martedì 18 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Puro cinismo travestito da pennacchio ideologico, di Giuliano Ferrara
2) CUBA LIVRE ! - Torture, digiuno e botte. Benvenuti al Castro Hotel
3) Intervista a Mario Palmaro, 194: una legge gravemente ingiusta
4) La rabbia e la disperazione dei cristiani di Mosul
5) Se un dogma cambia la storia...gli ospedali...
6) Intervista a Padre Livio pubblicata su “Il Venerdì”, settimanale del quotidiano “La Repubblica” (29 febbraio 2008)
7) LA VICENDA DI MONS. RAHHO - QUELLA MORTE COLPISCE I DIRITTI DI TUTTI
8) Attivista tibetano: se è colpa nostra, Pechino inviti osservatori internazionali


17 marzo 2008
dal Foglio.it
Puro cinismo travestito da pennacchio ideologico, di Giuliano Ferrara
Facciamo un po’ di semiologia spiccia, interpretazione dei segni. Scrive Adriano Sofri nel suo pamphlet “contro Giuliano” che “moratoria”, l’estensione di quel termine dalla pena di morte all’aborto, è un furto con destrezza. Lo si può pensare solo a patto di stabilire con sicurezza che la “stringente analogia” (Angelo Bagnasco) tra pena di morte e pena d’aborto non sia tale. Invece l’analogia tiene. E analogia non è un piatto paragone né l’affermazione di una sola identità per due cose diverse: analogia vuol dire che due cose diverse possono e devono essere considerate alla luce di uno stesso principio logico. Questa operazione logica prima di me l’ha fatta il filosofo e giurista laico Norberto Bobbio, nel 1981. Bobbio era un nemico del giusnaturalismo, che considerava un’anticaglia reazionaria. Trattava Leo Strauss, mio maestro giusnaturalista, con degnazione e fastidio. Era liberale e socialista. Era un positivista giuridico, pensava che il diritto positivo è autosufficiente entro certi limiti, che non esistono questioni non negoziabili. Eppure quell’analogia la stabilì con parole non equivocabili, dicendo (letteralmente) di essere favorevole alla difesa intransigente del diritto alla vita del nascituro per le stesse ragioni per cui era contrario alla pena di morte. Una perfetta analogia. E dopo di me in Italia e nel mondo parecchia gente ha creduto che quel furto con destrezza fosse un’operazione retorica legittima. Non solo i cardinali e il Papa, molta gente semplice ha tirato quelle somme logiche. Molta gente complicata si è comportata allo stesso modo. Se René Girard e Roger Scruton e molti altri hanno firmato la lettera al segretario generale delle Nazioni Unite, perché in analogia con la moratoria sulla pena di morte si stabilisse che le politiche pubbliche abortive degli stati asiatici dovevano essere messe fuori della legge internazionale, essendo la vita tale dal concepimento alla morte naturale, qualcosa questo significherà. O no? Invece mi sono stati opposti paralogismi, in odio a un’analogia che tiene e che parla direttamente all’istinto e al ragionamento di milioni di persone. Se è così, le donne sono assassine. Paralogismo demenziale. Sempre per analogia bisogna invece dire che le donne, gli uomini, la scienza medica, i Parlamenti legislatori hanno introdotto con la legalizzazione due possibilità: una è combattere l’aborto clandestino facendolo emergere, e insieme combattere l’aborto in sé, l’altra strada è quella che abbiamo percorso, e consiste nel decidere una volta per tutte che della vita al suo inizio non ce ne frega niente, che è un affare solo delle donne, e che se la devono sbrigare nella solitudine della loro coscienza. E questo sarebbe femminismo, solidarietà e riconoscimento dell’autonomia di genere? Ma mi facciano il piacere. Questo è puro cinismo travestito da pennacchio ideologico. Un altro segno di incomprensione acuta lo ha dato Famiglia cristiana. Mi tratta con simpatia. Ma aggiunge che sbaglio a portare la cosa in politica, che è divisivo porre una questione delicata al giudizio dei cittadini. Perché, ai cittadini vanno poste solo le questioni inessenziali? Capisco che nella cultura cattolica è forte l’idea di agire sulle coscienze individuali, in una logica di conversione più che di diritto positivo, di politica. Ma io sono un laico. Questo è il mio contributo, forse fallimentare forse no, a far riemergere anche in politica (“la più alta forma di carità” secondo Paolo VI) una questione decisiva della vita contemporanea: la tendenza inarrestabile (in apparenza) a un progressivo maltrattamento disumanizzante della vita umana. Che ci posso fare?Infine, sempre Famiglia cristiana dice che sono un “mago” dell’informazione. È un altro modo di dire: furto con destrezza. Ma il mio giornale vende quindicimila copie, un rapido passaggio moratorio su Otto e mezzo valeva tre punti percentuali. Non capiscono i paolini, così esperti come sono in giornali e editoria milionari, che è successo qualcosa al di fuori di me, delle mie effettive possibilità, dei miei mezzi? Non capiscono che se alla fine, con due lire, con due o tre volontari, con uno staff inesistente, con un giornalino di élite, con comportamenti diversi da quelli esplosivi delle battaglie single issue che abbiamo conosciuto (una dieta speciale intimista al posto di un digiuno con collegio medico ansioso), se alla fine la moratoria ha fatto il giro dell’Italia e del mondo, e la lista è in tutte le circoscrizioni della Camera, e la questione è posta per tutti, bè, se è successo questo vuol dire che qualcosa era accaduto in dipendenza non dalla mia magia ma dalla feroce malizia con cui in questi trent’anni avevamo rimosso la questione della vita e della morte?


