Nella rassegna stampa di oggi:
1) Terza predica di Quaresima: “Accogliete la parola" - Il tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: "Viva ed efficace è la parola di Dio" (Ebrei, 4, 12)
2) Discorso del Papa ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche
3) La ricetta Tremonti
4) Non c’è pace tra gli ulivi
5) Ucciso nei Paesi Baschi un ex assessore socialista. Il ministro dell'Interno, Alfredo Perez Rubalcaba: "E' stata l'Eta"
6) Strage agghiacciante la pace è una necessità
7) Il gulag di Pechino commercia organi
8) Fra idea e mistica, la Zambrano dispensava luci e folgorazioni
9) Berdjaev, nel cristianesimo prende forma la vera libertà
10) Recensione di "Persepolis"
Terza predica di Quaresima: “Accogliete la parola"
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 marzo 2008 (ZENIT.org).- Questo venerdì mattina, nella Cappella "Redemptoris Mater", alla presenza di Benedetto XVI, il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda predica di Quaresima.
Il tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: "Viva ed efficace è la parola di Dio" (Ebrei, 4, 12).
La prime due prediche si sono tenute il 22 e il 29 febbraio.
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Terza predica
“ACCOGLIETE LA PAROLA”
La parola di Dio, come cammino di santificazione personale
1. La lectio divina
In questa meditazione riflettiamo sulla parola di Dio come cammino di santificazione personale. I Lineamenta redatti in preparazione al Sinodo dei vescovi (Ottobre 2008) ne trattano in un paragrafo del capitolo II, dedicato a “la parola di Dio nella vita del credente”.
Si tratta di un tema quanto mai caro alla tradizione spirituale della Chiesa. “La parola di Dio - diceva S. Ambrogio - è la sostanza vitale della nostra anima; essa la alimenta, la pasce e la governa; non c'è altra cosa che possa far vivere l'anima dell'uomo, all'infuori della parola di Dio” 1. “Nella parola di Dio - aggiunge la Dei Verbum - è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale” 2.
“È necessario – scriveva Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte - che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta e plasma l’esistenza” 3. Sul tema si è espresso anche il Santo Padre Benedetto XVI- in occasione del Convegno internazionale sulla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa: “L’assidua lettura della sacra Scrittura accompagnata dalla preghiera realizza quell’intimo colloquio in cui, leggendo, si ascolta Dio che parla e, pregando, gli si risponde con fiduciosa apertura del cuore” 4.
Con le riflessioni che seguono mi inserisco in questa ricca tradizione, partendo da ciò che su questo punto ci dice la stessa Scrittura. Nella lettera di san Giacomo leggiamo questo testo sulla parola di Dio:
Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature. Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira... Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla (Gc 1, 18-25).
2. Accogliere la parola
Dal testo di Giacomo ricaviamo uno schema di lectio divina fatto di tre tappe o operazioni successive: accogliere la parola, meditare la parola, mettere in pratica la parola.
La prima tappa è dunque l'ascolto della Parola: “Accogliete con docilità la Parola che è stata seminata in voi”. Questa prima tappa abbraccia tutte le forme e i modi con cui il cristiano viene in contatto con la parola di Dio: ascolto della Parola nella liturgia, facilitato ormai dall'uso della lingua volgare e dalla sapiente scelta dei testi distribuiti lungo l'anno; poi, scuole bibliche, sussidi scritti e, insostituibile, la lettura personale della Bibbia nella propria casa. Per chi è chiamato a insegnare agli altri, a tutto ciò si aggiunge lo studio sistematico della Bibbia: esegesi, critica testuale, teologia biblica, studio delle lingue originali.
In questa fase bisogna guardarsi da due pericoli. Il primo è quello di fermarsi a questo primo stadio e di trasformare la lettura personale della parola di Dio in una lettura “impersonale”. Questo pericolo è molto forte oggi, soprattutto nei luoghi di formazione accademica.
San Giacomo paragona la lettura della parola di Dio a un guardarsi nello specchio; ma, osserva Kierkegaard, chi si limita a studiare le fonti, le varianti, i generi letterari della Bibbia, senza fare altro, somiglia a uno che passa tutto il tempo a guardare lo specchio – esaminandone accuratamente la forma, il materiale, lo stile, l’epoca -, senza mai guardarsi nello specchio. Per lui lo specchio non assolve la propria funzione. La parola di Dio è stata data perché tu la metta in pratica e non perché tu ti eserciti nell'esegesi delle sue oscurità. C'è una “inflazione di ermeneutica” e, quel che è peggio, si crede che la cosa più seria, riguardo alla Bibbia, sia l'ermeneutica, non la pratica 5.
Lo studio critico della parola di Dio è indispensabile e non si è mai abbastanza grati a coloro che spendono la vita per spianare la strada a una sempre migliore comprensione del testo sacro, ma esso non esaurisce da solo il senso delle Scritture; è necessario, ma non sufficiente.
L’altro pericolo è il fondamentalismo: il prendere tutto quello che si legge nella Bibbia alla lettera, senza alcuna mediazione ermeneutica. Questo secondo rischio è molto meno innocuo di quanto possa sembrare a prima vista e l’attuale dibattito su creazionismo ed evoluzionismo ne è la drammatica riprova.
Quelli che difendono la lettura letterale della Genesi (il mondo creato qualche migliaio di anni fa, in sei giorni, così come è ora) recano un danno immenso alla fede. “I giovani cresciuti in famiglie e in chiese che insistono in questa forma di creazionismo - ha scritto lo scienziato credente Francis Collins, direttore del progetto che ha portato alla scoperta del genoma umano - presto o tardi scoprono la schiacciante evidenza scientifica in favore di un universo assai più vecchio e la connessione tra loro di tutte le creature viventi per il processo di evoluzione e di selezione naturale. Quale terribile e inutile scelta si trovano davanti!...Non c’è da meravigliarsi se molti di questi giovani voltano le spalle alla fede, concludendo di non potere credere in un Dio che chiede loro di rigettare ciò che la scienza insegna loro con tanta evidenza intorno all’universo naturale” 6.
Solo apparentemente i due eccessi, dell’ipercriticismo e del fondamentalismo, sono opposti: essi hanno in comune il fatto di fermarsi alla lettera, trascurando lo Spirito.
3. Contemplare la Parola
La seconda tappa suggerita da san Giacomo consiste nel “fissare lo sguardo” sulla parola, nello stare a lungo davanti allo specchio, insomma nella meditazione o contemplazione della Parola. I Padri usavano a questo riguardo le immagini del masticare e del ruminare. “La lettura - scrive Guigo II, il teorico della lectio divina - offre alla bocca un cibo sostanzioso, la meditazione lo mastica e lo frantuma”7. “Quando uno richiama alla memoria le cose udite e dolcemente le ripensa in cuor suo, diventa simile al ruminante”, dice Agostino 8.
L'anima che si guarda nello specchio della Parola impara a conoscere “com'è”, impara a conoscere se stessa, scopre la sua difformità dall'immagine di Dio e dall'immagine di Cristo. “Io non cerco la mia gloria”, dice Gesù (Gv 8, 50): ecco, lo specchio è davanti a te e subito vedi quanto sei lontano da Gesù; “Beati i poveri di spirito”: lo specchio è di nuovo davanti a te e subito ti scopri pieno ancora di attaccamenti e pieno di cose superflue; “la carità è paziente...” e ti accorgi di quanto tu sei impaziente, invidioso, interessato.
Più che “scrutare la Scrittura” (cf. Gv 5, 39), si tratta di lasciarsi scrutare dalla Scrittura. La parola di Dio, dice la Lettera agli Ebrei, “penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12-13). La preghiera migliore con cui iniziare il momento della contemplazione della Parola è ripetere con il salmista:
“Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita” (Sal 139).
Ma nello specchio della Parola, noi non vediamo soltanto noi stessi; vediamo il volto di Dio; meglio, vediamo il cuore di Dio. La Scrittura, dice san Gregorio Magno, è “una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura; in essa si impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” 9. Anche per Dio vale il detto di Gesù: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12, 34); Dio ci ha parlato, nella Scrittura, di ciò che riempie il suo cuore e ciò che riempie il suo cuore è l'amore.
La contemplazione della Parola ci procura in tal modo le due conoscenze più importanti per avanzare sulla strada della vera sapienza: la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio. “Che io conosca me e che io conosca te, noverim me, noverim te - diceva a Dio sant’Agostino –; che io conosca me per umiliarmi e che io conosca te per amarti”.
