Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'embrione sarà un bambino, non un maialino - di Massimo Pandolfi
2) All'udienza generale Benedetto XVI parla di Simeone il Nuovo Teologo - La fede non si impara sui libri ma nasce dallo spirito - La vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma da un'esperienza dello spirito. Lo ha sottolineato il Papa all'udienza generale di mercoledì 16 settembre, nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha dedicato la catechesi a Simeone il Nuovo Teologo, monaco dell'Asia minore che ha esercitato "un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente". L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
3) Il mistero dell'Incarnazione nel VII canto del Paradiso - Dante risponde alla domanda di Anselmo - di Alessandro Ghisalberti - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
4) Trent'anni di «Apocalypse Now» - Il film che Orson Welles non riuscì a girare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
5) Anche in «Cuore di tenebra» di Conrad solo Kurtz ha il coraggio di guardare il fondo del baratro - Marlow (Willard) tiene famiglia - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
6) GIORNALI/ Magister: c’è un laicismo che vuol far tacere la Chiesa - INT. Sandro Magister giovedì 17 settembre 2009 – ilsussidiario.net
7) Quei vescovi intimiditi in ginocchio da Allah - La conferenza episcopale svizzera sponsorizza i minareti e nelle chiese italiane si diffonde la propaganda musulmana - Magdi Cristiano Allam (Libero, 13 settembre 2009)
8) IL CORAGGIO DI EDUCARE - OBIETTIVI PER TORNARE DALL’ESILIO - ANGELO B AGNASCO – Avvenire, 17 settembre 2009
9) IL « SÌ » UNANIME DELLA C AMERA ALLA NUOVA LEGGE - Cure palliative una lezione sui diritti - ASSUNTINA M ORRESI – avvenire, 17 settembre 2009
10) EllaOne, il nuovo nome dell’aborto «mascherato» - Avvenire, 17 settembre 2009
L'embrione sarà un bambino, non un maialino - di Massimo Pandolfi
L'altro giorno monsignor Rino Fisichella, uno dei supervescovi italiani, ha detto: 'Dall'embrione nasce un uomo o una donna, non nasce un'aquila o un maialino. L'embrione non è un po' di muffa, non è un insieme di cellule amorfe: è una cellula umana che diventerà un feto e poi un bambino'.
Siamo arrivati a questo punto: è necessario (sì, è necessario) ricordare di che cosa si sta parlando quando si tratta l'argomento aborto. Perchè nelle mille discussioni che si aprono a riguardo di pillola abortiva e dintorni, ci si ricorda di tutti tranne del soggetto più debole: quel bambino che non si vuole far nascere, quel bambino che non nascerà mai.
E bene ha fatto Fisichella a ripartire dall'Abc che l'uomo moderno vuole saltare, perchè così magari ha meno magoni. Si parla della libertà della donna, dell'assistenza del marito, dell'importanza del medico, ma quel bambino, o se volete quel feto, e comunque quel 'tu che eri anche tu' che fine ha fatto? Niente, è come se non esistesse.
L'altro giorno, in Emilia Romagna, il dipietrista Nanni ha attaccato Varani (pdl) con questa lettera, intitolata 'Attaccano la pillola abortiva per attaccare la libertà della donna'. Ha scritto Nanni: 'Dice il Cons.re Reg.le del Pdl, il ciellino Gianni Varani: “La Ru486 è la via con la quale si sta cercando di scaricare sulla donna le responsabilità e la gestione dell’aborto” come dire: la legge sull’aborto (la 194) e le linee guida della regione Emilia-Romagna attinenti l’interruzione volontaria di gravidanza tramite la pillola abortiva (la Ru486, appunto) sono “contro” e non “a favore della donna”. Con questo, fermo restando che l’uso di qualsiasi medicinale può avere effetti collaterali indesiderati, cosa vuole il forzista?....vuole forse ritornare alle “mammane” ed all’aborto “fai da te”? Sicuramente no, perché Varani è uomo di “coscienza”, è il concetto di libertà di scelta non condiviso dalle gerarchie ecclesiastiche che Egli attacca! Non si rende conto che nella coppia, ora e giustamente, la donna rivendica un ruolo decisionale che negli anni passati era riservato solo all’uomo e ci appare discriminatorio il fatto che, mentre per l’uomo, allora, non si invocasse un eccesso gravoso di responsabilità, ora, lo si faccia per la donna. Perchè non si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e non si cessa di giocare con le parole per ingannare chi con le parole non sa giocare? Chi deve prendersi la gravosa e dolorosa responsabilità di un’interruzione di gravidanza se non la donna che porta in grembo quella creatura e che, comunque, sarà sempre la responsabile della sua decisione? Chi deve gestire la gravosa e dolorosa gestione dell’aborto, se non la donna, che decide un intervento estraneo di tal genere, non solo sulla sua creatura, ma anche sul suo corpo! Perché si è tanto pietosi nei riguardi della donna che decide di abortire, tanto pietosi da volerle togliere questa libertà? Chi ha detto che la responsabilità sarà solo sua? Quando il rapporto di coppia sarà fruttuoso, la donna spartirà questo peso con il suo uomo e solo quando i pareri saranno discordi avrà il sopravvento. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che la donna è sempre stata il pilastro dell’organizzazione sociale e familiare e non temere che sbagli, perché comunque pagherà sempre in prima persona!'