CUBA LIVRE ! - Torture, digiuno e botte. Benvenuti al Castro Hotel
Ventidue anni recluso nei gulag cubani. Tanto è durato l'inferno di Armando Valladares, imprigionato nel 1960 e liberato nel 1982. Da quel momento, il chiodo fisso di Valladares, scrittore e poeta, è raccontare. Urlare al mondo cosa è stata ed è veramente Cuba, per decenni mitizzata dall'intellighenzia progressista europea. Per questo ha scritto "Contro ogni speranza. 22 anni nei gulag delle Americhe", in libreria per Spirali (pp. 400, euro 25) che in questi giorni sta presentando in Italia: sabato è stato a Milano, ieri a Venezia, stasera è a Bologna (ore 20.45, all'Hotel Aemilia) e giovedì sarà a Roma.
Leggi l'intervista ad Armando Valladares.
Ventidue anni recluso nei gulag cubani. Tanto è durato l'inferno di Armando Valladares, imprigionato nel 1960 e liberato nel 1982, dopo una massiccia mobilitazione internazionale e perfino un appello personale dell'allora presidente francese Mitterrand a Castro. Da quel momento, il chiodo fisso di Valladares, scrittore e poeta, è raccontare. Urlare al mondo cosa è stata ed è veramente Cuba, per decenni mitizzata come luogo di un fantomatico socialismo finalmente umano dall'intellighenzia progressista europea. Per questo ha scritto "Contro ogni speranza. 22 anni nei gulag delle Americhe", in libreria per Spirali (pp. 400, euro 25). Per questo non si stanca di girare il mondo, organizzando conferenze e seminari. In questi giorni è in Italia: sabato è stato a Milano, ieri a Venezia, stasera è a Bologna (ore 20.45, all'Hotel Aemilia) e giovedì sarà a Roma.
Per Libero, ha accettato di ripercorrere la sua straordinaria vicenda.
Cominciamo dal giorno dell'arresto. Perché avvenne e quali erano le accuse?
«Nel 1960 io ero un funzionario del neonato governo castrista. Quel giorno si presentò nel mio ufficio un gruppo di persone, appartenenti alla polizia politica. Volevano appendere al muro un manifesto che inneggiava a Fidel e al comunismo. Io dissi: "No, non mettetelo". Per tutta risposta mi chiesero provocatoriamente: "Ma tu sei comunista?". Io risposi di no. Uno di loro sentenziò: "Non sei comunista, quindi non sei d'accordo con Fidel, quindi sei un potenziale nemico della rivoluzione"».
Poi cosa successe?
«Perquisirono casa mia, la rivoltarono alla ricerca di armi o documenti compromettenti. Ma non trovarono nulla. Però mi sbatterono lo stesso in carcere, perché avevano la "convinzione morale" che io fossi un nemico della rivoluzione. Da lì cominciò la mia odissea».
A quali torture venne sottoposto?
«Non c'è un centimetro del mio corpo che non sia stato percosso e violato. Sono stato rinchiuso otto anni in una cella al buio senza mai uscire. Spesso mi venivano gettate feci e urina in faccia. Il soffitto era composto da fili di acciaio intervallati da fessure. Attraverso queste di notte si affacciavano le guardie munite di lunghi bastoni appuntiti, con i quali iniziavano a torturarmi mentre dormivo. La struttura assomigliava alla "gabbia delle tigri" che usavano i vietcong per torturare i prigionieri americani. Sono rimasto senza cibo anche per 46 giorni. Di fronte all'imposizione di una tuta blu per distinguere i detenuti politici dai criminali comuni, ho scelto di rimanere tutto il tempo nudo».
Quando finalmente uscì, venne contattato da Ronald Reagan, che la nominò ambasciatore della delegazione americana alla Commissione per i diritti umani dell'Onu. Può spiegarci come andò?
«Il presidente Reagan lesse il mio resoconto sull'esperienza nei gulag castristi. Mi chiamò e mi disse: "Lei è l'unico uomo che può dimostrare che a Cuba si violano i diritti umani". Si trattava di una battaglia che Reagan stava vanamente conducendo da anni. Ci conoscemmo, andai nel suo ufficio, e lui mi reputò la persona adeguata per portare la questione davanti alle Nazioni Unite. Fu una vittoria, perché convincemmo l'assemblea di Ginevra ad aprire un'indagine sulla violazione dei diritti umani nell'isola».
È vero che lei ebbe anche un ruolo nella fuga di Alina Fernandez, la figlia di Castro che scappò da Cuba schierandosi contro il padre?
«Sì. In effetti fu un mio piano. Finanziai tramite la Fondazione Armando Valladares (organizzazione internazionale che lotta per la difesa dei diritti umani in tutto il mondo) delle persone che si introdussero di nascosto nell'isola e fecero scappare Alina a Miami. Il padre le negava il permesso di uscita dal Paese».
Nel suo libro lei parla di un "doppio standard" delle Nazioni Unite nei confronti delle dittature, che vengono giudicate a seconda dell'ideologia. In che senso?
«Dal punto di vista etico, ogni dittatura è da condannare in quanto tale, che sia di destra o di sinistra. Ma spesso questo non avveniva: gli stessi che giustamente si strappavano le vesti per i crimini di Pinochet chiudevano poi gli occhi di fronte a quelli perpetrati da Castro. Io rifiuto tutte le dittature. Penso che questa sia l'unica posizione che dà forza morale a chi le denuncia».
Perché secondo lei c'era questa benevolenza verso Cuba?
«A mio avviso ha giocato un ruolo decisivo la vicinanza dell'isola agli Stati Uniti. Castro è apparso come colui che osava sfidare gli Usa, e ha così polarizzato su di sé tutto l'odio antiamericano, ottenendo l'appoggio di giornali, politici, intellettuali. Se Castro avesse instaurato la sua dittatura in Africa o in Asia sarebbe stato spazzato via da molti anni».
Com'è la situazione attuale dei diritti umani a Cuba? C'è un miglioramento con l'ascesa di Raul Castro?
