domenica 2 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: sia liberato il vescovo di Mosul e si fermi la volenza in Terra Santa
2) RADICALI, UNA FORZA CONTRO LA CHIESA E CONTRO IL POPOLO, di Mons. Luigi Negri
3) VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA - Politica, cattolici, testimonianza e missione
4) Il Regno Unito propone di riconsiderare gli ibridi e il ruolo dei papà
5) L'incandescenza della Parola che crea, di Mons. Ravasi
6) Non si gioca con la vita, la politica rispetti l'etica, di Mons. Alessandro Maggiolini
7) Forse prendo il Cav. come ministro della salute, di Giuliano Ferrara
8) Si scardinarono le ipocrisie ma fu presto un’illusione ideologica, di Davide Rondoni


02/03/2008 11:28
VATICANO
Papa: sia liberato il vescovo di Mosul e si fermi la volenza in Terra Santa
Appelli di Benedetto XVI che all’Angelus esprime tristezza per il rapimento di mons. Rahho ed esorta a proseguire negli sforzi per dare un futuro all’Iraq. Ad israeliani e palestinesi chiede di fermare la spirale di violenza: solo mostrando rispetto per la vita umana, la terra di Gesù potrà avere pace.


Città del Vaticano (AsiaNews) - Il dolore del Papa per la drammatica realtà del Medio oriente, con gli scontro nella Striscia di Gaza ed il rapimento del vescovo di Mosul – per il quale aveva già espresso dolore all’indimani del sequestro - si è espresso oggi al momento della recita dell’Angelus, quando, rivolgendosi ale 40mila persone presenti in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha lanciato due appelli dedicati alla angosciante situazione della regione.
“Con profonda tristezza – ha detto dopo la recita della preghiera mariana - seguo la drammatica vicenda del rapimento di mons. Paulos Faraj Rahho, arcivescovo di Mossul dei Caldei, in Iraq. Mi unisco – ha aggiunto - all’appello del patriarca, il cardinale Emmanuel III Delly, e dei suoi collaboratori, affinché il caro presule, oltretutto in precarie condizioni di salute, sia prontamente liberato”.
“Elevo, in pari tempo, - ha prosegito - la mia preghiera di suffragio per le anime dei tre giovani uccisi, che erano con lui al momento del rapimento. Esprimo, inoltre, la mia vicinanza a tutta la Chiesa in Iraq ed in particolare alla Chiesa caldea, ancora una volta duramente colpite, mentre incoraggio i pastori e i fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza. Si moltiplichino gli sforzi di quanti reggono le sorti del caro popolo iracheno, affinché grazie all’impegno e alla saggezza di tutti ritrovi pace e sicurezza, e non venga ad esso negato il futuro a cui ha diritto”.
Dopo l’Iraq, la Terra Santa. “Purtroppo – ha detto ancora il Papa - in questi ultimi giorni la tensione tra Israele e la Striscia di Gaza ha raggiunto livelli assai gravi. Rinnovo il mio pressante invito alle autorità, sia israeliane che palestinesi, perché si fermi questa spirale di violenza, unilateralmente, senza condizioni: solo mostrando un rispetto assoluto per la vita umana, fosse anche quella del nemico, si potrà sperare di dare un futuro di pace e di convivenza alle giovani generazioni di quei popoli che, entrambi, hanno le loro radici nella Terra Santa”.
“Invito tutta la Chiesa – ha concluso - a elevare suppliche all’Onnipotente per la pace nella terra di Gesù e a mostrare solidarietà attenta e fattiva ad entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese”.



RADICALI, UNA FORZA CONTRO LA CHIESA E CONTRO IL POPOLO
dalla Newsletter de www.iltimone.org del 29 febbraio 2008
di mons. Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro
Benedetto XVI ha affermato a Verona che in Italia la fede e la cultura del popolo sono state sempre profondamente intrecciate; infatti, la fede cattolica ha generato un tipo di cultura e di socialità con riferimenti fondamentali che hanno resistito per secoli: la centralità della persona, la sacralità della famiglia, la sacralità della generazione, la libertà di coscienza, la libertà di cultura e di educazione.
Per questa sostanziale cultura popolare i cristiani hanno “resistito” in profondità alle varie degenerazioni di tipo totalitarie, all’est come all’ovest. I comunisti che sono stati gli avversari storici dei cattolici hanno certamente ingaggiato, con i cattolici, un confronto duro, una lotta, ma indubbiamente, come ha ricordato recentemente il Card. Bagnasco, alcuni valori delle due “chiese”, per dirla come Gramsci, erano singolarmente prossimi anche nella varietà delle motivazioni e delle giustificazioni.
I radicali no, sono un’altra cosa; non sono una cultura di popolo, sono un movimento borghese, aristocratico culturalmente, economicamente ben dotato, che hanno ingaggiato una lotta ad oltranza per la fine del cattolicesimo, quindi per la fine della cultura popolare in Italia, iniziando e portando a termine quella che il buon Pasolini chiamava una “omologazione del popolo italiano in senso laicista”. Le battaglie che portano il loro nome, come la legge sul divorzio, hanno sottoposto anche dal punto di vista laico la sacralità o la definitività di un rapporto agli istinti, agli umori, alle convenienze, agli interessi e hanno distrutto quella realtà della famiglia che costituisce, oltre che l’ambito generativo, l’ambito di educazione dei bimbi, dei ragazzi, dei giovani. La situazione gravissima in cui versa la maggior parte della gioventù del nostro paese è la consistente prova del disastro della legge sul divorzio.
La legge sull’aborto, oltre ad impedire la nascita di quattro milioni di italiani, ha sostanzialmente fatto diventare la vita un problema tecnico, aprendolo alle più diverse manipolazioni, sottolineando in maniere esclusiva il diritto della donna contro qualsiasi altro diritto, ovviamente quelli di Dio, ma anche quelli della famiglia e della società.
Le battaglie per la liceità della manipolazione della vita, per l’eutanasia e quant’altro cercano di portare a termine questa disintegrazione della cultura cattolica del popolo italiano.
La libertà delle droghe ha teso ad identificare nell’immaginario comune moralità e immoralità.
Per questa grande opera i radicali hanno avuto a disposizione l’enorme strumentazione massmediatica che è servita da cassa di risonanza per questa mentalità che si dice evoluta, ma che sostanzialmente è materialista ed edonista. La sinistra comunista si è accodata quasi sempre a queste battaglie che non nascevano dalla sua identità profonda, ma che assumeva per ragioni di convenienza politica. Le battaglie radicali sono state anche le battaglie dei comunisti, perché i comunisti hanno capito che soltanto così sarebbero arrivati al potere e avrebbero potuto gestire il potere.
Aveva ragione il più acuto studioso di problemi del comunismo e del cattolicesimo in Italia, Augusto Del Noce, che nei suoi due volumi straordinariamente attuali - Il suicidio della rivoluzione e Il Cattolico comunista - diceva che i comunisti per arrivare al potere avrebbero venduto i loro valori fondamentali per trasformarsi in un grande partito radicale di massa.
L’ingresso di rappresentanti del Partito Radicale nelle liste del Partito Democratico compie questa sostanziale identificazione della forza egemone della sinistra con questa mentalità della quale, tutto si può dire, meno che sia una mentalità del popolo e al servizio del popolo.
Le conseguenze di questa mia posizione sono così evidenti che non vale nemmeno la pena di esplicitarle.
*Vescovo di San Marino-Montefeltro


VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA
a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello
Politica, cattolici, testimonianza e missione

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - “Vedete, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli” (Deuteronomio 4,5).
Questa dichiarazione di Mosè al popolo d’Israele dovrebbe essere meditata dai politici cattolici che ritenessero di prescindere dalla propria identità in nome del superamento di “steccati”. Potremmo attualizzare le parole: “quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli”, traducendo “quella sarà la vostra identità dinanzi agli altri”.
Se partito viene da parte, come potrebbero in esso stare insieme “due parti”, due identità sostanzialmente differenti e contrapposte, continuando a ritenere di essere una sola?
Si risponde: in nome della laicità. Bene: quale laicità?
Per la dottrina sociale cattolica la laicità è autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica, ma non da quella morale (cf. “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” n. 6). Questa è la “sana laicità” o la “laicità benintesa” come ha spesso ricordato il Santo Padre Benedetto XVI, altrimenti è “malintesa” e fraintesa come “pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili” (Ibidem, n. 3).
Non a caso si sono moltiplicate, in vari ambiti sociali, le richieste di ‘codici etici’: essi, in realtà, non sono che il “rientro dalla finestra”, purtroppo in versione caricaturale, del Decalogo del Sinai messo “fuori dalla porta” da certo ideologico laicismo nostrano ed europeo.
Ritorna, in forma decentrata, l’etica dello Stato di hegeliana memoria che sostituì quella di Dio e si divinizzò nelle forme statuali naziste e comuniste. Su tutto questo vorremmo che meditassero quei cattolici così pronti, in modo irenico e ideologico, a promuovere, sui giusti valori della pace e della moratoria per la pena di morte, meeting e moratorie con chiunque, ma riottosi a unirsi con gli stessi fratelli di fede per “osservare e mettere in pratica nel paese” almeno l’etica del Sinai, se non quella del Discorso della Montagna.
Non dovrebbero dare testimonianza a quest’etica, come alla radice di una Nazione, quale l’Italia, e di un Continente quale l’Europa, ormai sempre più territorio di missione e di nuovo annuncio del Vangelo? Una falsa concordia, frutto di compromessi identitari, in nome dei valori, primo tra tutti quello della falsa pace costruita dall’uomo, e secondo i dettami dei poteri forti del mondo, è opera dell’Anticristo, come prevedeva Solov’ev all’inizio del secolo scorso.
Il significato profondo dell’essere cristiani, oggi come sempre, è rappresentato dal binomio imprescindibile di unità e missione. La ricerca dell’unità tra i credenti in Cristo, “perché tutti siano uno”, e la missione, l’evangelizzazione come elemento irrinunciabile del vivere cristiano, come adempimento del mandato di Cristo, devono caratterizzare ogni esistenza cristiana in ogni ambito, anche quello politico. L’evangelizzazione è oggi assolutamente prioritaria ed essenziale in un’Europa scossa da una crisi di fede senza eguali nella storia, come negli altri continenti: “La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio dalla sua venuta uno sguardo d'insieme all'umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio” (Redemptoris missio,1).
Qui continua il discorso di Mosè: “I quali (popoli) udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,8).
È necessario superare quel “rispetto umano” che fa “gridare all’ingerenza” da parte laica, o all’integralismo dalla stessa parte cattolica, ogni qual volta un cattolico continua a essere tale, anche se è seduto in uno dei parlamenti delle democrazie del mondo. Come ribadito ai Padri della Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, dal Santo Padre Benedetto XVI: “Dovete essere attenti affinché le vostre opere ed istituzioni conservino sempre una chiara ed esplicita identità, perché il fine della vostra attività […] non rimanga ambiguo ed oscuro, e perché tante persone possano condividere i vostri ideali e unirsi a voi efficacemente e con entusiasmo” (Discorso del 21 febbraio 2008).
Possibile che ciò non valga per i cattolici impegnati in politica? Altro che lasciare fuori dalla competizione politica i valori etici! Ad una presenza, soltanto a questa, sono chiamati i cattolici, in una visibile unità, ovunque si trovino nel mondo. Essere testimoni autentici del Vangelo è la missione a cui chiama il battesimo ricevuto, e nessun credente in Cristo può sottrarsi al dovere supremo di annunziare Cristo a tutti i popoli. (Agenzia Fides 28/2/2008; righe 59, parole 828)


Dignità umana in bilico
Il Regno Unito propone di riconsiderare gli ibridi e il ruolo dei papà

di Padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 2 marzo 2008 (ZENIT.org).- Una nuova proposta di legge sulla fecondazione in vitro nel Regno Unito ha suscitato le critiche della Chiesa e degli istituti di bioetica, per il rischio di un allentamento della normativa di settore. Il Human Fertilization and Embryology Bill ha concluso il suo iter presso la Camera dei Lord e sarà presto avviato l’esame dalla Camera dei Comuni.

Il disegno di legge riguarda alcune “questioni fondamentali sulla vita e la dignità umana”, si avverte in un messaggio pastorale reso noto il 19 febbraio dal cardinale Cormac Murphy-O’Connor a nome dei vescovi di Inghilterra e Galles.

Nel messaggio, l’Arcivescovo di Westminster osserva che tra le modifiche contemplate dalla proposta vi è l’estensione della possibilità di svolgere ricerca scientifica sugli embrioni umani, nonché persino la possibilità di creare a fini di ricerca embrioni ibridi animal-umani. Essa prevede anche la rimozione di una norma attualmente vigente, che impone, al momento di prendere in considerazione una richiesta di fecondazione in vitro, di tenere conto dell’esigenza dei bambini ad avere un padre.

Il cardinale Murphy-O’Connor, dopo aver espresso queste preoccupazioni, chiede che ai parlamentari sia garantita la libertà di coscienza al momento del voto.

Secondo le notizie stampa, alcuni membri del Governo del Partito laburista, hanno criticato la mancanza di un voto di coscienza sul disegno di legge. I ministri Ruth Kelly e Paul Murphy sono i principali promotori della libertà di voto dei parlamentari, riferisce il quotidiano Observer del 27 gennaio. Secondo l’articolo, il Partito laburista consente attualmente il voto di coscienza su emendamenti relativi alla questione dell’aborto.

Vita geneticamente modificata

Una delle organizzazioni che si sono attivate contro le modifiche proposte è l’istituto caritativo aconfessionale “Christian Institute”. Interrogato sul contenuto della proposta di legge, l’Istituto ha osservato che, oltre a consentire la creazione di embrioni ibridi e di famiglie senza padre, prevede anche un allentamento delle restrizioni sulle possibilità di ricorrere alla diagnosi embrionale.

Se approvato, il disegno di legge consentirà la diagnosi genetica in vitro di embrioni, per selezionare quelli compatibili con fratelli già nati, in vista della donazione di organi per curarne la malattia. Il Christian Institute ha anche avvertito che la normativa proposta non definisce quali tessuti embrionali sarebbe possibile usare, aprendo così la strada anche alla raccolta di organi.

