti. Nella scuola e nell’università – lo hanno argomentato anche illustri professori: da Luca Ricol­fi a Francesco Giavazzi a Luigi Frati – spe­se e costumi accademici devono essere rivisti e corretti, e ci sono i margini per farlo. Se è vero, infatti, che i 'tagli' non sono mai una riforma, è altrettanto ve­ro che, spesso, ne sono la necessaria pre­messa. O qualcuno pensa che, altri­menti, cambierebbero registro «autono­mamente » coloro che hanno consenti­to nascita e oneroso radicamento di cor­si di laurea con iscritti che si contano sulle dita di una sola mano, hanno la­sciato gonfiare a dismisura il rosso dei bi­lanci di istituti e atenei, hanno contri­buito a far esplodere ( e magari pilotato) il precariato degli insegnanti?
Ieri mattina, poi, bastava scorrere le pri­me pagine dei giornali per rendersi con­to che certa informazione ( anche quel­la – spiace notarlo – legata al Pd) appa­re falsata dalla rimozione dei problemi realmente sul tappeto e dal ricorso ai so­liti e ideologici luoghi comuni, a comin­ciare – manco a dirlo – dall’invettiva sul « denaro pubblico alle scuole private » . È la spia di una pervicace volontà di con­tinuare a rimandare sine die il momen­to in cui anche in questo nostro Paese si potrà ragionare con serenità sulla strut­turazione di un sistema pubblico d’i­struzione fondato, secondo standard a­deguati e comuni come accade in tutte le grandi e libere democrazie, sulle scuo­le dello Stato e su quelle della società.
Il caso istruzione è, insomma, tutt’altro che risolto. È evidente, infatti, che i pro­blemi sinora emersi sono solo l’incipit di un discorso che va articolato com­piutamente. Qualcuno – per esempio il Foglio – ha auspicato, per cominciare a scrivere pagine nuove e utili, la convo­cazione degli « stati generali della scuo­la » . È un altro modo per sollecitare un’i­dea forte, e cambi di passo e di metodo nella gestione di un dossier arroventatosi oltremodo. Per invitare a scrutare senza paraocchi l’oggi e a orientare lo sguardo al domani. È un buon consiglio, per tut­ti. E visto che per arrivare agli « stati ge­nerali » servirà un percorso di buone vo­lontà e di buone politiche, è bene che si parta subito. La prima mossa, ovvia­mente, spetta a chi governa.


PER LASCIARSI VIVERE SENZA TROPPI SIGNIFICATI - Se la morte perde l’epica ecco tornare Halloween - PIO CEROCCHI – Avvenire, 31 ottobre 2008
L a festa di Halloween in se stessa è una pura banalità e non metterebbe conto scriverci sopra. Essa, però, è per così dire entrata nel mercato globale del costume oltre che degli affari, e perciò merita una riflessione che restituisca le giuste proporzioni all’oggetto del festeggiamento: la morte. Per non rubare spazio all’intelligenza del giornale e dei suoi lettori, diciamo subito che Halloween è l’ennesimo tentativo, posto in essere da un Occidente secolarizzato, di esorcizzare la paura per il suo vuoto morale ( e spesso anche civile), con l’ennesima festa ' commerciale'.
Se non bastassero le drammatiche notizie attorno alla ' fine della vita' sulle quali l’umanità si interroga e, confrontandosi, si divide sulle differenti concezioni sul suo valore, forse non sarà inutile gettare lo sguardo sulla vicenda bimillenaria del cristianesimo nella storia del mondo, a partire dall’idea del martirio. I primi cristiani vittime della repressione imperiale giudicavano il loro sacrificio e la loro morte un ' trofeo', cioè il segno di una vittoria, che nell’antichità apparteneva soltanto ai ' grandi'. Furono i cristiani, infatti, a restituire alla vita di tutti l’idea di una uguale dignità personale derivante dall’unica figliolanza divina, e quindi della natura soprannaturale dell’anima che il corpo custodiva come un tempio inviolabile. Sacro.
Una concezione alta della vita, sulla quale la morte non ha potere, tanto da far dire nella liturgia, che agli uomini ' la vita non è tolta, ma trasformata'. Ed è per questo che all’antica religione dei lari, tutta racchiusa nella tradizione di ogni singola famiglia, il cristianesimo propone anche per i più umili la possibilità di una testimonianza universale, ed una lunga memoria.
Una concezione non banale della morte in perfetta analogia con quella della vita, e tuttavia non sufficiente - come è ovvio - al superamento della paura. Anzi le enormi calamità naturali e belliche del medioevo ( Gregorio Magno nel 590 era convinto che il mondo fosse ormai giunto alla sua fine), e le reciproche contaminazioni tra la cultura giudaico- cristiana con le tradizioni pagane e dei barbari, accentuarono negli uomini il sentimento della paura, risuscitando antiche superstizioni accompagnate da diffuse pratiche di magia. Quando la speranza di vita non superava i trenta anni e la mortalità infantile oscillava attorno al quaranta per cento dei nati vivi, la morte non poteva non essere un pensiero costante. Una ossessione. Quasi un delirio collettivo come dimostrano numerose testimonianze ed anche alcuni affreschi di ' danze macabre' sulle pareti delle chiese ( ce n’è uno ben conservato a Pinzolo in Val Rendena, nel Trentino).
In quei tempi, appunto, si accendevano fuochi nelle campagne, dentro e fuori le zucche, ripristinando antiche superstizioni che l’ignoranza aveva contribuito a conservare. Tra questi riti c’era pure quello di un Halloween primitivo che adesso per ragioni commerciali viene risuscitato, con un’inutile festa nella cui baldoria finisce per perdersi, quasi che la decadenza di significato della morte autorizzi gli uomini a lasciarsi vivere senza senso. A caso, mentre tutto ciò che è intorno a noi, come drammaticamente le cronache ci ricordano, porterebbe a credere esattamente il contrario.

giovedì 30 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro. - Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "L’importanza della cristologia - La teologia della Croce" nella predicazione paolina.
2) Giovanni XXIII, “Giusto fra le Nazioni”, chiede la Fondazione Wallenberg - Dichiarazioni del suo fondatore Baruj Tenembaum - BUENOS AIRES (Argentina), giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il creatore della Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, Baruj Tenembaum, ha rivolto un appello affinché Giovanni XXIII sia dichiarato “Giusto fra le Nazioni”.
3) Quando Halloween diventa intollerante - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La festa di Halloween oltre a cancellare la festa di Tutti i Santi (primo novembre) sta diventando intollerante verso chi osserva la tradizione cristiana.
4) Uccisi a Mosca due sacerdoti gesuiti - Sabato e lunedì, entrambi nella residenza della comunità - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- E' una settimana di sangue per la Congregazione dei Gesuiti. Sabato 25 e lunedì 27, infatti, sono stati uccisi due sacerdoti, p. Victor Betancourt e p. Otto Messmer. Entrambi gli omicidi sono stati commessi a Mosca.
5) 29/10/2008 16:09 – INDIA - La Chiesa indiana ricorda p. Bernard Digal, martire della fede in Orissa - di Nirmala Carvalho - Mons, Cheenat, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, sottolinea l’opera “instancabile” a favore dei “cristiani perseguitati” e la sua devozione per la Madonna. I confratelli ribadiscono le “virtù e la capacità di perdonare i suoi persecutori”. Domani l’ultimo saluto della comunità al prete ucciso.
6) Appartengo a una minoranza. Tutelatemi. - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Gazzettino di Padova: «Niente 4 Novembre, per tutelare le minoranze» Alcuni insegnanti della cittadina veneta non vogliono far partecipare gli studenti alla cerimonia per la celebrazione della Vittoria
7) HOLYween riparte anche quest’anno - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi.
8) SCUOLA/ Il “non avvenimento” dello sciopero generale di oggi - Roberto Fontolan - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) UNIVERSITA'/ 2. Cesana: oltre la piazza, per ricorstruire serve gente che ami la propria libertà - Giancarlo Cesana - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) MILANO SOLIDALE / 2 La rivoluzione sociale affonda le proprie radici sociali nella Lombardia dell'industrializzazione - INT. Alberto Cova - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) IL MANICHEISMO CI SOFFOCA - RIANNODARE I FILI DEL DIALOGO. - CON I DATI CERTI - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 30 ottobre 2008
12) matita blu - Il neonato è una persona. O no? - di Tommaso Gomez – Avvenire, 30 ottobre 2008
13) Il regista Krzysztof Zanussi al Festival internazionale del film di Roma - Il cinema come viaggio- alla scoperta del male - di Luca Pellegrini, L’Osservatore Romano, 30 ottobre 2008


Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro. - Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "L’importanza della cristologia - La teologia della Croce" nella predicazione paolina.
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Cari fratelli e sorelle,
nella personale esperienza di san Paolo c'è un dato incontrovertibile: mentre all'inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l'amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il "vangelo della grazia" diventò così per lui l'unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita.
Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo: l'esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l'unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l'annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla "potenza di Dio" (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L'Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: "La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio...è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,18-23).
Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l'Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c'è tutta la potenza dell'Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Paolo stesso in più di un'occasione fece l'amara esperienza del rifiuto dell'annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? "Ti sentiremo su questo un’altra volta" (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto l’evento "Gesù di Nazaret" sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela "la potenza di Dio" (cfr1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: "Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini" (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l'uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell'uomo e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell'amore: proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: "Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12,9); e ancora: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti" (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch'egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell'Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall'altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo "ministero della riconciliazione" che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo "ministero della riconciliazione", che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me".