«Raul è tanto criminale quanto il fratello. Anzi, ultimamente c'è stato un giro di vite. Cuba due settimane fa si è impegnata firmando davanti all'Onu un protocollo sui diritti umani. Una settimana dopo, alcuni dissidenti sono stati selvaggiamente picchiati nelle vie de L'Havana. Stavano distribuendo dei volantini con stampata la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. La dittatura continua».

di Giovanni Sallusti
LIBERO 18 marzo 2008


Intervista a Mario Palmaro, 194: una legge gravemente ingiusta
La 194 non è una buona legge applicata male. Non c'è alcuna eterogenesi dei fini, ma al contrario la norma ottiene quello che vuole e che promette: e cioè, che la donna possa decidere in maniera arbitraria della vita del proprio figlio. E' il principio di autodeterminazione della donna. Ora, è inutile una discussione sulla 194 che non contesti questo punto. I cosiddetti aspetti positivi della legge sono assolutamente marginali…
Mario Palmaro è Presidente nazionale del Comitato Verità e Vita (www.comitatoveritaevita.it ). Scrive per il Timone e il Giornale. Filosofo del diritto e bioeticista, insegna all'Università Pontificia Regina Apostolorum e all'Università Europea di Roma. Il suo testo "Ma questo è un uomo" (San Paolo, 1995), giunto alla terza edizione, è considerato uno degli studi italiani più completi sul tema dell'aborto procurato. Per i tipi di SugarCo sta preparando un nuovo libro sull'aborto, che uscirà a maggio.
Professor Palmaro, come giudica quanto sta accadendo in questi giorni in Italia con il riaprirsi del dibattito sulla legge 194?
E' un fatto molto positivo, perché significa che dopo trent'anni di aborto di Stato, la ferita aperta nel nostro Paese non si è ancora rimarginata. Chi sperava di mettere una pietra tombale sulle istanze dei nascituri, che non votano e non rilasciano interviste, dovrà rassegnarsi: ci sarà sempre qualcuno che non è disposto a conformarsi alla prassi e al senso comune. Ben venga un nuovo dibattito sulla legge 194. A patto però che sia una discussione seria. Che cioè si vada al cuore del problema, senza fermarsi alle solite questioni marginali che servono solo a far contenti gli ingenui e a lasciare le cose come stanno.
Sembra di capire che lei non condivida l'idea, diffusa anche in ambienti cattolici, che la 194 non sia poi una legge iniqua, ma solo una legge male applicata...
Mi batto contro la legalizzazione dell'aborto da quando avevo dieci anni, all'epoca in cui in Italia fu approvata la 194. Alle scuole medie facevamo discussioni in classe per convincere compagni e insegnanti che l'aborto non è un diritto ma un delitto. Esiste una "ortodossia" sull'aborto che trent'anni fa era affermata senza cedimenti da riviste e giornali cattolici, e che oggi dobbiamo difendere con i denti, perché c'è in giro molta confusione anche in alcuni ambienti cattolici tutt'altro che marginali. Prevale - quando va bene - una lettura teologico-morale del problema: l'aborto è un grave peccato, si dice. E' vero. Ma poi si aggiunge: la legge 194 non è poi così male, anzi è necessaria per evitare l'aborto clandestino. E questa è, in termini filosofico-giuridici, un'eresia. E' una tesi abortista. Basta la retta ragione per affermarlo.
Se poi si è cattolici…
Se si è cattolici, ci si vada a rileggere quanto Giovanni Paolo II scrive nella Evangelium vitae: il nostro compito non è solo quello – lodevole – di aiutare le donne con gravidanze difficili e distribuire pannolini. Dobbiamo innanzitutto denunciare pubblicamente che la legge 194 è gravemente ingiusta, e che ogni legalizzazione dell'aborto è inaccettabile. Una forma di opposizione che non deve mai essere messa fra parentesi, nemmeno per ragioni strategiche.
Che cosa risponde a coloro che parlano di "aspetti positivi della 194 ancora da applicare"?
La 194 non è una buona legge applicata male. Non c'è alcuna eterogenesi dei fini, ma al contrario la norma ottiene quello che vuole e che promette: e cioè, che la donna possa decidere in maniera arbitraria della vita del proprio figlio. E' il principio di autodeterminazione della donna. Ora, è inutile una discussione sulla 194 che non contesti questo punto. I cosiddetti aspetti positivi della legge sono assolutamente marginali. E' chiaro che si deve fare di tutto per salvare anche un solo bambino. L'importante, però, e che non si dia l'impressione di accettare la "cultura della scelta", per cui si dà per assodato il monstrum giuridico che dà alla donna il potere di decidere della vita o della morte del nascituro.
Alcuni fanno notare che all'articolo 1 la legge parla di "tutela della vita fin dal suo inizio"…
Intanto, non si chiarisce quale sia questo inizio, cavalcando l'ambiguità del termine. E poi, siamo di fronte a un colpo di genio dell'abortismo umanitario: dichiarare un principio che nasconda il senso dell'intera legge sotto il mantello dell'ipocrisia. Sarebbe come se una legge che regolamenta la pena di morte recitasse all'inizio: lo stato tutela i diritti dei detenuti.
Secondo qualche giurista, la 194 non conterrebbe un vero e proprio diritto di abortire per la donna. Lei è d'accordo?
Assolutamente no. A dispetto delle premesse, la legge 194 introduce nell'ordinamento un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte per la donna nei confronti di un altro essere umano innocente. Questo ius vitae ac necis è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, attraverso l'espediente della procedura, che trasforma un delitto in un atto medico pagato dai contribuenti.
Perché capita di ascoltare giudizi assolutori sulla 194 anche da studiosi di area cattolica?