Un’altra preoccupazione relativa al contenuto del disegno di legge è che consentirebbe la creazione di embrioni umani utilizzando due madri genetiche e un padre. Questo si potrebbe verificare nel caso in cui una donna presenti difetti nel mitocondrio dei suoi ovuli, ovvero nella parte della cellula che circonda il nucleo. In questi casi il nucleo verrebbe trasferito in un ovulo sano di un’altra donna.

Un'altra organizzazione che ha criticato la proposta di legge è Human Genetics Alert (HGA). In una lettera inviata il 20 dicembre al sottosegretario per la salute Dawn Primarolo, il direttore di HGA, David King, ha sottolineato che il disegno di legge consentirebbe modificazioni genetiche agli embrioni umani: un primo passo verso la creazione di “bambini OGM”.

La normativa infatti prevede la rimozione del divieto, attualmente contenuto nella legge che disciplina la fecondazione in vitro, di qualsiasi modificazione genetica di embrioni umani. “È la prima volta che un Paese ha ufficialmente sancito l’ingegneria genetica degli embrioni umani come il primo passo verso l’autorizzazione alla modificazione genetica degli esseri umani”, ha osservato King.

La lettera spiega che a causa delle sue implicazioni eugenetiche, la modificazione genetica degli esseri umani è stata trattata, nel diritto internazionale, in modo molto simile alla clonazione riproduttiva e pertanto largamente bandita.

Embrioni come materia prima
Le modifiche proposte dal Governo sollevano “enormi preoccupazioni per l’eugenetica e la visione degli embrioni umani e dei bambini come materie prime”, afferma King. L’uso delle modificazioni genetiche potrebbe consentire ai genitori di generare dei superbambini, trasformando dei soggetti umani in oggetti.

Ma già prima dell’approvazione della nuova legge, le autorità di regolamentazione stanno allentando le restrizioni sul trattamento degli embrioni. La Human Fertilization and Embryology Authority ha concesso il permesso ad un gruppo di scienziati di creare il primo embrione metà animale e metà uomo, secondo quanto riferito dalla BBC il 17 gennaio.

È stata concessa l’autorizzazione a due centri, il King’s College London e la Newcastle University, di svolgere ricerca nell’arco di un anno. Il dottor Stephen Minger e i suoi colleghi del King’s College London hanno intenzione di creare ibridi per studiare le malattie che notoriamente hanno cause genetiche, secondo la BBC. Gli embrioni saranno creati e distrutti nell’arco di qualche giorno di esistenza, al fine di produrre le cellule staminali che verranno utilizzate dagli scienziati per la ricerca.

John Smeaton, direttore nazionale della Society for the Protection of Unborn Children, ha definito “disastrosa” questa autorizzazione, in un comunicato stampa del 17 gennaio.

“Si sta creando una categoria di esseri subumani, per essere usata come materia prima a beneficio di altri membri della famiglia umana; di fatto si tratta di una nuova classe di schiavi”, ha dichiarato.

Forti proteste contro la creazione di ibridi animal-umani sono state espresse dai vescovi della Scozia, nel dibattito sul Human Fertilization and Embryology Bill.

In una lettera pastorale, scritta a gennaio dall’arcivescovo Mario Conti, Presidente della Joint Bioethics Committee, a nome degli arcivescovi e vescovi della Scozia, ha richiamato l’attenzione sui danni arrecati alla dignità umana da questo processo.

L’arcivescovo Conti ha riconosciuto il desiderio di aiutare le persone malate, “ma non si dovrebbe mai cercare di fare del bene facendo del male”, ha osservato.

Un altro prelato scozzese, il vescovo Philip Tartaglia, ha pronunciato, il 20 gennaio, un’omelia in cui ha criticato la creazione degli ibridi animal-umani. Monsignor Tartaglia, nella St. Mirin’s Cathedral della diocesi di Paisley, ha lamentato i continui attacchi delle istituzioni contro la vita umana non nata. Definendo la proposta una “impresa perversa” ha detto che la Chiesa non è contraria alla scienza, avendo questa molto da dare per migliorare il mondo.

“Ma la scienza è capace anche di distruggere l’umanità e il mondo se essa non è guidata da una sapienza superiore e da decisioni di coscienza ben informate di uomini e donne di buona volontà e di fede”, ha aggiunto monsignor Tartaglia.

Due genitori sono necessari

Anche la proposta di eliminare l’obbligo di tenere conto dell’esigenza dei bambini ad avere un padre è stata oggetto di forti censure. La baronessa Ruth Deech, presidente della Human Fertilization and Embryology Authority dal 1994 al 2002, ha formulato le sue critiche.

In un articolo d’opinione pubblicato dal quotidiano Times il 17 gennaio, la baronessa Deech ha osservato che l’obbligo di considerare la necessità di un padre verrebbe sostituito dalla proposta normativa con la “valutazione della necessità di un tutoraggio di sostegno”.

La Baronessa ha definito questa modifica “inaccettabile e inadeguata”, perché difficile da interpretare e perché non in grado di salvaguardare il benessere del bambino. “Buona parte della ricerca ha dimostrato che la figura del padre contribuisce sostanzialmente allo sviluppo di un bambino e che quando essa viene a mancare i bambini ne risentono negativamente”, ha osservato.

“Vorremmo tutti vedere donne realizzate nel loro desiderio di diventare madre, ma non possiamo trascurare il contributo che l’altra metà del genere umano apporta allo sviluppo della generazione successiva”, ha proseguito.

“Nel cuore della famiglia c’è quello straordinario legame fra padre, madre e figli”, ha osservato l’arcivescovo Vincent Nichols, in un articolo d’opinione pubblicato sul quotidiano Telegraph del 23 dicembre.

La normativa proposta rimuove l’obbligo di qualsiasi riconoscimento della necessità di un padre nell’ambito della nascita di un figlio, ha osservato. “Eppure la paternità va ben oltre la mera donazione dello sperma. Essa implica la donazione di tutto un complesso di elementi vitali, la cui influenza non può essere trascurata”.

“Il futuro della nostra società passa attraverso la famiglia”, ha concluso l’arcivescovo Nichols. Un futuro veramente lugubre se nelle prossime settimane la Camera dei Comuni dovesse approvare le proposte del Governo.


L'incandescenza della Parola che crea
ROMA, sabato, 1° marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo scritto da monsignor Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, e apparso su “L'Osservatore Romano” (17 febbraio 2008).