Giovanni XXIII, “Giusto fra le Nazioni”, chiede la Fondazione Wallenberg - Dichiarazioni del suo fondatore Baruj Tenembaum - BUENOS AIRES (Argentina), giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il creatore della Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, Baruj Tenembaum, ha rivolto un appello affinché Giovanni XXIII sia dichiarato “Giusto fra le Nazioni”.
Questo titolo è conferito dallo Yad Vashem, il Memoriale dell'Olocausto in Israele, a quanti salvarono gli ebrei durante l'Olocausto.
“Se Papa Giovanni XXIII non verrà dichiarato 'Giusto fra le Nazioni', saranno i nostri figli a consacrarlo, visto che la figura di questo grande personaggio della storia diventa ogni giorno più grande”, ha affermato Tenembaum, prestigioso rappresentante ebraico e pioniere a livello mondiale del dialogo interreligioso negli anni Sessanta del secolo scorso.
La dichiarazione di Tenembaum, inviata a ZENIT, arriva in occasione del 50° anniversario dell'elezione del Cardinale Angelo Giuseppe Roncalli a Sommo Pontefice con il nome di Giovanni XXIII.
Dopo un simposio scientifico organizzato nel giugno 2003 dall'Università di Bologna e dalla Fondazione Giovanni XXIII per il 40° anniversario della morte di Angelo Roncalli, su istanza della Fondazione Wallenberg, le Poste Argentine emisero un francobollo dedicato alla memoria del “Papa Buono”.
Qualche anno prima, nel settembre del 2000, in una cerimonia presso la Missione dell'Osservatore Permanente del Vaticano presso le Nazioni Unite e in presenza dell'allora Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Angelo Sodano, la Fondazione Wallenberg dichiarò aperta la campagna internazionale per il riconoscimento dell'azione umanitaria svolta da Angelo G. Roncalli.
Monsignor Roncalli, prima di essere Papa, “intercesse presso il re Boris di Bulgaria a favore degli ebrei bulgari, e presso il Governo turco a favore dei rifugiati ebrei che erano fuggiti in Turchia”, ha ricordato Tenembaum.
“Ha anche fatto tutto il possibile per evitare la deportazione degli ebrei greci. E' stato inoltre una delle principali fonti di informazione del Vaticano sull'annientamento di milioni di ebrei della Polonia e dell'Europa dell'est”.
Quando fu Delegato Apostolico del Vaticano a Istanbul nel 1944, inoltre, “organizzò una rete per salvare gli ebrei e altri perseguitati dal nazismo”.
“Grazie alle sue azioni, migliaia di condannati a morte riuscirono a salvare la propria vita – ha sottolineato Tenembaum –. La sua opera e la sua figura si allineano così a quelle di numerosi diplomatici salvatori dell'Olocausto come lo svizzero Raoul Wallenberg, il portoghese Aristides de Sousa Mendes e il turco Selahattin Ulkumen, tra molti altri”, aggiunge.
“Con il pontificato di Giovanni XXIII è stata inaugurata una nuova era nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l'ebraismo – ha constatato il fondatore –. Si è trattato di un'epoca caratterizzata dalla comprensione e dall'intesa dopo secoli di denigrazione, pregiudizi e persecuzione religiosa”.
“Le porte del dialogo interreligioso hanno cominciato ad aprirsi allora e sono rimaste aperte durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II, che si rivolgeva agli ebrei come ai 'fratelli maggiori', ha visitato i campi di concentramento nazisti in segno di contrizione e solidarietà con le vittime ebraiche e si è recato in pellegrinaggio in Terra Santa, nello Stato di Israele”.
La Fondazione Wallenberg svolge un ampio lavoro di ricerca storica destinata a rivelare l'importante azione umanitaria svolta da monsignor Roncalli.
“L'obiettivo è far conoscere all'opinione pubblica internazionale le azioni altruiste e generose compiute dal delegato apostolico Roncalli molto prima di essere consacrato Papa Giovanni XXIII, il 28 ottobre 1958”, ha concluso Tenembaum.
[Per ulteriori informazioni: www.raoulwallenberg.net]


Quando Halloween diventa intollerante - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La festa di Halloween oltre a cancellare la festa di Tutti i Santi (primo novembre) sta diventando intollerante verso chi osserva la tradizione cristiana.
Un insegnate di religione ha scritto a ZENIT per raccontare che nella scuola romana dove insegna, le maestre di inglese hanno tappezzato aule e corridoi con disegni di zucche e streghe.
In qualità di insegnante di religione, nonché in osservanza della festività, così come è indicata sul calendario, il maestro ha pensato bene di far conoscere la festa di Tutti i Santi, apprestandosi a tappezzare aule e corridoi con immagini e storie dei santi
Per correttezza, prima di iniziare il suo lavoro, il maestro ha informato le colleghe, le quali però hanno reagito negativamente, sostenendo che “non era opportuno”, perché “a scuola ci sono anche alunni non cattolici”.
L’insegnante di religione ha allora spiegato che anche i non cattolici fanno festa il giorno di Tutti i Santi. Al che le maestre hanno sollevato il problema della “delicatezza della questione”.
Il maestro ha quindi replicato sostenendo che “non c’è nessuna delicatezza nei confronti dei cristiani che vorrebbero celebrare i loro santi”. Tuttavia non c’è stato verso di far accettare la diffusione di immagini e di storie dei santi.
Nella lettera inviata a ZENIT, l’insegnante di religione ha commentato: “Mi è stato detto che è questione di delicatezza, ma nessuno ha avuto delicatezza di pensare che scherzare e ironizzare sulla morte a ridosso di una festa cristiana potesse urtare la mia sensibilità!”.
“Non ho chiesto di oscurare il loro lavoro – ha aggiunto il maestro –, ho chiesto di mettere il mio lavoro accanto al loro, ma tutto ciò è stato rifiutato. Credo che ancora una volta abbia trionfato il ‘politicamente corretto’, ovvero quella scuola di pensiero che invoca libertà per tutti tranne che per noi cristiani!”.


Uccisi a Mosca due sacerdoti gesuiti - Sabato e lunedì, entrambi nella residenza della comunità - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- E' una settimana di sangue per la Congregazione dei Gesuiti. Sabato 25 e lunedì 27, infatti, sono stati uccisi due sacerdoti, p. Victor Betancourt e p. Otto Messmer. Entrambi gli omicidi sono stati commessi a Mosca.
Un comunicato inviato dalla Compagnia di Gesù a ZENIT questo mercoledì ricorda che p. Betancourt, ecuadoregno, è stato assassinato nel domicilio della comunità la sera di sabato scorso.
Stava invece rientrando in comunità lunedì sera da un viaggio all’estero p. Messmer, Superiore della Regione Russa, ucciso nello stesso posto.
Un altro gesuita, preoccupato per il silenzio dei confratelli, si è recato questo martedì nell’abitazione della comunità rinvenendo i corpi dei due sacerdoti senza vita e con segni di violenza. Ha avvisato immediatamente la polizia, che in questo momento sta conducendo indagini a tutto campo senza escludere alcuna ipotesi.
Padre Messmer, cittadino russo, era nato il 14 luglio del 1961 a Karaganda (Kazakhstan) in una famiglia di origini tedesche e profondamente cattolica. Era stato ordinato sacerdote il 29 maggio 1988 e aveva emesso gli ultimi voti il 7 ottobre 2001. Dal 13 ottobre del 2002 era il Superiore della Regione Indipendente Russa della Compagnia di Gesù. Ha due fratelli gesuiti: monsignor Nikolaus, Vescovo di Bishkek (Kirghizistan), e Hieronymus, che appartiene alla Provincia della Germania.
Padre Betancourt era nato il 7 luglio del 1966 a Guayaquil (Ecuador) ed era stato ordinato sacerdote il 31 luglio del 1997. Dal 2001 faceva parte della Regione Russa. Aveva lavorato nella pastorale delle vocazioni e attualmente insegnava Teologia nell’Istituto di Filosofia, Teologia e Storia “San Tommaso” di Mosca.
Padre Adolfo Nicolás, Generale della Compagnia di Gesù, ha invitato tutti i gesuiti a esprimere aiuto, sostegno e solidarietà ai confratelli della Regione Russa, “così provata in questo momento”, e ha espresso “la sua profonda vicinanza ai familiari dei gesuiti deceduti”, ricorda il comunicato.
Ringraziando per le condoglianze ricevute dalla Chiesa “fin dal primo momento in cui la notizia dell’accaduto è stata confermata”, “esorta altresì tutta la Compagnia a rivolgere preghiere per l’eterno riposo dei confratelli e per il fine di ogni violenza”.