Un esempio straordinario di questa duplice conoscenza, di sé e di Dio, che si ottiene dalla parola di Dio è la lettera alla chiesa di Laodicea nell’Apocalisse che vale la pena meditare ogni tanto, specie in questo tempo di Quaresima (cf. Ap 3, 14-20). Il Risorto mette a nudo anzitutto la reale situazione del fedele tipico di questa comunità: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. Impressionante il contrasto tra quello che questo fedele pensa di sé e quello che di lui pensa Dio: “Tu dici: ‘Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla’; non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.
Una pagina di una durezza insolita, che però viene immediatamente ribaltata da una delle descrizioni in assoluto più toccanti dell’amore di Dio: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Una immagine che rivela il suo significato realistico e non solo metaforico, se letta, come suggerisce il testo, pensando al banchetto eucaristico.
Oltre che per verificare lo stato personale della nostra anima, questa pagina dell’Apocalisse ci può servire per mettere a nudo la situazione spirituale di gran parte della società moderna davanti a Dio. È come una di quelle foto a raggi infrarossi scattate da un satellite artificiale che rivelano un panorama tutto diverso da quello abituale, osservato alla luce naturale.
Anche questo nostro mondo, forte delle sue conquiste scientifiche e tecnologiche (come i laodiceni lo erano delle loro fortune commerciali), si sente soddisfatto, ricco, senza bisogno di nessuno, neppure di Dio. È necessario che qualcuno gli faccia conoscere la vera diagnosi del suo stato: “Tu non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”. Ha bisogno che qualcuno gli gridi, come fa il bambino nella favola di Andersen: “Il re è nudo!” Ma per amore e con amore, come fa il Risorto con i laodiceni.
La parola di Dio assicura a ogni anima che lo vuole una fondamentale, e in sé infallibile, direzione spirituale. C’è una direzione spirituale, per così dire, ordinaria e quotidiana che consiste nello scoprire cosa Dio vuole nelle diverse situazioni in cui l'uomo, di solito, viene a trovarsi nella vita. Una tale direzione è assicurata dalla meditazione della parola di Dio accompagnata dall'unzione interiore dello Spirito che traduce la parola in buona “ispirazione” e la buona ispirazione in risoluzione pratica. È ciò che esprime il versetto del salmo tanto caro agli amanti della Parola: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105).
Una volta predicavo una missione in Australia. L’ultimo giorno venne a trovarmi un uomo, un emigrato italiano che lavorava lì. Mi disse: “Padre, io ho un problema serio: ho un ragazzo di 11 anni che non è ancora battezzato. Il fatto è che mia moglie si è fatta testimone di Geova e non vuol sentir parlare di battesimo nella Chiesa cattolica. Se lo battezzo, ci sarà una crisi, se non lo battezzo non mi sento tranquillo perché quando ci sposammo eravamo entrambi cattolici e abbiamo promesso di educare nella fede i nostri figli. Che devo fare?”. Gli dissi: “Lasciami riflettere questa notte, torna domani mattina e vedremo cosa fare”. L’indomani quest’uomo mi viene incontro visibilmente rasserenato e mi dice: “Padre, ho trovato la soluzione. Ieri sera, tornato a casa, ho pregato per un po’, poi ho aperto a caso la Bibbia. Mi è venuto il passo dove Abramo porta il figlio Isacco all’immolazione e ho visto che quando Abramo porta il figlio Isacco all’immolazione non dice niente a sua moglie”. Era un discernimento esegeticamente perfetto. Battezzai io stesso il ragazzo e fu una momento di grande gioia per tutti.
Questo di aprire la Bibbia a caso è una cosa delicata, che va fatta con discrezione, in un clima di fede e non prima di aver a lungo pregato. Non si può tuttavia ignorare che, a queste condizioni, esso ha dato spesso frutti meravigliosi ed è stato praticato anche dai santi. Di Francesco d’Assisi si legge, nelle fonti, che scoprì il genere di vita a cui Dio lo chiamava aprendo tre volte a caso, “dopo aver pregato devotamente”, il libro dei vangeli “disposti ad attuare il primo consiglio che si offrisse loro” 10. Agostino interpretò la parole “Tolle lege”, prendi e leggi, che udì da una casa vicina, come un ordine divino di aprire il libro delle Lettere di Paolo e di leggere il versetto che per primo gli si fosse presentato allo sguardo 11.
Ci sono state anime che si sono fatte sante con l'unico direttore spirituale che è la parola di Dio. “Nel Vangelo - ha scritto santa Teresa di Lisieux - trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi. Capisco e so per esperienza che “il regno di Dio è dentro di noi”(cf. Lc 17, 21). Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime; lui, il Dottore dei dottori, insegna senza rumore di parole” 12. Fu attraverso una parola di Dio, leggendo uno dopo l’altro i capitoli 12 e 13 della Prima Corinzi, che la santa scoprì la sua vocazione profonda ed esclamò giubilante: “Nel corpo mistico di Cristo io sarò il cuore che ama!”
La Bibbia ci offre un’immagine plastica che riassume tutto quello che si è detto sul meditare la parola: quella del libro mangiato che si legge in Ezechiele:
“Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all'interno e all'esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell'uomo, mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell'uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele (Ez 2, 9-3, 3; cf. anche Ap 12,10).
C'è una differenza enorme tra il libro semplicemente letto o studiato e il libro ingoiato. Nel secondo caso, la Parola diventa davvero, come diceva sant’Ambrogio, “la sostanza della nostra anima”, quello che informa i pensieri, plasma il linguaggio, determina le azioni, crea l’uomo “spirituale”. La Parola ingoiata è una Parola “assimilata” dall'uomo, sebbene si tratti di una assimilazione passiva (come nel caso dell'Eucaristia), cioè di un “essere assimilato” dalla Parola, soggiogato e vinto da essa, che è il principio vitale più forte.
Nella contemplazione della parola abbiamo un modello dolcissimo, Maria; ella serbava tutte queste cose (alla lettera: queste parole) meditandole nel suo cuore (Lc 2, 19). In lei la metafora del libro ingoiato è diventata realtà anche fisica. La Parola le ha letteralmente “riempito le viscere”.
4. Fare la Parola
Arriviamo così alla terza fase del cammino proposto dall’apostolo Giacomo, quella su cui l’apostolo insiste di più: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola…, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica…; chi la mette in pratica, troverà la sua felicità nel praticarla”. È anche la cosa che più sta a cuore a Gesù: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Senza questo “fare la Parola”, tutto resta illusione, costruzione sulla sabbia. Non si può neppure dire di aver compreso la parola perché, come scrive san Gregorio Magno, la parola di Dio si capisce veramente solo quando si comincia a praticarla13 .
Questa terza tappa consiste, in pratica, nell’obbedire alla parola. Il termine greco usato nel Nuovo Testamento per designare l’obbedienza (hypakouein) tradotto letteralmente, significa “dare ascolto”, nel senso di eseguire quello che si è ascoltato. “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito”, si lamenta Dio nella Bibbia (Sal 81,12).
Appena si prova a ricercare, attraverso il Nuovo Testamento, in che cosa consiste il dovere dell’obbedienza, si fa una scoperta sorprendente e cioè che l’obbedienza è vista quasi sempre come obbedienza alla parola di Dio. San Paolo parla di obbedienza all’insegnamento (Rm 6, 17), di obbedienza al Vangelo (Rm 10, 16; 2 Ts 1, 8), di obbedienza alla verità (Gal 5, 7), di obbedienza a Cristo (2 Cor 10, 5). Troviamo lo stesso linguaggio anche altrove: gli Atti degli Apostoli parlano di obbedienza alla fede (At 6, 7), la Prima lettera di Pietro parla di obbedienza a Cristo (1 Pt 1, 2) e di obbedienza alla verità (1 Pt 1, 22).
L’obbedienza stessa di Gesù si esercita soprattutto attraverso l’obbedienza alle parole scritte. Nell’episodio delle tentazioni del deserto, l’obbedienza di Gesù consiste nel richiamare le parole di Dio e attenersi a esse: “Sta scritto!” La sua obbedienza si esercita, in modo particolare, sulle parole che sono scritte di lui e per lui “nella legge, nei profeti e nei salmi” e che egli, come uomo, scopre a mano a mano che avanza nella comprensione e nel compimento della sua missione. Quando vogliono opporsi alla sua cattura, Gesù dice: “Ma come allora si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26, 54). La vita di Gesù è come guidata da una scia luminosa che gli altri non vedono e che è formata dalle parole scritte per lui; egli desume dalle Scritture il “si deve” (dei) che regge tutta la sua vita.
Le parole di Dio, sotto l’azione attuale dello Spirito, diventano espressione della vivente volontà di Dio per me, in un dato momento. Un piccolo esempio aiuterà a capire. In una circostanza mi accorsi che in comunità qualcuno aveva preso per errore un oggetto a mio uso. Mi accingevo a farlo notare e a chiedere che mi fosse ritornato, quando mi imbattei per caso (ma forse non era veramente per caso) con la parola di Gesú che dice: “Da' a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Lc 6, 30). Compresi che quella parola non si applicava universalmente e in tutti i casi, ma che certamente si applicava a me in quel momento. Si trattava di obbedire alla parola.
