giovedì 7 luglio 2011

1)    05/07/2011 – PAKISTAN - Pakistan: ospedale cristiano sotto attacco di Jibran Khan - Un gruppo di musulmani ha tentato di impadronirsi con la forza dell’ospedale cristiano di Taxila, a 32 km dalla capitale Islamabad, presentando false accuse alla polizia. L’intervento dei leader cristiani e del vescovo Rufin Anthony ha sventato la minaccia.
2)    Avvenire.it, 5 luglio 2011 - IL DDL - I punti chiave della norma
3)    Avvenire.it, 5 luglio 2011 – INTERVISTA - Di Virgilio: «Il bene del paziente deve essere l’obiettivo di tutti» di Pier Luigi Fornari
4)    I bimbi somari non sono questione di genetica di Giorgio Israel, martedì 05 luglio 2011, Il Giornale
5)    L’UNGHERIA HA IL DIRITTO DI DIFENDERE LA VITA - Carlo Casini difende la libertà di opporsi all’aborto di Antonio Gaspari
6)    Coscienza degli animali Incoscienza umana di Giacomo Samek Lodovici e Luigi Mariani, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
7)    A Varsavia primo via libera per lo stop all'aborto di Marco Respinti, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
8)    Minori venduti e sfruttati, le rotte della vergogna di Danilo Quinto, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
9)    ELLAONE ABORTIVA, UN’ALTRA CONFERMA DALLA LETTERATURA SCIENTIFICA - 5 luglio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org
10)                      GRAN BRETAGNA/ La lotteria dei bambini – Redazione, mercoledì 6 luglio 2011, il sussidiario.net
11)                      Bello è ciò che piace anche agli eschimesi di Tommaso Scandroglio, 07-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      Italia crocevia del traffico umano di Danilo Quinto, 07-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
13)                      Dall'eugenetica di fine Ottocento al cosiddetto aborto terapeutico - Concepire l'handicap - Pubblichiamo stralci di uno dei saggi contenuti nel volume "Bioetica come storia", a cura di Lucetta Scaraffia (Torino, Lindau, 2011, 245 pagine, 23 euro), di GIULIA GALEOTTI  (©L'Osservatore Romano 7 luglio 2011)


05/07/2011 – PAKISTAN - Pakistan: ospedale cristiano sotto attacco di Jibran Khan - Un gruppo di musulmani ha tentato di impadronirsi con la forza dell’ospedale cristiano di Taxila, a 32 km dalla capitale Islamabad, presentando false accuse alla polizia. L’intervento dei leader cristiani e del vescovo Rufin Anthony ha sventato la minaccia.

Lahore (AsiaNews) – Un tentativo di impadronirsi con la forza di un ospedale cristiano da parte di un gruppo di musulmani è stato sventato in Pakistan nei giorni scorsi. A Taxila il 2 luglio alcuni influenti personaggi musulmani della città, Malik Nur Muhammad, Malik Riaz e Malik Abdul Razzak hanno presentato denuncia alla polizia di Taxila contro gli amministratori dell’ospedale cristiano della Chiesa presbiteriana unita, che si trova a 32 km da Islamabad. I denuncianti sosteneva di aver acquistato i diritti di proprietà dell’ospedale, e accusavano gli amministratori di rifiutarsi di consegnare la proprietà che avevano acquistato. Nella denuncia c’erano anche accuse di blasfemia contro gli amministratori, che però non sono state registrate dalla polizia.

Dopo la denuncia, Malik Nur Muhammad, Malik Riaz e Malik Abdul Razzak si sono recati all’ospedale cristiano, per far arrestare gli amministratori in base alle accuse presentate; quattro membri del personale sono stati trattenuti dagli agenti. Il direttore dell’ospedale, Ashchenaz M. Lall, ha respinto le accuse dei musulmani. “La proprietà non è mai stata venduta, Malik Nur e i suoi figli, con l’aiuto di in politico locale influente, del Pmln (Pakistan muslim league Nawaz) ha fabbricato questo caso contro gli amministratori dell’ospedale cristiano. L’ospedale è stato fondato nel 1922 dai missionari della Missione presbiteriana unita, solo il Consiglio presbiteriano ha il diritto di vendere la proprietà. Questo è un tentativo di impadronirsi con la forza di una proprietà missionaria”.

Il vescovo cattolico di Islamabad/Rawalpindi, Rufin Anthony, si è recato nell’ospedale cristiano di Taxila e ha preso contatto con vari attivisti e leader cristiani. Grazie all’intervento della Chiesa cattolica l’Ufficio di coordinamento distrettuale (Dco) di Rawalpindi, tramite il suo responsabile, Saqib Zafar, è intervenuto nella questione, con un’indagine preliminare. L’Ufficio ha dichiarato: “Le indagini iniziali hanno rivelato che le accuse di Malik Nur Muhammad sono false; ci sono lacune nella denuncia, che è stata registrata grazie all’appoggio di un politico influente del Pmln. Faremo sì che i colpevoli vengano arrestati”.

Il vescovo Rufin Anhtony ha dichiarato ad AsiaNews: “Questo non è il primo tentativo di impadronirsi di una proprietà missionaria o della Chiesa con la forza. L’ospedale cristiano di Taxila è stato preso di mira da vari gruppi in passato, ma la Chiesa cattolica è sempre stata vicina alle altre Chiese quando erano attaccate dalle scuole di pensiero estremiste. Stiamo seguendo la situazione, chiediamo al governo di arrestare i colpevoli e di dare un esempio, così che questi incidenti non si ripetano”.

Anche Samson Simon Sharaf, responsabile del St. Mary College, un attivista cattolico, ha condannato l’incidente e ha visitato l’ospedale cristiano di Taxila. Sharaf ha dichiarato: “I sentimenti religiosi anticristiani sono stati usati per piccoli interessi egoistici, e questo avrebbe potuto condurre a violenze di massa e a distruzioni come a Gojra. E’ stata sventata una grande minaccia”. (02/08/2009 Otto cristiani arsi vivi nel Punjab).


Avvenire.it, 5 luglio 2011 - IL DDL - I punti chiave della norma

Un punto fondamentale della proposta di legge sul fine vita è il fatto che alimentazione ed idratazione non possono essere oggetto di dichiarazioni anticipate di trattamento (dat) ed è espressamente vietato sospendere la loro somministrazione nelle varie forme in cui la scienza è in grado di fornirle al paziente. Nel passaggio a Montecitorio è stato prevista, però, una eccezione a questa norma nel caso in cui «le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo». Questa specificazione era assente nel testo approvato al Senato, che secondo alcuni sarebbe da preferire nel timore della apertura di spazi di arbitrio. Allo stesso modo l’allargamento della platea dei soggetti per i quali entrano in vigore le dat avvenuto alla Camera richiederebbe precisazioni, perché ad esempio, potrebbe esserci un rischio di abusi in una equiparazione dei malati di Parkinson e di Alzheimer agli stati vegetativi persistenti. Il testo in ogni modo non configura una vincolatività delle dat per il medico curante, anzi la commissione Affari costituzionali ha ottenuto che anche il parere del comitato di specialisti non sia per lui obbligante in caso di contrasto con il fiduciario.
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Avvenire.it, 5 luglio 2011 – INTERVISTA - Di Virgilio: «Il bene del paziente deve essere l’obiettivo di tutti» di Pier Luigi Fornari

Ci sono tutte le possibilità perché la proposta di legge sul fine vi­ta, sulla quale oggi iniziano le votazioni nell’aula Camera, riesca a concludere in questa settimana il suo iter a Montecitorio ed il relatore, il pi­diellino Domenico Di Virgilio, ci tiene a sottolinearlo. «Sono ottimista, confi­do in ampie convergenze trasversali, perché quello che è all’esame non è un testo ideologico – afferma Di Virgilio – . Pur trattando problemi etici, il testo non ha un’impostazione confessiona­le, ma anzi viene incontro alle attese dei cittadini, fissando tre paletti ben precisi».

Quali?
Il testo di cui sono relatore afferma in modo molto netto un 'no' all’accani­mento terapeuetico, un 'no' all’euta­nasia, e anche un 'no' all’abbandono terapeutico. Un principio, quest’ulti­mo, messo in evidenza molto chiara­mente.

Perché insiste su questo punto?
È un principio particolarmente im­portante oggi, perché con il dilagare della cosiddetta “medicina difensiva” aumenta il rischio che i pazienti siano abbandonati, e ciò deve essere evitato in tutti i modi. Qualcuno ritiene che in una materia così delicata come il fine vita sia con­troproducente che il Parlamento fissi delle norme precise... Dopo la vicenda Englaro legiferare è divenuto una necessità per evitare in­tromissioni della magistratura nella funzione propria del Parlamento.

In che modo l’articolato considera la funzione dei medici?
Devono essere rispettati nella loro pro­fessionalità, per questo le dichiarazio­ni anticipate di trattamento non de­vono essere vincolanti. Il medico non è obbligato ad applicarle, solo in vista del bene del paziente.

Quando il bene del paziente può com­portare questa scelta da parte del me­dico?
Se nel periodo intercorso tra la reda­zione delle dichiarazioni anticipate di trattamento e l’evento che le dà rilie­vo si è verificata un progresso scienti­fico, tecnologico o farmacologico, il medico deve essere libero di disco­starsi dal contenuti di quelle espres­sioni di volontà, per tener conto di ta­le sviluppo scientifico nell’interesse del bene del paziente. Il medico dunque può non applicare le dichiarazioni an­ticipate di trattamento solo in vista del bene del paziente.