29/10/2008 16:09 – INDIA - La Chiesa indiana ricorda p. Bernard Digal, martire della fede in Orissa - di Nirmala Carvalho - Mons, Cheenat, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, sottolinea l’opera “instancabile” a favore dei “cristiani perseguitati” e la sua devozione per la Madonna. I confratelli ribadiscono le “virtù e la capacità di perdonare i suoi persecutori”. Domani l’ultimo saluto della comunità al prete ucciso.
Mumbai (AsiaNews) – “Padre Digal era il tesoriere della diocesi, un prete sensibile, generoso e sempre pronto a rispondere ai bisogni degli altri religiosi prima ancora dei suoi. Alla continua ricerca della comunione fraterna”. È il ricordo di mons. Rapheel Cheenath, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, di p. Bernard Digal, morto la sera del 28 ottobre in un letto del St. Thomas Hsopital a Chennai.
P. Digal era stato assalito da un gruppo di fondamentalisti indù la notte del 25 agosto, nei primi giorni delle persecuzioni contro i cristiani dell’Orissa. Nonostante le cure mediche alle quali è stato sottoposto, la salute è andata peggiorando. Sabato 25 ottobre è stato ricoverato nell’ospedale di Chennai, nel Tamil Nadu ed è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico per rimuovere un grumo di sangue formatosi nel cervello in seguito alle percosse subite dai fondamentalisti la notte dell’assalto. Il 27 ottobre i polmoni hanno collassato ed è subentrata una grave crisi respiratoria, in seguito alla quale al religioso è stato attaccato un respiratore artificiale. Egli ha ricevuto l’unzione degli infermi e alle 9.25 del 28 ottobre, assistito da mons. Cheenath, è morto.
“A p. Bernard è stata consegnata la corona dei martiri: egli ha ricevuto la palma della vittoria dai santi in paradiso”, racconta l’arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar. “Fin dall’inizio delle violenze contro i cristiani, i cui primi episodi risalgono al dicembre del 2007, p. Bernard ha sempre voluto restare fra la sua gente a coordinare i lavoro di assistenza e sviluppo, promuovendo iniziative di pace”. Il prelato sottolinea inoltre le opere a favore dei “cristiani vittime della carneficina” e della devozione particolare “per la Vergine Maria e la recita del rosario: egli ci confidava spesso di come trovasse rifugio e sostegno nella Madonna, anche nei momenti di più cupa disperazione”.
Mons. Rapheel Cheenath conclude sottolineando come “i cristiani di Kandhamal abbiano ora un potente intercessore nei cieli”, perché p. Bernard continuerà il suo lavoro“ dalla casa celeste. La sua fine è culminata in una kenosis, una resa totale alla passione sulla croce di Gesù Cristo; ora speriamo nella gloria della resurrezione. La vittoria del Cristo risorto è motivo di speranza, la speranza della vita eterna dopo la morte”.
P. Bernard, che AsiaNews ha incontrato lo scorso 10 settembre durante la degenza dell’Holy Spirit Hospital di Mumbai (vedi foto), aveva 48 anni ed era stato ordinato prete il 29 maggio 1992. Egli era nativo del villaggio di Tiangia, a Kandhamal, una delle zone più colpite dalle recenti violenze anticristiane perpetrate dai fondamentalisti indù. Egli aveva ripercorso i drammatici momenti dell’assalto, in seguito al quale “per una notte intera è rimasto senza conoscenza e seminudo nella foresta”. Il funerale sarà celebrato domani, giovedì 30 ottobre.
P. Ajay Singh, direttore del Jan Vikas, un centro di iniziativa sociale della diocesi di Cuttack-Bhubaneshwar, ricorda la “santità” di padre Digal, il suo “zelo missionario”, il suo “servizio per la gente”, le parole di “perdono” verso i responsabili delle violenze” e il lavoro incessante finalizzato al “loro recupero”. Anche p. Manoj Digal, cugino della vittima e nativo dello stesso villaggio, ricorda il “lavoro incessante con i cristiani di Kandhamal, che subiscono violenze e umiliazioni di ogni tipo. Le sue virtù sono l’umiltà, la capacità di perdonare, il senso di giustizia, e il sacrificio di sé fino alla morte”.


Appartengo a una minoranza. Tutelatemi. - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Gazzettino di Padova: «Niente 4 Novembre, per tutelare le minoranze» Alcuni insegnanti della cittadina veneta non vogliono far partecipare gli studenti alla cerimonia per la celebrazione della Vittoria
Io non mangio formaggio, lo detesto, m’infastidisce anche l’odore, non capisco come si faccia a rovinare la pasta al ragù con il parmigiano. Non condivido, né apprezzo lo sguardo sazio e compiaciuto di chi gusta il formaggio con il miele, lo so, appartengo ad una minoranza.
Secondo voi, in nome della tutela delle minoranze, potrei chiedere ai miei familiari di astenersi in mia presenza, dal cospargere la pasta con il formaggio grattato?
Secondo voi, potrei chiedere ai ristoratori di togliere dal menù i piatti che riportano nel nome la parola “formaggio”?
Banditi ad esempio: la pizza ai quattro formaggi, risotto al gorgonzola, formaggio con le pere e via elencando.
Adducendo a motivo di questa richiesta, che mi sento oltraggiata, m’infastidisce l’odore e la vista di persone che non rispettano il mio disappunto e che con il loro atteggiamento mi rovinano l’appetito.
Una richiesta di questo tipo, spero sarebbe presa per folle, ma se oltre a non amare il formaggio dicessi di appartenere ad una minoranza religiosa che tra le prescrizioni del proprio credo ha quello di astenersi dal mangiare, toccare e persino leggere il nome di qualsiasi formaggio, forse potrei farcela.

Si sta diffondendo in Italia una strana epidemia, la chiamano “rispetto delle minoranze”.
Così dopo le richieste di abolizione del presepe nelle scuole, del crocefisso nelle aule, della carne di maiale dai menù scolastici, ora è la volta dell’alzabandiera in commemorazione dei defunti della prima guerra mondiale.
Badate bene, non sono le “minoranze” che lo chiedono, ma è l’eccesso di 'zelo' da parte di qualcuno che propone queste iniziative.

Le maestre di una scuola di Villafranca Padovana, e mi piange il cuore che questa cosa arrivi da Padova, dove ho radici vive e forti e dove mi hanno insegnato il rispetto e l’orgoglio per la tradizione, ma sta di fatto che queste maestre zelanti hanno deciso di non portare i bambini alla cerimonia dell’alzabandiera e della posa della corona di alloro in memoria dei caduti della prima guerra mondiale il 4 novembre.
Motivo? Non offendere le minoranze.
Siamo arrivati non a sfiorare il ridicolo, ma ad esserci immersi nel ridicolo.
Con questo criterio dovremmo abolire tutte le feste religiose e laiche, per non urtare chi non le condivide, forse costoro aspirano ad una società senza passato e senza futuro dove si può vivere solo l’istante, ignorando che questo porta alla pazzia, perché non sappiamo chi siamo se non sappiamo da dove veniamo.

Ma la cosa incredibile è che davanti a questa “minoranza di maestre” nessuno faccia nulla e tutti si dicano impotenti, del resto anche le maestre appartengono a una minoranza, quella degli educatori che con il loro atteggiamento cercano di distruggere la storia, la cultura, le tradizioni e quindi il futuro di chi è loro affidato.

Al direttore didattico e al sindaco di Villafranza Padovana, consiglio di promuovere l'ottimo e istruttivo seminario in corso a Milano, Brescia e Cremona. "Conoscere l'islam. Incontrare i musulmani" organizzato da Diesse e tenuto da una brava e magistrale Valentina Colombo, insieme ad altri relatori che bene hanno spiegato cose che nelle nostre scuole non sono per nulla ovvie, e i fatti ce lo dimostrano.