Credo che Nanni rappresenti l'esempio vivente del nichilismo di quest'epoca. Parla di tutto, tranne che di quel feto. Da cui non nascerà un'aquila o un maialino, ma un uomo o una donna. E anche il signor Nanni era un feto. Ed è diventato il signor Nanni, non un'aquila. E neanche un maialino.
(14/09/09 - Massimo Pandolfi's Blog)
All'udienza generale Benedetto XVI parla di Simeone il Nuovo Teologo - La fede non si impara sui libri ma nasce dallo spirito - La vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma da un'esperienza dello spirito. Lo ha sottolineato il Papa all'udienza generale di mercoledì 16 settembre, nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha dedicato la catechesi a Simeone il Nuovo Teologo, monaco dell'Asia minore che ha esercitato "un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente". L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Cari fratelli e sorelle,
quest'oggi ci fermiamo a riflettere sulla figura di un monaco orientale, Simeone il Nuovo Teologo, i cui scritti hanno esercitato un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente, in particolare per ciò che riguarda l'esperienza dell'unione mistica con Dio. Simeone il Nuovo Teologo nacque nel 949 a Galatai, in Paflagonia (Asia Minore), da una nobile famiglia di provincia. Ancora giovane, si trasferì a Costantinopoli per intraprendere gli studi ed entrare al servizio dell'imperatore. Ma si sentì poco attratto dalla carriera civile che gli si prospettava e, sotto l'influsso delle illuminazioni interiori che andava sperimentando, si mise alla ricerca di una persona che lo orientasse nel momento pieno di dubbi e di perplessità che stava vivendo, e che lo aiutasse a progredire nel cammino dell'unione con Dio. Trovò questa guida spirituale in Simeone il Pio (Eulabes), un semplice monaco del monastero di Studios, a Costantinopoli, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco. In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: "Se cerchi la guarigione spirituale - vi lesse - sii attento alla tua coscienza. Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile". Da quel momento - riferisce egli stesso - mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli.
Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove, però, le sue esperienze mistiche e la sua straordinaria devozione verso il Padre spirituale gli causarono difficoltà. Si trasferì nel piccolo convento di San Mamas, sempre a Costantinopoli, del quale, dopo tre anni, divenne il capo, l'igumeno. Lì condusse un'intensa ricerca di unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità. È interessante notare che gli fu dato l'appellativo di "Nuovo Teologo", nonostante la tradizione riservasse il titolo di "Teologo" a due personalità: all'evangelista Giovanni e a Gregorio di Nazianzo. Soffrì incomprensioni e l'esilio, ma fu riabilitato dal Patriarca di Costantinopoli, Sergio II.
Simeone il Nuovo Teologo passò l'ultima fase della sua esistenza nel monastero di Santa Marina, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli. Morì il 12 marzo 1022.
Il più noto dei suoi discepoli, Niceta Stetatos, che ha raccolto e ricopiato gli scritti di Simeone, ne curò un'edizione postuma, redigendo in seguito la biografia. L'opera di Simeone comprende nove volumi, che si dividono in Capitoli teologici, gnostici e pratici, tre volumi di Catechesi indirizzate a monaci, due volumi di Trattati teologici ed etici e un volume di Inni. Non vanno poi dimenticate le numerose Lettere. Tutte queste opere hanno trovato un posto di rilievo nella tradizione monastica orientale sino ai nostri giorni.
Simeone concentra la sua riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nei battezzati e sulla consapevolezza che essi devono avere di tale realtà spirituale. La vita cristiana - egli sottolinea - è comunione intima e personale con Dio, la grazia divina illumina il cuore del credente e lo conduce alla visione mistica del Signore. In questa linea, Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall'esperienza spirituale, dalla vita spirituale. La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell'amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all'unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi. Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell'esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.