L'effetto peggiore delle leggi ingiuste è che con il passare degli anni si autolegittimano. Dopo trent'anni la 194 fa meno impressione, molti cominciano a metabolizzarla. Eppure questa legge ha fatto quasi 5 milioni di vittime innocenti, ha trasformato l'aborto in una questione esclusivamente femminile, ha escluso il padre dalla decisione. La 194 introduce l'aborto eugenetico, discriminando i concepiti ammalati. L'aborto viene escluso soltanto qualora il feto sia in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna. Non esiste alcun apparato sanzionatorio, ad eccezione dei casi di aborto colposo o contro la volontà della donna. Insomma: questa legge è un vero disastro. Altro che parti positive.
Alcuni, anche nell'ambito dei pro life italiani, propongono di rinunciare all'idea che l'aborto debba essere punito. Che cosa ne pensa?
E' un grave errore, un sorprendente non-senso tecnico giuridico. Il diritto ha un unico linguaggio: stabilire precetti e divieti, e presidiarli con una sanzione. Che potrà anche non essere il carcere, quando ragioni di umanità suggeriscono il ricorso a misure alternative. Ma la pietà non può fare velo alla necessità di tutelare un bene giuridico fondamentale come quello della vita umana. L'infanticidio è, ad esempio, un delitto che mette insieme una colpa oggettivamente gravissima e una condizione spesso fragilissima della madre colpevole. Eppure, nessuno ha proposto – almeno per ora – di depenalizzare questo reato. Ora, non è possibile tutelare la vita del concepito senza l'arma della minaccia sanzionatoria, pur nelle forme e nei modi più compatibili con la natura di questo delitto. Ricordiamoci che l'abortismo si è affermato proprio rivendicano la depenalizzazione.
Si dice che una certa duttilità sui principi sia necessaria, perché oggi non è possibile abrogare o anche solo cambiare la legge 194. Lei che cosa risponde?
Sono più che mai convinto che oggi in Italia non esistano le condizioni per modificare anche di poco la 194. C'è una spaventosa mentalità abortista diffusa, che richiederà decenni di lavoro per essere capovolta. Dopo il referendum del 2005 sulla fecondazione artificiale, qualcuno ha parlato di "vittoria" della cultura della vita: un pauroso abbaglio. C'è però un elemento incoraggiante: le nuove generazioni sono meno ideologizzate dei loro nonni e dei loro genitori. E che cosa possiamo fare per questi ragazzi? Non certo annacquare la verità, per renderla più digeribile. Non certo dire che "la 194 è una buona legge". Ma dire loro con forza che questa è una legge gravemente ingiusta.
Cosa risponde a quanti dicono che, con una simile posizione intransigente, si ostacolano cambiamenti positivi della legge 194 o della sua applicazione?
Che è una tesi assurda. I radicali si battono da quarant'anni per avere il massimo, e così ottengono almeno il minimo. E non si fermano mai. Solo se teniamo alta la posizione di bandiera possiamo esercitare sulla politica – che è luogo di mediazione – una benefica spinta verso la giusta direzione, anche a piccoli passi. Non mi spaventa morire in un mondo in cui ci sia ancora la legge 194. Mi spaventa morire in un mondo in cui più nessuno dice che la 194 è una legge gravemente ingiusta. Non mi spaventa morire in un mondo in cui gli abortisti sono la stragrande maggioranza. Mi spaventa morire in un mondo in cui tutti, anche gli antiaboristi, ragionano e parlano da abortisti.
RADICI CRISTIANE, n. 32, Febbraio/Marzo 2008



14/03/2008 15:31 – IRAQ
La rabbia e la disperazione dei cristiani di Mosul
AsiaNews raccoglie testimonianze tra i fedeli dell’arcivescovo trovato morto ieri. Il timore che la comunità ora possa estinguersi. La polizia irachena punta il dito contro al Qaeda. I progetti del terrorismo islamico per cacciare i cristiani dall’Iraq.

Mosul (AsiaNews) – Rabbia, paura e frustrazione sono i sentimenti più diffusi, a caldo, tra i cristiani di Mosul dopo il ritrovamento ieri del cadavere di mons. Faraj Rahho, tenuto ostaggio dai suoi rapitori per 14 giorni. Il suo sequestro e la sua uccisione non sono stati rivendicati, ma la polizia irachena è convinta che dietro ci sia la mano di al Qaeda. Oggi i funerali, celebrati dal patriarca caldeo card. Emmanuel III Delly a Karamles, hanno visto la presenza di migliaia di persone e di personalità politiche e religiose cristiane e musulmane. AsiaNews ha raccolto la testimonianza di alcuni dei fedeli dell’arcivescovo nell’ultima città roccaforte sunnita. “Per noi era la speranza, il fatto che nonostante le minacce e il pericolo continuava a starci a fianco ci ha dato il coraggio di andare avanti, non so cosa ci aspetta ora, non so dove troveremo la forza!”, dice Fadia. “Di lui quello che più rimaneva impresso era il sorriso – continua Bassam – anche se malato e in pericolo continuava ad andare in giro per le parrocchie a celebrare messa a testimoniarci la sua vicinanza e fede; ora sono preoccupato perché con lui hanno voluto colpire il cuore della nostra chiesa in questa città”.
Oggi il gen. Khaled Abdul Sattar , portavoce della polizia della provincia di Niniveh, ha dichiarato che la morte del vescovo è opera di al Qaeda. Fonti di AsiaNews vicine alle trattative seguite per il rilascio di mons. Rahho, raccontano che solo pochi giorni dopo l’inizio della vicenda si era già capito che si trattava di terroristi, intenzionati a cercare “fondi per il jihad e a premere per la fuoriuscita dei cristiani”. “Nelle telefonate fatte in quei giorni – continuano le fonti anonime – non si è mai parlato di ‘rilascio’ in senso letterale, chiedevano milioni di dollari, armi, uomini e di liberare i loro prigionieri in carcere, ma del vescovo non veniva mai fatto cenno, né ci hanno mai fatto parlare con lui”. Ma i rapitori non si limitavano a questo: “Tra insulti e minacce ci accusavano, come cristiani, di non essere schierati e di non contribuire alla liberazione dell’Iraq, ci dicevano che la nostra presenza non serve al Paese, che non ci siamo mai schierati, che non combattiamo e che per noi non c’è più posto qui”. Questi particolari confermano – come è successo già per alcuni casi di sequestri di sacerdoti – che l’industria dei rapimenti di cristiani in Iraq non è mossa solo dal denaro, ma nasconde un movente confessionale. Lo stesso mons. Rahho aveva denunciato l’esistenza in Iraq di un progetto per eliminare i cristiani, e che a Mosul trova la sua applicazione più evidente, essendo una città divisa nettamente su linee confessionali.