HOLYween riparte anche quest’anno - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi.
Lo scorso anno le Sentinelle del mattino, un’associazione di giovani cattolici che in Italia e in Europa hanno dato vita ad un progetto di evangelizzazione ormai diffuso in più di 30 città, proposero di vivere la notte di tutti i santi in un modo diverso. Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi. HOLYween riscosse un inaspettato successo: radio e TV si interessarono all’evento e su molti balconi apparvero le facce dei santi con il logo dell’iniziativa.
L’iniziativa HOLYween riparte anche quest’anno con rinnovato slancio. La proposta è semplice: tappezzare di volti di santi le nostre città: sui balconi, sulle vetrine dei negozi, sulle facciate delle chiese e sulle porte delle case.
I volti dei santi sono la più bella faccia del nostro Paese ed è un autentico spettacolo camminare per città e paesi “guardati” da tutti questi testimoni della fede.
Nella notte del 31 ottobre chiunque potrà aderire, semplicemente appendendo un poster o un’immagine dove meglio preferisce, in modo che tutti possano vedere non zombi, ma santi.
I più organizzati hanno fatto stampare una gigantografia di 6 metri da appendere sulla facciata della chiesa. Altri preferiscono il santo patrono, oppure personaggi semplicemente “in fama di santità” (come la giovane Benedetta Bianchi Porro di Sirmione o la sarda Simona Tronci).
Quali sono i volti più gettonati? Lo scorso anno furono quelli di Madre Teresa, di Padre Pio, di Giovanni Paolo II, ma anche Santa Teresina di Lisieux o San Francesco non furono da meno.
Vedremo quest’anno come HOLYween sarà accolta dalla gente, in tutta la Penisola.


SCUOLA/ Il “non avvenimento” dello sciopero generale di oggi - Roberto Fontolan - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ieri ho passato un paio d’ore in un liceo classico romano, una scuola statale di buona qualità, non di quelle blasonate (tipo Visconti o Tasso), ma dalla fama piuttosto solida.
C’era l’autogestione. E non ho capito in cosa consistesse, dal momento che il cortile interno, pessimamente tenuto, florido di erbacce e mozziconi, è stato perennemente affollato di ragazzi impegnati nell’attività che apparentemente più li appassiona, il cicaleccio. Ragazzi belli, vestiti anche decentemente sebbene con una chiara tendenza allo sdrucito; ragazze splendenti di gioventù, forsennatamente abbarbicate le une alle altre per raccontarsi chissà quali segreti.
Ogni tanto un evidente capetto chiamava a sé i fedelissimi impartendo indicazioni, forse di un programma assembleare, forse di una più sana serata di calcetto. Una professoressa armata di buona volontà stanava i gruppetti sperduti nei corridoi e visibilmente in cerca di disimpegno: non potete stare qua, o andate in palestra o un aula magna o in classe se avete l’insegnante. Una signora volonterosa e dotata di senso di responsabilità, non si sa mai: nel bighellonare qualcuno degli incustoditi potrebbe farsi male…
Con una prof parlavo di bisogno affettivo, ottenendo accondiscendenza e comprensione ma anche la risposta secca: “dovere educativo”. Sono rimasto sorpreso, favorevolmente: non è affatto facile che un insegnante usi parlare di educazione dando alla parola un peso che ho sentito reale e denso.
Mi sembrava che la conversazione, mentre fuori imperversavano inconcludenza e vaghezza, stesse prendendo una piega attraente. Ma ho capito poco dopo che per la prof la coppia bisogno affettivo-dovere educativo fosse in realtà una coppia di opposti. Nel rapporto con gli studenti lo spazio concesso al bisogno affettivo lo si toglie al dovere educativo. Le due cose non possono convivere, ed è anzi assurdo pensare che possano vivere nella stessa persona, nello stesso rapporto, nella stessa classe.
Per l’insegnante, una persona quadrata, seria, di valore, esperta, competente, davvero encomiabile, l’affetto (meglio: affezione) si avvicina pericolosamente all’indulgenza e l’educazione si sostanzia decisamente nella “buona educazione”. Siamo dalle parti della condotta, insomma. Senza naturalmente trascurare la didattica, Ariosto e Promessi sposi, che anzi deve regnare sovrana su tutto, e giustamente, ci mancherebbe.
Dalla finestra arrivava l’eco dei non avvenimenti del cortile, mentre dietro i vetri si scorgevano i movimenti rapidi delle teste e delle labbra dei nostri figli sospesi nella mattinata (non sanno ancora che quelle due ore, quelle precise, irripetibili, uniche ed immortali due ore non torneranno mai più).
L’autogestione, l’occupazione, la manifestazione: nelle scuole d’Italia da giorni non si parla d’altro. Una nervosa eccitazione si è impadronita delle conversazioni a tavola e dei dialoghi tra mamme: hanno occupato? Per ora no, ma domani fanno l’assemblea… e tua figlia? Mah, è tutta agitata, ma a scuola col sacco a pelo non ce la mando… Non è questione di maggioranze e minoranze: queste, spalleggiate da insegnanti e genitori, si sono imposte su quelle, così come da giorni a Roma i cortei improvvisati di liceali sbucati dai portoni scolastici si sono imposti sulla vita dei quartieri facendoli impazzire di traffico e di appuntamenti mancati.
Oggi, giovedì 30 ottobre, ci sarà il non avvenimento più rumoroso e spettacolare (e si spera pacifico, almeno questo, data l’insensatezza generale simboleggiata dalle risse di ieri “per prendersi la testa del corteo”), il magma delle ultime settimane si incanalerà per le povere strade di Roma, destinate alle convulsioni (ormai consuete: c’è un corteo alla settimana). E tutto vi confluirà, le settimane perse, i dialoghi senza uscita, le apprensioni familiari, e tanti ragazzi che, bene illusi dai loro badanti adulti sulla “necessità di una svolta”, pensano di cucire la giovinezza con il filo consunto della ribellione (“altrimenti che giovani sono?” dicono non nei bar ma nelle scuole: come si può tollerare una simile idiozia?). Domani, per fortuna, è un altro giorno.


UNIVERSITA'/ 2. Cesana: oltre la piazza, per ricorstruire serve gente che ami la propria libertà - Giancarlo Cesana - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Sciopero e manifestazione su scuola e università: protagonista negativo è ancora “la Gelmini”. Ma “la Gelmini” non è il problema. Il Ministro dell’Istruzione è responsabile di una legge che intende razionalizzare e ridurre la spesa. Si può e si deve discutere. Possibilità e tempo ce ne sono, data la limitatezza e la dilazione del provvedimento (gli aspetti economici verranno attuati dal 2010). Tuttavia la proposta di alternative non verrà dal vociare delle dimostrazioni, perché proprio queste costituiscono il problema di scuola e università. Parlo di quest’ultima, in cui lavoro.
Mi sono iscritto a Medicina, Milano, nel 1967. A dicembre abbiamo occupato. Da allora tutti gli anni ci sono stati, oltre a occupazioni, scioperi, blocchi, proteste, vandalismi e quant’altro, in un numero variabile di atenei. L’abitudine si è diffusa alla scuola, a inizio anno, con prolungamenti fino alle vacanze di Natale. Ora i ribelli sono una minoranza sempre più piccola e povera di contenuti, ma il rumore e la confusione che fanno sono sempre notevoli. Infatti un fenomeno di contestazione così persistente non è solo studentesco. Ha il sostegno e la complicità degli adulti, dentro e fuori le aule. Sembra un metodo scelto per sfogare il malcontento e la frustrazione di un cambiamento mancato, e anzi di un peggioramento in atto. Ma è un metodo corrosivo. Non c’è istituzione che possa reggere a quarant’anni di rivoluzione strisciante e di demagogia conseguente. In effetti l’università italiana ha perso il suo prestigio internazionale e vacilla paurosamente verso l’insignificanza sociale. D’altra parte, l’università, in quanto luogo di formazione dell’elite della società, è lo specchio di questa e anche la società italiana ha perso molto in capacità di lavoro e tecnologia.
Sembrerebbe una situazione disperante e non perché non vi siano rimedi, ma perché, dato il basso livello raggiunto, ne sono proposti troppi, tutti giusti, prioritari e quindi in conflitto tra di loro. Non si sa da che parte incominciare. Contro-appelli e contro-manifestazioni aumentano la confusione generale. Ministri assai più esperti della Gelmini, anche di sinistra, sono stati insultati allo stesso modo. Il ricorso all’ordine pubblico spaventa anche chi lo propone, e non senza ragione.
Eppure una possibilità ci deve essere perché non siamo finiti, checché ne dicano le classifiche internazionali. Nell’università italiana ci sono esperienze di comunità, insegnamento e ricerca dove si impara non solo a studiare, ma a vivere. Si impara cioè una cultura, che è la vera anima della scuola, che è libera e non di Stato, non solo perché, come vediamo, lo Stato non può darla, ma perché è meglio che non la dia. Bisogna che i protagonisti di queste esperienze amino la loro libertà, non cedano alla tentazione di delegarla ad altri o a un ribellismo impotente che cerchi di bruciare le tappe. E’ responsabilità degli studenti che non vogliono perdere il tempo – che è della vita e non dell’università – e soprattutto dei docenti che vogliono essere tali, ovvero propositivi della positività di conoscenza e tradizione che li sostiene. Al punto in cui siamo, per ricostruire ci vorranno anni, se non decenni. D’altra parte, la politica, se vuole concorrere allo sviluppo pacifico, non può essere che democrazia e compromesso. Gridare per le strade o sui binari della ferrovia, ora, non serve più. Grazie dell’ospitalità.
(Il Foglio, 30 Ottobre 2008)