* * *
di Gianfranco Ravasi
Kant era convinto che "il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura", mentre Goethe non aveva esitazione nel considerare la Bibbia come "la lingua materna dell'Europa". Lo è stato e lo è tuttora in forme anche semplici e quotidiane, attraverso quella spontaneità lessicale che si esprime in locuzioni che attingono al dettato e all'immaginario della Parola sacra: "fare da Marta e Maria", "la pazienza di Giobbe", "andare da Erode a Pilato", "lavarsene le mani", "cedere per un piatto di lenticchie", "essere una colomba", "essere uomo di poca fede", "aspettare la manna dal cielo", "il figlio prodigo", "le cipolle d'Egitto", "essere un Cristo in croce", "chi semina vento raccoglie tempesta", "essere il beniamino di qualcuno", "nessuno è profeta in patria", "fare un'ira di Dio", un'"apocalisse" e così via in tutte le lingue con modalità e allusioni diverse. Un linguista importante come Gian Luigi Beccaria segnalava appunto che "la Bibbia è il libro che ha dato parole all'Europa cristiana: singole voci, soprattutto locuzioni idiomatiche".
Noi, però, ora vorremmo attraverso un percorso solo emblematico illustrare il rilievo che le Sacre Scritture hanno esercitato nell'arte e, più in generale, nella cultura dell'Occidente, proprio perché esse stesse sono intessute con un linguaggio simbolico le cui parole sono già in sé immagine. Affrontare un orizzonte così vasto e complesso impone una semplificazione che cercheremo di comprimere all'interno di un dittico ideale. Nella prima tavola vorremmo alludere a una particolare dimensione della Bibbia che è spesso oggetto di considerazione ai nostri giorni, così com'era invece disattesa in passato: intendiamo riferirci alla qualità estetica delle Sacre Scritture. Tante sono le vie che possono illustrare questo aspetto di bellezza. Noi ora ci accontenteremo di approfondire solo il tema della grandezza della parola. Nella seconda tavola di questo dittico esalteremo, invece, l'influsso esercitato dalla Bibbia all'interno della storia culturale dell'Occidente in tipologie multiformi e complesse.
Efficacia della parola divina
Sappiamo che per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è la radice della creazione ove espleta una funzione "ontologica". Infatti, si può quasi affermare che entrambi i Testamenti si aprono con la Parola divina che squarcia il silenzio del nulla. Bereshît... wajjômer 'elohîm; jehî 'ôr, Wajjehî 'ôr, "In principio, Dio disse: Sia la luce! E la luce fu" (Genesi, 1, 1.3). Così si schiude la prima pagina dell'Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento l'ideale apertura potrebbe essere quella del celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: En archè en ho Lògos, "In principio c'era la Parola" (1, 1). L'essere creato non nasce, perciò, da una lotta teogonica, come insegnava la mitologia babilonese (pensiamo all'Enuma Elish), bensì da un evento sonoro efficace, una Parola che vince il nulla e crea l'essere.
Canta il Salmista: "Dalla Parola del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito... perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette" (Salmo 33, 6.9).
La Parola divina è, però, anche alla radice della storia, come sorgente di vita e di morte: "Mandò la sua Parola e li guarì, li scampò dalla fossa (...). Egli invia la sua Parola e li fa perire (...). Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua onnipotente Parola dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si slanciò (...) portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile" (Salmi, 107, 20; 147, 18; Sapienza, 18, 14-15). La Parola divina sostiene e giudica, quindi, anche la trama storica col suo tessuto di vicende ed eventi perché "retta è la Parola del Signore e fedele ogni sua opera" (Salmo, 33, 4). Ma questa stessa Parola interpreta il senso ultimo della storia: è, quindi, la radice della Rivelazione.
Significativa, al riguardo, è la scelta aniconica di Israele che ha la sua espressione più grandiosa (e drammatica) nel primo precetto del Decalogo: "Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto terra" (Esodo, 20, 4). Via gli occhi dal vitello d'oro, dunque! Una scelta, dicevamo, drammatica non solo per un popolo così affamato di realismo e di simboli com'è quello ebraico di matrice semitica, una cultura realistica e simbolica al tempo stesso ma per la stessa storia dell'arte della quale dovremo poi interessarci. In bocca a Mosè è messa dal Deuteronomio una frase folgorante per illustrare l'esperienza sinaitica: "Il Signore vi parlò dal fuoco: una voce di parole (qôl debarîm) voi ascoltaste; non un'immagine (temûnah) voi vedeste, solo una voce (qôl)" (4, 12).
In questa linea che privilegia la Parola, la Bibbia è chiamata dalla tradizione giudaica miqra', cioè "lettura", laddove si ha il rimando al verbo qara' della "proclamazione", così come accade per il Corano, vocabolo che contiene la stessa radicale verbale. In questa luce il rilievo "sonoro" del testo biblico è non solo una questione letteraria ma anche teologica. Suggestivo sarebbe a questo punto scoprire la dimensione estetica "fonetica" della Parola sacra: si ricordi, tra l'altro, che la metrica ebraica non è quantitativa ma qualitativa, cioè affidata all'impasto cromatico armonico e persino descrittivo-denotativo dei suoni. A esempio, la professione d'amore della donna del Cantico dei cantici è affidata al filo musicale del suono "î" che indica la personalità dell'io e dell'"ô" che rimanda al "lui" dell'amato: dodî lî wa'anî lô... 'anî ledôdî wedôdî lî, "il mio amato è mio e io sono sua... io sono del mio amato e il mio amato è mio" (2, 16; 6, 3). La Parola è, dunque, voce che parla il linguaggio di Dio.
Ma la Parola si cristallizza anche nel Libro per eccellenza, la Bibbia. È così che il Nuovo Testamento ama l'espressione graphè/graphài per indicare la Parola di Dio. Si ha qui una puntualizzazione del complesso rapporto tra infinito e contingente, tra Lògos e sàrx. La Parola, infatti, deve comprimersi nello stampo freddo e limitato dei vocaboli, delle regole grammaticali e sintattiche, deve adattarsi alla redazione di autori umani. È l'esperienza che tutti i poeti vivono nella sua drammaticità e tensione. Goethe nel Faust confessa che das Wort erstirbt schon in der Feder, sì, la parola muore già sotto la penna. E nel suo Flauto di vertebre Majakowski ribadisce: "Sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole", mentre Borges più generalmente riconosce che el universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido.
Eppure questa rigidità non riesce a raggelare e a spegnere l'incandescenza della Parola. Esemplare è il caso del profeta Geremia che "prende un rotolo per scrivere e scrive" su ordine divino gli oracoli del Signore (36, 2). Ma dopo che il re Ioiakim, leggendo quel rotolo, ne "aveva lacerato col temperino da scriba e aveva gettato nel fuoco" le colonne di quel testo (36, 23), il profeta non avrà esitazione su comando divino a far rinascere gli stessi oracoli mostrando così che - come dichiarava Isaia (40, 8) - "secca l'erba, appassisce il flore, ma la Parola del nostro Dio dura in eterno". È anche questa un'esperienza che il poeta analogamente vive, convinto com'è che, una volta detta, la parola autentica non muore ma proprio allora comincia a vivere: "A word is dead/ when it is said, / some say./ I say it just/ begins to live/ that day" (così la poetessa americana Emily Dickinson). È la forza "performativa" e non meramente "informativa" della Parola che ovviamente nella poesia celebra il suo trionfo e che ha il suo apice nella Scrittura Sacra.
Kènosi e splendore della parola divina
Come accade per l'Incarnazione, anche la Parola rivela due volti, quello della "carne", del limite, della finitudine, e quello del divino, dell'efficacia creatrice, della teofania. A questi due volti, che in pratica continuano il discorso sopra abbozzato, dedicheremo ora la nostra attenzione. La Parola di Dio - come anche la poesia - si avvale di un mezzo "kenotico", quello di una lingua, di un lessico, di regole e fonemi. È la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile. È qualcosa di analogo alla kènosis del Verbo di Dio così come è descritta nell'inno paolino di Filippesi: "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina..., svuotò (ekènòsen) se stesso, assumendo la condizione di servo" (2, 6-11). La debolezza della parola umana è stupendamente illustrata da Isaia che, in una personificazione di Gerusalemme vinta, così canta: "Prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole, sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio" (29, 4).
La Bibbia si affida alla povertà espressiva di una lingua pietrosa come il deserto, scarna e scabra: è l'ebraico classico che può ricorrere, tra l'altro, soltanto a un arsenale lessicale limitato, composto di soli 5.750 vocaboli, Oppure si basa sul greco koinè, ben più modesto della lingua della classicità ellenica e il lessico greco neotestamentario ricorre a un patrimonio di soli 5.433 vocaboli. Anzi, la kènôsis procede fino al punto che il nome più importante, quello divino, si contiene in quattro consonanti: JHWH, che rimangono mute, impronunziabili. Al vertice di questo assottigliarsi della Parola, nella miseria umana abbiamo l'esperienza straordinaria del profeta Elia al monte Horeb-Sinai. Dio non appare nel "vento impetuoso e gagliardo da spaccare le rocce", né si configura nel terremoto o nel fulmine di una tempesta assordante. Ma, come dice l'originale ebraico, il Signore si nasconde in una qôl demamah daqqah, cioè in "una voce di sottile silenzio" (Primo libro dei Re 19, 11-12). È quasi il punto zero dell'annientamento della Parola, eppure quel silenzio è "bianco", cioè racchiude in sé tutti i suoni, le lettere, le sillabe, le parole. È il "mistero", termine che nella sua radicale greca (myein) suppone il tacere, il chiudere le labbra, non per un'assenza di significati ma per una presenza di vita e di persona.