L’obbedienza alla parola di Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, se si tratta di obbedienze serie; ma di obbedienze alla parola di Dio ce ne può essere una ogni momento. È anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sudditi e superiori, chierici e laici. I laici non hanno, nella Chiesa, un superiore cui obbedire – almeno non nel senso con cui ce l’hanno i religiosi e i chierici –; hanno però, in compenso, un “Signore” cui obbedire! Hanno la sua parola!
Terminiamo questa nostra meditazione facendo nostra la preghiera che S. Agostino eleva a Dio, nelle sue Confessioni, per ottenere la comprensione della parola di Dio: “Siano le tue Scritture le mie caste delizie; ch'io non m'inganni su di esse, né inganni gli altri con esse... Volgi la tua attenzione sulla mia anima e ascolta chi grida dall'abisso... Concedimi tempo per meditare sui segreti della tua legge, non chiuderla a chi bussa… Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce un piacere superiore a tutti gli altri. Dammi ciò che amo... Non abbandonare questo tuo filo d'erba assetato... Si aprano i recessi delle tue parole, a cui busso... Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo... in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2, 3). Quei tesori io cerco nei tuoi libri” 14.
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1 S. Ambrogio, Exp. Ps. 118, 7,7 (PL 15, 1350).
2 Dei Verbum, 21.
3 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 39).
4 Benedetto XVI, in AAS 97, 2005, p. 957).
5 S. Kierkegaard, Per l’esame di se stessi. La Lattera di Giacomo, 1,22, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, pp. 909 ss.
6 F. Collins, Le language of God, Free Press 2006, pp. 177 s.
7 Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, 1986, p.22.
8 S. Agostino, Enarr. in Ps. 46, 1 (CCL 38, 529).
9 S. Gregorio Magno, Registr. Epist. IV, 31 (PL 77, 706).
10 Celano, Vita Seconda, X, 15
11 S. Agostino, Confessioni, 8, 12.
12 S. Teresa diLisieux, Manoscritto A, n. 236.
13 S. Gregorio Magno, Su Ezechiele, I, 10, 31 (CCL 142, p. 159).
14 S. Agostino, Conf. XI, 2, 3-4.
Discorso del Papa ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 7 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo venerdì in udienza i membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.
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Reverendo Monsignore,
Illustri Signori, gentili Signore!
Sono lieto di rivolgerVi una speciale parola di saluto e di apprezzamento per il lavoro che svolgete in un campo di grande interesse per la vita della Chiesa. Mi congratulo col vostro Presidente e con ciascuno di voi per il cammino fatto in questi anni.
Come voi ben sapete, fu Leone XIII che, di fronte a una storiografia orientata dallo spirito del suo tempo e ostile alla Chiesa, pronunciò la nota frase: "Non abbiamo paura della pubblicità dei documenti" e rese accessibile alla ricerca l'archivio della Santa Sede. Al contempo, creò quella commissione di Cardinali per la promozione degli studi storici, che voi, professoresse e professori, potete considerare come antenata del Pontifico Comitato di Scienze Storiche, di cui siete membri. Leone XIII era convinto del fatto che lo studio e la descrizione della storia autentica della Chiesa non potessero che rivelarsi favorevoli ad essa.
Da allora il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa. Oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste ideologie hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici, malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l'utopia di un paradiso sulla terra, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace.
Tipico di questa mentalità è il disinteresse per la storia, che si traduce nell’emarginazione delle scienze storiche. Dove sono attive queste forze ideologiche, la ricerca storica e l’insegnamento della storia all'università e nelle scuole di ogni livello e grado vengono trascurati. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica.
Il pericolo cresce in misura sempre maggiore a causa dell’eccessiva enfasi data alla storia contemporanea, soprattutto quando le ricerche in questo settore sono condizionate da una metodologia ispirata al positivismo e alla sociologia. Vengono ignorati, altresì, importanti ambiti della realtà storica, perfino intere epoche. Ad esempio, in molti piani di studio l’insegnamento della storia inizia solamente a partire dagli eventi della Rivoluzione Francese. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso.
E’ evidente come tale oblío storico comporti un pericolo per l’integrità della natura umana in tutte le sue dimensioni. La Chiesa, chiamata da Dio Creatore ad adempiere al dovere di difendere l’uomo e la sua umanità, ha a cuore una cultura storica autentica, un effettivo progresso delle scienze storiche. La ricerca storica ad alto livello rientra infatti anche in senso più stretto nello specifico interesse della Chiesa. Pur quando non riguarda la storia propriamente ecclesiastica, l’analisi storica concorre comunque alla descrizione di quello spazio vitale in cui la Chiesa ha svolto e svolge la sua missione attraverso i secoli. Indubbiamente la vita e l’azione ecclesiali sono sempre state determinate, facilitate o rese più difficili dai diversi contesti storici. La Chiesa non è di questo mondo ma vive in esso e per esso.
Se ora prendiamo in considerazione la storia ecclesiastica dal punto di vista teologico, rileviamo un altro aspetto importante. Suo compito essenziale si rivela infatti la complessa missione di indagare e chiarire quel processo di ricezione e di trasmissione, di paralépsis e di paràdosis, attraverso il quale si è sostanziata, nel corso dei secoli, la ragione d’essere della Chiesa. E’ indubbio infatti che la Chiesa possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie.
Desidero dunque, illustri Membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, incoraggiarVi di tutto cuore a impegnarVi come avete finora fatto al servizio della Santa Sede per il raggiungimento di questi obiettivi, mantenendo il Vostro diuturno e meritorio impegno nella ricerca e nell’insegnamento. Mi auguro che, in sinergia con l’attività di altri, seri e autorevoli colleghi, possiate riuscire a perseguire con efficacia i pur ardui obiettivi che Vi siete proposti e a operare per una sempre più autentica scienza storica.
Con questi sentimenti ed assicurando un ricordo per Voi e per il Vostro delicato impegno nella mia preghiera, a tutti imparto una speciale Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
La ricetta Tremonti
Silvio Berlusconi vuole Giulio Tremonti nel suo futuro governo. Gli affiderà il super ministero dell'Economia, come nel suo secondo governo. Tremonti in un suo nuovo libro spiega: “La nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori. Le parole chiave che nell'insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”.
Per gentile concessione, pubblichiamo stralci dal libro di Giulio Tremonti, ex ministro dell'Economia di Silvio Berlusconi, in uscita per Mondadori. Il titolo del volume è "La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla" (120 pagine, 16 Euro).
Tremonti è pronto al ritorno
«Ordine e federalismo»
di Giulio Tremonti
La nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori. Le parole chiave che nell'insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo. È questo un tipo di politica che può anche essere di «grossa coalizione», ma fondata su di un catalogo di valori forti, che si articolano nei seguenti termini. Valori, famiglia e identità. Il nostro problema, in un'età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni. Rispetto al consumismo, è meglio quel che di bene resta ancora nel «romanticismo». Un esempio per tutti: il contrasto politico all'idea postmoderna della cosiddetta «famiglia orizzontale». Non è questione di essere religiosi o laici. L'idea della famiglia orizzontale e dei suoi strumenti contrattuali di base sublima infatti la cultura del consumismo, consente di passare, come su una piattaforma girevole, dal consumo delle cose al consumo dei rapporti, delle relazioni e dei sentimenti, in nome della nuova ideologia delle liberalizzazioni. L'essenza delle nuove unioni civili, stilizzate come matrimoni «pop», è infatti nella banalizzazione. Non è nemmeno più necessario salire nella sala delle cerimonie del Municipio: è sufficiente fermarsi al pianterreno in sala anagrafe per fare shopping giuridico, per consumare al banco un prodotto tipico di questo tempo, immersi come moltitudine nella solitudine dell'effimero. Un prodotto a bassa intensità morale, e per questo un prodotto che ha un plus rispetto al matrimonio religioso o civile, così démodé nella liturgia, soprattutto così carico di fastidiosi vincoli e doveri. A questa visione si oppone, e francamente va opposta, una visione antica e forte della società, fatta da principi e da doveri.
AUTORITÀ ADDIO
Autorità. È scomparsa l'autorità. Il '68 ha in specie portato con sé la morte dell'autorità distruggendo con furia iconoclasta i suoi simboli di decoro, di rango e di merito. È così che i «diritti» hanno preso il posto dei «doveri». (...) Non si può abrogare per legge il '68, ma molto si può fare anche per legge. Un esempio. Per principio, i pubblici uffici non sono al servizio degli impiegati che ci lavorano, ma dei cittadini per cui gli uffici devono lavorare. Siccome pare che le cose non vadano proprio così, l'idea della sinistra è stata un'idea tipica della «sinistra»: istituire una «autorità» contro i fannulloni. Tipica della sinistra, nei termini che seguono. C'è un problema? Facciamo una legge, ma non una legge che supera il problema, una legge che lo aggira. (...)