MILANO SOLIDALE / 2 La rivoluzione sociale affonda le proprie radici sociali nella Lombardia dell'industrializzazione - INT. Alberto Cova - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Per proseguire la nostra breve rassegna storica sull’aspetto «solidale» di Milano, abbiamo posto alcune domande al professor Alberto Cova, professore di storia economica e Preside della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano.
Professor Cova, quali sono state, a grandi linee, le caratteristiche dello sviluppo economico lombardo a cavallo tra ottocento e novecento e quali i riflessi problematici sull’assetto sociale?
A partire dalla metà del XIX secolo in Lombardia, si irrobustiscono i segni di una trasformazione delle strutture produttive. La novità è data dalle prime esperienze di fabbrica secondo i modelli della classica “rivoluzione industriale”. Ai settori tradizionali del tessile che, per la Lombardia significa soprattutto la seta, si affiancano le prime industrie per la lavorazione del cotone e poi, dalla metà del secolo in poi, le industrie meccaniche il cui sviluppo è, in parte, trascinato dall’avvento della ferrovia. La crescita industriale si accentua potentemente verso la fine del secolo e negli anni del novecento sino alla guerra mondiale. Accanto al tessile e alla meccanica si aggiungono una buona crescita dell’industria chimica e poi dell’elettromeccanica trascinata dall’apparire di quella straordinaria novità costituita dall’impiego dell’energia elettrica non tanto o non soltanto per gli usi civili quanto per le attività di produzione e scambio.
La concentrazione produttiva è notevole e riguarda particolarmente Milano, Bergamo, Brescia, Como, ossia le province che già in età moderna si erano distinte per la presenza di un importante tessuto di attività manifatturiere essenzialmente legate alla terra: setificio, produzione lattiero-casearia, lino e un po’ di ferro.
Per effetto della trasformazione delle strutture economiche e della concentrazione produttiva appaiono i problemi tipici dell’industrializzazione: la totale dipendenza del lavoratore dall’impresa che tratta i dipendenti senza troppi riguardi per le “persone”, il lavoro femminile e minorile, il livello (basso) delle retribuzioni, le condizioni di lavoro in fabbrica; la crescente importanza della “conoscenza” e, quindi, dei livelli di scolarità agli effetti di migliorare la propria posizione nel lavoro ma anche di assumere iniziative proprie nei diversi settori dell’economia. Ma appaiono anche gli squilibri nella disponibilità di risorse umane e, più precisamente, una domanda di lavoro alla quale non sempre corrisponde, in sede locale, un’offerta adeguata. Di qui i primi movimenti migratori interni.
Di fronte alle emergenti sfide sociali come si è mosso il modo cattolico nel suo livello locale e nelle sue forme associative?
In un contesto come quello richiamato e che porta in Lombardia (ma anche in altre regioni d’Italia ugualmente interessate dalla trasformazione industriale) situazioni e problemi che in Europa e negli Stati Uniti sono noti ormai da decenni, si registrano le grandi esperienze dei cattolici nel campo economico e sociale prima, politico, poi.
Si guarda anche a ciò che sta capitando altrove e specialmente nei paesi come la Francia, il Belgio, la Germania con i quali esistono da sempre relazioni di qualche consistenza e affinità culturali non marginali. Ma esistono anche iniziative straordinariamente importanti, specifiche della realtà italiana e Lombarda, in diversi campi del sociale e dell’economico che costituiscono una risposta ai problemi nuovi emergenti da una società attraversata da cambiamenti profondissimi.
Si tratta di iniziative che riguardano la scolarizzazione di base e, più in generale, l’educazione dei giovani in un’epoca che rischia di sconvolgere i valori della tradizione; si tratta di impegnarsi a fondo per la formazione professionale per formare conoscenze e competente idonee al lavoro in fabbrica; si tratta di insegnare le buone tecniche agricole in un settore, come quello primario, che, anche nella Lombardia che si sta industrializzando, continua ad occupare un posto importante in molte province; si tratta di considerare i giovani e soprattutto le giovani che passano dai paesi alla città o ai luoghi nei quali sono in attività le nuove imprese industriali e che devono essere messe in condizioni di inserirsi bene nelle nuove realtà. Senza dimenticare l’assistenza agli emigrati fuori d’Italia la cui consistenza è grande. E senza dimenticare l’azione diretta a sostegno delle classi popolari e specialmente dei lavoratori effettuata attraverso lo strumento delle cooperative di lavoro, di consumo di credito e anche l’apporto dei cattolici alla prime esperienze di costituzione del sindacato a partire dalle leghe del lavoro sin dai primissimi anni del Novecento e in settori di grande rilevanza economica come il tessile e il meccanico.
Tutto questo si fa con il contributo di sacerdoti e laici e, per la Lombardia, la funzione del clero rimanda alla grande riforma di san Carlo Borromeo che ha voluto un clero profondissimamente integrato con la realtà locale e agente diretto o ispiratore di iniziative che servono alla comunità della quali è pastore e guida.
Potrebbe farci qualche nome per esempio?
I nomi sono noti e vanno dai grandi Vescovi come Ferrari, Scalabrini, Bonomelli a Piamarta, Orione, Guanella, Francesca Cabrini, Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa e a mille altri. E ai grandi laici per ricordare i quali basterà citare Giuseppe Toniolo, Giuseppe Tovini, Stanislao Medolago Albani, Filippo Meda.
Tutto questo si è fatto perché alla fine dell’Ottocento, come tutti sanno, l’immortale enciclica di Leone XIII la Rerun Novarum ha trovato in Lombardia un terreno fertilissimo che ha consentito la fioritura di una montagna di opere che non possono essere ignorate se non si vuol dare della storia dell’Italia contemporanea una falsa rappresentazione, com’e si è tentato di fare.
Come l’autorità della Chiesa ha guardato a questi eventi e come è intervenuta a livello pastorale?
Il cardinale Ferrari come vescovo della Chiesa di sant’Ambrogio ha vissuto la fase iniziale e forse più intensa della trasformazione. Ha guidato la diocesi, come si sa, dalla metà degli anni novanta dell’ottocento sino agli anni del passaggio dalla guerra alla pace dopo quello che i contemporanei chiamavano la “guerra europea”. Come tale ha sostenuto tutte le iniziative assunte nel sociale; ha appoggiato con forza il progetto di Padre Gemelli per la fondazione dell’Università Cattolica; ha promosso direttamente le opere di assistenza e sostegno al lavoro dei giovani.
Come si è detto, i fenomeni migratori degli anni tra l’otto e il novecento non avevano i caratteri degli anni sessanta e meno che mai quelli di adesso. Gli spostamenti riguardavano sostanzialmente gente della campagna che si trasferiva là dove le nuove industrie chiedevano mano d’opera. Si trattava di gente che non presentava grandi problemi di integrazione perché i loro comportamenti derivavano da valori condivisi, sul fondamento della stessa fede religiosa, con una sostanziale unità di lingua non intaccata dai dialetti pure importanti. Sicché tutte le iniziative delle quali si è parlato e che Andrea Ferrari sosteneva favorivano l’integrazione fra gli originari e gli “immigrati” e rafforzavano le relazioni fra vecchi e nuovi.
Ma soprattutto, il cardinal Ferrari ha sostenuto, mettendo i gioco la sua stessa posizione nei rapporto con la Santa Sede, il lavoro e le riflessioni che l’ambiente milanese conduceva negli anni precedenti la prima guerra mondiale nella prospettiva, ormai matura, del superamento della posizione di “astensione” della componente cattolica della realtà italiana dalla vita istituzionale e politica dell’Italia. Credo sia pacificamente acquisito che da Milano e dalla Lombardia siano partite le prime esperienze di “partecipazione” alla vita nazionale con i primi cattolici deputati. E negli anni della “guerra europea” di fronte alla grande e delicatissima questione della possibile neutralità, l’azione pastorale del cardinale si era espressa in un’azione pastorale diretta da un lato ad esortare i cattolici a compiere il loro dovere di cittadini nella prospettiva, però, di raggiungere poi “una pace decorosa e duratura” come ha fatto rilevare Giorgio Rumi.