Un punto su cui riflettere, cari fratelli e sorelle! Questo santo monaco orientale ci richiama tutti ad un'attenzione alla vita spirituale, alla presenza nascosta di Dio in noi, alla sincerità della coscienza e alla purificazione, alla conversione del cuore, così che realmente lo Spirito Santo divenga presente in noi e ci guidi. Se infatti giustamente ci si preoccupa di curare la nostra crescita fisica, umana ed intellettuale, è ancor più importante non trascurare la crescita interiore, che consiste nella conoscenza di Dio, nella vera conoscenza, non solo appresa dai libri, ma interiore, e nella comunione con Dio, per sperimentare il suo aiuto in ogni momento e in ogni circostanza. In fondo, è ciò che Simeone descrive quando narra la propria esperienza mistica. Già da giovane, prima di entrare in monastero, mentre una notte in casa prolungava le sue preghiere, invocando l'aiuto di Dio per lottare contro le tentazioni, aveva visto la stanza piena di luce. Quando poi entrò in monastero, gli furono offerti libri spirituali per istruirsi, ma la loro lettura non gli procurava la pace che cercava. Si sentiva - egli racconta - come un povero uccellino senza le ali. Accettò con umiltà questa situazione, senza ribellarsi, e allora cominciarono a moltiplicarsi di nuovo le visioni di luce. Volendo assicurarsi della loro autenticità, Simeone chiese direttamente a Cristo: "Signore, sei davvero tu stesso qui?". Sentì risuonare nel cuore la risposta affermativa e ne fu sommamente consolato. "Fu quella, Signore - scriverà in seguito - la prima volta che giudicasti me, figlio prodigo, degno di ascoltare la tua voce". Tuttavia, neanche questa rivelazione lo lasciò totalmente quieto. Si interrogava piuttosto se pure quell'esperienza non fosse da ritenersi un'illusione. Un giorno, finalmente, accadde un fatto fondamentale per la sua esperienza mistica. Egli cominciò a sentirsi come "un povero che ama i fratelli" (ptochós philádelphos). Vedeva intorno a sé tanti nemici che volevano tendergli insidie e fargli del male, ma nonostante ciò avvertì in se stesso un intenso trasporto d'amore per loro. Come spiegarlo? Evidentemente non poteva venire da lui stesso un tale amore, ma doveva sgorgare da un'altra fonte. Simeone capì che proveniva da Cristo presente in lui e tutto gli divenne chiaro: ebbe la prova sicura che la fonte dell'amore in lui era la presenza di Cristo e che avere in sé un amore che va oltre le mie personali intenzioni indica che la fonte dell'amore sta in me. Così, da una parte possiamo dire che senza una certa apertura all'amore Cristo non entra in noi, ma, dall'altra, Cristo diventa fonte di amore e ci trasforma. Cari amici, questa esperienza resta quanto mai importante per noi, oggi, per trovare i criteri che ci indicano se siamo realmente vicini a Dio, se Dio c'è e vive in noi. L'amore di Dio cresce in noi se rimaniamo uniti a Lui con la preghiera e con l'ascolto della sua parola, con l'apertura del cuore. Solamente l'amore divino ci fa aprire il cuore agli altri e ci rende sensibili alle loro necessità, facendoci considerare tutti come fratelli e sorelle e invitandoci a rispondere con l'amore all'odio e con il perdono all'offesa.
Riflettendo su questa figura di Simeone il Nuovo Teologo, possiamo rilevare ancora un ulteriore elemento della sua spiritualità. Nel cammino di vita ascetica da lui proposto e percorso, la forte attenzione e concentrazione del monaco sull'esperienza interiore conferisce al Padre spirituale del monastero un'importanza essenziale. Lo stesso giovane Simeone, come s'è detto, aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica. E vorrei dire che rimane valido per tutti - sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani - l'invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all'unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo. Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo. Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni. E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida.
Concludendo, possiamo sintetizzare così l'insegnamento e l'esperienza mistica di Simeone il Nuovo Teologo: nella sua incessante ricerca di Dio, pur nelle difficoltà che incontrò e nelle critiche di cui fu oggetto, egli, in fin dei conti, si lasciò guidare dall'amore. Seppe vivere lui stesso e insegnare ai suoi monaci che l'essenziale per ogni discepolo di Gesù è crescere nell'amore e così cresciamo nella conoscenza di Cristo stesso, per poter affermare con san Paolo: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2, 20).
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Il mistero dell'Incarnazione nel VII canto del Paradiso - Dante risponde alla domanda di Anselmo - di Alessandro Ghisalberti - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Il trattato Perché un Dio uomo? (Cur Deus homo), ultimato da Anselmo d'Aosta nel 1098, segna l'inizio della grande stagione della cristologia scolastica, intesa come riflessione insieme filosofica e teologica sull'incarnazione del Verbo di Dio, sulla "convenienza" della sua azione redentrice dell'uomo attraverso la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. L'influenza dell'impostazione anselmiana sui trattati dei maestri dei secoli xiii e xiv è stata decisiva per sviluppare l'intelligenza dei dati di fede circa la modalità della redenzione; per quanto riguarda Dante, è nel canto VII del Paradiso che troviamo un percorso teologico profondamente modellato sulla dottrina anselmiana del Cur Deus homo.
Lo sviluppo del tema dell'incarnazione del Verbo nel canto VII è stimolato dalle parole di Giustiniano (canto vi, versi 92-93), che hanno suscitato un interrogativo nella mente di Dante: se la crocifissione di Cristo è stata la giusta vendetta con la quale venne placata l'ira di Dio verso gli uomini dopo il peccato originale, come Giustiniano ha potuto dire che, con la distruzione di Gerusalemme a opera di Tito, gli ebrei furono giustamente puniti in quanto responsabili della morte del Messia?
Beatrice avverte la difficoltà che questo interrogativo provoca nella mente di Dante e si dichiara pronta a sciogliere il nodo, pregandolo di ascoltare con molta attenzione, perché le sue parole gli faranno dono di una grande verità. Prende così il via il discorso di Beatrice sulla creazione e sulla redenzione, il più lungo fra quelli da lei pronunciati in tutto il poema e che occupa quasi tutto il canto VII, da molti critici considerato il più arduo, forse non a torto, dei canti dottrinali della Commedia.