Sarà possibile una approvazione tra­sversale?
Mi sembra molto importante la con­vergenza di deputati di varie aree po­litiche su questa legge. Sono ottimista. Mi aspetto voti trasversali a favore del­la proposta di legge sul fine vita. Capi­sco il dissenso che ci può essere in al­cuni membri della maggioranza, un dissenso comunque puramente lega­to a questioni di coscienza e che va ri­spettato. Si tratta in ogni modo di po­sizioni molto limitate.
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I bimbi somari non sono questione di genetica di Giorgio Israel, martedì 05 luglio 2011, Il Giornale

Spunta l’ennesimo studio in cui si spiega che il rendimento a scuola dipende dal Dna: un rapporto della Confindustria spagnola sostiene che i fattori ereditari sono determinanti nel rendimento degli scolari. Una "scoperta" che sa di razzismo
Più volte ho avanzato l’ipotesi - che trova sempre ulteriori conferme - dell'esistenza di un'associazione dall'acronimo AIDS - la quale condivide con la nota malattia oltre al nome soltanto la nocività - che sta per Associazione Internazionale per il Discredito della Scienza. È dedita a propalare le «scoperte» più demenziali: che Chopin era romantico perché epilettico, che gli Impressionisti dipingevano in quel modo perché avevano la cataratta, che dopo sette anni le coppie entrano in crisi e quindi è una scelta «scientificamente» fondata divorziare preventivamente per evitare inutili liti; e così via. Un ricercatore francese ha «dimostrato» che il rendimento scolastico dipende dall’epoca di nascita e, in particolare, che i nati in dicembre vanno male a scuola per cui bisognerebbe alzare tutti i loro voti secondo un coefficiente standard. Ora un rapporto della Confindustria spagnola (Confederación Española de Organizaciones Empresariales, CEOE) sostiene che i fattori ereditari sono determinanti nel rendimento scolastico. Non si spiega perché. Ci si limita a dire che non meglio precisati «lavori», che hanno posto a confronto i livelli educativi dei genitori e dei figli, avrebbero condotto alla conclusione che il fattore socioeconomico conta molto meno di quello genetico. Anzi, ci si azzarda addirittura a una stima quantitativa: il fattore genetico-ereditario conta più del doppio di quello socioeconomico. Come si misurino questi rapporti è un mistero che pare vada accettato come una verità di fede. È persino imbarazzante dover ricordare che nessuna persona seria può pretendere di affermare che esista un rapporto di causa-effetto tra fattori genetici e facoltà mentali. Il determinismo biologico che sottende affermazioni del genere non soltanto non ha nulla a che fare con la scienza, ma neppure con il più elementare buon senso. Pertanto, propalare simili sciocchezze significa soltanto trastullarsi irresponsabilmente con il razzismo.
Gli autori di questa bravata sono il sociologo Juan Carlos Rodriguez e un professore dell'Università Complutense di Madrid, l'analista sociopolitico Víctor Pérez-Díaz, noto in Italia perché anni fa alcuni ambienti politici nostrani lo assunsero come un'icona nel cielo della teoria politica. Il suo libro «La lezione spagnola» fu presentato come il manuale di riferimento del modello spagnolo che l'Italia, manco a dirlo, avrebbe dovuto copiare per salvarsi. Sarebbe interessante riparlarne oggi alla luce dei recenti sviluppi della crisi economica in Spagna.
La CEOE ha commissionato a Perez-Diaz la parte del rapporto sulle «riforme necessarie per potenziare la crescita dell'economia spagnola». Trattandosi quindi di un documento istituzionale, la domanda inquietante che si pone è: che uso farà la CEOE di questo risultato? Difatti, il determinismo biologico che esso propone lascia poco spazio al «recupero» culturale di coloro che fin dalla nascita sono condannati all'insuccesso scolastico. Alla CEOE resta quindi soltanto la scelta di chiedere che i bambini vengano sottoposti all'inizio della carriera scolastica a un test genetico. I dotati potranno andare avanti, i predestinati asini saranno condannati ai mestieri più umili. In tal modo, verrà garantito il potenziamento della crescita dell'economia attraverso la selezione di una razza superiore.
Questa si che è una «lezione spagnola» che vale anche per noi. In primo luogo, invita a guardare con sempre maggiore diffidenza l'AIDS. In secondo luogo, vale come ammonimento a farla finita con la medicalizzazione dell'istruzione. Infine, serve a ricordare a vari soggetti un po' troppo intraprendenti in tema di istruzione e cultura - tra cui imprenditori, manager, sociologi ecc. - l'aureo detto latino «sutor ne ultra crepidam», calzolaio non andare oltre le tue scarpe.
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L’UNGHERIA HA IL DIRITTO DI DIFENDERE LA VITA - Carlo Casini difende la libertà di opporsi all’aborto di Antonio Gaspari
                             
ROMA, martedì, 5 luglio 2011 (ZENIT.org).- Nonostante il devastante crollo della nascite che colpisce l’Europa, le istituzioni comunitarie continuano a professare e praticare un'ideologia contraria alla vita nascente, al punto che gli Stati facenti parte dell'Unione Europea non possono utilizzare i fondi comunitari per campagne che cercano di limitare gli aborti.
Il caso in discussione riguarda l’Ungheria, dove sono stati affissi manifesti con l’immagine di un bambino non ancora nato accompagnata dalla scritta: “lo capisco che non sei pronta per me, ma ti prego: dammi in adozione. Fammi vivere”. L’iniziativa è cofinanziata da “Progetto Progress”, che fa parte della “Agenda sociale europea”.
E’ successo così che il vicepresidente della Commissione Europea, Viviane Reding, ha dichiarato che “gli Stati membri non possono usare fondi UE per campagne contro l’aborto”, e ha aggiunto che l’iniziativa “non è in linea con il Programma Progress e con la proposta di progetto presentata ai servizi della Commissione dalle autorità ungheresi”.
La Commissione ha chiesto pertanto che “se l’Ungheria non vuole incorrere in sanzioni finanziarie (…) questa parte della campagna sia fermata senza indugio e che tutti i manifesti esistenti siano rimossi”.
Per cercare di capire cosa stia succedendo a Bruxelles, ZENIT ha interpellato Carlo Casini, Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo.
Secondo Casini, “la risposta della Reding è stata deludente ed evasiva”, perché “anziché ricordare che il valore della dignità umana, uguale per ogni essere umano, è il fondamento dell’Unione Europea, ha preferito usare espressioni ‘interpretabili’ come se l’aborto fosse un valore europeo”.
A proposito di un eventuale ordine di rimozione dei manifesti, Casini ha spiegato che “se davvero i fondi sono stati utilizzati per una campagna che la UE non gradisce, bastava chiedere la cancellazione del simbolo di Progress e chiedere la restituzione dei soldi. In ogni caso, la Commissione non può certo ordinare che non sia diffuso un messaggio, che già era stato il motto di Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace, e cioè 'adoption, not abortion'”.
Il vero problema, ha sottolineato il Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo, è perché la Campagna Progress non possa “comprendere iniziative pro-life”. “Dove sta la ‘pari opportunità’ in un'Europa che in passato non ha avuto il coraggio di rifiutare finanziamenti a organizzazioni che propagandano l’aborto in tutto il mondo?”.
Tra l’altro, ha rilevato Casini, “il logo dell''Agenda sociale', da cui ha origine il programma di finanziamento, utilizza quello dell’Unione ma sostituisce le dodici stelle su campo azzurro con 12 neonati”.
Sul sito dell’Agenda sociale, infatti, è scritto tra l’altro che tra i problemi da affrontare vi è quello dell’invecchiamento della popolazione, che la prima iniziativa riguarda “l’infanzia e la gioventù” e che Progress ha per scopo la “solidarietà sociale”.
In questo contesto, Casini ha sollevato altre domande: “L’aborto è o no una questione sociale? Per contrastare l’invecchiamento è o no necessario che nasca un maggior numero di figli? La soppressione di bambini non ancora nati non è forse la più grave delle discriminazioni? Perché non offrire loro una ‘qualche’ opportunità?”.
“Aumentando le possibilità di adozione – ha aggiunto il Presidente della Commissione - non si realizza forse anche un'‘opportunità’ per le donne che non possono avere figli e non si determina in qualche modo una uguaglianza con le altre donne che i figli invece sono in grado di generare?”.
In merito all’adozione come mezzo per orientare una donna in sofferenza verso la prosecuzione della gravidanza, Casini ha precisato che “questo principio è già consacrato nel nostro ordinamento dalla legge che consente il parto in anonimato”, e anche se potrebbe essere poco efficace e addirittura urtante, “è meglio l’adozione dell’abbandono in un cassonetto d’immondizie”.


Coscienza degli animali Incoscienza umana di Giacomo Samek Lodovici e Luigi Mariani, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

E' stato rilanciato in questi giorni il Manifesto animalista promosso da Michela Brambilla, attuale ministro del Turismo, e Umberto Veronesi. Il manifesto, che si chiama «La coscienza degli animali», afferma che «Chi rispetta la Vita deve rispettarne ogni forma. Chi è crudele con gli animali lo è anche con gli esseri umani». E ancora: «Gli animali hanno un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti», cosicché «Il primo diritto degli animali è il diritto alla vita». La Brambilla e Veronesi sono inoltre vegetariani e, per l’oncologo più famoso d’Italia, «Dobbiamo cominciare a trasferire i principi etici […] non far soffrire, non essere violenti e non uccidere […] anche al mondo animale».

Il Manifesto e le dichiarazioni che lo accompagnano spingono a domandarsi quale sia la differenza tra uomo e animale. Abbiamo perciò chiesto a un filosofo e ad un esperto di zootecnia e agricoltura di chiarire questi aspetti.

- Se il pollo vale più dell'embrione, di Giacomo Samek Lodovici

- Diritto alla vita: anche dei topi in casa?, di Luigi Mariani


Se il pollo vale più dell'embrione di Giacomo Samek Lodovici, 06-07-2011

Michela Brambilla, Umberto Veronesi, Dacia Maraini, Margherita Hack e Maurizio Costanzo: sono solo alcuni dei nomi altisonanti che hanno promosso il manifesto «La coscienza degli animali», che afferma che «Chi rispetta la Vita deve rispettarne ogni forma. Chi è crudele con gli animali lo è anche con gli esseri umani». E ancora: «Gli animali hanno un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti», cosicché «Il primo diritto degli animali è il diritto alla vita». La Brambilla e Veronesi sono inoltre vegetariani e, per l’oncologo più famoso d’Italia, «Dobbiamo cominciare a trasferire i principi etici […] non far soffrire, non essere violenti e non uccidere […] anche al mondo animale».


Ora, sia chiaro: l’uomo non è il proprietario della creazione, bensì ne è l’amministratore, deve dunque prendersene cura, non deve devastarlo, deve rendere conto all’Autore del mondo. Ma questo non toglie che ne possa fare un giusto uso. Perciò, si può legittimamente discutere sul dolore inutilmente inflitto agli animali (e su cosa sia inutile si potrebbero fare molte disquisizioni opinabili), ma di sicuro è ineccepibile cibarsi di animali.


Uno dei più importanti antesignani di Brambilla & co è il filosofo Jeremy Bentham (1748-1832), secondo cui tra l’uomo e l’animale non sussiste una differenza qualitativa, perché – per questo filosofo inglese – il requisito che può tracciare dei confini tra i viventi non è la razionalità, ma la capacità di provare dolore. Per Bentham, tra l’uomo e l’animale non c’è una distinzione qualitativa, bensì solo di grado. Così, dice Bentham, «c’è stato un giorno […] in cui la maggior parte delle specie umane, sotto il nome di schiavi, veniva trattata dalla legge esattamente come lo sono ancora oggi […] le razze inferiori degli animali», ma «può arrivare il giorno in cui il resto degli animali del creato potrà accampare quei diritti di cui non si sarebbe mai potuto privarli, se non per mezzo della tirannia».


Si dirà che per Brambilla e Veronesi la differenza tra l’uomo e gli animali è anche qualitativa; ma, allora, il trattamento riservato all’uomo dev’essere enormemente diverso da quello verso gli animali: sono d’accordo Brambilla e Veronesi? In realtà, nelle loro dichiarazioni tale differenza tende a sfumare, quando essi affermano che gli animali hanno consapevolezza e coscienza. Ora, non vogliamo qui stare a fare (o chiedere loro) una definizione di questi termini. Il punto essenziale che va chiarito e tenuto fermo è il seguente: se negli animali superiori si trova una qualche forma di “intelligenza”, nondimeno essa è qualitativamente inferiore a quella umana.