IL MANICHEISMO CI SOFFOCA - RIANNODARE I FILI DEL DIALOGO. - CON I DATI CERTI - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 30 ottobre 2008
Il decreto Gelmini è diventato legge, tra dosi d’urto di retorica e urti, tout court,
d’aula e di piazza. La «Riforma della scuo­la » è insomma fatta (ma se questa 'messa a punto' riformatrice merita la 'R' maiu­scola, come avremmo dovuto catalogare i ben più ampi interventi progettati da Ber­linguer e De Mauro, elaborati e realizzati da Moratti, modulati e rimodulati da Fio­roni?). Eppure il caso resta più che mai a­perto. E non solo per la decisione del Par­tito democratico di cavalcare le tante ten­sioni delle ultime settimane e, in qualche modo, di riassumerle, drammatizzarle e sublimarle sul piano politico attraverso il lancio di un referendum abrogativo della neonata legge. E neanche solo perché stan­ziamenti e tagli ai fondi per scuola e uni­versità sono contenuti nella Finanziaria (applicativa della manovrona d’estate) an­cora all’esame del Parlamento. Il sistema d’istruzione italiano – cruciale 'fabbrica di futuro' di questo nostro Paese – rima­ne, infatti, nel suo complesso un grande malato. E a rivelarcelo non sono certo, og­gi, le preoccupate agitazioni degli inse­gnanti o le nervose mobilitazioni e con­trapposizione di settori (soprattutto ro­mani e milanesi) del mondo studentesco. Ecco perché vorremmo augurarci un gran­de e corale sforzo per riannodare i fili di dialogo che si sono andati via via strap­pando, per superare le slabbrature pole­miche, per smontare trionfalismi ed esa­gerazioni, per ripristinare un’attenzione serena e rigorosa ai fatti. Forse è sperare troppo, dato che i prossimi mesi potreb­bero proporci una deliberata confusione tra campagna elettorale per le europee e campagna pre-referendaria pro o contro il ritorno del «maestro unico» e del valore del voto in condotta e sull’eliminazione di duemila scuole «troppo piccole».
Certo è sperare con ostinazione, visto e considerato che la materia scolastica e u­niversitaria – lo testimoniano quarant’an­ni di «contestazioni» – si presta a una se­rie pressoché infinita di clamorose e de­pistanti strumentalizzazioni. Quanti han­no capito, per esempio, che la scuola sta­tale il prossimo anno riceverà più soldi e che i 'tagli' più forti (pari, tanto per ren­dersi conto, a più del doppio di quelli al «fondo di funzionamento» delle univer­sità) sono invece previsti ai fondi per le materne ed elementari paritarie che del sistema pubblico fanno parte integrante? E quanti sono stati informati del fatto che quelle stesse scuole – le uniche che ri­schiano davvero di essere colpite a morte – garantiscono un servizio pubblico es­senziale e, per di più, ogni anno fanno ri­sparmiare alle casse dello Stato la bellez­za di 6 miliardi di euro? Sicuramente è sperare controcorrente, nel momento in cui riaffiorano antiche ten­tazioni manichee. Basti considerare che – in una Piazza Navona gremita ieri da mi­gliaia di studenti inermi e non violenti – le vergognose provocazioni e gli intollerabi­li scontri a colpi di mazza tra i «neri» del Blocco studentesco e i «rossi» dei Centri sociali sono stati stentoreamente e fretto­losamente raccontati (anche da impor­tanti esponenti politici e sindacali) come un’«aggressione fascista» ai «nostri ragaz­zi ». Eppure dovremmo aver imparato una volta per tutte che non si sterilizza un’in­fezione di violenza se si pretende di igno­rarne la metà abbondante.
Le vicende di questi giorni (assieme alle inquietanti nubi che già oscurano anche l’orizzonte economico italiano) segnala­no, insomma, che servirebbe – qui e ora – una grande freddezza, un autentico sfor­zo di ricucitura e un’enorme pazienza riformatrice per superare i conflitti d’in­teresse politici e corporativi e per depura­re dagli slogan contrapposti il dibattito sul mondo della scuola. Perché è già scocca­ta da un pezzo, e dovremmo deciderci a ri­conoscerlo, l’ora di una vera assunzione di responsabilità da parte delle grandi for­ze politiche e sindacali di concerto con le realtà vive della società italiana. C’è una grande «questione educativa» nel nostro Paese. Fare della scuola e dell’università non un terreno di lavoro comune, ma un campo di battaglia sarebbe la più assurda delle risposte. Dovremo riparlarne.


Legge 40 alla Consulta, la partita è aperta - di Viviana Daloiso – Avvenire, 30 ottobre 2008
INSINTESI
1L’articolo 14 della legge 40 è sottoposto all’esame della Consulta, rimandato all’ultimo momento a data da destinarsi.
2Dal Tar del Lazio alla Corte, in discussione punti decisivi.
Sulla questione della costituzionalità della legge 40, e in particolare del suo articolo 14 che vieta la produzione di più di tre embrioni a ciclo di fecondazione assistita e la conservazione in freezer degli stessi, la Consulta ha deciso di prendere tempo. Proprio ieri pomeriggio, a una settimana dall’udienza che avrebbe dovuto decidere sul discusso ricorso del Tar del Lazio dello scorso gennaio, è infatti trapelata la notizia di un rinvio a data da destinarsi. Complici, con ogni probabilità, anche i due successivi ricorsi arrivati sul banco della Corte negli ultimi mesi – entrambi provenienti dal Tribunale di Firenze, ed entrambi volti a contestare lo stesso articolo 14 –: la Corte Costituzionale potrebbe infatti prendere in esame tutte e tre le richieste, ed esprimersi con un unico pronunciamento. A conferma della delicatezza d’una decisione su cui vale la pena spendere qualche parola.
L’articolo «incriminato»
Tutti e tre i ricorsi su cui la Consulta è stata chiamata a esprimersi vertono su un unico articolo della legge 40, il 14, e in particolare su due suoi commi: quelli relativi al divieto di produrre più di 3 embrioni e di congelarli. Si tratta di pratiche inevitabili se si vuole introdurre la diagnosi dell’embrione concepito in vitro realizzata prima di avviare la gravidanza, vero obiettivo dei ricorsi e il cui divieto è stato di fatto eluso dalla stessa sentenza del Tar prima e dalle nuove linee guida emanate dall’ex ministro Turco poi.
La selezione pre-impianto – va ricordato – consente di scartare gli esemplari difettosi e impiantare solo quello 'sano'. È una tecnica che però richiede un elevato numero di embrioni per poter essere eseguita con successo. L’articolo 14, tuttavia, non è una parte a se stante della norma: è legato intimamente all’impianto generale della legge 40 e al suo spirito, così come è ben condensato nell’articolo 1, che tutela chiaramente i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. Ecco perché manomettere questa parte della legge equivarrebbe a scardinarne l’architrave. È perché si tutela il concepito che sono stati istituiti i divieti di sovrapproduzione e conseguente congelamento di embrioni, esattamente come il no alla diagnosi pre-impianto che scientificamente non ha ancora dimostrato di essere una tecnica innocua per l’embrione, e tantomeno di essere volta a tutelarne la salute (si effettua la diagnosi per scartare gli embrioni malati, non certo per curarli).
Le ambiguità del Tar
Il ricorso con cui il Tar ha sollevato la questione di costituzionalità della legge 40 davanti alla Consulta ha un percorso piuttosto contrastato.
L’associazione Warm (World Association of Reproductive Medicine), nella quale sono rappresentati centri di procreazione medicalmente assistita, aveva infatti già impugnato il divieto davanti al Tribunale amministrativo del Lazio nel 2005. Con la sentenza 3452 il Tar aveva respinto il ricorso, affermando che la diagnosi pre­impianto «è preclusa dalla legge in quanto ricade nel divieto di selezione a scopo eugenetico, seppure trattasi di eugenetica negativa, volta cioè a fare sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie, e non già a perseguire scopi di 'miglioramento' della specie umana». Il provvedimento è però stato annullato (per motivi procedurali) dal Consiglio di Stato, che ha rispedito il fascicolo al Tar.
Di qui la nuova sentenza, di segno opposto, alla base del ricorso alla Consulta ancora pendente. Questa seconda sentenza del Tar affianca alla sostanziale apertura alla diagnosi pre­impianto la 'raccomandazione' che ogni indagine sia comunque volta alla tutela dell’embrione, e non alla sua selezione.
Ma a che scopo si effettua una diagnosi pre-impianto se non a quello di selezionare gli embrioni? Non a caso ne serve un numero consistente per aumentare la probabilità di successo. E come può una pratica invasiva come la diagnosi pre-impianto tutelare l’embrione? Domande che il Tribunale amministrativo ha girato alla Corte Costituzionale.
La tutela della donna
Altro punto da esaminare è quello sollevato dalle sentenze del Tribunale di Firenze, in particolare da quella dello scorso luglio in cui il giudice Isabella Mariani ha accolto il ricorso di una coppia portatrice di esostosi (un’anomalia ereditaria che causa la crescita irregolare delle ossa) ordinando al centro che l’aveva rifiutata di eseguire la diagnosi pre­impianto e sostenendo che il medico deve seguire le regole della migliore scienza ed esperienza clinica «con specifico riguardo alla salute della donna». Si dimentica, tuttavia, che il divieto alla produzione di più di tre embrioni per ciclo tiene in conto proprio la salute della donna, evitando che quest’ultima si sottoponga a trattamenti di iperstimolazione ovarica altrettanto lesivi per la sua salute.
I possibili scenari
Il parere della Corte Costituzionale sulla legge 40 sarà, allora, decisivo. «Se infatti la Consulta dovesse accogliere i ricorsi, dichiarando incostituzionale l’articolo 14 della norma – spiega Aldo Loiodice, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bari –, non solo i divieti di produzione di più di tre embrioni e di congelamento degli stessi verrebbero meno, ma l’intero impianto della legge ne resterebbe stravolto». Un’ipotesi che potrebbe addirittura rimettere il destino della norma in mano al Parlamento, aprendo il vaso di Pandora delle immaginabili fratture all’interno degli stessi schieramenti. Verrebbe così rimesso in gioco quello che con voto ampio e trasversale fu deciso nel 2004 varando la legge e fu poi ribadito con forza dal referendum popolare del 2005. «Se invece la Corte Costituzionale dovesse rigettare quei ricorsi – continua Loiodice – la legge 40 rimarrebbe intatta. Il che confermerebbe la decisione presa nel 2005 dalla stessa Consulta, che dichiarò inammissibile il referendum unico di abrogazione della legge proposto dai radicali definendo 'costituzionalmente necessaria' la disciplina sulla procreazione medicalmente assistita e ricordando come la Costituzione italiana assegni alla Repubblica il compito di proteggere i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui quello alla vita».