Il presidente Usa George W. Bush ha condannato ieri l’omicidio del vescovo. Ma i giovani a Mosul si chiedono oggi: “Dove sono gli americani e il nostro governo? Dove erano quando mons. Rahho è stato rapito? Da un mese, dopo l’annuncio dell’offensiva per ripulire la città, vediamo elicotteri volare sulle nostre case, ma per il resto non c’è nulla di nuovo, il fondamentalismo ha sempre più potere, la città è fuori dal controllo delle autorità”.
Mons. Rahho, arcivescovo di Mosul da 7 anni, non era solo il punto di riferimento della ormai esigua comunità caldea, ma anche un simbolo del dialogo con i musulmani. “Aveva molti amici tra i leader musulmani ed era una figura impegnato in prima persona nella promozione della convivenza pacifica”, aggiunge un uomo da Mosul. Aveva avviato anche iniziative importanti che con il tempo hanno assunto carattere ecumenico, come la “Fraternità della carità e gioia” per l’assistenza ai disabili. Nata nel 1986 nella parrocchia di San Paolo in breve si era diffusa in tutto il Paese, nelle chiese cattoliche e non.
Oggi a piangere il vescovo in Iraq sono i cristiani di ogni denominazione, come pure i responsabili religiosi musulmani. Anche i caldei della diaspora in Siria si dicono scioccati: “È come se fosse esplosa una bomba accanto noi, non so se riusciremo a risollevarci questa volta – ammette Farred di Mosul e da sei mesi a Damasco – la mia famiglia è ancora lì, ma ormai spero solo che riescano a venire via, non vedo un futuro per la nostra comunità nell’Iraq di oggi”. Domani nella capitale siriana la comunità caldea si riunirà in preghiera e con probabilità l’arcivescovo caldeo di Alepppo, mons. Antonie Audo di Aleppo celebrerà una messa nella parrocchia di Santa Teresa.

TELEGRAMMA DI CORDOGLIO DEL SANTO PADRE PER LA MORTE DI S.E. MONS. PAULOS FARAJ RAHHO, ARCIVESCOVO DI MOSSUL DEI CALDEI

NFORMATO DELLA TRAGICA MORTE DI MONSIGNOR PAULOS FARAJ RAHHO ARCIVESCOVO DI MOSSUL DEI CALDEI A SEGUITO DEL SUO DRAMMATICO RAPIMENTO AVVENUTO LO SCORSO 29 FEBBRAIO DESIDERO FAR PERVENIRE A LEI ALLA CHIESA CALDEA E ALL’INTERA COMUNITA’ CRISTIANA L’ESPRESSIONE DELLA MIA PARTICOLARE VICINANZA RIAFFERMANDO LA PIU’ DECISA DEPLORAZIONE PER UN ATTO DI DISUMANA VIOLENZA CHE OFFENDE LA DIGNITA’ DELL’ESSERE UMANO E NUOCE GRAVEMENTE ALLA CAUSA DELLA FRATERNA CONVIVENZA DELL’AMATO POPOLO IRACHENO(.) MENTRE ASSICURO FERVIDE PREGHIERE DI SUFFRAGIO PER LO ZELANTE PASTORE SEQUESTRATO PROPRIO AL TERMINE DELLA CELEBRAZIONE DELLA VIA CRUCIS INVOCO DAL SIGNORE LA SUA MISERICORDIA PERCHE’ QUESTO TRAGICO EVENTO SERVA A COSTRUIRE NELLA MARTORIATA TERRA DELL’IRAQ UN FUTURO DI PACE (.) CON TALI SENTIMENTI IMPARTO A LEI VENERATO FRATELLO AL PRESBITERIO ALLE PERSONE CONSACRATE E AI FEDELI TUTTI LA CONFORTATRICE BENEDIZIONE APOSTOLICA

BENEDETTO PP. XVI


Se un dogma cambia la storia...gli ospedali...
Di Francesco Agnoli
(del 14/03/2008)
Non è facile capire, per l’uomo moderno, l’incredibile influenza e le conseguenze che può avere avuto in passato sulla vita degli uomini un dogma religioso. Un esempio interessante è l’efficacia operativa che ha avuto nella storia del mondo è il dogma dell’Incarnazione di Dio e della resurrezione dei corpi. Ad esso infatti mi sembra si possa ricondurre l’istituzione tipicamente cristiana e medievale dell’ospedale. Se è vero infatti che la medicina, come scienza, nasce dalla valorizzazione del Logos, tipicamente greca, e biblica, è altresì un fatto che la grecità e le altre culture non hanno mai avuto una attenzione particolare, di tipo caritativo e non solo speculativo, per il corpo debole, sofferente, malato.