Ai versi 26-52 viene data la soluzione del dubbio suscitato dall'affermazione paradossale della giusta vendetta compiuta nei confronti di un'altra giusta vendetta; ma la mente di Dante, passando da un pensiero all'altro, è rimasta chiusa dentro un dubbio che si è aggiunto: rimane incomprensibile perché Dio, per redimerci, abbia scelto proprio "questo modo", quello, cioè, della passione e morte di Cristo. Beatrice si fa carico di gettare luce su questo problema molto difficile e poco frequentato:
"Tu dici: Ben discerno ciò ch'i' odo; / ma perché Dio volesse, m'è occulto, / a nostra redenzion pur questo modo" (vv. 55-57).
L'accesso alla trattazione riproduce la domanda di Anselmo, che all'inizio del Cur Deus homo (i, 5) si chiede il perché di un diretto intervento di Dio per la salvezza dell'uomo: la ragione umana avrebbe meno difficoltà a capire la liberazione dell'uomo se si dicesse che essa fu compiuta per mezzo di un angelo o di un uomo, ma non personalmente da Dio. Anselmo risponde che se la redenzione fosse compiuta da un mediatore quale un uomo o un angelo, l'uomo rimarrebbe sottomesso a questo mediatore, diventerebbe per sempre servo di uno che non è Dio.
Dante, al verso 57, parla della misteriosità del modo di "nostra redenzion". Assunto per indicare l'azione salvifica di Gesù Cristo dal Nuovo Testamento (cfr., tra l'altro, 1 Corinzi, 1, 30; Romani, 3, 24; Efesini, 1, 7), il termine redemptio si mantiene nella tradizione patristica ed è presente in Anselmo insieme con altri termini latini dal significato convergente: restauratio, satisfactio, salvare hominem, restituere, tutti termini accolti dalla cristologia scolastica, come anche da Dante. Da che cosa Dio redime l'uomo compiendo la sua azione salvifica? La risposta dei cristiani: Dio libera dal peccato, dall'ira di Dio, dal dominio del diavolo. Passando all'interrogativo circa il come: è forse giusto far soffrire e far morire l'uomo più giusto per salvare un peccatore? Questo è il quesito centrale, intorno al quale Anselmo costruisce la teoria della soddisfazione (satisfactio), connessa con l'enunciato iniziale: "ad ogni peccato segue necessariamente la soddisfazione o il castigo" (i, 15). Satisfacere, soddisfare, è termine proveniente dal diritto romano, e significa "fare abbastanza", oggi diremmo fare il possibile per estinguere il debito. Per Anselmo invece la soddisfazione deve essere commisurata al danno e alle conseguenze del danno: soddisfare per il peccato non significa allora "fare abbastanza", come nel diritto romano, ma "fare di più", ossia riparare in maniera da riuscire pienamente gradito a chi ha subito il danno.
Dante sviluppa quasi letteralmente il nodo problematico della restaurazione dopo la caduta esposto da Anselmo, e osserva che la ragione umana non scorge che due possibili vie d'uscita: o l'uomo riesce a dare a Dio soddisfazione del peccato, restituendogli l'onore tolto, onore che consiste in tutto ciò che Dio si era proposto di fare creando la natura umana; oppure Dio rimette il debito per sua benevolenza (cortesia), con un atto gratuito di perdono:
"Né ricovrar potiensi, se tu badi / ben sottilmente, per alcuna via, / senza passar per un di questi guadi: / o che Dio solo per sua cortesia / dimesso avesse, o che l'uom per sé isso / avesse sodisfatto a sua follia" (vv. 88-93).
Invero, non è data all'uomo alcuna possibilità di recuperare solo con i propri mezzi lo stato di felicità perduto col peccato; quanto all'altra possibilità, ossia la via della remissione unilaterale da parte di Dio, Anselmo aveva prodotto una motivazione ben articolata e personale circa l'improponibilità di un atto di condono divino per pura misericordia:
"Ma se rimette ciò che l'uomo deve liberamente restituire, perché l'uomo non può restituire, che altro significa se non che Dio rimette quanto non può avere? Ma è una derisione attribuire a Dio una tale misericordia" (Cur Deus homo, i, 24).
A questo punto è chiaro che solo Dio poteva escogitare un percorso che sanasse la condizione di condanna dell'uomo per il peccato, vincendo le impossibilità e le preclusioni esaminate. Dante usa nuovamente il termine "via" e parla delle "vie sue" (cioè di Dio), e questa volta non si tratta di ipotesi della ragione; ispirandosi al salmo 24 (8-10), che connota tutte le vie del Signore come "verità e grazia", dice che Dio aveva a disposizione due vie, la misericordia e la giustizia, e credo che lo dica proprio sotto la suggestione del testo di Anselmo, il quale scrive che per la redenzione dell'uomo bisognava escogitare un percorso in cui la misericordia di Dio non confliggesse con la sua giustizia, e viceversa.
"Dunque a Dio convenia con le vie sue / riparar l'omo a sua intera vita / dico con l'una o ver con amendue (...) Ché più largo fu Dio a dar sé stesso / per far l'uom sufficiente a rilevarsi, / che s'elli avesse sol da sé dimesso, / e tutti li altri modi erano scarsi / a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio / non si fosse umiliato ad incarnarsi" (vv. 103-105; 115-120).