matita blu - Il neonato è una persona. O no? - di Tommaso Gomez – Avvenire, 30 ottobre 2008
Questa puntata di 'Matita blu' è dedicata a chi è convinto che i giornali siano tutti uguali. A chi ancora non ha ben capito che se il cronista è sempre un interprete, esistono però interpreti buoni e cattivi, bravi e meno bravi, che pensano anzitutto alla notizia da narrare o a un’ideologia da servire. A chi ritiene inutile maturare l’abilità critica per saper riconoscere i primi dai secondi.
Lunga premessa per raccontarvi due approcci assai diversi al convegno in programma oggi e domani all’Ospedale pediatrico Mayer di Firenze sul tema: 'Sfide della neonatologia alla bioetica e alla società'.
Per Michele Bocci di Repubblica la notizia non è il convegno in sé. Non è se rianimare o meno chi nasce dopo 22-23 settimane di gestazione. Non è neppure la partecipazione dell’olandese Eduard Verhagen, che un poco imbarazza: Repubblica è favorevole all’eutanasia, ma quella dei neonati ancora è difficile da far mandar giù a tutti i lettori. Bisogna trasformare Verhagen in vittima: dell’oscurantismo e della censura.
Trovato! L’articolo punta il dito contro Riccardo Migliori, coordinatore toscano di An, e la sua interrogazione al presidente del Consiglio per sapere «se Comune e Regione hanno patrocinato il convegno». Tanto basta per costruire un titolo bellico: 'Eutanasia per neonati, guerra a Firenze. An contro un convegno: quel medico olandese la pratica, non parli'. Il neonatologo Giampaolo Donzelli, organizzatore dell’incontro, replica in modo apparentemente pacato a Migliori, che Bocci fa passare per un esagitato censore: «Invitare un rappresentante della comunità scientifica internazionale per farsi esporre le sue tesi non vuol dire sposarle». Ma Donzelli le sposa o no?
«Noi non siamo d’accordo: nella Carta di Firenze c’è scritto che i firmatari sono estranei a ogni forma di eutanasia pediatrica e neonatale». Bene, vorrà dire che accanto a Verhagen ci sarà un luminare che sosterrà una tesi opposta… O no?
A Il Foglio, in effetti, fornisce altre informazioni che Bocci tace. Ad esempio, che nella Carta «alcuni neonatologi italiani sostenevano che i prematuri di 22-23 settimane non andassero in pratica mai rianimati. Furono smentiti dalla Società italiana di neonatologia, dal Comitato nazionale di bioetica', eccetera.
ltra osservazione del Foglio: «Non si contesta il diritto di invitare Verhagen per fargli spiegare il suo eugenismo compassionevole. Singolare è l’assenza di qualsiasi contraddittorio, in un convegno che presenta anche una relazione intitolata: 'Il neonato è persona?'.
Proprio così, con il punto interrogativo». Bocci e Repubblica vanno capiti: i paladini della laicità non possono non trovarsi in imbarazzo di fronte a un convegno a senso unico. Non è un caso che nei giorni scorsi sulla rianimazione dei neonati prematuri, che «troppo spesso sono lasciati morire», sia autorevolmente intervenuto l’Osservatore Romano. Le sue domande sono state raccolte da Corriere della sera, Messaggero e Mattino. Repubblica le ha ignorate.