La carità cristiana, e solo quella, ha prodotto nei secoli xenodochi, ospizi, misericordie, orfanotrofi, ospedali ed opere pie, dai moti dei pegni ai monti delle doti per le fanciulle senza padre, non solo in nome di Cristo, ma in nome, nel contempo, di una nuova visione teologica del corpo umano. Perché il corpo avesse un ruolo, una attenzione nuova, fu necessario che il pensiero filosofico e teologico cristiano rompesse i ponti con la visione negativa della materia, presente nel mondo greco, e desse al corpo una dignità totalmente altra. Occorreva che il corpo divenisse il tempio di Dio stesso, destinato alla resurrezione eterna. Platone non avrebbe mai accettato la rivoluzione «materialistica» corporale del cristianesimo; avrebbe respinto l’idea di un Dio che prende corpo come pure l’idea che anima e corpo potessero vivere, congiunti, in eterno. Per lui, come poi per gli gnostici, e l’oriente in genere, il corpo era essenzialmente prigione (soma-sema). Tutta la visione greca, e non solo, era essenzialmente cosmocentrica. Per questo «era assurdo che quel corpo che da essi era visto come ostacolo e fonte di ogni negatività e di ogni male, quel corpo dovesse risorgere» (Reale). Dinanzi all’antropocentrismo cristiano, estremamente rivoluzionario, che propone l’uomo come vertice del creato e il corpo come strumento nobile, destinato a risorgere, proposto da san Paolo, i filosofi ateniesi risponderanno con l’interuzione del dialogo. Plotino, che non voleva neppure farsi un ritratto, per disprezzo al suo corpo, sosterrà che l’unica resurrezione possibile è dal corpo, non del corpo, «perché risorgere con un corpo equivale a cadere da un sonno in un altro», essendo esso, in fondo, solo la prigione, la zavorra, il limite, dell’anima. Analogamente Celso, polemista pagano dei primi secoli, scriverà che «non è in effetti possibile che un corpo completamente corrotto ritorni alla natura originaria e proprio a quella primitiva costituzione dalla quale si è dissolto», perché Dio potrebbe «sì fornire alla anima una vita eterna, ma ‘i cadaveri’, dice Eraclito, ‘son da buttar via più che lo sterco’. Ma rendere irragionevolmente eterna la carne, piena di cose che il tacere è bello, Dio certo né lo vorrà né lo potrà», essendo ciò assolutamente irragionevole.
Anche nel mondo romano, l’opposizione al cristianesimo fu spesso dovuta proprio alla visione del corpo propria dei cristiani, accusati, casua l’Eucarestia, di cannibalismo. Così per Apuleio il dogma della resurrezione dei corpi era assurdo, e il mediatore non poteva essere un dio fatto uomo ma dei «daemones, genere animalia, ingenio rationabilia, animo passiva, corpore aeria, tempore aeterna». Il cristianesimo insomma pose fine all’inconciliabilità platonico-gnostica tra materia e spirito, rendendo così comprensibile, doverosa, diffusa la cura del corpo. Ma no è tutto: la filosofia cristiana cercò di armonizzare anima e corpo, dopo secoli di dualismo, subordinando il corpo all’anima, ma in un modo del tutto originale, tramite una visione unitaria e non dualistica dell’uomo, considerato non più come somma direi spuria di anima e corpo, ma come composto, indissolubile, unico, di anima e corpo, in modo che l’uno non possa essere senza l’altro, cioè senza una comunione profonda. Per san Tommaso, infatti, sebbene «il corpo è per l’anima e non viceversa», l’uomo «non è né l’anima né il corpo, ma l’insieme dei due», al punto che all’anima, «senza il corpo sarebbe impossibile prendere coscienza del proprio essere» («Sergio Simonetti, L’anima in san Tommaso, Armando).
Un’idea simile, per la quale non vi è nulla di fisico che non sia anche spirituale, e viceversa, apre la possibilità di guardare all’uomo nella sua unità integrità, nella profonda relazione esistente in lui tra vita biologica e vita fisica. Apre, come dicevo, all’epopea della carità medievale e controriformista, creatrice unica dell’istituzione ospedaliera. Ebbene , nell’attualità mi sembra che accada una regressione: da una parte l’attenzione cristiana per il corpo, perdendo il suo punto di equilibrio, determina una visione totalmente materialista (che è comunque i parte debitrice al cristianesimo). Dallo spiritualismo pre cristiano, che disprezzava il corpo, si passa al materialismo post cristiano, cartesiano, nietzchiano, meccanicista, che trascura la componente spirituale. Dall’altra anima e corpo vengono nuovamente scissi e tornano in conflitto tra loro: si pensi all’idea del gender, che scinde sessualità biologica e sessualità culturale; si pensi alla contraccezione, che scinde amore spirituale e amore carnale; si pensi alla fecondazione in vitro, dove sperma e ovuli vengono conservati sotto azoto, sradicati dal loro ambiente naturale, e dove il processo fisiologico della formazione dell’embrione, che in natura avviene nel corpo, viene spostato in un utero altrui, o in una provetta di vetro, come se operazioni di questo tipo non avessero alcuna conseguenza psico-fisica sulla donna e sul nascituro.


Intervista a Padre Livio pubblicata su “Il Venerdì”, settimanale del quotidiano “La Repubblica” (29 febbraio 2008)
La sua emittente è la più ascoltata dopo la Rai. Oggi padre Livio Fanzaga si confessa in un'autobiografia. E rivela: «Quelle del Papa non sono mai gaffe, ma santa dottrina».
Di Riccardo Stagliano
ROMA. La guerra santa di Radio Maria è la continuazione della politica vaticana con altri mezzi.
Commentando i giornali, ogni mattina, padre Livio Fanzaga passa al setaccio le notizie in cerca di tracce del Maligno. La sua è una caccia quasi sempre fortunata. «Cari amici non facciamoci illusioni» ha arringato i suoi due milioni di ascoltatori quotidiani in occasione della querelle Ratzinger-Sapienza, «Satana è dappertutto, anche nell'Università. Non mi meraviglio che vi siano dei professori cornuti con tanto di tridente e di coda». Non scherza questo sessantasettenne bergamasco con quasi tre lauree che, dalla tolda della sua ascoltatissima emittente, si racconta in Perché sono cristiano (Piemme, 176 pp., 11,50 euro).
La vostra radio fa audience con preghiere e teologia. Miracolo?
«È considerata un'emittente da vecchiette, ma il 40 per cento del pubblico ha il diploma o la laurea.