È qui che il summum opus della redenzione attraverso l'incarnazione voluto da Dio si mostra come una manifestazione del suo essere anselmianamente maius quam cogitari possit: Dio assume il compito di intervenire, ma senza contravvenire o alla misericordia o alla giustizia. Anzi Anselmo arriva a dire che Dio ha mostrato maggiore iniziativa nel redimere l'uomo che nel crearlo; la maniera "più mirabile" lascia intendere che nel Verbo incarnato, vertice della creazione, Dio ha dispiegato qualcosa di sommamente degno di sé, qualcosa che è "più mirabile" perché l'unità di Dio e uomo è qualcosa che eccede qualsiasi pensabilità o aspettativa. È un percorso inaudito, che Dante tratteggia come "alto e magnifico processo" (v. 113), che non ha avuto e non avrà eguali per tutta la durata della creazione, distesa tra il primo die dell'in principio creavit Deus caelum et terram, e "l'ultima notte" che si dischiuderà nel giorno senza tramonto della Parusìa.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Trent'anni di «Apocalypse Now» - Il film che Orson Welles non riuscì a girare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
"Andavo nel posto peggiore del mondo, su per un fiume che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico, con il terminale inserito direttamente dentro Kurtz", dice il capitano Willard sull'imbarcazione che lo porterà a incontrare il misterioso colonnello dell'esercito americano, scivolato nella follia col suo regno pagano al centro della giungla. All'inizio degli anni Settanta anche Francis Ford Coppola, giovane punta di diamante della fucina cormaniana - lo stuolo di autori svezzati dal geniale produttore di serie b Roger Corman, capace di vantare nomi come quello di Martin Scorsese e Jonathan Demme - comincia a sentire un Kurtz dentro la testa, un demone capriccioso che vuole spingerlo nel baratro dell'impresa impossibile.
A quell'epoca Coppola non è solo un regista affermato, ma l'autore simbolo della Hollywood renaissance, ossia di un cinema americano rinato dalle proprie ceneri dopo la crisi degli anni Sessanta, ispirato alle idee della contestazione e influenzato dal cinema europeo, ma con un occhio di riguardo anche per l'epoca d'oro di Hollywood. Grazie alla saga de Il padrino, il regista di origini italiane ha raggiunto un successo planetario vincendo svariati premi Oscar, e ha inoltre avuto modo di perfezionare quello stile neoclassico per il quale aveva mostrato attitudine sin dai suoi esordi: montaggio invisibile, inquadrature equilibrate, controllo dispotico della fotografia, i suoi stilemi fanno ormai parte di un congegno impeccabile che rielabora il cinema hollywoodiano del passato con lo sguardo ambizioso del cinema d'autore. Agli inizi degli anni Settanta Coppola non ha più niente da chiedere alla fortuna. È qui che Kurtz comincia a reclamarlo nel suo cuore di tenebra.
Realizzare Apocalypse Now vuol dire infatti non solo mettere in scena la più grande tragedia americana, elaborarne le aberranti motivazioni nello stillicidio di una seduta psicanalitica collettiva, ma anche portare sullo schermo la trasposizione di cui a Hollywood si favoleggia da decenni, ovvero almeno da quando un certo Orson Welles decise di rinunciare all'impresa di tradurre in immagini il famoso racconto di Conrad su un oscuro mercante d'avorio, per ripiegare su un personaggio per molti versi simile ma sulla carta meno ambizioso come il Charles Foster Kane di Quarto potere. Dopo quell'opera prima dallo scarso successo commerciale, Welles tribolerà tutta la vita per mettere insieme i suoi film. Ma mai riuscirà a inoltrarsi nel cuore conradiano.
Anche altri famosi registi paventeranno l'impresa. Fra questi, Richard Brooks, l'autore di A sangue freddo e I professionisti. E non è un caso che sul progetto primigenio che porterà nel 1979 ad Apocalypse Now compaiano insieme i nomi di Welles e Brooks. I loro stili antitetici, infatti - anarchico, visionario, anticipatore delle nouvelle vagues europee, il primo; strenuamente classico e dall'ampio respiro, il secondo - delineano due coordinate che i registi-cinefili della nuova generazione hanno studiato e imparato a seguire. All'incrocio di queste due coordinate, c'è il cinema di Coppola e di tutta la fucina cormaniana.
E la dicotomia fra classicità e innovazione si riflette anche sulla personalità di quello che assieme a Coppola sarà il co-sceneggiatore del film, John Milius, personaggio fondamentale della renaissance. Politicamente conservatore se non addirittura reazionario, Milius è in realtà una figura complessa figlia di un periodo di transizione: regista di Un mercoledì da leoni e autore dello script di un western revisionista come Corvo rosso non avrai il mio scalpo, affianca, senza combatterla, l'ondata contestataria, portandola però a più miti consigli grazie al suo stile dai toni classicheggianti, dal respiro epico e romanzesco, riuscendo sottilmente a interiorizzare tutte le tensioni sociali e politiche dell'America dell'epoca nel farne una questione di lotta fra uomo e storia, intesa per lo più come succedersi implacabile di cicli naturali, e riportando così al centro del dibattito filosofico nazionale i miti fondanti dell'individuo e della wilderness da domare. E, assieme a essi, un riscoperto senso della tragedia, che registi degli ultimi anni come Robert Altman e Arthur Penn si erano premurati sistematicamente di demolire col loro spirito caustico e dissacrante.