Lo rileva già in modo magistrale Aristotele, nel primo libro della Politica. Infatti (rimando per approfondimenti al mio articolo Uomo e animale: così diversi…, «il Timone», 99 [2011],), l’animale si accorge solo di alcune cose, cioè solo di quelle utili/dannose, piacevoli/dolorose, pericolose/vantaggiose e le altre cose del mondo non le percepisce; per contro, l’uomo si accorge di tutte le cose e non solo di quelle che gli possono essere utili/nocive e si interroga non solo sull’utilità/nocività, ecc. delle cose, ma anche sulla loro natura, cioè si chiede: «che cos’è questa cosa?», perché vuole conoscerla anche a prescindere dalla sua eventuale utilità/dannosità, vuole conoscere anche la verità sulle cose, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto.

Inoltre, come ha scritto il filosofo Paolo Pagani, una cosa è usare oppure adattare qualcosa per farne uno strumento, come fanno sia l’uomo sia gli animali; un’altra è fabbricare strumenti, come fa solo l’uomo. È vero che nel 2000 una scimmia è stata indotta, grazie ad un lungo addestramento, a scheggiare delle pietre, ma ciò non costituisce una smentita della differenza qualitativa tra l’uomo e l’animale, bensì è un mero esempio di comportamento imitativo.

Potremmo proseguire a lungo sulla differenza qualitativa uomo-animale: dovremmo parlare di vari altri aspetti peculiari dell’uomo, come la libertà, la capacità di amare (ben diversa dalla cura animale, cfr. il mio articolo che ho già citato), il senso estetico, il senso etico, ecc.


Qui possiamo solo aggiungere che, a ben vedere, Bentham pare più conscio di una cosa che Brambilla e Veronesi non evidenziano. L’uccisione che gli animali ricevono dall’uomo di solito è meno dolorosa di quella che generalmente li coglie in mezzo agli altri animali: «La morte che ricevono da noi comunemente è, e può essere, una morte più veloce, e per questo meno dolorosa, di quella che li aspetterebbe nell’inevitabile corso della natura».

Inoltre, se la Brambilla è davvero convinta della differenza qualitativa tra l’uomo e l’animale, perché non si batte, e molto più energicamente, per la protezione degli esseri umani? Qualora per lei gli esseri umani allo stadio di embrione non fossero persone, si batta – e molto più energicamente che per gli animali – per i poveri, per gli sfruttati, per i derelitti, per gli handicappati, ecc. Se si dedicasse a questa causa, distogliendo per questo motivo parte delle sue energie e del suo tempo dalla promozione del turismo (alla cui tutela è designata Ministro della Repubblica), la elogeremmo volentieri.


Infine, un commento alla dichiarazione di Margherita Hack: «La scuola porti i bambini a vedere gli allevamenti intensivi, a sentire le urla strazianti dei vitellini o dei maialini, a verificare come un pollo cresce in gabbie in cui lo spazio per muoversi è pari a due terzi di un foglio A4». Ebbene, ci stiamo, ma ad un patto. Che la scuola italiana faccia anche vedere a tutti gli studenti il filmato “l’urlo silenzioso” (o qualcosa di analogo) in cui si vede, con gli ultrasuoni, un concepito d’uomo cercare di sfuggire, di divincolarsi, di scampare agli strumenti di un chirurgo che pratica un aborto e che lo ghermisce, lo dilania, e lo smembra. Ammesso e non concesso (ma non possiamo qui argomentare al riguardo) che l’embrione non sia persona, vale forse meno di un pollo?


Diritto alla vita: anche dei topi in casa? di Luigi Mariani, 06-07-2011

Sollecitato da un amico ho visitato il sito "La Coscienza degli Animali" nato “dalla volontà di Michela Vittoria Brambilla e Umberto Veronesi, di dare voce a chi voce non ha e di contribuire in maniera significativa alla creazione in Italia di una nuova cultura di amore e tutela degli animali e di rispetto dei loro diritti.” Nel sito si invita a sottoscrivere il  “manifesto dei diritti degli animali” nel quale sono presenti molte cose a mio avviso condivisibili assieme ad altre che giudico quanto meno eccepibili.

Cominciamo dalle prime osservando che non posso non condividere il ripudio della violenza gratuita sugli animali. Ciò perché ho da sempre fatto mio il motto “Chi non vuol bene alle bestie non vuol bene neppure ai cristiani” che è ben radicato nella cultura popolare delle nostre terre.

Non vorrei tuttavia cadere in una sorta di “nazismo verde” in cui la sensibilità verso gli animali venga prima di quella verso gli umani. Da questo punto di vista esprimo perplessità circa l’affermazione del “diritto alla vita” per gli animali che si fa nel manifesto. Potrà sembrare banale ma viene anzitutto spontaneo chiedere “quali animali?”. Nello specifico mi domando infatti se chi ha sottoscritto il manifesto sarebbe del parere di garantire il diritto alla vita, e nella propria casa, a topi o scarafaggi o zanzare o formiche ovvero se sarebbe disponibile a lasciare orsi, lupi e serpenti a scorrazzare in aree frequentate dai propri bambini, in nome del fatto che, per dirla con il manifesto, “gli animali hanno un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti”. In altri termini, mi domando se il diritto alla vita degli animali debba venire prima o dopo il diritto alla vita per gli umani, cosa che nel manifesto non viene ahimè  mai specificata.

Da questo punto di vista (lasciando per un attimo da parte temi eticamente cruciali come quelli dell’eutanasia e dell’aborto, non chiamati direttamente in causa nel manifesto) non si può dimenticare che nelle aree meno fortunate del mondo un numero rilevante di nostri simili deve il proprio sostentamento  quotidiano ai prodotti dell’allevamento brado o confinato di capre, pecore, bovini o animali da cortile. Non scordiamoci infatti che l’alimentazione del genere umano si fonda oggi sulla produzione che proviene da 1.4 miliardi di ettari di arativi e da ben 2.3 miliardi di ettari di pascoli che non sono in alcun modo sfruttabili se non con l’allevamento. Amo allora pensare che il “pastore errante per l’Asia” sia un nostro fratello e non un crudele seviziatore di animali.

Vedete, su questi temi non mi aspetto molto da questo Paese perché – questo non dobbiamo mai dimenticarlo – l’Italia è l’unica Nazione al mondo ad aver partorito e messo in pratica la bizzarra idea di abolire tramite referendum il Ministero dell’Agricoltura. Fu una cantonata surreale cui furono poi costretti a mettere una pezza i nostri politici che, non sapendo a chi affidare le competenze agricole imposteci anche dai trattati internazionali, si inventarono strutture con analoghi fini e con nomi funambolici come “Ministero per il coordinamento delle politiche agricole e forestali”.

Non possiamo tuttavia trascurare, per il pulpito da cui provengono, le parole (sempre citate nel sito di cui sopra) dell’On. Brambilla la quale dichiara: "Sono vegetariana ma non posso né voglio imporre a nessuno la mia scelta etica. Chi mangia carne deve però essere consapevole, deve sapere in quali terribili condizioni sono allevati, trasportati ed uccisi gli animali di cui si nutre. E deve conoscere quali livelli di sofferenze ed atrocità si nascondano dietro il cibo che quotidianamente consuma". E dato che una tale dichiarazione viene da un autorevole esponente del nostro governo, non vorrei che ciò preludesse a qualche iniziativa abolizionista concreta. Su tale fronte, se non ci frenasse il senso del ridicolo, spero che almeno un freno venga dalle seguenti e più concrete considerazioni:

1. La carne ed i prodotti lattiero caseari sono fonte di proteine di alta qualità per l’alimentazione umana ed in tal senso si rivelano fondamentali azioni di educazione alimentare che evidenzino i pregi della carne evidenziando altresì i problemi derivanti dal suo eccesso nelle diete.

2. Nel suo complesso la specie umana ha vissuto di caccia e raccolta fino a ieri l'altro. Nello specifico le popolazioni europee discendono in gran parte (l'80% del DNA maschile e l'87% di quello femminile) dai popoli di cacciatori-raccoglitori paleolitici già presenti sul continente nel corso dell'ultima glaciazione. Da ciò discende che la caccia è volenti o nolenti un'eredità culturale e non solo un atto di ferocia gratuita, un’eredità che può trovare ancor ora giustificazione se considerata in un contesto di riduzione selettiva di popolazioni di selvatici che risultino in eccesso rispetto alla capacità portante dell’ecosistema.

3. La domesticazione degli animali (cane in primis e poi bovini, suini, ovi-caprini, avi-cunicoli, ecc.) è stato uno degli eventi cruciali di quella rivoluzione neolitica che è alla base della nostra civiltà attuale.

4. All’incremento nel consumo mondiale di carne fa oggi riscontro una “rivoluzione zootecnica” che mira a razionalizzare il settore tramite massicce innovazioni sia a livello di genetica (es: specie e razze con più elevata efficienza nella conversione degli alimenti in carne e latte) sia di tecniche di allevamento.

5. La zootecnia è l’unico settore in grado di sfruttare non solo le aree marginali non utilizzabili per l’agricoltura intensiva (pascoli montani, steppe) ma anche quell’enorme mole di sottoprodotti del settore agricolo-alimentare che altrimenti non troverebbero impiego.

6. Fra le più rilevanti voci dell’export agro-alimentare italiano vi sono due prodotti di origine zootecnica (il prosciutto crudo e il formaggio grana).

E’ per questo insieme di elementi che è oggi necessario affrontare il tema dell’allevamento animale valutando in modo complessivo gli interessi culturali, economici ed umani che ad esso sono sottesi.


A Varsavia primo via libera per lo stop all'aborto di Marco Respinti, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il primo passo verso l’auspicata svolta storica la Polonia lo ha compiuto. La sua legislazione che, seppur a certe condizioni, consente l’aborto è ora un po’ meno impenetrabile. Come peraltro ci si attendeva, venerdì 1° luglio il Sejm, la "Camera bassa" del parlamento di Varsavia, ha votato la proposta di legge d’iniziativa popolare presentata all’aula il giorno precedente che, forte di 600mila firme raccolte dalla Fundacja PRO con l’appoggio dell’associazione civica Piotr Skarga, mire alla cancellazione totale e senza eccezioni dall’ordinamento giuridico polacco dell’interruzione volontaria della gravidanza. Per sostenere la decisione dell’aula, 40 deputati di diversi partiti hanno scelto di rendere alcune testimonianze davvero commoventi, in qualche caso persino personali.

Adesso - come appunto previsto - se ne occuperanno due Commissioni parlamentari, quella che cura le Politiche sociali e familiari, e quella competente per la Salute, quindi il testo tornerà al voto della Camera, a questo seguirà il voto del Senato e infine spetterà al presidente della repubblica pronunciarsi sulla trasformazione in legge della proposta. Contro un suo eventuale veto, il parlamento potrà a quel punto ancora agire un’ultima volta indicendo una votazione d’appello che vincerà solo ottenendo la maggioranza qualificata dei due terzi dei suffragi.

Ci voleva poco, dice però qualcuno, per ottenere un risultato così, comunque iniziale e ancora passibile d’invalidazione: dopo tutto - si osserva - si è trattato praticamente di un atto dovuto, tra l’altro compiuto da un’assise il 90% dei componenti la quale alla vigilia si dichiarava - nonostante tutto - cattolico. Certamente è vero, ma lo è in parte.