E succede che, mentre si parla di teologia, ti telefona un camionista che ti dice di essersi convertito dopo aver sperimentato il vuoto della vita. Che può essere infernale, non ti dà neppure i soldi per arrivare a fine mese».
Viviamo però in un periodo di grandi turbolenze tra religione e laicità. Si annunciano crociate sull'aborto, con partiti che ne faranno la loro ragione sociale...
«Grazie a Dio la fede cristiana presuppone la ragione. Anche Norberto Bobbio aveva, sul tema della vita, convinzioni molto simili a noi cristiani. Bisogna trovare punti di convergenza. Io escludo le crociate. Un conto sono le battaglie culturali ma un partito apposta per l'aborto non credo che sia utile».
Quanti papi ha visto e con quale si è sentito più in sintonia?
«Tutti papi straordinari. Iniziando da Giovanni XXIII, bergamasco come me. Col tempo ho apprezzato molto anche Paolo VI. Che capì in anticipo che il vero problema era, è, la crisi della fede, il non credere più nell'aldilà. Giovanni Paolo II ha compreso il momento drammatico degli uomini che per la prima volta possono distruggere il pianeta. E, contro il rischio apocalisse, ha consacrato il millennio alla Madonna».
E arriviamo a Benedetto XVI...
«Intanto, per quanto ne so, apprezza Radio Maria e ci ha molto incoraggiati. Poi ha grande cura della fede, una fede molto salda che non concede niente al relativismo, alle religioni fai da te. La stessa nostra attitudine».
Epperò ha avuto più di un incidente di percorso, litigando con gli islamici per il discorso di Ratisbona, con gli ebrei per la frase antisemita della messa in latino. Spigoloso o politicamente ingenuo?
«Si tratta di una persona di grande esperienza. Conosce la Chiesa e i vescovi: escluderei l'ingenuità.
Piuttosto il suo è un grande scrupolo di coscienza di essere fedele alla santa dottrina anche a costo di decisioni politicamente impopolari. Certo non ha il carattere diplomatico di Giovanni Paolo II».
Questo spiega anche l'incidente della Sapienza?
«La sua prevista visita è stata male interpretata. Doveva essere il discorso inaugurale di un grande intellettuale e l'università era il luogo adatto. Poi la politica ha preso il sopravvento».
È in atto un'offensiva della Chiesa nei confronti della società italiana, ad esempio sulle
famiglie omosessuali?
«La Chiesa non si limita a predicare la fede ma punta all'orientamento della vita delle persone.
Giovanni Paolo II l'aveva già detto: famiglia e vita sono la nuova frontiera. Quindi, sulla crisi della famiglia, non servono grandi discussioni ma dimostrare che esistono famiglie stabili che si vogliono bene e dove i figli crescono bene».
Lei è un uomo potente, ascoltato ogni giorno da un pubblico enorme: come amministra questo
potere?
«Bah, mi faccio da mangiare da solo, vivo come un monaco. Siamo in 2-3 fissi a mandare avanti questa cosa artigianale. Quando ho cominciato a lavorarci era una radio parrocchiale. Mi hanno nominato direttore ma i soci potrebbero sceglierne un altro in qualsiasi momento».
Nella sua temuta rassegna stampa nessuno l'ha mai sentita criticare il centrodestra, solo il centrosinistra: un religioso deve fare politica?
«Sono figlio di operai. Ho una sorella che lavora per la Cgil e un fratello per la Cisl. Vedo la povertà della gente e sono favorevole a politiche di ridistribuzione del reddito. Ma non posso trascurare le grandi questioni sulla vita e la famiglia. E registro che il centrodestra non propone i "dico"...».
Se guarda alle loro vite private, però le scelte spesso si discostano dalla teoria...
«Bisogna sempre stare molto attenti: mai compromettersi con nessuno, magari si scopre che hanno rubato. Per quanto riguarda la morale privata ho letto da giovane La storia dei papi di Ludwig von Pastor e ho scoperto che la vita personale di celti pontefici era da mettersi le mani nei capelli.
Meglio concentrarsi sui programmi. Anche noi preti a volte predichiamo bene ma razzoliamo male.
Certo, un minimo di coerenza ci vuole...».


LA VICENDA DI MONS. RAHHO - QUELLA MORTE COLPISCE I DIRITTI DI TUTTI
Avvenire, 18 marzo 2008
CESARE MIRABELLI
Può sembrare singolare che nel mondo sia necessario ribadire ancora oggi che ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla si­curezza della propria persona», o che tutti hanno diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religio­ne, e che questo diritto «include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, i­solatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione, o il proprio credo, nell’in­segnamento, nelle pratiche, nel cul­to e nell’osservanza dei riti». La pro­fessione e la pratica della propria re­ligione, come il mutamento di cre­do, non deve dunque mettere in pe­ricolo la vita e la sicurezza della per­sona. Queste sono affermazioni del­la Dichiarazione universale dei di­ritti dell’uomo, proclamata sessan­ta anni fa dall’Assemblea delle Na­zioni Unite, ammaestrate dalle tra­giche esperienze cui l’umanità era stata sottoposta.
Non si tratta di auspici o esortazio­ni affidati ad un impegno morale. Si tratta di veri e propri diritti, che so­no stati poi garantiti da convenzio­ni internazionali, le quali vincolano formalmente gli Stati, e li impegna­no ad osservarli ed a pretendere che siano osservati. Il Patto internazio­nale sui diritti civili e politici (1966) garantisce, nei termini già afferma­ti dalla Dichiarazione universale, il diritto alla vita, che considera ine­rente alla persona umana, il diritto alla libertà ed alla sicurezza della persona, la libertà di professare e praticare la propria religione.