Ordine. Il limite essenziale all'impero dell'or dine è nella asimmetria tra ciò che si dice, nella legge, in astratto, e ciò che si fa in concreto «applicando» la legge stessa. (...) Attualmente il binomio legge-ordine richiede dunque l'avvio di un processo opposto: demoltiplicazione e concentrazione, invece di moltiplicazione ed espansione normativa; conoscibilità reale ed effettiva delle leggi, invece di confusione; rigore, invece di lassismo applicativo. (...)
Responsabilità. La società non è fatta solo dai diritti, ma anche dai doveri. E, sempre più spesso, dai doveri che non valgono solo perché sono imposti dalla legge, ma anche soprattutto perché sono espressione del nostro cuore, della nostra anima, del nostro senso di responsabilità. C'è in specie una differenza fondamentale tra dire «siediti e aspetta» e dire «alzati e cammina». La prima formula è una formula legale e totalitaria. Una formula per cui, una volta assolto il tuo dovere fiscale, hai solo diritti e soprattutto sei liberato dall'universo dei doveri sociali: dagli antichi doveri verso te stesso, verso la tua famiglia, verso la tua comunità. In base a questa formula, tutto si identifica infatti verso l'alto, con lo Stato. È una visione totale e verticale. È una visione sbagliata. La visione giusta non è neppure quella opposta. Quella sintetizzata nel dictum thatcheriano, dialetticamente contrapposto allo statalismo della sinistra: «Non esiste la società, esistono solo gli individui». (...) La formula politica nuova e unificante è proprio in questa visione, una visione che è insieme vecchissima e nuovissima. Che è insieme sociale e morale. Una visione che sta in una parola: responsabilità. È questa la visione giusta. È questa - responsabilità - la parola giusta. Quello che c'è ora è infatti un mondo in cui la complessità strutturale va molto oltre la semplicità tipica del primo assistenzialismo, consistente nella mera fornitura della scodella di latte in refettorio, del posto letto in ospedale, del banco a scuola. Nel mondo attuale il problema politico reale non è più infatti o non è solo quello di portare una «massa» di cittadini, calcolata in percentuale sul totale, a un dato standard di prestazioni, ma di mettere in piedi e gestire un nuovo tipo di meccanismo sociale, verificandone l'efficacia, non tanto sull'astratto dei grandi numeri, quanto sul concreto dei singoli casi di intervento. Casi non più indifferenziati nell'uni verso dei «grandi numeri», ma che conservano e fanno anzi gradualmente emergere la loro propria crescente specificità. E possono dunque essere analizzati e trattati solo in questa dimensione. In questi termini, la soluzione non è, e non può più essere, solo nella pura continuazione e/o intensificazione dei meccanismi classici di intervento «di massa» e «dall'alto verso il basso». (...) Per cominciare a cambiare non serve molta fantasia, basta non essere ciechi. Gli europei che fanno volontariato sono già molti milioni: sono milioni di nostri amici, fratelli, mariti, mogli, che volontariamente e gratuitamente fanno lavori spesso difficili, duri, sgradevoli e perciò sgraditi. Cosa vuol dire? Vuol dire tante cose. Anzitutto vuol dire che quanto lo Stato garantisce, in termini di orario di lavoro ridotto o di età di pensione anticipata, la società lo restituisce trasformando il «tempo libero» e l'«età di riposo» in forme intense di impegno civile. La generosità dello Stato sociale è dunque compensata e restituita da una parallela generosità della società. Vuol dire che nella vita c'è qualcosa di più del freddo calcolo delle ore, dei coefficienti, dei parametri di conto: ci sono generosità e passione, responsabilità e umanità.
IL TERZO SETTORE
Questa compagine di volontari costituisce il cosiddetto «terzo settore». Un settore che dà moltissimo e riceve pochissimo. Il primo settore (il privato) finanzia infatti il secondo (lo Stato) con grande sforzo: con la metà circa del suo prodotto. Il secondo settore riserva invece e trasferisce al terzo solo le briciole di quel che riceve. Dare così poco, viste le enormi potenzialità del terzo settore, è un errore. All'opposto, dare di più a favore del volontariato, non sarebbe un costo, ma un investimento. Non una spesa, ma un risparmio (…). La soluzione non è dunque e non può essere più pubblico impiego nei servizi sociali e più tasse per pagarli, immaginando un'illimitata quanto insostenibile imposizione fiscale. La soluzione è invece fuori dallo Stato, nel «comunitario». Ispirata da quello che può sembrare un «pensiero laterale», può essere «rivoluzionaria» la soluzione di estendere progressivamente anche ad altri settori il campo di applicazione di strumenti come l'italiano «5 per mille» (o di strumenti equivalenti, come deduzioni autogestite o voci di imposta con specifico scopo etico). Rivoluzionaria non tanto perché ibrida nuovo e vecchio, filantropia e sussidiarietà, quanto perché rompe il monopolio della politica, trasferendo quote di potere e di responsabilità dallo Stato alla società. In particolare, il meccanismo del «5 per mille» può essere specificamente esteso alla ricerca scientifica, superando il «monopolio scientifico» finora proprio del dirigismo statale, favorendo e sostenendo invece l'iniziativa e l'impegno della società. E poi esteso via via all'ambiente e ad altri settori vitali. Certo, si notava sopra, sono schemi che rompono l'«unicità » del bilancio pubblico e perciò erodono il monopolio della «politica». È un male? No, è un bene. È un pezzo del futuro a cui si deve guardare per credere.
FEDERALISMO
Federalismo. Cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici, i popoli credono ancora, ma credono soprattutto nelle cose piccole e più concrete, nelle cose che sono loro più vicine e che sono più attuali. Credono ancora nel «domani», ma non nel «futuro»; non chiedono la riforma del sistema della sanità, ma il funzionamento del «loro» ospedale; non chiedono la riforma del lavoro, ma il «loro» posto di lavoro. Il «campanile» non può sostituire la «nazione», ma può comunque compensare l'effetto di vuoto portato dalla crisi dello Stato-nazione. Quasi nessuno è infatti più disposto, se non a morire per la «patria», neppure a prestare il «servizio militare» obbligatorio; tutti, però, sono ancora disposti a riconoscersi identitariamente nel loro territorio e se necessario anche a difenderlo in concreto. (...) La difesa dell'identità è in specie la difesa delle nostre identità tradizionali, storiche e di base: famiglie e «piccole patrie», vecchi usi e costumi, vecchi valori, patrimoni d'arte e simboli della memoria. Al fondo c'è - si ripete - qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale; è ciò che dà il senso dei comuni rapporti sociali e dunque il senso della sicurezza. È quel senso della vita che negare o comprimere o sopprimere non solo è difficile, è dannoso. Saremo infatti più forti, nel futuro, soltanto se saremo più radicati nel nostro territorio. È così che il federalismo può sostituire il calante senso del «dovere» verso lo Stato-nazione con la forma politica di una nuova «responsabilità». Nella parte già devoluta verso l'alto in Europa, il vuoto politico può essere compensato rafforzando il Parlamento europeo; nella parte residua può essere rafforzato proprio con l'incremento del federalismo.
LIBERO 5 marzo 2008
Non c’è pace tra gli ulivi
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
sabato 8 marzo 2008
Il relativismo insidia la pace, la storia e le tradizioni
«Non c’è pace tra gli ulivi», è il titolo di un film di Giuseppe De Santis del 1950, che compendia esattamente il clima che si respira in Europa per alcuni fatti della cronaca internazionale: sembra non essere consentito dare seguito ad un’affermazione di cui tutti, ripeto tutti, si fanno belli: «la ricchezza dell’Europa è la diversità delle culture, che devono convivere pacificamente e democraticamente, nel rispetto vicendevole.»
Ad ogni piè sospinto se ne scopre una, tanto che tornano alla mente i versi iniziali di una poesia di Giuseppe Giusti: - Vostra Eccellenza.... o senta il caso avvenuto di fresco a me che girellando una mattina capito in Sant’Ambrogio di Milano, i n quello vecchio, là, fuori di mano... - Qui come Ti aggiri per il Parlamento, quello nuovo, qui al centro dell’Europa, ne scopri qualcuna. Un gruppo di centodieci Eurodeputati hanno preso carta e penna e hanno scritto al Parlamento lituano di non approvare una legge restrittiva dell’aborto, perché contrasterebbe con le conclusioni dell’Assemblea dell’ONU al Cairo sulla popolazione, e quella a Pechino sul ruolo della donna. Conclusioni che raccomanderebbero “la salute riproduttiva” eufemismo che nel linguaggio burocratico internazionale significa aborto.