Anzitutto perché non è cosa da poco il solo fatto che in un Paese europeo - sia pure culturalmente e religiosamente particolare come la Polonia - scatti il semaforo verde - anche se per ora di routine - di fronte alla proposta di rivedere una legge percepita dalla mentalità (anche giuridica) corrente come "leggera" e dunque "tollerabile". In secondo luogo perché i bastoni tra le ruote qualcuno ha comunque provato a metterceli.

Il dibattito parlamentare di venerdì si è infatti svolto in due momenti successivi. Anzitutto l’aula è stata chiamata a esprimersi sulla mozione dell’Alleanza della Sinistra Democratica (SLD) di rigettare per intero la proposta senza nemmeno discuterla. Quindi, bocciata quell’iniziativa con 254 voti a favore e 151 contrari (11 sono state le astensioni), su proposta del partito Legge e Giustizia (PiS) i parlamentari hanno finalmente deciso, con 261 voti a favore e 155 contrari (e un solo astenuto), d’inviare il testo alle due suddette Commissioni, inaugurando l’iter legislativo.

In occasione del primo voto, gli antiabortisti hanno cioè dovuto trovare la forza e i numeri per superare lo sbarramento eretto dagli ex comunisti spalleggiani in maniera determinante da ben 108 deputati (la maggioranza) del partito Piattaforma Civica (PO), ossia la formazione del primo ministro Donald Tusk.

Sull’aborto, insomma, il partito di governo si è spaccato in due (69 suoi deputati, uniti a 166 del PiS e a 31 del Partito dei coltivatori presenti in aula, hanno votato contro la mozione dell’SLD di cancellare la discussione). Lo stesso premier Tusk, sovente presentato fuori dai confini polacchi come un conservatore, incarna una opzione politica decisamente laicista del tutto allinata alle posizioni polticamente corrette e liberal che l’Unione Europea osserva e promuove su temi "eticamente sensibili".  In una intervista del 1° giugno a Gazeta Wyborcza di Varsavia - il secondo più diffuso quotidiano polacco, di orientamento progressista - Tusk si è del resto espresso a favore della legalizzare delle unioni omosessuali, sostenendo che il suo partito particherà la tolleranza zero verso coloro che il premier polacco definisce "omofobi". Ma evidentemente - il voto sull’aborto lo dimostra - nemmeno dentro il suo partito tutti la pensano in modo uguale, segno evidente del grande e trasversale scontro politico-culturale in atto oggi nel Paese.

Bronislaw Maria Komorowski, presidente della repubblica ed ex (secondo il titolo che dal secolo XV spetta al presidente della "Camera bassa" polacca) Maresciallo del Sejm, vicepresidente del PO cui sull’aborto spetterà il verdetto finale dopo i voti di Camera e Senato, ha dichiarato di non vedere alcuna necessità di modificare la legge giacché, a suo avviso, le disposizioni attuali garantiscono con il «massimo bene politicamente possibile» la protezione della vita nascente senza peraltro costringere le persone ad atti di "eroismo". Un numero enorme di polacchi, comunque, dall’intera gerarchia cattolica del Paese alla Sezione di ostetricia e ginecologia dell’Associazione Cattolica dei Medici Polacchi, che ha inviato una lettera aperta al Sejm in occasione del voto di venerdì, la pensa in modo esattamente contrario.

Né il cartello delle Sinistre - l’SLD, l’associazione ambientalista Green 2004, il Partito delle Donne, la Federazione per le donne e la pianificazione familiare, nonché l'associazione Campagna contro l'omofobia - batte la fiacca. Per l’autunno l’SLD promette una proposta di legge per la liberalizzazione dell'aborto, previa istituzione di corsi di educazione sessuale scolastici sin dalle classi elementari nonché il rimborso agli utenti sia di contraccettivi sia di operazioni di fecondazione in vitro. E per sostenere l’azione ha allestito di fronte al parlamento una mostra fotografica. Gran testimonial è l’ex ministro della salute Marek Balicki (SLD), per il quale la condizione femminile nella Polonia di oggi è identica a quella dell'Arabia Saudita o dell'Iran.

Un importante tassello di questa delicata ma accesa partita a scacchi è infine costituito dallo scenario mediatico. L'unico quotidiano nazionale fino a poco tempo fa attestato su posizioni conservatrici, Rzeczpospolita di Varsavia, è stato acquistato dalla società Grevimedia dell'imprenditore Grzegorz Hajdorowicz il cui consiglio di amministrazione è presieduto da Kasimierz Mohol, ex vicecapo del WSI, i servizi segreti militari attivi durante il regime comunista. C’è chi pronostica un brusco mutamento di fronte, accompagnato da una valanga di licenziamenti, come del resto già successo per altre testate, per esempio Ozon, e trasmissioni televisive. Contro il laicismo massicciamente diffuso nei media - dicono a La Bussola Quotidiana fonti polacche - restano quindi oggi soltanto Radio Maryja diretta a Tórun, nel nord del Paese, da don Tadeusz Rydzyk e il settimanale Gazeta Polska - fondato nel 1993 e diretto a Varsavia da Tomasz Sakiewicz -, che però ha diffusione solo locale.

Il 9 ottobre la Polonia andrà a elezioni politiche. Per il presidente Komorowski è ovvio che i partiti facciano a gara nel mostrasti già da ora più realisti del re in un Paese dove la gente è comunque fortemente sensibile ai "princìpi non negoziabili". Komorowski lo dice con gran cinismo. Noi, senza nemmeno un’ombra di sarcasmo, speriamo abbia ragione.


Minori venduti e sfruttati, le rotte della vergogna di Danilo Quinto, 06-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

Ci siamo già occupati sulla Bussola, lo scorso 9 maggio, dell’immondo commercio dei corpi dei bambini a fini sessuali. La novità in questa materia è rappresentata dal testo di una petizione, firmata da 2,3 milioni di persone, presentata nei giorni scorsi da due organizzazioni internazionali – “ECPAT International” e “The Body Shop” – al commissario europeo Cecilia Malmstrom. ECPAT International” è una rete globale composta da organizzazioni indipendenti, che operano in 75 paesi nel mondo per combattere lo sfruttamento sessuale.

La rete “The Body Shop” opera in 64 paesi. Pur essendoci una direttiva europea che vuole prevenire il traffico di bambini, perseguire i criminali con più rigore ed efficacia, per assicurare che i bambini vittime del traffico ricevano un adeguato supporto, assistenza e protezione che riguarda la prevenzione e la lotta alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime, gli Stati dell’Unione europea, tranne la Danimarca, non l’hanno ancora recepita nei loro ordinamenti. Non esistono metodi standardizzati che rivelino, all’interno dell’Unione europea, i dati sul traffico di bambini. ECPAT sostiene che “sembra chiaro che ogni anno un numero significativo di bambini siano resi vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, sfruttamento del lavoro o per altri lavori degradanti".

Uno studio recente, condotto dal Centro internazionale per le migrazioni e lo sviluppo delle politiche, ha valutato la portata potenziale del traffico di esseri umani per scopi differenti in diversi paesi dell'UE e ha indicato che su 14 paesi che hanno raccolto dati sui minori vittime di traffico, è stato registrato un aumento del numero dei minori identificati: si è infatti passati dagli 837 bambini registrati nel 2003 ai 940 segnalati nel 2007; in Germania, Romania e Paesi Bassi, ogni anno vengono identificate circa 450 vittime della tratta; in Belgio e in Italia, ogni anno, vengono identificate tra le 100 e le 250 vittime.

Il dato più rilevante è costituito dal fatto che sebbene i dati disponibili non siano disaggregati per età, il numero delle vittime di tratta specificamente a scopo di sfruttamento sessuale in 11 paesi dell'Unione europea è aumentato di quattro volte negli ultimi anni, passando da 1.008 persone nel 2003 a 4.247 persone nel 2010. In base ad uno studio sul traffico di bambini in Europa, pubblicato nel 2008 dall'”UNICEF Innocenti Research Center”, vi sono diversi fattori che mettono alcuni gruppi di bambini europei nella posizione di maggior rischio di traffico di esseri umani. In Europa orientale, il gruppo più vulnerabile comprende ragazzi dai 13 ai 18 anni, che sono spinti a lasciare la casa sotto la falsa credenza che la vita sia migliore in un altro paese. Altri fattori importanti che contribuiscono, secondo quanto è emerso dallo studio, includono opzioni limitate per l'immigrazione legale, la povertà, la mancanza di opportunità di lavoro, problemi familiari gravi, abuso di droghe, l'abuso sessuale e violenza domestica.

In Europa occidentale, i bambini particolarmente esposti al traffico sono minori non accompagnati (richiedenti asilo, i bambini immigrati, ecc.) Ad esempio, nel 2010, il governo irlandese ", ha riferito che alcuni bambini che sono scappati dalle cure dello Stato sono stati trovati nei bordelli, ristoranti e case private, dove possono essere state vittime di sfruttamento sessuale (United States Department of State, “Trafficking in Persons Report 2010 – Ireland”). Allo stesso modo, l'”UNICEF Innocenti Research Center” ha suggerito che i migranti e i gruppi minoritari sono resi vulnerabili dalle norme di vigilanza adottate nei confronti dei minori non accompagnati all'interno di centri di accoglienza per immigrati e in centri di assistenza residenziale, dove la qualità dell'accoglienza e della vigilanza è inferiore rispetto alla cura riservata per i cittadini.

Oltre ai minori non accompagnati, i bambini provenienti da diverse etnie (come i bambini rom) e bambini con disabilità sono particolarmente vulnerabili alla tratta in diversi paesi dell'UE. A settembre 2011, la campagna – che è stata realizzata con successo in 20 paesi in tutto il mondo - verrà presentata al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, in Svizzera.


INCHIESTA/ Ecco cosa perdono gli italiani senza quoziente familiare di Luigi Campiglio, mercoledì 6 luglio 2011, il sussidiario.net

Dopo la pubblicazione dell’intervista a Francesco Forte sul quoziente familiare, oggi proponiamo alcune osservazioni puntuali del Professor Luigi Campiglio, uno dei maggiori sostenitori delle politiche a favore della famiglia.

1. Il quoziente familiare è un meccanismo fiscale con cui si realizza una situazione di equità orizzontale, cioè un’imposizione fiscale che tenga conto della differente capacità contributiva di famiglie con differente numero di componenti e figli, oltre che di particolari bisogni della famiglia. Il quoziente familiare ha come riferimento di base il reddito familiare e poiché la famiglia è la fondamentale unità decisionale di spesa, oltre che di offerta di lavoro, la politica fiscale è efficace solo se ha come riferimento il reddito familiare. In Italia un meccanismo simile è applicato per l’erogazione di molti servizi pubblici, ma non ai fini di un’equità orizzontale delle imposte dirette.

2. In Italia il problema dell’equità orizzontale è particolarmente acuto. Nel grafico che segue si mostra la dinamica del reddito familiare prima delle imposte al variare del numero dei figli, così come da noi calcolato sulla base di uno studio sulle famiglie fiscali da parte del Ministero dell’Economia e del Dipartimento delle Finanze.