Eppure, si tratta di diritti ancora og­gi violati. In non pochi luoghi è im­pedita la libera professione della propria fede e la pratica religiosa in privato e in pubblico. Intere comu­nità sono discriminate o colpite per la religione praticata. È limitata la li­bertà o è aggredito chi ne guida la vi­ta religiosa, sino a mettere a rischio la sicurezza e la vita delle persone. A volte l’attacco è sistematico, tolle­rato o non impedito, se non addi­rittura consentito o promosso, da Stati che non rispettano i diritti u­mani.
La procurata morte dell’arcivescovo di Mosul Rahho, come un anno fa l’uccisione del suo segretario, non costituisce purtroppo un doloroso ed isolato episodio. Né le violazioni della libertà religiosa riguardano so­lo quel Paese.
La sofferenza a causa della religio­ne professata, sino al martirio, ha l’i­nestimabile valore della testimo­nianza della fede. Ma rende mani­festa una profonda ferita dei diritti dell’uomo, che richiedono a tutti gli individui ed alle comunità di invo­carne e praticarne il rispetto; agli Stati ed alle organizzazioni interna­zionali di assicurarne la protezione. I diritti fondamentali della persona, e tra questi i diritti della coscienza e della fede, sono riconosciuti e ga­rantiti come diritti universali. Uni­versali perché non sono ristretti nei confini di ciascuno Stato, né rimes­si alla discrezionalità delle loro leg­gi, ma essendo inerenti alla perso­na umana devono essere assicurati in ogni luogo ed a ciascun indivi­duo. Universali perché la loro viola­zione, sia pure nei confronti di un solo individuo, colpisce e mette in pericolo i diritti di tutti e richiede da tutti una chiara affermazione di con­danna ed un serio contrasto.
Gli Stati e le organizzazioni interna­zionali devono adoperarsi perché queste violazioni non accadano. De­vono impegnarsi perché non si ri­petano. Questo è necessario, se non vogliamo che i diritti fondamentali, i diritti umani, si riducano ad un’af­fermazione retorica, che rischia di rimanere più volte priva di effettivo riscontro nella realtà.


18/03/2008 08:56
TIBET – CINA
Attivista tibetano: se è colpa nostra, Pechino inviti osservatori internazionali
di Nirmala Carvalho
Rispondendo al premier cinese Wen Jiabao – che ha accusato “la cricca del Dalai Lama” per gli scontri avvenuti nei giorni scorsi in Tibet – il direttore del Centro di ricerca parlamentare tibetano ricorda la campagna decennale di odio nei confronti del Tibet lanciata da Pechino ed accusa: la situazione peggiora di giorno in giorno, i poliziotti sparano a vista.

Dharamsala (AsiaNews) – Se la Cina è convinta che dietro agli scontri avvenuti in Tibet negli scorsi giorni vi è la mano del Dalai Lama “perché ha chiuso i confini, impedisce ogni comunicazione da e per Lhasa e non concede l’ingresso di osservatori internazionali? Chi è innocente non ha paura di un giudizio indipendente; anzi, ne può soltanto guadagnare”. E’ la risposta data da Penpa Tsering, direttore del Centro di ricerca parlamentare tibetano, al primo ministro cinese Wen Jiabao, che questa notte ha accusato “la cricca del Dalai Lama” delle violenze scoppiate in Tibet negli ultimi giorni.
Le proteste sono nate lo scorso 10 marzo, quando centinaia di persone - divenute con il tempo migliaia – hanno manifestato a Lhasa e in altre località del Tibet per commemorare le vittime della sanguinosa repressione del 1959, attuata dal governo comunista contro la popolazione tibetana che chiedeva il ritorno dell’indipendenza. Durante quelle rivolte, il Dalai Lama - leader spirituale del buddismo tibetano – era stato costretto all’esilio. Secondo il governo tibetano in esilio a Dharamsala, le vittime della repressione sono “centinaia”. Per Pechino, i morti sono 13.
Ad AsiaNews, l’attivista spiega: “Da informazioni ricevute, sappiamo che la situazione in Tibet continua ad essere tremenda. Manca il cibo, perché i negozi non vogliono aprire ed i commercianti tengono le merci nelle campagne, e la polizia ha ricevuto l’ordine di sparare a vista in caso di assembramenti composti da più di due persone. La gente ha paura”.
Nel corso di una conferenza stampa, il premier cinese ha detto che “gli incidenti e le violenze dei giorni scorsi in Tibet sono state premeditate e organizzate dalla cricca del Dalai Lama. I manifestanti tibetani hanno attaccato cittadini innocenti e le loro proprietà, hanno compiuto saccheggi e incendi ed hanno ucciso in modo estremamente crudele cittadini innocenti”.
Il premier ha inoltre respinto l'accusa rivolta dal Dalai Lama a Pechino di compiere in Tibet un “genocidio culturale”: “Questa è una bugia. Il loro comportamento dimostra che tutte le loro affermazioni sul fatto che chiedono l'autonomia e non l'indipendenza non sono altro che falsità. Se accettano che il Tibet fa parte della Cina, la nostra porta è sempre aperta per il dialogo”.
Queste, riprende Tsering, “sono soltanto provocazioni: se le dichiarazioni di Wen Jiabao avessero una parvenza di realtà, la coesistenza fra tibetani e cinesi sarebbe pacifica ed accettata da tempo. La realtà è un’altra: non possiamo studiare la nostra lingua nel nostro Paese, non possiamo pregare con i riti del nostro padre, non possiamo vedere il nostro leader spirituale, il Dalai Lama”.
Infine, conclude il direttore del Centro, “non si possono ignorare i termini con cui Wen Jiabao ha risposto alle domande dei giornalisti: definire il governo tibetano in esilio ‘una cricca’, ed accusare il nostro massimo vertice religioso di sedizione, fa parte di una cospirazione che va avanti da tempo, tesa a screditare la nostra causa agli occhi del mondo. Questo non deve avvenire, perché la nostra è semplicemente una lotta pacifica per la sopravvivenza”.