Tra i firmatari oltre alla Presidente del Gruppo lesbiche, al Presidente del Gruppo gay, ed altri Personaggi noti per le loro posizioni di rottura, ideologicamente preconcette, vi sono dodici italiani: Agnoletto, Aita, Cappato, Catania, Gottardi, Gruber, Guidoni, Locatelli, Morgantini, Musacchio, Pannella e Rizzo. Insieme ai loro novantotto colleghi, hanno una grave duplice responsabilità:
hanno mentito perché non è vero che nelle conclusioni delle due Assemblee dell’ONU citate, vi sia alcuna presa di posizione favorevole all’aborto. Questa è una menzogna che spesso si cerca di accreditare da parte di coloro che avrebbero voluto questo risultato, ma non l’hanno conseguito;
inoltre hanno commesso una grave ingerenza nei confronti del Parlamento di uno Stato membro, Parlamento libero, sovrano, costituito con elezione diretta, e per di più su di una materia non di competenza dell’Unione europea, una materia cioè riconosciuta di spettanza dei singoli Stati che meglio interpretano cultura, storia e tradizione delle rispettive popolazioni.
Atteggiamenti di pesante intromissione, come quelli citati, sono grossolani errori politici perché sono quelli che per reazione determinano posizioni del tipo: «Basta con questa Europa.» Per di più tutto questo nell’anno in cui deve essere ratificato il Trattato di Lisbona.
Quest’altra novità non viene dall’UE, ma da altri Organismi. Il Kosovo il 17 febbraio scorso ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza, sino ad ora riconosciuta, oltre che dall’ONU, da ventisei Stati, di cui diciassette dell’UE. È evidente a tutti che si tratta di una fase delicatissima, sia per le reazioni della Serbia, sia per la posizione assunta da altri Stati, quali Spagna e soprattutto Russia.
Il nuovo Stato entro centoventi giorni dalla dichiarazione d’indipendenza deve dotarsi di una Costituzione: il Public International Law and Policy Group, una ONG che si offre di assistere gli Stati per le questioni di diritto internazionale e problemi costituzionali, ha redatto una bozza di Carta costituzionale che tramite la “Commissione di Venezia”, un Gruppo consultivo del Consiglio d’Europa istituito nel 1990 per seguire la transizione alla democrazia dei Paesi ex comunisti, è all’esame di una Commissione Costituzionale kosovara.
Ebbene la bozza della Carta, all’art. 25 recita: «Ogni individuo gode del diritto alla vita dalla nascita» Mai nessun documento costituzionale o giuridico ha recepito dichiarazioni di questa gravità. Ma non è la sola affermazione paradossale, difficilmente riscontrabile anche in un testo legislativo non solo costituzionale, infatti vi si legge anche del matrimonio omosessuale e dell’implicita ratifica di documenti ONU, inclusi alcuni recentemente messi seriamente in discussione.
Chi sono questi signori che si arrogano la facoltà di avanzare proposte di questa gravità, che stravolgono radicalmente la tradizione islamica e cristiana - ortodossa del Kosovo? Tra l’altro pare giustifichino le loro enormità con la falsa affermazione che questo è ciò che chiede l’Europa. Neppure i centodieci Eurodeputati che hanno scritto al Parlamento lituano hanno mai pensato ad aberrazioni di questo genere, che calpestano la storia di un popolo, che rappresenterebbero un “unicum” nel campo dei Documenti fondamentali degli Stati, e che ignorano e vanificano, al di la delle posizioni etiche, addirittura il dibattito culturale e scientifico in atto nel mondo.
Sono questi tipi di “Volontari” e di “Consulenti” che, operando al di fuori di ogni controllo politico, combinano disastri inutili e dannosi,che si trascinano per anni, lasciando strascichi gravissimi, come già altre volte abbiamo potuto constatare; quindi personaggi poco o nulla professionali: i più pericolosi.
Un relativismo così, ottuso e reazionario, è gran parte delle cause per le quali anche in Europa “non c’è pace tra gli ulivi.” Uno dei compiti dei politici è estirpare questa gramigna che complica inutilmente la vita a tutti, e noi dovremo chiederne conto; ricordiamo che tra un anno ci sono le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.
7 marzo 2008, Il Foglio.it
Le campagne elettorali sospese della Spagna
Ucciso nei Paesi Baschi un ex assessore socialista. Il ministro dell'Interno, Alfredo Perez Rubalcaba: "E' stata l'Eta"
Ieri pomeriggio il Monde titolava: "L'Eta resta una minaccia alla vigilia delle elezioni"
“L’Eta resta una minaccia alla vigilia delle elezioni spagnole del 9 marzo”. Titolava così il Monde di ieri pomeriggio, esplicitando quel disagio che aleggiava in molte analisi del voto di domenica. Dopo Atocha, che cambiò il destino politico della Spagna quattro anni fa, il timore di una sorpresa dell’ultimo momento era forte. Poi oggi l’ex assessore socialista Isaias Carrasco è stato ucciso davanti a casa, a Mondragon. Un’esecuzione dell’Eta. I timori sono diventati realtà e tutto è stato rimesso in discussione: l’esito del voto, tanto per cominciare, ma soprattutto il giudizio sull’operato del governo di José Luis Rodriguez Zapatero nei confronti di un gruppo che, in quarant’anni di terrorismo, ha fatto 819 morti. Il Monde racconta che a Hernani, controllato come altre decine di comuni dai radicali indipendentisti, “la routine” è rendere omaggio in pubblico agli etarras arrestati. La retata che il primo settembre del 2007 ha svelato una base logistico-militare a Cahors, in Francia ha dimostrato che il gruppo è ancora attivo, pur se la “manodopera” è andata diminuendo. Un’insegnante di Hernani dice che tutti sanno che l’Eta è in agonia, ma nessuno pensa che sia finita. E Imma – “chiamiamola così” –, una ragazza di 25 anni con i capelli corti, racconta come si è arruolata e come la sua storia andrà a finire: assieme agli altri, in prigione. Nel giungo del 2007, Eta ha rotto la tregua “concessa” al governo Zapatero poco più di un anno prima. I dirigenti etarras si erano limitati a sminuzzare ulteriormente i frantumi di un cessate il fuoco così poco rigoroso da aver consentito, nelle ultime ore del 2006, l’attentato all’aeroporto madrileno di Barajas costato la vita a due cittadini ecuadoriani. Il progetto è sempre il medesimo: un’Euskal Herria socialista e indipendente secondo il precetto del zazpiak bat (sette-una) che prevede l’unificazione delle tre province basche spagnole, delle tre francesi e della Navarra. La road map verso questo obiettivo contempla una volta di più, e sempre più anacronisticamente, le armi. L’impossibilità di presentarsi alle elezioni, in virtù di quella Ley de partidos confezionata anni fa con l’accordo tra Pp e Psoe, è una delle armi propagandistiche di Eta, che nutre un efficace vittimismo di alti lai contro il “fascista” Zapatero. Non c’è dubbio che la questione basca sia il buco nero in cui si è gettato a capofitto il premier. Zapatero contava di potersi guadagnare un posto nei libri di storia grazie all’archiviazione del terrorismo, ma così non è stato. Ha tentato con la negoziazione e con la disponibilità a trattare, ma la sua mano tesa si è trasformata in un tizzone ardente, esperienza toccata anche ai governi popolari. Proprio agli sgoccioli del 2006 aveva promesso un 2007 sereno nel Paese basco e nella Spagna tutta, ma, soltanto poche ore dopo, l’attentato di Barajas gli ha smozzicato tali parole di ottimismo. Dopo aver respinto le profferte del leader del Pp, Mariano Rajoy, di ripristinare il tandem bipartisan dell’intransigentismo contro i fiancheggiatori politici della violenza, si è trovato a fare la voce contro l’Eta che “continua a sbagliare”. A ottobre dello scorso anno, a Bilbao è esplosa l’auto privata di Gabriel Ginés, guardaspalle di un consigliere socialista del comune di Galdakao. L’obiettivo non era il politico (attualmente in vacanza), ma proprio il suo uomo di scorta, dipendente di un’azienda privata di sicurezza. L’uomo era rimasto seriamente ferito.Pochi giorni prima il sempiterno protagonista della magistratura spagnola, il giudice Baltasar Garzón, approfittando di una riunione semiclandestina, aveva fatto arrestare ventitré componenti della dirigenza di Batasuna – 17 dei quali sono in prigione, in compagnia del loro leader, Arnaldo Otegi, arrestato in precedenza. L’opposizione di centrodestra, da parte sua, sembra limitarsi alla pars destruens, criticando prima l’apertura di Zapatero al dialogo con l’organizzazione armata e poi la sua svolta muscolare, etichettata, con una qualche ragione, come mossa elettoralistica. Senonché, gli stessi popolari hanno battuto a loro tempo queste due medesime strade, con esiti non risolutivi. La Spagna rimane divisa tra i fautori dell’accanimento terapeutico per non far morire il dialogo – che è servito soltanto a permettere a Eta di rimpannucciarsi e di riorganizzare quadri e arsenali – e i partigiani della linea dura contro ogni parente anche lontano del terrorismo – che ha dato ottimi frutti dal punto di vista dell’azione di polizia ma non ha fatto perdere un granché di voti a Batasuna, combustibile per la basca fenice costituita dall’Eta, ogni volta che con qualche acrobazia è riuscita a presentarsi alle urne. Lo stesso Zapatero è rimasto intrappolato in questo dubbio e ha dato sfoggio di sempiterna indecisione, applicando a giorni alterni il rigore e la mano morbida. Un’indecisione che si paga con il cronico stallo della questione basca. Così si spiega la decisione di Eta. Muovere le acque nel più schietto stile dei terroristi. Uccidere.