È così che la Parola divina - come per analogia anche la parola poetica - rivela la sua potenza. Si manifesta come un mezzo sontuoso e, per usare un'espressione di Teilhard de Chardin, si fa "diafanica", cioè diafana e trasparente alla Rivelazione divina. È questa la potenza riconosciuta al Lògos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, "parola", significa contemporaneamente anche "atto, evento". Dire e fare s'intrecciano. E sono, perciò, da assumere cumulativamente e non disgiuntamente o alternativamente, come suppone il poeta, i quattro significati che Goethe nel Faust attribuisce al Lògos giovanneo: das Wort, Parola, der Sinn, significato, die Kraft, potenza, die Tat, atto.
Questa efficacia che rende la parola (debole ed esile) capace di manifestare in diafania la Parola che "è stabile come il cielo" (Salmo 119, 89) si attua soprattutto attraverso il simbolo, nel senso genuino del termine (syn-ballein, "mettere insieme") e non nell'accezione popolare che lo fa sconfinare nella metafora meramente allusiva. Il linguaggio simbolico permette di annodare finito e infinito, contingente e assoluto, temporale ed eterno, umano e divino. Cristo è il grande Simbolo perfetto perché fonde in sé Lògos e sàrx, come si diceva, divinità e umanità, pienezza e debolezza. E come c'è in teologia la tentazione dia-bolica (dià-ballein, gettare via, disperdere) di infrangere l'incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così anche nell'esegesi della parola c'è il rischio di spezzare la simbolicità della Parola o riducendola a mera larva spirituale o a cava da cui estrarre teoremi teologici oppure a una raccolta di testi storiografici o letterari.
Emblematica in questo senso è stata l'ermeneutica tradizionale del Cantico dei cantici. Da un lato, l'amore dei due protagonisti è stato fatto evaporare in un misticismo allegorico (Dio-Israele, Cristo-Chiesa, Cristo-Maria, Cristo-anima): decollando dalla realtà, si infrangeva ogni legame con la concretezza dell'esistenza per rincorrere rarefatte geometrie metaforiche e spirituali. D'altro lato, la cosiddetta école voluptueuse, cioè la scuola interpretativa letteralista, considerava il poema una semplice raccolta di liriche erotiche, modulate su analoghi modelli dell'antico Vicino Oriente, testi carichi talora di torrida sensualità, altre volte affidati ai tòpoi del linguaggio amoroso. In realtà il Cantico è contemporaneamente eros e amore, è celebrazione dell'abbraccio pieno umano che riflette e rivela quello divino nei confronti della sua creatura. Ed è solo la lettura simbolica a conservare compatti i due valori senza penalizzare uno per salvare l'altro. Come scriveva René Char (1907-1988), poeta surrealista e simbolista francese, "gli dei abitano il simbolo; / ghermita dal brusco balzo, / la poesia s'accresce / di un oltre senza protezione". È qui che teologia e poesia si trovano a muoversi nella stessa maniera, entrambe radicate nel presente e nel reale per ascendere a un Altro e a un Oltre trascendenti.
La Bibbia alfabeto colorato dell'arte
Tentiamo a questo punto di illustrare, in modo del tutto emblematico, la seconda tavola del dittico ideale a cui accennavamo in apertura. In essa vorremmo esaltare la funzione generativa che la Bibbia ha espletato per la cultura occidentale attraverso una presenza tale da renderla una sorta di "lessico" iconografico e di modello ideologico a cui attingere. Non per nulla Chagall affermava che le pagine bibliche sono "l'alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello".
"Le Sacre Scritture sono l'universo entro cui la letteratura e l'arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando". Questa affermazione sul rapporto tra Bibbia e letteratura - contenuta nel noto saggio Il grande codice di Northrop Frye (1981) - registra un dato di fatto facilmente accessibile a chi perlustri la storia culturale dell'Occidente: per secoli, infatti, la Bibbia è stata l'immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario a cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare. E se Erich Auerbach nella sua famosa Mimesis (1946) aveva riconosciuto nella Bibbia e nell'Odissea i due modelli cruciali per la nostra cultura, Nietzsche nei materiali preparatori all'opera Aurora (1881) ugualmente confessava che "per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c'è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera".
Cercare di delineare questa presenza con la molteplicità delle sue forme, ora ideali ora degenerate, è un'impresa ciclopica, per non dire disperata tanto sterminata risulterebbe ogni catalogazione. Tuttavia, sulla scia di stimoli provenienti dalla filosofia (ad esempio, Gadamer) e dalla teologia (ad esempio, von Balthasar), si è riconosciuto, per la comprensione della Bibbia, il rilievo rappresentato non solo dall'Autore ma anche dal lettore, cioè dalla Tradizione teologica, spirituale e artistica che dalla Scrittura è stata generata. Si è, così, configurata una ricerca detta di Wirkungsgeschichte o "storia dell'effetto" (o anche Rezeptionsgeschichte, ossia di "storia della recezione" di un testo) che verifica lo straordinario influsso e l'irradiazione esercitata dalla Bibbia sull'immaginario e sulla vicenda culturale alta e popolare. Potremmo citare, ad esempio, una ricerca di Jacob Kremer sulla risurrezione di Lazzaro che, dopo aver approfondito il significato teologico del passo giovanneo (capitolo 11), analizza la storia della recezione di questo miracolo con testimonianze desunte dalla letteratura religiosa e profana, dalla liturgia e soprattutto dall'arte (catacombe, sarcofagi, dittici, codici miniati, Giotto, Cranach, Rubens, Rembrandt, Redon, van Gogh e altri).
Muovendoci sempre su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo alcuni modelli che cerchino di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso. Un primo modello potrebbe essere definito come reintepretativo o attualizzante: si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all'interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse. Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli un'immagine del Cristo paziente nell'arte sacra - come nella Meditazione sulla Passione o nel Compianto sul Cristo morto del Carpaccio - si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard: in Giobbe il filosofo danese legge la sua esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato a opera di Dio. Scriveva Kierkegaard: "Io non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore (...) Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima".
E, per stare allo stesso filosofo, pensiamo al sacrificio di Isacco (Genesi, 22) così come è letto da lui in Timore e tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spogliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali. Un esegeta, Gerhard von Rad, in una sua opera intitolata Il sacrificio di Isacco, raccoglierà attorno al testo biblico, oltre a quelle di Kierkegaard, le reintepretazioni attualizzate di Lutero, di Rembrandt e di Kolakowski, ma già la tradizione giudaica nella 'aqedah, cioè nella legatura sacrificale di Isacco sull'altare del monte Moria, aveva visto il mistero della sofferenza del popolo ebraico e si era interrogata sul silenzio di Dio (in particolare in connessione con la tragica vicenda della Shoah per le persecuzioni naziste).
Potremmo continuare a lungo nella documentazione di questo tipo di rilettura che domina nell'arte sacra, attenta a ricondurre eventi evangelici all'oggi della Chiesa: pensiamo alle raffigurazioni popolari, al folclore, ai riti tradizionali che cercano di far rivivere la passione di Cristo o altri momenti della sua esistenza all'interno della quotidianità, delle architetture e delle presenze che popolano l'orizzonte quotidiano. C'è, però, un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo. Nella stessa storia della teologia e dell'esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative. Il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d'altro (allegoria) o persino per ribaltarne il senso originario. Così accade anche nella storia della cultura. Prendiamo ancora come emblema il libro di Giobbe. La tradizione, infatti, ignorando l'altissimo poema che costituisce la sostanza dell'opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull'epilogo (capitoli 1-2 e 42). Qui Giobbe appare solo come l'uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio. In realtà il corpo centrale dell'opera presenta, invece, il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male. L'approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l'intero scritto: "Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono" (42, 5).
L'arte cristiana, invece, sulla scia di un'interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento (Giacomo 5, 11) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l'ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale. Ma la degenerazione del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all'interno dell'enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subito (da Goethe a Dostoevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus, da Morselli a Pomilio e altri). Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl G. Jung (1952) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della moralità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza. Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell'umanità, riuscirà a imparare la lezione morale di Giobbe e a ergersi contro la durezza "immorale" e l'insondabilità del Padre celeste. Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche; sempre per stare nell'ambito psicoanalitico, si ricordi l'elaborazione della figura di Mosè e delle origini della religione ebraica compiuta da Sigmund Freud nei tre saggi sull'Uomo Mosè e la religione monoteistica (1913).
L'arte come ermeneutica trasfigurativa del testo biblico
Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell'originale biblico anche la lettura deviata, la Bibbia offre una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica. È per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo trasfigurativo. L'arte riesce spesso a far vibrare le risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l'esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora. È ciò che Paul Klee affermava in senso generale quando nella sua Teoria della forma e della figurazione scriveva che "l'arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è". Gaston Bachelard diceva di Chagall che nei suoi quadri "egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce".
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal '600 agli inizi dell'800 ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia (Carissimi, Monteverdi, Schütz, Pachelbel, Bach, Vivaldi, Buxtehude, Telemann, Couperin, Charpentier, Haendel, Haydn, Mozart, Bruckner e così via). Si immagini solo cosa possa significare un oratorio come Jefte di Carissimi o il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi o una Passione secondo Matteo di Bach o, per venire ai nostri giorni, la Passione secondo Luca di Penderecki o i Chichester Psalms di Bernstein. Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo 117 (116), caro però a Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell'alleanza che lega Dio al suo popolo: veritas et misericordia come dice la versione latina della volgata usata dal musicista, "amore e fedeltà" in una traduzione più vicina all'originale ebraico hesed w 'emet. Ebbene, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un Confessore (K 339) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana del salmo come non saprebbe mai fare nessuna esegesi testuale diretta.
Il risultato trasfigurativo è proprio, comunque, di tutte le grandi opere d'arte e di letteratura. Impossibile sarebbe dimostrarlo compiutamente perché il repertorio da consultare è vastissimo. Ci accontentiamo di un simbolo, quello del dito efficace di Dio, spesso celebrato dalla Bibbia. Ebbene, tutta la storia, la missione, la figura e la grandezza del Battista sono racchiuse in quell'indice poderoso puntato verso il Crocifisso che Matthias Grünewald ha dipinto nell'Altare di Isenheim del museo di Colmar. Tutto il mistero dell'atto creativo descritto nel libro della Genesi è nell'indice "imperativo" del Creatore michelangiolesco che sveglia all'essere l'indice assopito di Adamo. E tutta la redenzione "ri-creatrice" che si crea nella vita del pubblicano Levi è nella citazione che Caravaggio fa di Michelangelo in quell'indice che Cristo punta sul futuro apostolo Matteo, nella celebre tela di San Luigi dei Francesi a Roma.
L'arte e le varie espressioni culturali possono, quindi, rivelarsi ripetutamente animate dall'immaginario e dall'ideologia biblica. Contemporaneamente la tradizione culturale diventa chiave di interpretazione - ora libera, ora corretta, ora deviata - della stessa Scrittura tant'è vero che un teologo come Marie-Dominique Chenu nel suo volume sulla Teologia nel XII secolo confessava: "Se dovessi rifare quest'opera darei un'attenzione molto maggiore alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche, perché esse non sono soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri luoghi teologici". Tutto questo è giustificato anche dal fatto che la Bibbia, pur essendo un testo teologico nella sua finalità ultima, è anche un'opera letteraria, dotata di una sua straordinaria forza espressiva. Essa si manifesta in forme molteplici ma soprattutto ha una via privilegiata di formulazione - come si ha già avuto l'occasione di sottolineare - proprio nel simbolo. Thomas S. Eliot parlava dei Salmi come di un "giardino di simboli" ma questa definizione può essere estesa a molti scritti biblici (si pensi solo a Giobbe, al Cantico dei cantici e all'Apocalisse).
Per la storia della cultura alta e popolare dell'Occidente fondamentali sono stati quei simboli narrati che sono le parabole di Gesù. Il seme, i campi, le cene nuziali, i figli difficili, i portieri notturni, i ricchi beceri ed egoisti, le vittime degli assalti e i soccorritori, le vigne e i contadini, i gigli del campo, il fico, i cani randagi, i passeri, il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i pesci, il sole e la pioggia e così via diventano segni indimenticabili di un messaggio che sarà costantemente ripreso, trascritto, esaltato e anche deformato ma sempre attraverso quello straordinario apparato immaginifico. Per la Bibbia è possibile dire Dio in modo figurativo, in forma letteraria bella e in linguaggio giusto. Attraverso il simbolo si respinge un'ineffabilità e un aniconismo che ha colpito alcune religioni, almeno in certi ambiti: pensiamo alla proibizione delle immagini nell'ebraismo e nell'islam. Un atteggiamento che ha lambito anche il cristianesimo nel periodo dell'iconoclasmo o in qualche fase della Riforma protestante. Il simbolo, però, permette anche di rigettare la rappresentazione idolatrica che spesso è condannata dalla Bibbia e che è talora affiorata anche nella storia successiva. Il linguaggio simbolico e ciò che esso genera a livello artistico permette di conservare in equilibrio il mistero, l'Altro e l'Oltre di Dio con la sua rivelazione, la sua effabilità, il suo comunicarsi storico all'umanità.