Le influenze classiche dello sceneggiatore si ritrovano innanzi tutto nei chiari riferimenti all'Odissea presenti nel soggetto del film (laddove la sceneggiatura vera e propria di partenza sarà in seguito completamente stravolta da Coppola). D'altronde, già il Kurtz inventato da Conrad è un personaggio che affonda radici ancestrali in millenni di narrativa e drammaturgia: passando per i tiranni shakespeariani, arrivando fino a Edipo, è l'archetipo dell'uomo che si ritrova abbacinato dal proprio abisso, dalle conseguenze aberranti e incontrollabili del proprio agire.
Quella che Coppola ha in mente di realizzare è quindi un'impresa improba che si porta dietro interi universi tematici ed espressivi, e che anche solo dal punto di vista strettamente cinematografico si propone di chiudere idealmente un ciclo hollywoodiano lungo mezzo secolo, approdando fino ai margini - già visibili grazie all'esordio di Star Wars e ai primi film di Steven Spielberg - del cinema sforna-blockbuster, la nuova Hollywood in senso stretto votata alla strategia del film-evento. Una strategia alla quale il progetto di Coppola peraltro non intende sottrarsi del tutto, a partire da un budget lievitato presto a dismisura e da un look che la fotografia calda e a tratti estetizzante di Vittorio Storaro rende immediatamente appagante.
Ciò che a tutt'oggi rimane quasi inspiegabile, e che fa di Apocalypse Now un capolavoro irripetibile del cinema americano e non solo, è come tutte queste influenze eterogenee, tutti questi propositi variegati e titanici, siano potuti confluire - dopo anni di lavorazione in condizioni proibitive, esaurimenti nervosi del regista, un attacco di cuore del protagonista Martin Sheen, capricci da star intoccabile del Kurtz Marlon Brando - in un risultato straordinariamente equilibrato che non fa avvertire nulla di quella fatica. Ha dell'incredibile il modo in cui le tante anime del film si richiamano fra loro in un gioco infinito di attrazioni: la suggestione dell'apologo di Edipo si fonde con la piaga tipicamente americana dell'assenza dei padri, pronti in questo caso a sacrificare i figli in una guerra di glaciale strategia; il classicismo dello stile si concilia con l'andamento narrativo fluviale, indice di un senso forte di autorialità che deriva direttamente dalla recente lezione del cinema francese ed europeo; la dimensione spettacolare e persino commerciale assurge a filosofia nazionale e occidentale di dominio sulle altre culture; il piano del racconto di Conrad, con tutte le sue implicazioni metafisiche, si interseca alla perfezione con quello ben più concreto e crudo del film di guerra vero e proprio; gli echi più prosaici della controcultura si sublimano in un canto contro tutti i conflitti, tutte le ingiustizie, tutti gli orrori.
E sarà proprio questa la chiusa del film come del racconto di Conrad: l'orrore, ovvero l'abisso scavato dagli uomini e dentro il quale Kurtz ha osato guardare per primo, perdendo la ragione. Un'immagine con cui l'opera colta Apocalypse Now rievoca i tanti sguardi fatali del mito, da quello di Narciso a quelli rivolti a Medusa, legandoli in una morsa a quello improvvisamente fragile dell'America di fine Novecento.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Anche in «Cuore di tenebra» di Conrad solo Kurtz ha il coraggio di guardare il fondo del baratro - Marlow (Willard) tiene famiglia - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Chi è meno colpevole, Marlow-Willard o Kurtz? Non c'è dubbio che questa domanda deve aver attraversato più volte la mente di Francis Ford Coppola, durante la realizzazione di Apocalypse Now, come deve aver animato la creazione di Heart of Darkness da cui il celeberrimo film è (liberamente direbbero alcuni) tratto. Far balenare davanti al lettore una seppur fugace risposta al quesito è anzi il motivo che sottende alla scrittura del romanzo di Joseph Conrad.
La domanda non può però riguardare l'innocenza dei protagonisti, ma solo l'entità della loro colpevolezza, perché qui - nel libro di Conrad come nel film di Coppola - di innocenza non ne è rimasta. È stata dissipata come solo può esserlo quando l'uomo moderno dilapida se stesso in avventure poco gloriose quali lo sfruttamento coloniale o la guerra. Niente luce, quindi, ma solo tenebra, solo l'incombenza di un'apocalisse sempre annunciata ma costantemente rimandata. A un passo dalla fine, senza mai varcare la soglia, in una sorta di limbo che accoglie tutti i protagonisti del romanzo. In questo senso Marlow e Kurtz (come i protagonisti di Apocalypse Now) sono accomunati dal fatto di essere figli dello stesso mondo. Di una cultura costretta ad arrampicarsi sugli specchi della propria coscienza per giustificare il saccheggio colonialista, che alla fine del XIX secolo garantiva sussistenza all'economia britannica, o qualsiasi altra forma di aggressione.
Una realtà che Conrad, uno dei massimi scrittori di lingua inglese anche se di nascita polacca, conosceva di prima persona. Il suo romanzo trae infatti spunto da un viaggio compiuto nel 1890 risalendo il corso del fiume Congo, esattamente come Marlow, il coprotagonista del libro pubblicato nove anni dopo. Ma viaggiando nell'Africa più intensa, Conrad, come poi accade al suo personaggio, deve aver potuto gettare uno sguardo su una realtà ben peggiore di quella del colonialismo.