Strage agghiacciante la pace è una necessità
Avvenire, 8.3.2008
FULVIO SCAGLION
È impossibile immaginare qualcosa di più agghiacciante della strage nella scuola rabbinica Merkaz ha Rav di Gerusalemme, dove un giovane ha sparato su giovani come lui, impegnati nella lettura e nello studio della Bibbia.
Un delitto orrendo, ma ancor più orrendo agli occhi dei 'popoli del Libro', che proprio sull’incontro quotidiano con la Parola di Dio e sull’interpretazione del testo sacro hanno costruito i caratteri della psicologia collettiva e i tesori della civiltà. Un tratto, tra gli altri, che accomuna i cristiani agli ebrei ma che certo non sfugge neppure all’Ahl
al Kitab,
ai musulmani di buona fede e buona volontà, ai quali non può che ripugnare un gesto così efferato e sacrilego. È inevitabile, dunque, che i cattolici italiani si stringano alle famiglie dei ragazzi uccisi a Merkaz ha Rav e sentano il loro dolore come proprio in un moto dell’animo che non è mera solidarietà ma ancestrale vicinanza e comprensione. Come sempre succede in Medio Oriente, però, il lutto potrebbe presto lasciare spazio alla reazione. È giusto allora registrare i passi importanti nelle ore più atroci: la condanna dell’attentato da parte di Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, e la decisione del premier israeliano Olmert di non interrompere le trattative con l’Autorità. È su queste basi, e solo su queste, che la Palestina può sperare di uscire da un secolo di inutili stragi. Anzi, le premesse devono diventare gesti concreti, atti politici più audaci di quelli già visti. Se Hamas, che ha rivendicato il massacro nella scuola, prosegue la sua folle corsa, i palestinesi della Cisgiordania devono distanziarsi il più possibile e organizzare comunque l’inevitabile convivenza con lo Stato ebraico. Toccherà alla diplomazia internazionale, anche fuori dalle cortesie protocollari, tagliare i canali che ancora armano i terroristi di Hamas. A sua volta Israele deve fare delle scelte: a dispetto delle esperienze e dei sospetti, deve cominciare a fidarsi di qualcuno. E questo 'qualcuno' è solo l’attuale Autorità palestinese.
Abu Mazen non può essere un 'moderato' solo quando compare un più cruento estremismo. Se è un moderato vero, come da qualche tempo si dice, lo si aiuti a dare speranza, a creare lavoro, a far sentire i palestinesi un po’ più liberi nei Territori. Anche i palestinesi vogliono veder crescere i figli nel benessere. L’ossessione terroristica di Hamas porta solo morte e va fermata. Ma l’ossessione per la sicurezza di Israele non porta alla sicurezza. L’attentatore di ieri è il secondo nel 2008, dopo quello di Dimona il 4 febbraio, a sfuggire ai muri e ai 500 check-point che punteggiano il Paese. L’assassino della scuola aveva la carta d’identità di Gerusalemme Est: che cosa succederebbe se il rancore travolgesse anche i palestinesi cittadini d’Israele, il 20% sui 6,5 milioni di abitanti? Né va trascurata la deriva dell’esercito, vincitore di ogni guerra ma ora ridotto ad azioni troppo rozze per passare sempre e comunque per 'diritto alla difesa'. Il problema vero emerge nelle ricerche di uno studioso come Sergio Della Pergola, direttore della Divisione di Demografia dell’Università ebraica di Gerusalemme: nel 2020 la popolazione della regione arriverebbe sui 14,4 milioni di persone; la componente ebraica sarebbe tra i 6,3 e i 6,9 milioni, in uno Stato con una popolazione totale tra gli 8,2 e i 9 milioni; i Territori avrebbero tra i 4,2 e i 6 milioni di abitanti che «aggiunti alla minoranza araba in Israele, formerebbero un totale tra 5,8 e 8,7 milioni». Una parte sempre più forte e organizzata e un’altra sempre più numerosa e disperata. Accade domani. La pace non è più una scelta: è una necessità.
EUROPA E IMMIGRATI
Quasi due milioni i musulmani in Gran Bretagna. Crescono le spinte contrarie all’assimiliazione, favorite da un atteggiamento culturale che vuole evitare ogni presunta intolleranza
Londonistan
Corti e leggi islamiche Allarme in Inghilterra
il fatto
Dopo le dichiarazioni del primate anglicano Rowan Williams («inevitabile l’introduzione di alcuni elementi delle norme coraniche») il Paese scopre che esistono tribunali paralleli dove si decidono casi legati a questioni della comunità. «Si rischia una discriminazione al contrario»
DA LONDRA
Avvenire, 8.3.2008
ELISABETTA DEL SOLDATO
Nel 1980, il Consiglio musulmano d’Europa (Islamic Muslim Council) pubblicò un libro dal titolo Comunità musulmane in Stati non musulmani, in cui spiegava quali dovevano essere gli obiettivi degli islamici nel Vecchio Continente.
Nel capitolo «I problemi delle minoranze musulmane e le loro soluzioni», M. Ali Kettani chiedeva ai confratelli che vivono in Paesi non musulmani di riunirsi e organizzarsi al fine di stabilire una comunità basata su principi islamici. Li invitava a fondare moschee, centri sociali e scuole coraniche. E a resistere all’integrazione o all’assimilazione con il resto della popolazione, a meno che ciò avvenisse al fine di diffondere il messaggio dell’Islam.
L’obiettivo ultimo di questa strategia, scriveva l’autore, «è quello di diventare maggioranza e governare il Paese in cui ci si trova secondo la legge musulmana». Da allora, in Gran Bretagna, la presenza islamica è andata aumentando in modo considerevole, arrivando a 1,6 milioni di persone secondo le stime ufficiali (ma si parla di tre milioni). Ed è cresciuta anche la determinazione di almeno alcune frange di imporre la propria cultura e i propri costumi. Qualche settimana fa, il primate della Chiesa Anglicana, Rowan Williams, ha sconcertato il Paese sostenendo che è ormai inevitabile adottare alcuni aspetti della sharia. Eppure, l’acceso dibattito scaturito dal suo intervento ha faticato a prendere atto di una realtà che già esiste in Gran Bretagna da più di vent’anni: quella delle corti islamiche. Gli Islamic Councils si occupano di risolvere dispute relative a controversie familiari dei musulmani britannici, secondo quanto dettato dalla legge islamica. Di solito hanno sede all’interno di moschee, scuole coraniche o associazioni e decidono prevalentemente in materia di divorzio, questioni finanziarie o ereditarie. Non esistono solo nella tollerante e multiculturale Londra: sono presenti in tutto il Paese. La più importante, il Consiglio della Sharia islamica, si trova a Leyton.
La più controversa è a Dewsbury, nel West Yorkshire, città di Mohammed Siddique Khan, il kamikaze principale responsabile dell’attentato a Londra del 7 luglio 2005, in cui persero la vita 52 persone. La corte islamica di Dewsbury risiede all’interno di quello che un tempo era un tradizionale pub inglese ed è registrata ufficialmente come ente benefico per godere di esenzioni fiscali. Non sono solo i cristiani ad opporsi a una legislazione a due corsie. Il Consiglio musulmano della Gran-Bretagna, un’organizzazione non sempre moderata nelle sue prese di posizione, si oppone al sistema duale. «L’islamizzazione dell’Europa sta diventando inarrestabile», denuncia Patrick Sookhdeo, canonico anglicano, difensore dei cristiani perseguitati nel mondo con la sua associazione Barnabas, consulente dell’esercito britannico e della Nato. «Alcuni cristiani – sottolinea Sookhdeo, che è nato in una famiglia islamica e solo in età matura si è convertito – dicono che è troppo pessimista chi predice un passaggio del Continente alla religione musulmana entro la fine del secolo. Ma non si può dimenticare che le regioni oggi comprese nei confini dell’Afganistan e del Pakistan erano un tempo cristiane, così come il nord Africa.