Con la sua ricchezza simbolica la Bibbia è stata, quindi, il grande codice della cultura, in particolare dell'arte, e dell'immaginario popolare ma è stata anche la presentazione di una fede che unisce in sé trascendenza e immanenza. L'arte ha cercato di cogliere la carnalità, cioè la storicità di quella rivelazione, ora esaltandola, ora trasformandola, ma ha anche saputo quasi sempre salvaguardarne la dimensione di segno, di mistero, di infinito e di eterno. È ciò che può essere illustrato, in finale, attraverso un genere particolare dell'arte orientale cristiana, quello dell'icona, così come ce la presenta Pavel Florenskij: "L'oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste". Arte e fede in questo senso s'incontrano. Le figure dell'icona e i loro fondi dorati sono terreni ma riverberano il divino e immettono in un'esperienza paradisiaca.
Da un lato, l'arte giunge ad espletare una funzione kerigmatica, diventa cioè un annuncio del messaggio spirituale, come suggeriva un grande cultore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, nell'Vlll secolo: "Se un pagano viene e ti dice: "Mostrami la tua fede", tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui essa è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri". D'altro lato, l'arte illuminata e sostanziata dall'iconografia biblica diventa essa stessa catechesi per i fedeli, come già sosteneva san Gregorio Magno nel VI secolo invitando qui litteras nesciunt (...) ut in parietibus videndo legant. L'arte è, quindi, la Parola divenuta immagine, è il codex in pariete e, come si leggeva negli Statuti d'arte dei pittori senesi del Trecento: "Noi (gli artisti) siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".