Appare evidente come il reddito medio totale delle famiglie aumenti all’aumentare del numero di figli, in particolare con il primo figlio, mentre l’aumento del reddito si appiattisce dal secondo figlio in poi: il reddito per componente diminuisce perciò all’aumentare del numero di figli e in teoria ciò dovrebbe essere compensato dal meccanismo delle detrazioni. Per il 2011, la detrazione per il coniuge a carico è di 690-720 euro per redditi fra 15.000 e 40.000 euro e diminuisce in modo rapido oltre i 40.000 euro. Per i figli la detrazione base teorica è di 800 euro per figlio: in realtà, la detrazione effettiva diminuisce all’aumentare del reddito e si dimezza, per un figlio oltre i 3 anni, con circa 40.000 euro. Infine, l’assegno al nucleo familiare per i figli diminuisce invece rapidamente, già a partire da 20.000 euro.
Nel complesso si deve concludere che con l’attuale sistema fiscale esiste un limitato sostegno ai redditi molto bassi, ma non esiste una distinta e identificabile politica familiare, in particolare a favore dei redditi medi, non troppo ricchi ma nemmeno troppo poveri. È evidente perciò l’elevata disuguaglianza economica che l’attuale sistema fiscale provoca. La situazione appare ancora più evidente e grave se consideriamo le famiglie monoreddito con coniuge: il livello di reddito è di circa 20.000 euro e non varia al variare del numero dei figli. Una situazione analoga si osserva anche nel caso delle famiglie monoreddito senza coniuge.
Come caso particolare possiamo considerare la distribuzione familiare del reddito per il Comune di Milano (dati forniti dal prof. Mario Mezzanzanica), interessante perché evidenzia il problema nell’ambito di una grande area metropolitana, con uno scenario più omogeneo sul piano economico e fiscale.

I valori di reddito sono più elevati - rispetto alla media nazionale -, ma ciò comporta un minor livello di detrazioni e quindi una maggiore pressione fiscale sulle famiglie. Per le famiglie bireddito, il reddito lordo è maggior con un ordine di grandezza che probabilmente è proporzionato all’aumentare del numero di figli, ma anche al maggior costo delle abitazioni, mentre tuttavia nel caso delle famiglie monoreddito senza coniuge il reddito familiare non è di molto superiore a quello nazionale, specialmente quando si tenga conto del più elevato costo della vita nel capoluogo lombardo.
Per le famiglie monoreddito con coniuge il sistema fiscale di detrazioni fiscali e di assegni al nucleo per i figli è drasticamente ridimensionato per i redditi medi o medio bassi. Nel caso delle famiglie moreddito senza coniuge con figli la loro condizione di sfavore fiscale appare invece più accentuata e quindi vincolate le opportunità di vita dei minori che in queste famiglie vivono. Questa grave situazione di regressività e disuguaglianza ci pare rappresenti un’indicazione prioritaria per il nuovo Sindaco di Milano.
3. La distinzione fra famiglie bireddito e monoreddito rispecchia il grande cambiamento che si è realizzato fra il XX e il XXI secolo: nel XX secolo era ancora dominante la coincidenza fra reddito familiare e salario del singolo percettore (il maschio breadwinner), mentre alla fine del XX e nel XXI secolo il modello familiare è quello di entrambi i coniugi che lavorano. Ciò avviene sia come conseguenza della maggiore offerta di donne sul mercato del lavoro, sia del fatto che il salario familiare non è più sufficiente al mantenimento della famiglia: siamo cioè in presenza di un inadeguato aumento dei livelli salariali. La politica sindacale rischia perciò di camminare un passo indietro rispetto alla storia, quando invece dovrebbe camminare più solidamente su due gambe: quella della contrattazione d’impresa e quella di una politica familiare.

4. L’aumento della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro rappresenta un’onda lunga della storia, che porta in primo piano la necessità di una strutturale conciliazione dei tempi di vita e di lavoro della donna lungo la sua intera vita professionale: ma perché questa si concretizzi è necessario anche un parallelo aumento della domanda da parte delle imprese. Un’indiscriminata agevolazione a favore dell’offerta delle donne potrebbe produrre il paradossale risultato di diminuire o far mancare l’unico reddito disponibile nelle famiglie monoreddito: ma il mercato non può selezionare la sua domanda di lavoro sulla base della dimensione familiare. Ciò che conta è il reddito familiare e la conseguenza di alcune proposte in circolazione sarebbe solo quella di mantenere invariato il reddito familiare, ma costringendo entrambi a lavorare più ore per il mercato anche nel caso delle famiglie bireddito.

5. È quindi necessaria un’organica e strutturale politica familiare e in questa direzione il modello francese ha dimostrato di funzionare in modo efficace, sia dal lato dell’imposizione fiscale, con il quoziente familiare, sia dal lato degli altri momenti della vita familiare, come quello dell’accoglimento alla nascita, del costo per la cura dei figli, per la loro istruzione, l’acquisto o l’affitto dell’abitazione, la cura di situazioni fisiche particolari. Nel modello francese l’unità di riferimento centrale è il reddito familiare, perché questa è ormai la condizione necessaria per l’efficacia di una politica fiscale e più in generale di welfare, inevitabilmente familiare e centrata sui figli, quando esistono.

6. Non corrisponde ai fatti che il quoziente familiare diminuisce la partecipazione delle donne al mercato del lavoro: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è stata in tendenziale aumento sia in Francia, dove opera il quoziente familiare, sia in Italia dove invece non esiste.

7. In Francia il quoziente familiare è semplicemente il risultato della divisione del reddito familiare per il numero delle parti (componenti): il genitore solo o la coppia valgono 2, il 1° e il 2° figlio valgono 0,5 parti, il 3° vale 1, il 4° e i seguenti valgono 0,5. L’aliquota e l’imposta vengono calcolate sulla base del risultato di questa divisione, cioè del reddito diviso la somma delle parti: l’imposta (progressiva) sulla parte viene poi nuovamente moltiplicata per il numero delle parti per ottenere l’imposta totale della famiglia.
8. Non corrisponde alla realtà che il quoziente familiare favorisce i redditi elevati, per il semplice motivo che il beneficio fiscale viene annualmente plafonato. Supponiamo che nel 2011, in Francia, una coppia sposata con un figlio (2,5 parti) abbia un reddito imponibile pari a X e un’imposta, calcolata sulla base del quoziente, pari a Y. Supponiamo che senza tener conto del figlio l’imposta sarebbe di Z. La differenza d’imposta è pari alla differenza Z-Y, ma il beneficio d’imposta dovuto al quoziente in Francia per il 2011 è plafonato a 2.336 euro e di conseguenza l’imposta finale sarà uguale a (Z-2.336), invece che Y.

9. Il quoziente familiare rappresenta un meccanismo fiscale semplice e intuitivo, difeso dall’intera società francese, indipendentemente dalle convinzioni politiche, e nessun politico correrebbe il rischio di perdere le elezioni tentando di abolirlo. Chi ci ha provato ha dovuto rapidamente ricredersi e tornare sui propri passi.

10. Il quoziente familiare ha il fondamentale vantaggio di essere automatico, senza dipendere dalla discrezionalità politica: l’automatismo del meccanismo di equità orizzontale deriva dal semplice fatto di dividere il reddito familiare disponibile. Il quoziente protegge perciò, almeno parzialmente, le famiglie dal drenaggio fiscale.

11. La famiglia italiana è invece ostaggio della discrezionalità politica: un esempio eclatante è il limite di reddito considerato per essere considerato familiare a carico, fermo a 2.841 euro dal 1995, con ciò alimentando il lavoro nero e precario dei giovani che ancora vivono in famiglia. La politica non dà ma prende alla famiglia, come è avvenuto con la manovra sulle aliquote Inps nel 1996 per finanziare la riforma delle pensioni, per un importo, prelevato dalla gestione degli assegni familiari, degli asili e della Gescal, pari a 8,5 miliardi all’anno (a prezzi 2008)

12. La politica per la famiglia deve essere stabile nel tempo in quanto risponde alla condivisione di lungo periodo di un medesimo bene comune. Occorre quindi essere pragmatici e non ideologici, perché non si può continuare a pensare che il quoziente familiare sia di “destra” e gli assegni familiari di “sinistra”: sono necessari entrambi. È fondamentale che ogni innovazione sia stabile, duri almeno vent’anni.

13. La disuguaglianza d’imposta attualmente esistente fra famiglie con figli e senza figli, famiglie monoreddito o bireddito, è all’origine di un’accentuazione delle disuguaglianze sociali, con ripercussione pervasive sul tenore di vita delle famiglie e dei figli, in particolare quelle monoreddito. A ciò si deve aggiungere come la mancanza di un welfare a favore della famiglia accentui e aggravi il grave fenomeno della precarietà giovanile e pregiudichi le prospettive di crescita e sviluppo del Paese.
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BIOLOGIA/ Quando i chimici suonano le variazioni sul tema “vita” di Paolo Tortora, mercoledì 6 luglio 2011, il sussidiario.net

Un gruppo di ricerca internazionale (composto da americani, francesi, belgi e tedeschi) è riuscito a modificare un batterio comunemente usato nella sperimentazione di laboratorio, in modo da ottenere, a seguito di un processo di selezione complesso e stringente, una variante del medesimo che “preferisce” il clorouracile alla timina e lo incorpora nel DNA. Ne hanno parlato in uno degli ultimi numeri della storica rivista di chimica Angewandte Chemie International Edition.
Come è ormai noto anche ai non esperti, il DNA contiene l’informazione genetica codificata da un “alfabeto” di quattro lettere, per l’appunto le quattro basi adenina, guanina, citosina e timina. Dunque, nel DNA di questo “nuovo” microorganismo, in ogni posizione in cui nella sequenza naturale era prevista la timina, si trova un clorouracile. In realtà, il clorouracile è strutturalmente molto simile alla timina, dalla quale si differenzia per contenere un atomo di cloro in una posizione della molecola dove la timina presenta un piccolo gruppo funzionale detto metile.
Proprio per questa notevole somiglianza chimica il clorouracile è potentemente tossico per tutti gli organismi, uomo compreso, in quanto viene incorporato nel DNA al posto della timina, ma a seguito di ciò causa rotture dei filamenti del DNA medesimo, che hanno conseguenze potenzialmente letali. Paradossalmente, il microorganismo è invece strettamente dipendente dalla disponibilità di clorouracile, in quanto può utilizzare questo, ma non la timina per la sintesi del DNA.
Quali sono le implicazioni di questa scoperta? In qualche senso questo team di scienziati ha inventato un nuovo organismo nel quale le regole base della chimica differiscono da quelle di tutti gli altri per un aspetto essenziale (per l’appunto la natura dei componenti del DNA). Ciò ha implicazioni anche in relazione alle nostre possibili previsioni circa la natura degli esseri viventi al di fuori del nostro pianeta (se ne esistono).
Una domanda che da sempre ci si pone è se questi possano basarsi su una chimica poco o tanto diversa dalla nostra. Il responso che questo esperimento ci dà è che effettivamente sono possibili soluzioni diverse rispetto a quelle che riscontriamo negli organismi terrestri.
La domanda che segue è: ma quanto diverse? L’esperimento in questione ha prodotto in realtà non più che una “variazione sul tema”, che non modifica nell’essenza il quadro generale delle leggi chimico-biologiche che governano gli organismi terrestri. E in verità questa non è una novità assoluta, in quanto è nota l’esistenza di microorganismi che utilizzano un codice genetico leggermente diverso da quello universale, sebbene questo sia una delle caratteristiche più basilari e condivise degli organismi sul nostro pianeta.
L’altro aspetto di interesse riguarda il possibile sviluppo di Ogm che possano restare rigorosamente confinati in un ambiente predefinito. Un organismo che dipendesse in modo stringente da un composto che non esiste in natura, ma che gli viene rifornito dall’uomo, non potrebbe proliferare senza il rifornimento del medesimo e quindi non potrebbe invadere l’ecosistema circostante.
In realtà, il microorganismo ottenuto nella sperimentazione citata non potrà mai fungere da fonte nutrizionale, in quanto, come già accennato, il clorouracile è velenoso per gli altri esseri viventi. Tuttavia il risultato di questa sperimentazione pone le basi teoriche per la produzione di altri organismi, interessanti in una prospettiva nutrizionale, ma che dipendano dal rifornimento di composti non velenosi per l’uomo e al contempo non riscontrati in natura.
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J’ACCUSE/ L'Europa "aiuta" a uccidere i figli indesiderati di Luca Volontè, mercoledì 6 luglio 2011, il sussidiario.net