Il regista Krzysztof Zanussi al Festival internazionale del film di Roma - Il cinema come viaggio- alla scoperta del male - di Luca Pellegrini, L’Osservatore Romano, 30 ottobre 2008
Lo spirito della sopravvivenza tocca anche le coscienze maligne: chi fa il male vuole continuare a farlo. Ma Krzysztof Zanussi ci ha spesso dimostrato, nella sua ampia cinematografia, che conversione, perdono, penitenza e salvezza sono imprevedibili e alla portata di tutti. A Warm Heart, in concorso al Festival del film di Roma, affronta ancora una volta questi temi, ma con humor sottile, inaspettato. Sembra tornare alla sua prima trilogia degli anni Settanta (L'illuminazione, La spirale, Constans) nella quale il più famoso tra i registi polacchi indicava come a interessarlo fossero la scienza e la precarietà della vita, la sofferenza e la mancanza di senso, la corruzione del male e del potere, la responsabilità morale e sociale, lo spirito e la materia, la passione e il desiderio, il rapporto col mondo e con Dio. "I tre film che ha nominato formano un collage di varie considerazioni nei confronti dell'esistenza umana - dice Zanussi - ma la mia visione dell'arte e dell'uomo è rimasta sempre la stessa. Se altri notano un'evoluzione nella mia cinematografia, lo possono fare "da lontano". Io mi sento uguale a ieri anche se il mondo è cambiato rapidamente. Dal mio primissimo film, La struttura del cristallo del 1969, ho sempre mantenuto una visione unitaria della vita, in cui l'artista è innanzi tutto uomo come lo spettatore e cerca, offrendo se stesso, di condividere con lui parte della propria esperienza. Io nego il ruolo assegnato dalla tradizione marxista all'artista, inteso come l'ingegnere dello spirito umano, il suo istruttore. Anche la Chiesa ha dimostrato talvolta questa tendenza: trattare l'arte come puro strumento educativo. Ma l'arte è più che un mero strumento, è qualcosa di assai più nobile. Se vogliamo esprimere la nostra solidarietà con un altro uomo, condividendo con lui la nostra anima, "esponendoci" non per il nostro, ma per il suo guadagno, allora si capisce che l'arte è un atto più nobile dell'istruzione. Per istruire, infatti, io debbo svolgere il ruolo di colui che sa proponendo parte di questo mio sapere a qualcuno. Questa disuguaglianza non mi piace. Preferisco fare riferimento all'arte come un momento di condivisione col prossimo di una parte di noi".
In questo orizzonte, come interpreta l'ispirazione?
Questa è una domanda che tocca la libertà. Vale per tutti: l'artista non è diverso da qualsiasi uomo. Tutti abbiamo la libertà di opporci o ignorare l'ispirazione, anche divina. Così come possiamo ribellarci o rimanere indifferenti alla libertà stessa. Se io, invece, cerco di diminuire il mio ego d'artista per ascoltare la voce che mi guida alla verità, questo diventa in me un atto liberatorio. Realizzo così la mia libertà tramite la sottomissione, intendendola come ascolto umile.
Kontrakt, del 1980, affrontava temi strettamente legati alle sue esperienze: il malcostume della borghesia polacca nell'era comunista e la satira politica, con una continua oscillazione tra metafora e realtà. Sembrava una sterzata amara verso i toni della commedia. La vita è una commedia?
È un'espressione poetica molto ben radicata nella nostra cultura. Come "la vita è un sogno". Non si rischia molto nell'affermarlo. Nel Contratto di matrimonio, così era il titolo in italiano, ho tentato di riflettere sulla vita mondana dei protagonisti mettendoli al vaglio della presenza di una specie di divinità naturale: un cervo, simbolo dei cacciatori, appare alla fine e costringe le due donne, Lilka e Dorota, a inginocchiarsi dinanzi a lui. Questo perché, anche se prendiamo la vita come una commedia, la divinità esiste e l'uomo può negarla o, invece, riscoprirla.
Questa ricerca di Dio ha sempre segnato il suo cinema. Ne La vita come malattia mortale sessualmente trasmessa affrontava il dramma dell'uomo agnostico che chiede a Dio di ricevere almeno un segno per credere; nel seguito, Supplemento, scandagliava la difficoltà, per i giovani, di individuare il senso o la vocazione religiosa e di saper rispondere con libertà. Nel recente Il sole nero, come in una tragedia classica, una donna viveva il sentimento della vendetta e l'esigenza della giustizia. Ora con A Warm Heart, torna alla commedia, ma i toni sono amari e il contesto "morale".
È una scelta, quella della commedia, che mi pareva necessaria oggi per parlare di cose molto serie. È morale perché la storia che racconto conferma la mia profonda fede mentre il mondo postmoderno afferma, invece, la sua inutilità, la non esistenza. Ma i temi che tratto, anche se in forma diversa, sono i miei abituali. Sorridendo cerco di costatare che tutta la visione del mondo basata sul postmodernismo, sull'assenza dei valori certi, è un concetto sbagliato perché non si può vivere se non c'è la distinzione chiara tra bene e male, tra verità e menzogna, tra bello e brutto. Mi sono ispirato alla filosofia decostruzionista di Jacques Derrida dalla quale nasce un mondo estremo e esagerato in cui la mancanza di Dio, l'impossibilità di una verità e del grande racconto, creano un paradosso avvertito dal personaggio "cattivo" del film: in un mondo senza valori la nostra vita non si può nemmeno raccontare.
Chi è questo suo nuovo cattivo?
È un oligarca che, in attesa di un trapianto di cuore, rischia di morire. È la personificazione del male. Però anche lui ritrova una salvezza, un momento di luce nella notte, quando ammette il suo sbaglio, si converte e promette di cambiare vita. È un personaggio non credente la cui unica fede è nella sua ricchezza e nei suoi eccessi di vita. Non crede nell'eternità, nel giudizio ultimo, vive solamente basandosi sui principi edonistici del piacere e del consumo. Alla fine ammetterà di aver vissuto male, le sue ultime parole sono queste: "Ora mi è rimasto soltanto il tempo della penitenza". Il film, una specie di favola nera, si chiude quando l'oligarca comincia a distribuire la sua ricchezza tra i poveri.
Chi è il donatore di cuore?
Un giovane semplice e ingenuo che vuole suicidarsi, inseguito dagli sgherri dell'oligarca. Anche per questo personaggio, per fortuna, arriverà il tempo della salvezza, che non è mai negata: si getterà a capofitto in un nuovo lavoro, un nuovo ideale, la protezione degli animali. Per uno scherzo del destino, un vero paradosso, sarà invece un angelo del male, uno scagnozzo dell'oligarca, a rendertsi utile al suo padrone con un ultimo dono.
Perché la scelta di un attore ucraino per il personaggio dell'oligarca?
Bogdan Stupka, un grande attore, attualmente direttore del Teatro di Stato di Kiev, è stato anche ministro della Cultura: conosce come deve muoversi un personaggio pubblico e di potere e per questo riassume bene l'anima dell'oligarca. Il fenomeno dell'oligarchia, inoltre, è tipico soltanto di alcuni Paesi dell'Est. Infatti, in Russia e in Ucraina la trasformazione del sistema è andata malissimo perché le ricchezze dello stato si sono semplicemente trasferite dalla ex-nomenclatura, ossia dai privilegiati di prima, a quelli che sono i privilegiati di oggi. In questi Paesi non c'è stata Solidarnosc come in Polonia, non c'è stata una resistenza popolare, una riforma profonda e interiore, ma soltanto un cambio esteriore del sistema.
È in grado di recuperare qualche cosa del passato e della storia del suo Paese e dell'Est europeo negli anni del totalitarismo?
Prima di tutto rimpiango la mancanza della libertà. Ha un grande fascino. Non è vero che tutti vogliono essere liberi. La fuga dalla libertà, nel sistema totalitario, era resa possibile, mentre oggi tutti sono condannati alla libertà. La vita è molto più difficile!
Un'immagine abbastanza fosca e certo provocatoria! È davvero sicuro che sia così?
Molti non vogliono sentirsi liberi. Pensi alla sicurezza, che fa parte di questo concetto, con tutto ciò che ne consegue nella vita civile. La gente si sentiva, allora, molto più sicura perché il vicino non poteva fare carriera, guadagnare più di me, avere più spazio o potere. Questo dava una grande illusione di sicurezza. Oggi avverto una certa forma di nostalgia per questi tempi in cui ciascuno aveva il diritto di essere pigro, passivo, immobile. Fa parte della natura umana: c'era un fascino perverso nel sistema totalitario comunista, che offriva in cambio della libertà una sicurezza passiva, una pigrizia intellettuale, una tranquillità nel pubblico e nel privato. Oggi, nella società del libero mercato dobbiamo fronteggiare gran parte degli stessi problemi e degli stessi dubbi, solo che si manifestano in modo diverso.
Uno dei contesti in cui maggiormente si avvertono proprio questi dubbi e le più forti tensioni è quello giovanile. Lei ha sempre posto come elemento portante nel suo cinema anche l'insofferenza e la ribellione morale dei giovani contro la corruzione dei padri.
Nella mia gioventù, anche di regista, il tema è stato al centro delle mie attenzioni. Oggi ho raggiunto l'età dei padri e sono, per questo motivo, pronto a smascherare anche la corruzione dei giovani. Mi colpisce soprattutto il fatto che i giovani insistano - fingendo anche a se stessi - nel non rendersi conto che sono corruttibili, come tutti noi. La decomposizione della nostra integrità, come dimostro anche nel mio ultimo film, è un soggetto che mi interessa sempre moltissimo.
Il potere del male affrontava il male che alberga nel cuore dell'uomo e la presenza della Grazia che ci aiuta e spinge a lottare per il bene. Da allora, però, il male, nelle sue diverse radici e manifestazioni, è sempre apparso nelle sue opere.
Il male è qualcosa di subdolo, inquieto, affascinante, una forza dinamica e attiva che agisce nell'uomo e nella storia. Ricordo come tanti cristiani rimasero sconvolti da una delle affermazioni più forti di Paolo vi: siamo "sotto l'esistenza del diavolo". Io non l'ho mai contestata. Mi accorgo che oggi il male si nasconde e l'uomo crede di essere innocente. È una tendenza, una tentazione che porta ad occultare, se non a rendere addirittura superflue, le proprie scelte morali.
Oggi è più pessimista di un tempo?
Non sono stato mai un pessimista. Rifiuto questa etichetta e questo termine. Io semplicemente riconosco l'esistenza del male che talvolta prevarica sul bene. Ma non ho mai detto e sostenuto che il male vince. Il vero pessimismo è l'indifferenza, la mancanza della speranza, la negazione del male: così la vita perde il suo dinamismo e noi perdiamo la libertà delle nostre scelte.
Nel frattempo, lei ha scelto il soggetto del suo prossimo film.
Girerò un film storico su santa Edvige, della stirpe degli Angioini, canonizzata da Giovanni Paolo ii a Cracovia nel 1997. Di origine francese, divenne nel xiv secolo regina di Polonia e Lituania e successivamente patrona di queste nazioni. La sua vita riassume il concetto del "regnare servendo". È un personaggio che ha introdotto lo spirito cristiano nella politica interna e internazionale e, dunque, di indubbia attualità. Le radici cristiane della nostra politica civile sembrano sparire inesorabilmente nel nostro mondo. Oggi è diffuso quello che io ritengo un atteggiamento barbaro, anti-cristiano, che si concretizza in una politica senza scrupoli, senza carità.
(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2008)