(©L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2008)


Non si gioca con la vita, la politica rispetti l'etica, di Mons. Alessandro Maggiolini
Elezioni e valori morali
In questi giorni Walter Veltroni, eccitato, forse, dalla carica di presidente designato - o quasi – del Pd (che poi è una deviazioni della sigla del partito comunista italiano): Walter Veltroni si spinge, se non proprio, a previsioni alla Mago Merlino – almeno con disinvoltura, che potrebbe essere scambiata per coraggio - : si spinge a preparare il suo esercito elettorale ormai prossimo a entrare in battaglia. Ci si abitua presto a vincere. E lo scendere anche un solo gradino dal monumento eretto con falce e martello, allora son dolori e pentimenti e smentite, quasi il periodo staliniano fosse stato inventato e gestito da marziani o dalla corte angelica.
Io comunista? Ma era tutto una finta, per lasciarsi strattonare e dolcemente catturare da forze politiche immacolate, formate da figlie di Maria e da confratelli di San Carlo ( con tutto il rispetto per Maria e San Carlo).
Poi la mappa delle sigle dei partiti – per non parlare dei colori delle bandiere – si complica e diventa perfino difficile intuire i labari e i distintivi. Sembra di sbattere il naso contro una policromia complicatissima e contro una serie di lettere alfabetiche che non si sa in che lingua siano scritte, tanto che sospingono perfino a confondere l’Azione Cattolica italiana con il soccorso stradale ACI.
Il giochetto del domino, come ogni divertimento, dura poco. Poi ci si deve arrestare ogni volta per decifrare le sigle e per tenervi dietro masse o manipoli di militanti. La questione si complica ancor più quando in gioco non è il mettere i treni dello Stato sulle rotaie di sinistra o sulle rotaie di destra, o pitturare i segnali di Stop e di libera circolazione. Supponiamo che il problema si ponga sul mantenere in vita e far crescere un bimbo ancora nel grembo della madre o sopprimerlo; supponiamo che si rifiuti di accettare un parto gemellare e si sia tentati di eliminare uno dei due per via della demografia esplodente ( è vero? ); supponiamo che la paura di trovarsi di fronte a un figlio con qualche problema fisico o psicologico che richiede attenzioni speciali, metta nel rischio di prendere decisioni drastiche fino alla soppressione; supponiamo che un nascituro rubi il posto a un fratellino nel lettino in cui non stanno entrambi… e qui le supposizioni possono moltiplicarsi in modo esponenziale: che si fa? Non si è di fronte a una operazione chirurgica come l’estrazione di un molare o la soppressione di una verruca.
Onorevole Veltroni, se ella ammette la liceità dell’aborto o un cattolico e un uomo di buona volontà lo rifiuta, che facciamo? Tagliamo a metà.
Questo per dire che la politica oggi tocca anche il rispetto della vita umana e del suo crescere secondo natura e secondo terapie ammesse nel rispetto della persona.
Viene in uggia riprendere questi temi. Ma l’unico modo per risolverli umanamente e cristianamente è il non porli e accettare la situazione che il crescere della persona presenta di fatto.
Non si piagnucoli sul calare delle percentuali demografiche. Quando un uomo c’è, in qualsiasi condizione di sviluppo sia, c’è. Non c’è modo di slegarsi dalla aut aut.
E se tutto questo esige una severa disciplina della condotta sessuale, ebbene sia.
E sa di furbizia vigliacca il giustificare l’ammissione della condanna a morte di innocenti, il portare come motivo che tutte le nazioni civili hanno già ammesso la legalizzazione dell’aborto. E che, democrazia v’è soltanto quando tutti sono costretti ad agire come agisce la maggioranza, anche quando consuma delitti innominabili? E se si chiama laicità soltanto il permesso di ammazzare i figli innocenti e scomodi, dove arriviamo?


1 marzo 2008
Forse prendo il Cav. come ministro della salute, di Giuliano Ferrara
Veltroni dice cose difficili, spiega che non gli interessa vincere e vuole rilanciare lo spirito degli anni Sessanta. Sta rasentando la sfortunata formula della “serietà al governo”, più il fumetto della bella politica, l’incontro con l’apparato e le regole di partito per adesso non gli giova: era più forte come sindaco africano. Mah. L’impressione è che sappia che la nuova stagione è rinviata a qualche anno di opposizione come dice lui, e lo nasconda appena. Il Cav. ci dà dentro con il voto utile, spiega che vincere è l’unica cosa che gli interessi e che è eticamente anarchico e insieme monarchico: miele per le orecchie degli italiani. Berlusconi si è effettivamente ringiovanito e ingazebito, un tocco di masaniellismo non guasta mai al monarca anarchico. Casini è un brav’uomo in mezzo a brava gente, ma non dovrebbe mostrare così apertamente la sua disperazione esibendo coraggio (per gli americani un politico “coraggioso” è uno stolto); gli farebbe meglio un’autocritica sulla sciatteria con cui ha finora trattato i segni del cambiamento dei tempi nella testa della gente, e un bagno di cultura nel segno della sua cultura, che a occhio e croce sarebbe il cattolicesimo politico, sebbene nessuno se ne sia potuto accorgere.
Le nostre liste sono quasi pronte, la preparazione della manifestazione dell’8 marzo a Roma, piazza Farnese ore 15, per le donne e per i bambini, ferve. Ferve? Insomma. Il palco ci sarà, Ferretti Lindo Giovanni ci sarà, se poi viene anche un po’ di gente, tanto di guadagnato. Noi i nostri voti li abbiamo già, e faremo di tutto per ancorarli alla lista, ma sono voti sicuri di idee e di forte impulso, e allegro, alla superpolitica. Intanto il dottor Viale, quello che giudica vitalistico curare i neonati, e facoltativo il farlo, sempre che i genitori siano d’accordo, è stato escluso dalle liste radicali del Pd. Bel colpo. Non è aria per tipi Ru486. Non ora, almeno. Un Veronesi basta e avanza, e deve un po’ nascondersi nell’impulso alla ricerca. Sono i primi risultati, notevoli, di una vittoria annunciata. Forse prendo il Cav. come ministro della Salute.