C’è voluto tempo per avviare una discussione su uno dei temi più caldi in Europa e nell’Occidente: l’aborto. E solo qualche settimana fa ben due documenti ufficiali delle Nazioni Unite hanno voluto ribadire la propria “ossessione favorevole” sul drammatico tema. Eppure nessuno nega che il primo diritto umano, in ogni dichiarazione universale o in ogni convenzione internazionale, rimanga il diritto alla vita. Troppo spesso negli ultimi decenni è stato dato per scontato questo diritto generativo di altri diritti fondamentali, è stato considerato talmente ovvio da evitare ogni discussione puntuale sulla vita del concepito e si è passati così direttamente al diritto della donna ad abortire.
Un altro punto di vista sull’aborto è approdato alla discussione del Consiglio d’Europa; abbiamo deciso di partire da una comune ingiustizia e tragedia: la selezione sessuale (eugenetica) tramite l’aborto. Il 10 maggio del 2010 ho firmato con altri 21 colleghi una Mozione per Risoluzione e Raccomandazione e nell’ottobre prossimo si discuteranno nella Pleanaria di Strasburgo sia il Rapporto, sia le Risoluzioni (impegni per i Parlamenti nazionali) che le Raccomandazioni (impegni che si chiedono ai Governi dei 47 Paesi Membri).
L’iniziativa che ho proposto ai colleghi nasceva dall’analoga decisione all’unanimità che l’intero Parlamento italiano aveva approvato, chiedendo al Governo di intervenire in sede Onu per vietare la selezione sessuale abortiva. Sono noti i drammatici esiti e le conseguenze devastanti che si produrranno in Cina e in India per questa pratica tremenda che aggiunge alla tragedia della morte di un bimbo anche la perfidia dell’eugenetica.
Come mai ci è voluto tanto tempo? Nell’ottobre scorso, alla prima sessione Plenaria dopo la consegna della Mozione, la Commissione pari opportunità ha indicato un Relatore (Mrs. Doris Stump dei Socialisti Svizzeri) la quale ha preparato una prima bozza, discusso nella stessa commissione e infine approvato l’intero impianto del Rapporto, comprensivo di Risoluzioni e Raccomandazioni. L’Aula di Strasburgo quindi la discuterà e approverà nella Sessione dell’ottobre prossimo.
Nell’attuale proposta di Risoluzione, da un lato si mette in evidenza l’ampia possibilità di analisi e “determinazione prenatale” che le nuove tecniche posso mettere a disposizione dei genitori, ma anche la nuova e terribile propensione a un nuovo “trend globale degli aborti selettivi”. Una tendenza che sposta la preferenza a favore dei maschi è “presente anche in alcuni Paesi europei”. Considerando le possibili conseguenze di questa “discriminazione sessuale”, il documento afferma che questo “squilibrio di genere costituisce una grave minaccia per la sicurezza globale. La selezione pre-natale, l’uccisione di femmine porterà nel prossimo futuro a un ulteriore calo radicale dei tassi di natalità, che potrebbe pericolosamente compromettere la sostenibilità di intere economie nazionali”.
La Risoluzione cita anche le conseguenze negative di un futuro maschilista di popolazioni dove gli uomini non sono in grado di trovare moglie e una famiglia. La Raccomandazione chiede che l’uso di diagnosi prenatale debba essere strettamente limitato “per identificare le condizioni mediche e le malattie che possono essere trattate durante la gravidanza” e “non per il sesso e la pratica degli aborti selettivi”.
Un riconoscimento di questa tendenza emergente si trova anche nel fatto che cinque agenzie delle Nazioni Unite si sono unite per rilasciare nel giugno scorso una dichiarazione interdipartimentale su “Prevenire la selezione del sesso”. La dichiarazione, sulla base di un ampio rapporto, fa richiesta di “rinnovare gli sforzi concertati [...] per affrontare la discriminazione di genere profondamente radicati contro donne e ragazze che si trova al centro della selezione del sesso”.
Questo fenomeno non è limitato al sud del mondo, all’Asia orientale e centrale. In Svezia, ad esempio, gli aborti selettivi non sono illegali. Secondo una sentenza del Consiglio nazionale svedese della sanità, le donne possono abortire in base al sesso del bambino. Ciò ha portato alcune donne nella vicina Norvegia, dove gli aborti selettivi sono illegali, a viaggiare in Svezia per abortire i figli indesiderati.
Questa è l’ennesima dimostrazione di come la crisi culturale porta a quella demografico-sociale e infine a quella economica. A ottobre ci sarà un dibattito importante su un tema cruciale e urgente. Un primo passo per tornare, nell’interesse di tutti, a riflettere su quel diritto umano sorgente: la vita.
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ELLAONE ABORTIVA, UN’ALTRA CONFERMA DALLA LETTERATURA SCIENTIFICA - 5 luglio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org

A conferma delle argomentazioni sviluppate da Lucio Romano nell’articolo riportato nell’inserto èVita di Avvenire del 30 giugno 2011 (http://www.scienzaevita.org/rassegne/6509d03a74e24f73b8fc0891eb21c737.pdf)    riguardanti il possibile effetto contragestativo -  e non semplicemente contraccettivo – della cosiddetta “pillola dei  5 giorni dopo”, è da sottolineare anche la descrizione del meccanismo d’azione fatta dall’autorevolissima rivista scientifica “The Medical Letter” (n° 4/2011).

Ancora una volta in letteratura si afferma la possibilità di modificazioni endometriali e conseguente interferenza con l’impianto del concepito.

Questo aspetto pone dei problemi etici che non devono essere facilmente liquidati e anche l’obiezione di coscienza per la mia categoria professionale (farmacisti) è chiamata in causa.

Cristiana Bodria, Consigliere nazionale Unione Cattolica Farmacisti Italiani


GRAN BRETAGNA/ La lotteria dei bambini – Redazione, mercoledì 6 luglio 2011, il sussidiario.net

Si chiama IVF Lottery. Vi possono partecipare omosessuali, single anziani. E' la nuova lotteria made in UK ed è stata pensata da un'associazione inglese che aiuta genitori con problemi di fertilità, la "To hatch". L'idea alla base è quella di spronare e agevolare le coppie che non riescono ad avere figli. Comprando un biglietto da venti sterline l'uno, disponibile online o nelle edicole, le newsagent, si parteciperà a una estrazione con cadenza mensile che potrebbe diventare anche quindicinale. Se il tuo biglietto fa jackpot, vincerai il primo premio che non è un montepremi in denaro ma dà diritto  a un pacchetto (del valore complessivo di 25mila sterline) comprendente un soggiorno in hotel di lusso, cure per la fertilità presso clinica specializzata e convenzionata con l'associazione To Hatch, autista per il percorso dall'albergo al centro medico. L'associazione si era rivolta alla Gambling Commission di Londra e ha ottenuto il permesso di vendere i biglietti per la nuova lotteria. Una volta che si è saputo della "lotteria della fertilità", sono cominciate le discussioni e i pareri contrari. Secondo l'associazione promotrice, è un buon modo per incentivare i trattamenti corretti per la fertilità anche perché i tagli fatti dal governo inglese sulla sanità pubblica è diventato oltremodo difficile ricorrere a questi trattamenti e la gente, che se lo può permettere, deve ricorrere alle cure private. Chi è contrario parla di offesa etica: trasformare una cosa importante come paternità e maternità in una lotteria. Non solo: così facendo si aumentano le illusioni e le false speranze. Intanto il 30 luglio ci sarà la prima estrazione. Dall'altra parte del mondo, precisamente in India, si ricorre allo stesso sistema, la lotteria, ma con scopi decisamente opposti. Essendo un paese con il problema cronico della crescita della popolazione (si stima che per il 2030 l'India diventerà il paese più popolato del mondo, superando anche la Cina che oggi ha 1.336.920.0000 di abitanti) si è deciso di ricorrere alla lotteria della sterilità.
Per adesso è una iniziativa relegata a uno solo Stato, il Rajasthan, che non pago di aver dato via a un programma governativo di sterilità - sterilizzare nei prossimi tre mesi 6000 persone - ha inaugurato una lotteria che mette in palio motorini, automobili ed elettrodomestici. Chi vince verrà sterilizzato e otterrà un bel regalo. Obbiettivo: ridurre il numero medio di figli per donna che attualmente è di 2, 588 pro capite.
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Bello è ciò che piace anche agli eschimesi di Tommaso Scandroglio, 07-07-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il 5 luglio si è svolta in Vaticano l’inaugurazione della mostra ''Lo splendore della verità, la bellezza della carità”, omaggio di 60 artisti - tra pittori, scultori, musicisti, cineasti, fotografi -  a Benedetto XVI per il 60° di sacerdozio.

In questa occasione il Pontefice ha rivolto agli artisti presenti un discorso centrato sul rapporto tra bellezza, verità e carità. Ne estrapoliamo un passaggio: “Cari amici vorrei rinnovare a voi e a tutti gli artisti un amichevole e appassionato appello: non scindete mai la creatività artistica dalla verità e dalla carità, non cercate mai la bellezza lontano dalla verità e dalla carità, ma con la ricchezza della vostra genialità, del vostro slancio creativo, siate sempre, con coraggio, cercatori della verità e testimoni della carità; fate risplendere la verità nelle vostre opere e fate in modo che la loro bellezza susciti nello sguardo e nel cuore di chi le ammira il desiderio e il bisogno di rendere bella e vera l'esistenza, ogni esistenza, arricchendola di quel tesoro che non viene mai meno, che fa della vita un capolavoro e di ogni uomo uno straordinario artista: la carità, l'amore''.


Le parole del Santo Padre sono sempre impegnative per l’ascoltatore, ma in questo caso forse lo sono ancora di più. In un contesto artistico dove si assegna la patente di capolavori a tele tagliate (Fontana), ad escrementi in scatola (Manzoni), a quadrati neri (Malevich), mettere a tema verità e carità ha del rivoluzionario.