L’avanzata dell’Islam ha completamente sradicato la Chiesa da quelle zone. Sarebbe dunque molto azzardato pensare che una cosa del genere non possa mai accadere in Europa». E prosegue: «I musulmani non vogliono integrarsi, puntano a prendere il controllo della società.
È per questo che tendono a stabilirsi in determinate zone e a raccogliersi in moschee finanziate da ricchi uomini d’affari sauditi dove ascoltare la predicazione di imam che giungono qui dai Paesi islamici». In Gran Bretagna, la comunità è concentrata nel NordOvest, nelle Midlands e a Londra.
Alcune di queste zone sono off limits per i non musulmani; in altre, i cristiani quotidianamente subiscono minacce verbali e aggressioni. Nella terra di Sua Maestà, l’Islam sta muovendo passi particolarmente rapidi perché è aiutato anche da un atteggiamento molto british, che ha origine nel timore di violare il codice della correttezza politica. I britannici preferiscono subire le prevaricazioni pur di non passare per intolleranti. Basti qualche esempio: nelle scuole, negli ospedali e nelle prigioni, viene spesso servita a tutti carne halal (macellata secondo il rito musulmano) per non urtare gli islamici; in classe, le ragazze musulmane, a differenza della Francia, possono indossare il velo; nel quartiere londinese di Tower Hamlets sono stati cambiati i nomi di alcuni distretti perché quelli originali avevano «ascendenze troppo cristiane». In molti istituti statali, in cui l’ora di religione non è obbligatoria, lo studio delle origini dell’Islam ottiene spesso la precedenza rispetto al cristianesimo. Non solo, dice ancora Sookhdeo, «un numero sempre maggiore di università del Regno Unito riceve fondi dall’Arabia Saudita a condizione che gli atenei promuovano una certa linea di pensiero in sintonia con la fede musulmana». Londra – o Londonistan, com’è spesso chiamata per la deriva islamica – è una città in cui hanno trovato a lungo asilo esponenti del terrorismo internazionale. Eppure qui, come nel resto dell’Europa – spiega il direttore di Barnabas –, «molti musulmani continuano a comportarsi come se fossero vittime, quando il resto della popolazione fa di tutto per non offenderli». «La domanda – suggerisce il canonico – è come sopravviverà la comunità cristiana in Gran Bretagna?». Se la Francia sembra determinata a proteggere la sua laicità bandendo il velo dalle scuole e l’Olanda, dopo l’uccisione del regista Theo van Gogh da parte di un giovane musulmano nel 2004, ridisegna il suo multiculturalismo chiudendo le frontiere, «la Gran Bretagna – conclude Sookhdeo – appare sempre più orientata a una sorta di segregazione geografica e legale, dove già ora alla comunità musulmana è consentito rispettare una legislazione diversa e dove i cristiani rischiano di essere discriminati e di non avere tutele, in nome di una correttezza politica senza senso».
Il gulag di Pechino commercia organi
Avvenire, 8.3.2008
«Migliaia di reni, fegati e cornee di condannati a morte cinesi vengono venduti nel mondo e sono una fonte di alti profitti per gli ospedali, la polizia e l’élite del Partito comunista»
DI HARRY WU
La Cina è uno dei Paesi in cui la pena di morte è prevista per legge.
Nonostante gli appelli delle principali organizzazioni internazionali, Amnesty International in testa, ogni anno nel Paese asiatico si contano dalle 8000 alle 10000 condanne a morte. La Cina rappresenta il 22% della popolazione mondiale, ma commina e fa eseguire almeno il 90% delle condanne a morte nel mondo. Se si denuncia questa vera e propria strage, compiuta in nome della preservazione del regime comunista, si viene subito etichettati come nemici del popolo cinese. Il presidente statunitense George Bush, anche dopo le sollecitazioni di Nancy Pelosi, portavoce del Congresso Usa, a metà ottobre del 2007 ha ricevuto il capo del buddismo tibetano, il Dalai Lama. Per questa iniziativa, Pechino ha accusato duramente Washington di ingerenza nella politica cinese, e minacciato forti ritorsioni. Questo episodio è emblematico della protervia e arroganza del governo di Pechino, che pretende dai singoli Paesi, od organismi internazionali, che non esaminino quello che avviene nel suo territorio e soprattutto non assumano un comportamento difforme dalla linea ufficiale cinese, senza tener conto del fatto che questi altri Paesi non sono attualmente colonie della Cina.
Per la decisione di ricevere un capo religioso, esiliato dal regime comunista cinese ormai da decine di anni, un Paese democratico e un presidente liberamente eletto sono rimproverati e attaccati con violenza come se fossero sudditi disobbedienti! Lo stesso è poi accaduto in Italia. Il capo di un Paese in cui da 58 anni, e cioè dall’ascesa di Mao Zedong, viene represso nel sangue qualsiasi anelito di libertà; dove ogni anno si contano decine e decine di migliaia di sollevazioni spontanee; dove i lavoratori sono ridotti in semischiavitù; dove i contadini muoiono letteralmente di fame; dove ci sono ancora, mimetizzati col nome di fabbriche o fattorie, oltre mille campi di concentramento, i laogai, nei quali ho trascorso 19 anni della mia vita, il capo di un Paese di questo genere, mi chiedo che cosa intende quando parla, con modi garbati, di «socialismo armonioso» e «società armoniosa»? In Cina la vita stessa viene repressa in forme e metodi che ricordano le peggiori pagine di storia dei secoli più bui, anche di quello appena trascorso. Ancora oggi migliaia di reni, fegati e cornee di condannati a morte sono venduti sul mercato degli organi umani in Cina e nel mondo, e rappresentano una fonte di alti profitti per gli ospedali, la polizia e l’élite del Partito comunista cinese.
Soltanto nel dicembre del 2006 il regime cinese ha riconosciuto che la quasi totalità degli organi umani venduti viene espiantata dai corpi dei prigionieri uccisi, ma i satrapi di Pechino tentano sempre di negare o minimizzare questi abusi e violenze.
Recentemente il governo ha introdotto misure e adottato leggi che dovrebbero diminuire il numero delle esecuzioni capitali e aumentare il controllo sulla vendita degli organi. Sono previsti, ma soltanto sulla carta, anche la revisione di tutte le sentenze di morte da parte della Corte suprema del popolo e il divieto di usare gli organi dei condannati a morte senza il loro previo consenso. In realtà, le migliaia di esecuzioni continuano, il traffico degli organi umani fiorisce e le torture per ottenere le confessioni persistono. Il numero di esecuzioni capitali è ancora oggi un segreto di Stato in Cina! Il traffico degli organi umani è iniziato nel 1984 con almeno 100 ospedali specializzati in questa macabra pratica. Nel 2007 sono oltre 600 gli ospedali in cui vengono trapiantati gli organi dei condannati a morte.
L’incremento di questi ospedali e il graduale aumento del numero dei crimini puniti oggi con la pena capitale avvalorano il sospetto che in Cina si commini con facilità questa misura di pena per ottenere un maggior numero di organi da commerciare. Perché la comunità internazionale non interviene e non prende iniziative decise per impedire questi crimini? Come giustamente fece osservare il deputato Smith, durante una seduta della Commissione sui Diritti umani del Congresso Usa, il mondo politico ed economico, per la protezione dei propri marchi di fabbrica e brevetti, ha preteso sanzioni contro il regime cinese ma è rimasto muto di fronte al persistere del lavoro forzato, delle esecuzioni capitali e della vendita degli organi umani.
Perché? Nel mondo del terzo millennio questi crimini devono cessare. Le nostre coscienze lo richiedono.
Fra idea e mistica, la Zambrano dispensava luci e folgorazioni María Zambrano, Reyna Rivas
DALLA MIA NOTTE OSCURA
Moretti e Vitali. Pagine 278. Euro 18 Nunzio Bombaci
PATIRE LA TRASCENDENZA
Studium. Pagine 246. Euro 21
Studiò Nietzsche e Jung, ma il suo sguardo era per san Giovanni della Croce e Teresa d’Avila
Avvenire, 8.3.2008
DI MAURIZIO SCHOEPFLIN
Fu a Roma che Maria Zambrano conobbe la scrittrice venezuelana Reyna Rivas. Era il 1958, e la filosofa andalusa abitava nella Città eterna da cinque anni: vi sarebbe rimasta fino al 1964, trascorrendovi uno dei più bei periodi della sua vita, una vita vissuta sotto il segno dell’esilio fin dal 1939, quando, trentacinquenne, aveva lasciato la Spagna per farvi ritorno soltanto nel 1982. Con la Rivas, la Zambrano intratterrà per un fitto epistolario che viene ora pubblicato quale primo dei dieci volumi che andranno a costituire la collana 'Corrispondenze di Maria Zambrano' ( Dalla mia notte oscura. Lettere tra Maria Zambrano e Reyna Rivas.