Perché in definitiva Cuore di tenebra non è solo un romanzo contro il colonialismo, esattamente come Apocalypse Now non è solo un film antimilitarista. Si tratta invece di opere sulla natura più profonda dell'uomo, sul suo lato più cupo, su quel cuore di tenebra che potenzialmente batte in ogni essere umano - come tragicamente la storia ha insegnato - e che con fatica si cerca di celare. Nulla di contingente quindi, nulla di comodamente relegabile all'Inghilterra del xix secolo o all'America degli anni Sessanta e Settanta. Conrad nel suo romanzo fa chiaramente capire che l'oscurità riguarda tutti. Kurtz ad esempio è tedesco, ma di madre francese, di padre inglese ed è al servizio dei belgi; il suo aiutante è russo, mentre svedese è il capitano che pilota il traghetto lungo il Congo. E qui, nel pieno della wilderness, Marlow comincia il suo processo di identificazione con Kurtz, agente di una Compagnia europea dalla quale è stato rigettato.
Marlow, nel romanzo di Conrad ha un duplice ruolo: uno letterario, l'altro strutturale. Da un punto di vista stilistico, fungendo da narratore interno, consente all'opera una buona dose di oggettività. Lo scrittore, affidando la narrazione a un personaggio, ne rimane in qualche modo estraneo, quasi a voler garantire vita propria alla sua creazione. Ma il Marlow di Heart of Darkness è più di un accorgimento letterario. Come un Virgilio vittoriano, guida i lettori nella discesa agli inferi. Da questo viaggio dovrebbe essere per sempre cambiato e in effetti lo è. Ma fino a un certo punto. Perché, arrivato sull'orlo dell'ultimo precipizio, ha paura e si ritrae.
Kurtz no, Kurtz - sia quello del libro che quello del film - ha invece il coraggio e lo spessore tragico necessari a guardare il fondo del baratro da egli stesso scavato. Sia l'agente della Compagnia belga che il colonnello delle forze speciali statunitensi sono sfuggiti al controllo dei loro superiori e si sono lasciati andare a ogni sorta di violenza. Hanno usato gli stessi mezzi di sempre per imporre le ragioni del più forte, ma hanno sbagliato, perché con la loro brutalità hanno privato il potere - economico o militare che sia - della retorica patina di ipocrisia che lo rende digeribile. Sono diventanti inaccettabili e vanno senz'altro eliminati perché rivelano alla luce del sole di cosa sia capace l'uomo lontano dalle educate ricostruzioni della storiografia ufficiale e dei telegiornali. Ma Kurtz quella soglia l'ha già varcata, è stato attratto fatalmente dall'oscurità e ne è rimasto prigioniero. Fino all'ultimo istante, quando, in punto di morte sul battello che lo trascina verso il mare, impietosamente conia una definizione per il mondo che lo ha generato e poi scartato come un rifiuto e del quale, scoprendone la finzione, si è eretto a giudice: l'orrore.
Marlow, come detto, rimane pericolosamente affascinato da Kurtz. Ma, al momento della verità, si dilegua. In fondo la sua vita non finisce a bordo di un battello che naviga su un fiume africano. Il suo destino è nella civilissima Inghilterra, nella modernissima New York, nella freddissima Mosca o in qualsiasi altra capitale di un impero politico ed economico. Che fare? Tornare per gridare in patria l'orrore di Kurtz, condannandosi all'emarginazione, o lasciare che quel rantolo si spenga in Africa assieme alla sua forza visionaria ed eversiva? Marlow tiene famiglia, verrebbe da dire, e così preferisce la strada meno gloriosa, ma più sicura. E alla fine della storia conforta la fidanzata di Kurtz: le ultime parole da questi pronunciate sono state il nome di lei e non già "l'orrore, l'orrore". Che epitaffio banale per l'uomo che ha messo a ferro e fuoco parte dell'Africa nera (e della Cambogia). Nulla resta della tragica denuncia di un personaggio scomodamente fedele a stesso. Più accettabile di Marlow-Willard. E meno colpevole.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
GIORNALI/ Magister: c’è un laicismo che vuol far tacere la Chiesa - INT. Sandro Magister giovedì 17 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Il ddl sul testamento biologico è approdato in commissione alla Camera. Secondo il politologo Giovanni Sartori, che vi ha dedicato l’editoriale di ieri sul Corriere, il provvedimento rappresenta al massimo l’interferenza del Vaticano nella politica italiana. E sancisce la volontà della Chiesa di dirci come dobbiamo o non dobbiamo morire, prevaricando, grazie alla legge dello Stato, la nostra libertà individuale. L’ulteriore paradosso - dopo quello per la Chiesa di comandare meno di oggi quando al potere c’era la Dc - è che «oggi il più “aperto” ai voleri del Vaticano sia Berlusconi», che non è certo, dice Sartori, un cattolico esemplare. Ma Sartori non si ferma qui, e inizia una sarcastica reprimenda verso la Chiesa, protagonista, in ultimo, di un «fideismo che acceca la ragione». Un articolo che chiama a raccolta le ragioni laiche, veramente laiche del paese per contrastare le forze illiberali dell’oscurantismo cattolico? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso.