Ma cosa significa, come indica il Santo Padre, che non si deve scindere la bellezza dalla verità? Per non farla troppo difficile potremmo dire che laddove c’è il bene c’è la verità. La nostra natura umana, tutto il nostro io tende al bene, e quando ne partecipa nasce la felicità, l’appagamento. In poche parole quando compiamo una buona azione stiamo bene con noi stessi, siamo in genere soddisfatti di ciò che abbiamo fatto.

Ora – come avrebbe detto un ex magistrato – che c’azzecca tutto questo con la bellezza? C'entra assai, perché guarda caso quando guardiamo un tramonto al mare, le vette dei monti, un lago alpino anche in quel caso nasce nel nostro intimo un senso di appagamento, di soddisfazione, di serenità. Allora sia quando facciamo qualcosa di buono, sia quando vediamo, sentiamo qualcosa di bello, l’esito è più meno lo stesso: una certa dose di felicità. E dunque tra bene e bello c’è una parentela stretta. Anzi, anche il bene può essere percepito come bello. Se qualcuno ci racconta un atto eroico, oppure un’azione meritoria assai virtuosa, un gesto di generosità noi d’istinto diciamo “Che bello!”. Ed infatti gli spagnoli dicono “Qué bueno!” per dire “Che bello”. Insomma il bello è il nome del bene, della verità quando viene vissuta, percepita. Non ci può essere bellezza disgiunta dal bene: la bellezza è l’estetica del bene, potremmo concludere.


L’obiezione però è dietro l’angolo: il bello è soggettivo, quindi non ha molto senso legare la verità, che dovrebbe essere un qualcosa di oggettivo, al bello che è relativo alla persona. Il discorso meriterebbe ben altro spazio, ma potremmo rispondere a questa obiezione nel seguente modo: esiste un bello oggettivo e universale che poi fiorisce in modo differente a seconda dei costumi, del tempo, delle sensibilità personali, del grado di istruzione del singolo, etc. Insomma c’è una radice comune del bello. La prova? E’ semplice: basta chiederlo agli eschimesi. Senza perderci troppo per le sconfinate praterie della filosofia estetica, possiamo riportare due esperimenti sociologici che Giacomo Samek Lodovici nel suo “Il ritorno delle virtù” cita e che sono pertinenti al nostro discorso.

In un caso il ricercatore Jean Briggs ha fatto ascoltare Verdi e Puccini agli eschimesi uktu. Ora dovrebbe essere evidente che le musiche di questi due autori nulla dovrebbero aver in comune con la cultura eschimese. Infatti cosa c’è di più lontano dal background culturale di un pescatore che vive tra i ghiacci dall’altra parte del mondo, del Trovatore di Verdi, opera scritta nell’Ottocento da un italiano nato in quel di Roncole? Eppure questo pescatore confidò al ricercatore che quel melodramma era “una musica che fa venir voglia di piangere”. Anche il grande violinista Uto Ughi qualche tempo fa andò in Amazzonia e fece ascoltare con il registratore un concerto per violino e orchestra alle popolazioni indigene che a malapena sapevano chi fosse l’uomo bianco. Pure in quel caso l’ascolto generò stupore e ammirazione.

Ma anche noi a volte siamo eschimesi. A parti rovesciate persino noi occidentali post-moderni ci commoviamo per opere scritte centinaia se non migliaia di anni or sono, da autori assai distanti dalla nostra sensibilità. Ecco infatti il secondo esperimento sociologico. La filosofa Martha Nussbaum racconta che “l’Iliade di Omero è stata usata con successo nel trattamento dei veterani della guerra del Vietnam che soffrivano di trauma da combattimento perché le sue storie di violenza e paura sono riconoscibili al di là delle differenze culturali”. Ve lo vedete un truce marine pluritatuato che invece di impugnare il suo fucile prende in mano l’Iliade e se la legge? Eppure è successo e i risultati ci sono stati. Anche il turpe mostro del film “Frankenstein Junior” d’altronde si commuoveva per le melodie del violino suonato dal suo padrone.


La morale è semplice: siamo fatti tutti allo stesso modo, cioè tutti noi abbiamo la stessa identica natura umana, che tende al bene e al bello. I capolavori sono tali se conservano in sé un alto grado di bellezza oggettiva – di verità direbbe Benedetto XVI – capace di mettere in vibrazione le corde naturali del nostro cuore. Quel cuore che è stato creato in modo identico in tutti noi.
E purtroppo siamo dovuti andare fino al Polo Nord per capirlo.


Dall'eugenetica di fine Ottocento al cosiddetto aborto terapeutico - Concepire l'handicap - Pubblichiamo stralci di uno dei saggi contenuti nel volume "Bioetica come storia", a cura di Lucetta Scaraffia (Torino, Lindau, 2011, 245 pagine, 23 euro), di GIULIA GALEOTTI  (©L'Osservatore Romano 7 luglio 2011)