QUARANT’ANNI FA LA SCINTILLA DEL ’68 ITALIANO
Si scardinarono le ipocrisie ma fu presto un’illusione ideologica

Avvenire, 2.3.2008
DAVIDE RONDONI
I l primo marzo di 40 anni fa gli scontri a Valle Giulia tra polizia e manifestanti – dai nazi ai maosti – aprirono gli occhi a molti. Ma negli occhi abitati dal sogno dell’utopia e della ricerca della 'rivoluzione', quegli scontri furono altro fuoco per una ebbrezza, mentre negli sguardi che cercavano pur sul viso ferito i tratti autentici della realtà scesero le ombre della preoccupazione. A questi ultimi diede voce un poeta, Pier Paolo Pasolini, accusando quella folla di manifestanti di essere dei figli di papà. E soprattutto ravvisando nel Dna della contestazione il vizio dell’intellettualismo e del sentimentalismo. Le due rogne che, a mio parere, sono gli elementi della crisi che ancora indebolisce l’Italia, poiché fonti di irresponsabilità. Fu Pasolini, in un testo intitolato Poesia della tradizione, a compiangere quella «generazione sfortunata» che a Valle Giulia e altrove si prestò ad adempiere al compito che in realtà volevano i loro padri: tagliare i ponti con la tradizione, bruciare ogni retroterra culturale, religioso, perché avessero campo libero i criteri unici del potere, della convenienza immediata e del consumo – di emozioni o di prodotti –. E si potesse organizzare di nuovo il mondo. La parola d’ordine da allora divenne 'organizzazione', e si pensò che la fantasia al potere potesse essere il miglior criterio organizzativo. Un mix di spontaneismo e ideologia fece da facile collante, e ancora ammorba tanti luoghi della società.
Una formidabile tensione a una maggiore ricerca di autenticità e di partecipazione ardeva nei cuori di molti in quel sommovimento. Una festa di sentimenti spesso intensi, di voglia di scoperta e di avventura. E la sensazione, resa eroica da certe ubriacature ideologiche e da miti che venivano anche da lontano, di fare la storia. Quella voglia ebbe il merito di scardinare certi cascanti formalismi, di mettere in crisi ipocrisie ormai comiche e diede l’occasione a tutti – Chiesa compresa – di fare una seria verifica della propria identità e della proposta che si rivolgeva alle persone e alle società. Quell’ardore incontrò in modo diverso tante diverse situazioni. E così il ’68 americano fu una cosa, quello francese un’altra, quello messicano un’altra ancora. Diverse misure di confronto e di scontro, di radicalizzazione politica, e diverse misure di sangue. Quello italiano è uno dei ’68 più lunghi, e ha generato al proprio interno lunghe ombre.
Dopo quarant’anni, con la prospettiva di maggior realismo che il tempo in parte permette, appare che certi acquisti di quel sommovimento furono salutari. Ad esempio una maggiore partecipazione, e una propensione a verificare secondo la propria esperienza personale le proposte e i messaggi che giungono dai media, dalla politica e dalle diverse autorità. Solo che tale senso critico, per poter essere ben esercitato, dovrebbe trovare i propri criteri a un livello dell’esperienza dove ideologia e sentimentalismo sono banditi.
Intendo a quel livello dell’esperienza che la Bibbia chiamava cuore, ovvero il centro della ragionevolezza e dell’amore. Invece troppo spesso accade che si motivino le cose più bislacche, le demagogie più frenanti, le scelte burocratiche più balzane, o addirittura le leggi più avverse alla condizione umana, proprio in nome di un malinteso concetto di esperienza personale. E in nome del sentimentalismo, o della presunzione di organizzare il mondo secondo la migliore ideologia, si compiono oggi soprusi di potere e si avvallano modi di pensare ben più tetri e ferrei di quelli contro cui a Valle Giulia, e altrove, si accesero i fuochi di uno scontro sbagliato.


Casale Monferrato
Sinergie virtuose pubblico-privato per il nuovo hospice di cure palliative

DA CASALE MONFERRATO (ASTI)
Avvenire, 2.3.2008
FRANCESCA LOZITO
A Casale Monferrato nasce un nuovo hospice. È stato intitolato al vescovo Germano Zaccheo, scomparso nel novembre scorso, a lungo pastore della diocesi monferrina.
L’inaugurazione è avvenuta nei giorni scorsi. Si tratta di un primo lotto della struttura, voluta dalla Asl 21 del Piemonte su sollecitazione dell’associazione Vitas di Casale Monferrato (Associazione di volontari per l’assistenza ai malati in fase avanzata) composto da un nucleo di 8 posti letto con camere a due letti per il paziente e l’accompagnatore, tutti con servizio igienico adatto a portatori di handicap. È stata prevista un’ampia zona soggiorno con cucina, la tisaneria (locale caratteristico di tutti gli hospice, dove ci si può preparare da mangiare, ndr), la dispensa, oltre che i locali per l’assistenza infermieristica. Allo stesso piano ci saranno anche gli ambulatori con una sala d’attesa. Il piano seminterrato, che è in corso di realizzazione, prevede locali per riunioni d’équipe, per le terapie antalgiche, deposito materiali, archivi e locali tecnologici. Il costo del primo lotto è di un milione e duecentomila euro. La nuova struttura è un padiglione immerso nel verde dei giardini dell’ospedale e dentro le mura del nosocomio piemontese.
All’inaugurazione, con la benedizione dei locali ad opera dell’amministratore diocesano monsignor Antonio Gennaro, erano presenti diverse autorità, tra cui il direttore generale Gian Paolo Zanetta, oltre agli operatori del settore.
«La nostra storia di operatori delle cure palliative - racconta la dottoressa Daniela De Giovanni, oncologa e responsabile dell’Unità di cure palliative, ospedaliera e presidente del comitato scientifico di Vitas - nasce, come spesso succede in questo ambito da un incontro umano: è stata la vicinanza con un malato in particolare, un episodio avvenuto dieci anni fa, che ci ha fatto capire l’importanza di dedicare la massima cura e professionalità a chi non ha di fronte una prospettiva di guarigione, ma non può essere abbandonato al suo destino nell’indifferenza». L’Hospice nato a Casale Monferrato è quindi parte integrante della rete di assistenza ai malati terminali che in Piemonte vede una crescita per il 2008, secondo i dati del primo Libro italiano per le cure palliative pubblicato recentemente da Fondazione Floriani e Fondazione Seragnoli, Sicp, in collaborazione con il Ministero della Salute, a 15 strutture.
È intitolato al vescovo Germano Zaccheo, a lungo pastore della diocesi monferrina. Il servizio è parte integrante della rete assistenziale organizzata in Piemonte