1960-1989). Nel descrivere le missive ricevute dall’amica filosofa, la Rivas scrive: «Lettere piene di consigli, di pensiero puro, di stimoli, di convinzioni, di luce e di illuminazioni. Lettere piene di ragioni vitali, di indugi e affanni quotidiani, di speranza, di fede piene di azione vitale, di filosofia e poesia, di idee, di valori umani. Maria Zambrano per noi è stata tutto questo: una fonte inesauribile di luce e di folgorazioni». A questa sovrabbondanza di umanità, messa in luce dalla Rivas, corrisponde, nella Zambrano, una sovrabbondanza di pensiero: nella sua opera, infatti, si incontrano e si intrecciano le suggestioni più diverse: e se è facile cogliere in essa la significativa influenza dei maestri spagnoli Ortega y Gasset, Unamuno e Zubiri, non è difficile neppure scorgervi le tracce lasciate da un serio confronto critico con Nietzsche e Heidegger, con Dostoevskij e Jung. E se volessimo trovare l’elemento che in certo modo conferisce unità e omogeneità a questa complessa pluralità di motivi, non potremmo che rivolgerci alla dimensione religiosa, come opportunamente fa Nunzio Bombaci nel denso volume dedicato alla filosofa. Convinta dell’inadeguatezza della ragione pura a penetrare nello spazio del sacro, la pensatrice di Vélez-Malaga attribuì un ruolo fondamentale alla ragione poetica, considerandola una sorta di pietas del pensiero. Al cogito cartesiano, ella antepone l’interiorità agostiniana, il cuore, ove più agevole risulta l’incontro fra l’uomo e il divino. Non casuale risulta l’emergere in diverse occasioni di un forte interesse per la grande letteratura mistica castigliana di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce: la Zambrano guarda a essa nella convinzione di potervi trovare quegli elementi di speranza sempre più rari della filosofia europea contemporanea.
María Zambrano, Reyna Rivas
DALLA MIA NOTTE OSCURA
Moretti e Vitali. Pagine 278. Euro 18 Nunzio Bombaci
PATIRE LA TRASCENDENZA
Studium. Pagine 246. Euro 21
Studiò Nietzsche e Jung, ma il suo sguardo era per san Giovanni della Croce e Teresa d’Avila
Berdjaev, nel cristianesimo prende forma la vera libertà
Nikolaj A. Berdjaev
LA LIBERTÀ CRISTIANA
Il ramo. Pagine 88. Euro 20
Scritta nel 1910 la riflessione del pensatore russo risale all’essenza trascendente dell’agire umano
Avvenire, 8.3.2008
DI FRANCESCO TOMATIS
E siliato dapprima dal regime zarista per la sua giovanile adesione al movimento socialista, il filosofo russo Nikolaj Aleksandrovic Berdjaev (1874-1948) fu poi deportato in Francia nel 1922, per diretto ordine di Lenin, a causa della sua adesione al cristianesimo ortodosso. Egli fu per eccellenza un filosofo della libertà, da porre accanto a Schelling, Lequier, Pareyson, approfondendone e ribadendone il valore in ogni suo scritto. E per Berdjaev è il cristianesimo a delineare la libertà in tutta la sua abissale verità.
A cura di Alessandro Di Chiara, arricchito da interessanti commenti di Giuseppe Riconda e Adriano Dell’Asta, esce per la prima volta in Italia, con originale russo a fronte, un suo scritto del 1910, La libertà cristiana, tradotto da Natascia Castelluccia. Qui Berdjaev chiarisce con efficacia polemica come siano ugualmente distanti dal riconoscere la libertà di coscienza e la libertà di religione sia gli atei o i laici che la riducano ad un diritto formale, benché fondamentale, sia quei religiosi che la considerino in contrasto con la fede. La libertà, infatti, non è un diritto, bensì un dovere, esatto dalla stessa fede cri- stiana; senza il suo esercizio positivo, quindi, non c’è né vera libertà né religione.
Per comprendere appieno la portata della libertà, il suo carattere sacro, occorre riconoscerne il senso metafisico, non riducibile alle formalità giuridiche, alle rivendicazioni individuali, all’ordine naturale. Per l’uomo in genere, per chi religiosamente ispiri la propria vita alla rivelazione del Cristo in particolare, la libertà è un dovere, un obbligo, il quale non significa coercizione, bensì appello, appunto, alla libera scelta personale. Non è affatto libertà l’arbitrio di scelta fra alternative meramente materiali, piuttosto legate alle leggi ferree della natura, visibili e conoscibili scientificamente. Libertà è piuttosto aprirsi, liberamente, ad un mondo superiore, invisibile, distinto eppure intrecciato con il mondo naturale visibile.
Da questa netta distinzione fra ordine naturale e giuridico, visibile e scientificamente accertabile, ed ordine sovrannaturale e religioso, invisibile e solo liberamente esperibile, misticamente, sembrerebbe conseguire una rigida separazione fra Stato e Chiesa, società civile e comunità spirituale. Pur distinguendo nettamente tali due sfere, tanto da affermare che né la Chiesa può sottomettersi allo Stato né essa può diventare Stato, tuttavia Berdjaev interpreta il processo universale secondo un suo senso religioso, leggendo la Chiesa cristiana come quella realtà, anche mondana, permeata sempre maggiormente dall’ordine della grazia divina e conseguentemente, benché liberamente, della libertà dell’uomo. È accollandosi il fardello della libertà che gli uomini possono gradualmente, a fatica, permeare l’ordine naturale e giuridico di quello sovrannaturale e spiritualmente libero. Finché lo spirito trasformerà completamente la materia e le sue negatività, dalla coercizione alla violenza ed alla morte, realizzandosi il Regno di Dio, fondato sulla libertà.
Per Berdjaev non solo esiste una libertà cristiana, ma è il cristianesimo stesso ad essere libertà e spiritualmente libero il cristiano.
Recensione di "Persepolis"
Dal sito sentieridelcinema.it
Persepolis () (2007, Francia)
Genere: animazione
Regia di: Marjane Satrapi, Vincent Paronnaud
La storia di Marjane Satrapi, una ragazza iraniana, dall’infanzia vissuta sotto il duro regime dello Scià all’adolescenza passata in Europa per sfuggire all’ancora più duro regime fondamentalista.
Non è il solito film d’animazione. È innanzitutto un’autobiografia, sincera, romantica ma è anche un racconto molto crudo e realistico. E’ un atto d’accusa, un film politico ma anche un album carico di nostalgia. È la sincerità il tratto distintivo di ‘Persepolis’, tratto dall’omonima graphic novel di Marjane Satrapi. E’ un racconto leggero e duro al tempo stesso di una ragazza – Marjane stessa - che ha avuto la vista distrutta dal regime. Prima quello dello Scià contro cui manifestava la famiglia della piccola Marjane, allora pochi anni ma san gran curiosità e soprattutto dei grandi genitori che le insegnano che cosa è la libertà. Un regime duro e oppressivo, una vera e propria “merda” come lo definiscono i genitori di Marjane ma infinitamente meno brutale della Repubblica islamica impostasi a partire dalla fine degli anni ’70. Quando il velo divenne obbligatorio (“È’ un segno di libertà” scandisce l’insegnante cercando inutilmente di convincere una Marjane adolescente e sempre più ribelle). Quando era (ed è) impossibile vestire all’occidentale perché erano vestiti di satana. Quando per un paio di dischi degli ABBA o degli Iron Maiden si era (si è) costretti a servirsi al mercato nero rischiando il carcere. Quando gli oppositori del regime venivano (e vengono) ammazzati, non “semplicemente” detenuti come sotto la precedente dittatura. Quando insomma non c’era (e non c’è) libertà, e per poter respirare, fumarsi un pacchetto di sigarette americane o uscire la sera cogli amici era possibile farlo solo andando in esilio. Questo è ‘Persepolis’ una fotografia in bianco e nero di una donna che ora vive in Francia (e qui invece i colori ci sono, e sono vividi, perché l’Occidente, volenti o nolenti, è la terra della libertà) e che rimpiange mestamente il dono più prezioso che ci sia, la libertà che il suo popolo ha ormai quasi del tutto
dimenticato.
Simone Fortunato