"Lei ha fatto diagnosi prenatali durante le sue gravidanze?" chiedeva nel 2008 Emanuela Zuccalà all'allora 39enne scrittrice Silvia Ballestra. "Certo", rispondeva con fierezza lei (madre di due bambini), "la prima amniocentesi l'ho fatta a 29 anni, pagando: non mi sarei presa la responsabilità di mettere al mondo un figlio malato". Orgogliosa della responsabilità che tale scelta dimostrerebbe, la Ballestra ha aggiunto che i bambini malati sono "quelli che avrebbero potuto non nascere con una diagnosi prenatale, quelli attorno ai quali ruotano dolore e mancanza di assistenza". Al di là di posizioni giuridiche, politiche o etiche, infatti, la mentalità oggi diffusa ritiene che l'amniocentesi (al pari di altre indagini prenatali) costituisca un comportamento responsabile.
È la riprova di come l'eugenetica rappresenti una realtà che i più leggono come conquista medica e sociale. Su basi nuove, negli ultimi decenni siamo infatti tornati a un'ideologia eugenista di radici ottocentesche, strettamente intrecciata alle nuove acquisizioni tecnico-scientifiche. In nome del progresso e della salute, si interviene sul genere umano. Solo una minoranza trasversale ritiene invece che si tratti di una manipolazione, nella convinzione che l'eugenetica contemporanea costituisca un pericolo. Lungo questa via, infatti, è la nozione stessa di normalità ad essere travolta, essendo una delle più lineari conseguenze di tale approccio la marginalizzazione e la negazione di ogni forma di fragilità e imperfezione. È sotto gli occhi di qualsiasi osservatore, anche del più distratto, il tentativo moderno di escludere la disabilità. Nulla di nuovo, evidentemente: la divisione del genere umano tra persone di serie A (con diritto di nascere e di vivere) e persone di serie B (che di tali diritti sarebbero prive), è un discorso già sentito in età contemporanea.
La situazione attuale, però, si caratterizza per un ulteriore aspetto che parrebbe andare in tutt'altra direzione. La maggior parte dei Paesi occidentali, infatti, presenta legislazioni che tutelano e sostengono la disabilità con modalità prima sconosciute. Accettati e aiutati come mai è avvenuto nella sfera pubblica a livello normativo, i disabili vengono però variamente rifiutati in quella privata. Consapevoli di tale complessa contraddittorietà, riteniamo che il modo di intendere i portatori di handicap costituisca un nodo centrale della nostra cultura. Uno scoglio contro cui rischia di infrangersi l'idea stessa di essere umano. Dietro questa contraddittoria dualità verso i disabili, vi è una storia lunga e complessa. Basti pensare che la scelta di rifiutare i figli malati con l'aborto è stato il primo obiettivo dei movimenti nati a fine Ottocento. La radice di tali movimenti neo-malthusiani, infatti, non fu la realizzazione della libertà di scelta individuale, ma piuttosto l'utopia eugenetica, e cioè il progetto di liberare il mondo dal fardello degli inadatti, degli unfit.
Nel percorso vissuto dalla disabilità mentale in età contemporanea, esistono orientamenti lungo i quali la vicenda si è articolata in termini politici, sociali e scientifici. La disabilità mentale è stata, infatti, prima esclusa, poi perseguitata, quindi subita, successivamente accettata, mentre oggi, per lo più, si fa di tutto per cancellarla. Ovviamente, come di solito avviene nei processi storici, la scansione non è sempre rigida, né sempre cronologicamente consequenziale. Così, giacché gli atteggiamenti verso l'handicap mentale si sono spesso sovrapposti tra loro, forse è opportuno parlare di approcci, più che di tappe. Al di là delle differenze, v'è stato un tratto che ha accomunato questi cinque approcci: la separazione. Seppure attraverso modalità alquanto diverse (riconducibili a mutamenti medici, politici e culturali), il denominatore comune è che chi è mentalmente differente dal modello che è considerato normale, non appartiene al nostro mondo. A guardar bene, infatti, risulta evidente il filo rosso che lega la scelta delle famiglie che vendevano i figli come fenomeni da baraccone e quella di rinchiudere in istituto le persone incapaci di provvedere a se stesse, la sterilizzazione forzata di unfit e enfeebles, la decisione di tanti personaggi celebri di nascondere la disabilità presente nelle loro famiglie e, infine, la "separazione" più netta, l'aborto terapeutico.
Per ripercorrere storicamente la vicenda, occorre partire dalla seconda metà dell'Ottocento quando, in Europa e negli Stati Uniti, si diffonde la nuova "scienza che si occupa di tutti i fattori che migliorano le proprietà innate di una razza e che le porta a svilupparsi per il maggiore beneficio della collettività". È questa la definizione di eugenetica che Francis Galton vergò nel suo Inquiries into the Human Faculty and Its Development (1883). Se anche provvedimenti a scopo eugenetico in senso lato esistevano sin dall'antichità, è ai suoi studi che si fa risalire l'autonoma rilevanza scientifica della disciplina. L'interesse per la "scienza del miglioramento della razza" si diffonde con rapidità grazie alla fortuna del paradigma scientifico darwiniano che con la sua teoria dell'evoluzione della specie fornisce un'importante chiave di lettura anche della realtà sociale. Se pure avrà grande applicazione negli Stati Uniti, il successo dell'eugenetica riguarda soprattutto l'Europa, il continente che tenta di tradurre la propria presunta superiorità politica, culturale e tecnologica in superiorità genetica: il peccato originale che troverà la sua espressione parossistica nel nazismo.
Il successo dell'eugenetica deriva in gran parte dal suo essere riuscita a catalizzare voci di diversa provenienza politica e culturale, calandosi perfettamente nelle istanze del tempo. Migliorare la specie risulta tema caro al conservatore (che vuole preservare il meglio del passato, la specificità di una razza o la peculiarità di una classe), ma anche all'attivista che si batte per una sessualità consapevole, nonché al fautore di politiche socio-assistenziali e sanitarie, in particolare a tutela delle classi lavoratrici. Ciò spiega il prevalere dei tratti apparentemente positivi dell'eugenetica. Questa scienza infatti, accanto alla valenza negativa per cui diventerà poi tristemente famosa, tenta di presentare un volto positivo, con una forte connotazione riformista, volta a migliorare lo status di tutti. Che ciò avvenga limitando e forzando la libertà del singolo non è affatto sentito come disvalore nella misura in cui lo si indica necessario per il (sempre vago) bene comune. In questo senso, la buona stirpe risulta particolarmente ambigua perché si presenta con una faccia positiva, teorizzando il miglioramento delle generazioni future. Al suo apparire l'eugenetica risulta una proposta al passo con i tempi (capace di dare concreta realizzazione a una scienza in costante progresso e orientata a favorire la qualità della vita): è un lato che continua a risultare vincente ancora oggi. Dalla Gran Bretagna l'eugenetica si diffonde articolandosi variamente nelle differenti realtà culturali e sociali. Con l'eccezione inglese, essa si traduce in molti casi in dure disposizioni normative (in Europa, Nord America e Giappone), dando luogo a una serie di aberrazioni, come dimostra la vicenda della svedese Maria Nordin, di famiglia povera e analfabeta. Qualificata come cieca, la bimba fu rinchiusa in riformatorio e a 18 anni, per poterlo lasciare, acconsentì alla sterilizzazione. Assunta da un proprietario terriero, Maria andò da un oculista che le diagnosticò una miopia fortissima. Ottenuti gli occhiali, imparò a leggere e scrivere, studiò e resse la contabilità della fattoria. Oggi scrive articoli. Maria ha rivolto al ministro svedese della sanità una domanda: "mi avete tolto il diritto ad avere bambini solo perché non avevo i soldi per andare dall'oculista?".
La diffusione e la tenuta nel tempo delle normative duramente eugeniste (la legge svedese del 1934, ad esempio, verrà abrogata solo nel 1976), spiegano perché all'indomani della seconda guerra mondiale i tribunali alleati rinunciarono a classificare la sterilizzazione forzata come crimine contro l'umanità. È la riprova evidente di una visione pervasiva e profondamente interiorizzata, al di là delle formali petizioni di principio, capace di assumere costantemente forme nuove ammantate di progresso e tutela del bene comune. Accanto alla predominanza di atteggiamenti di esclusione e persecuzione nei confronti dei disabili mentali, è però storicamente ravvisabile anche la tendenza a una sorta di accettazione passiva: non potendoli più e sempre sopprimere o rendere geneticamente inermi, ci si è orientati verso la loro segregazione. In realtà, la prassi si avviò con finalità costruttive. Fu in particolare all'inizio dell'Ottocento che gruppi caritatevoli iniziarono a fondare istituzioni destinate ai bimbi disabili con il duplice fine di accoglierli e istruirli. Questi istituti, però, finirono per innescare una spirale perversa. Sebbene infatti quanti li fondarono e gestirono continuassero a sostenere che la frequentazione per bambini e adolescenti andasse limitata al tempo necessario per imparare a leggere e scrivere (e, possibilmente, essere avviati a un lavoro), molti genitori si rifiutarono di riprenderseli poi in casa. Il risultato fu che la segregazione divenne la norma, e gli istituti si trasformarono nel modo di concentrare i portatori di handicap tutti insieme rendendoli invisibili e inermi.
Da subito emerse anche l'aspetto economico del problema: lungo tutta l'età contemporanea, infatti, l'atteggiamento verso la disabilità è stato pesantemente caratterizzato dall'incubo dei costi. Aiutare il disabile fu sempre presentato (al di là dei contesti politici e culturali) come una scelta che avrebbe finito per impoverire la collettività, destinando agli improduttivi somme che andavano invece investite in interventi ritenuti più utili e necessari.
Un cambiamento radicale si ebbe quando si passò dal modello educativo al modello medico, che considerava il ritardo mentale in termini meramente patologici e degenerativi. In questo nuovo atteggiamento, si registrano due fasi. Inizialmente, la medicina si occupò di disabilità mentale considerandola in termini meramente ereditari, mentre poi tentò di soffermarsi maggiormente sull'aspetto della cura. In realtà, però, gli approcci mutarono meno di quanto non parrebbe. Considerando la disabilità mentale una condizione ereditaria prima ed un fenomeno da curare ed estirpare con i moderni ritrovati scientifici poi, l'atteggiamento rimase comunque quello di cercare di eliminarla come problema sociale, giudicandola una realtà capace di indebolire e danneggiare la società nel suo complesso.
Un mutamento sostanziale si ebbe solo intorno agli anni Sessanta del Novecento, quando (con non poca fatica) la disabilità trovò spazio nell'ambito dei movimenti per la tutela dei diritti civili. In tale fase, gli Stati Uniti divennero nuovamente il motore propellente per importanti cambiamenti che, poi, si produssero anche in Europa. Se fino ad allora il paradigma dominante era stato espresso in termini di salute e costi economici, ora invece si iniziò a guardare ai disabili da un'ottica diversa, in termini di barriere architettoniche, istituzionali e politiche, ostacoli che, variamente, impedivano loro una vera integrazione.
Se oggi i disabili iniziano a essere pubblicamente visibili per strada, in televisione, al cinema e nei romanzi, è però indubbio che siamo ancora ben lontani da una reale accettazione. Anzi, per certi versi l'attualità testimonia una pericolosa inversione di marcia. Un fenomeno crescente è, innanzitutto, quello delle violenze. Sia pure marginalmente, le cronache raccontano pressoché quotidianamente delle violenze sessuali di cui sono oggetto bambine e giovani disabili, di aggressioni e marginalizzazioni di cui sono vittime molti dei quattro milioni di disabili che vivono in Italia. Nulla di sorprendente, purtroppo: società che, oggi come ieri, affidano alla buona volontà di alcuni e alla tenacia di altri un aspetto così importante della vita comunitaria, rivelano il disprezzo per chi, invece, necessiterebbe di una cura particolare. Del resto, le nuove frontiere della natalità, a livello medico, psicologico ed etico, tentano in vario modo di evitare la nascita di questi bambini, attraverso la trasposizione moderna della Rupe Tarpea. A ben vedere, il rifiuto della disabilità si articola in una vasta gamma di forme. Ad esempio, studi scientifici in diversi Paesi occidentali dimostrano che l'atteggiamento dinnanzi alla cura dei prematuri cambia radicalmente se viene presa in considerazione la futura presenza di handicap.
Il rifiuto è presente quando il figlio è già nato. Basti pensare alla triste e pericolosa moda della chirurgia estetica: i genitori vi sottopongono i figli onde non renderli fisicamente percepibili come disabili. La netta chiusura è quindi presente a gravidanza avviata, nella scelta dell'aborto terapeutico, formula che (mai ci stancheremo di ripetere) è un'autentica ipocrisia. Collegato, v'è il rifiuto della disabilità che emerge dalla diffusa ossessione per i test in gravidanza. Sia chiaro: non contestiamo la diagnosi prenatale in sé (ricorrervi può essere molto importante laddove si perseguano reali finalità prognostiche e terapeutiche, come gli interventi in utero per curare la spina bifida). Il problema è l'uso che viene fatto di tali indagini, l'esplicita deriva che hanno assunto: vi si ricorre non per curare il problema, ma per eliminarlo. Le voci dissenzienti sono messe a tacere. Basti ricordare la piccolissima eco che nel 2007 ebbe in Italia la denuncia di Didier Sicard: su Le Monde scrisse che nel suo Paese la diagnosi prenatale generalizzata si era trasformata in strumento eugenetico.
Stiamo infatti assistendo al sorgere di un nuovo atteggiamento sociale: in Occidente la diagnosi prima della nascita è un obbligo morale a cui non è lecito sottrarsi. Si è così determinato un nuovo giudizio di colpevolezza nei confronti dei genitori dei bimbi disabili, la cui imperdonabile colpa è di aver fatto nascere un figlio "sbagliato" quando esami, test e analisi avrebbero potuto illuminarli. È in nome di questo, ad esempio, che in Francia figli "imperfetti" hanno trascinato in giudizio madri e medici per averli "lasciati" nascere. È dunque alla scienza che affidiamo l'autorità di decidere chi abbia il diritto di nascere, e chi no. Un aspetto correlato è quello della ripercussione che tutto ciò può avere sulla figura del genitore: permettergli di decidere quale figlio far nascere non è in stridente contrapposizione con l'idea di base della genitorialità, e cioè quella dell'amore incondizionato? Cosa ci si aspetta da un figlio che è stato voluto secondo le proprie intenzioni?
Se tramite la fecondazione in vitro un figlio può essere scelto e i suoi caratteri possono essere determinati, non pochi arrivano a ritenere che il genitore non ha il diritto di imporre al nato una disabilità o una tara. Ancora una volta nella storia, l'utopia si presenta ammantata da buone intenzioni, da compassione per le sofferenze umane. Si è messo in moto un movimento di sfiducia verso la vita, quello della ricerca del rischio zero, essendo il figlio un bene di consumo, una via per l'autocompiacimento. In nome della responsabilità dei genitori, la disabilità va scongiurata, e l'eventuale handicap del figlio viene letto come colpa di omissione che va loro imputata. A ben guardare, è un pericoloso ritorno all'antico. Collegata v'è l'idea (anch'essa, come detto, con una lunga tradizione alle spalle) che quanti fanno nascere un bimbo disabile devono assumersi tutte le conseguenze di tale scelta. Costoro non possono, cioè, pretendere che la società, che ha fornito loro gli strumenti per evitare il danno, si faccia poi carico socialmente ed economicamente della loro decisione. Continuiamo a parlare genericamente e acriticamente di handicap, di diversamente abili, di disabilità e quant'altro, perché, ossessionati dall'efficienza e dalla produttività, semplicemente raggruppiamo quanti non rispondono a tali parametri. Chi è inefficiente, malato, improduttivo (verrebbe da dire sbagliato o difettoso) sembra rappresentare un pericolo per la società tutta. Avendo dato ai singoli la possibilità di evitare tali nascite, la società non può poi essere chiamata a farsi carico di vite a metà.
Se già è assurdo che il mondo occidentale, così aperto ai diversi e agli eccentrici, rifiuti la disabilità in quanto diversità, contestiamo che la vita del disabile sia una vita parziale. La tendenza, infatti, è ancora quella di usare appellativi, formule e stereotipi che ignorano la persona, schiacciandosi sulla disabilità. Finché lo sguardo si concentrerà sul limite e sulla mancanza, creeremo società impermeabili all'ascolto. Risulta così anche chiara quella ambivalenza delle società attuali verso la disabilità di cui parlammo in apertura: si aiuta sì il disabile, ma il fine non è tanto di rispettarne l'identità, quanto di renderlo forzatamente normale. "Abbiamo un bel dichiarare con fierezza", nota Miguel Benasayag (La salute a ogni costo, Milano, Vita e Pensiero, 2010, p. 29), "che le nostre società post-moderne non hanno un modello d'uomo e che siamo democratici: eppure pratichiamo un'eugenetica vera e propria! Le nostre società post-moderne procedono alla messa in atto di processi ultra-repressivi che tendono a uniformare la vita riconducendola a modelli egemonici. La biodiversità è attaccata anche sul terreno dell'umano. E questo, beninteso, in nome della massimizzazione del bene di tutti, in una società che si appresta a tollerare tutte le differenze... il giorno in cui non ce ne sarà più nessuna".