Magister, nel suo editoriale di ieri sul Corriere Giovanni Sartori accusa la Chiesa di «un rinato sanfedismo» e di «un fideismo che acceca la ragione».
L’articolo esprime abbastanza bene una sorta di alleanza tra una frazione del pensiero laico, di cui Sartori è esponente autorevole, e una frazione del mondo politico che non condivide l’indirizzo prevalente emerso al Senato. Largamente prevalente, c’è da dire, e anche abbastanza esteso per quanto riguarda il consenso nella popolazione italiana.
Vede nel pezzo di Sartori l’espressione di un attacco al progetto di Ruini, come tentativo di mostrare la validità della proposta cristiana per la società del paese?
Direi proprio di sì. Anche se il nome di Ruini nell’editoriale di Sartori non viene fatto, la logica è questa. Curiosamente l’articolo approda ad una sorta di estromissione dal campo di gioco della controparte, alla quale si nega ogni razionalità dal punto di vista della convivenza pacifica tra persone di diverso orientamento in un paese democratico. Ma quella di Sartori è una palese violazione delle “regole”. Non si può buttar fuori dal gioco l’avversario semplicemente dicendogli che non è in grado di rispettarle. Perché non è proprio questo che risulta, mi pare.
Sartori parla addirittura di un testamento biologico “alla vaticana”. Da rispedire al mittente.
È una leggenda metropolitana, perché il Vaticano non ha alcuna volontà di mascherare il proprio pensiero, che ha sempre annunciato apertamente con la voce del papa e dei vescovi. Ma questa non è un’ingerenza. La posizione della Chiesa è nota, anzi notissima e argomentata. Essa dichiara semplicemente quello che per lei è il bene dell’uomo. Il suo messaggio si scontra con la visione opposta e ora l’elemento discriminante è la posizione da prendere sul fine vita.
Perché le accuse di ingerenza di parte laica hanno ripreso vigore?
Inizialmente una parte della Chiesa propendeva piuttosto per una non legiferazione sull’argomento. Era una posizione prevalente all’interno della gerarchia, e la stessa Cei era orientata a non chiedere una legislazione su questo tema - e su temi del genere - perché convinta che su questo potesse bastare un dialogo fruttuoso tra il paziente, il medico e la famiglia. Poi l’orientamento è cambiato.
Stiamo parlando del caso Englaro. Cos’è successo?
Il fatto che ha indotto la Chiesa a mutare opinione è stato l’intervento dell’autorità giudiziaria. Dove non c’era legge si è introdotta l’autorità giudiziaria che ha fatto legge. La convinzione della Cei è che il caso Englaro rappresenti il primo di una serie di prese di posizione della magistratura che in qualche modo vanno a colmare un campo che il legislatore ha lasciato sguarnito. Tutto si gioca, naturalmente, nel come questo vuoto viene colmato: se in modo rispettoso della dignità della vita oppure no. Ecco perché la Chiesa è intervenuta chiedendo che venisse fissato qualche limite entro il quale la dialettica tra paziente, medico e famiglia potesse esplicarsi. Un limite chiarissimo è quello di non considerare terapia la semplice azione di dissetare e di nutrire.
Il testamento è arrivato in commissione alla Camera. Dobbiamo attenderci un compromesso, magari verso una posizione alla Fini, basata su regole più ampie e meno prescrittive?
Questa possibilità c’è. Esiste un’area all’interno della maggioranza - la quale trova consenso nell’opposizione - che propende per una sorta di rinvio di ogni decisione. Nelle correnti di pensiero che affiancano il centrodestra ci sono indicazioni di questo genere, basti pensare al Foglio di Giuliano Ferrara.
Nelle ultime ore di vita di Eluana Englaro Berlusconi aveva preso una posizione molto netta, tentando di impedire con un decreto che venissero sospese idratazione e alimentazione. Può essere un elemento discriminante?
Sì. È difficile che il governo faccia idealmente marcia indietro, dopo aver addirittura ingaggiato un braccio di ferro col capo dello Stato che non volle controfirmare quel decreto. Nello stesso tempo il ministro Sacconi, il più impegnato su questo terreno insieme al sottosegretario Roccella, ha detto che al limite si potrebbe pensare a una ripresentazione di quel decreto o comunque ad una versione fatta anche di un solo articolo, che fissi semplicemente quel principio e rimandi il resto a tempi più maturi.
Quei vescovi intimiditi in ginocchio da Allah - La conferenza episcopale svizzera sponsorizza i minareti e nelle chiese italiane si diffonde la propaganda musulmana - Magdi Cristiano Allam (Libero, 13 settembre 2009)
Mentre i politici, esponenti della società civile e i mass-media nel mondo hanno voluto commemorare solennemente l’ottavo anniversario della tragedia dell’11 settembre 2001 che ha segnato il culmine del successo del terrorismo islamico dei tagliagola con i sanguinosi attentati alle Torri gemelle e al Pentagono, è trascorso del tutto in sordina il terzo anniversario della lectio magistralis di papa Benedetto XVI all’università di Ratisbona il 12 settembre 2006 che ha segnato il culmine del successo del terrorismo islamico dei taglialingua con una guerra a suon di condanne a morte e minacce al Santo Padre colpevole di aver menzionato la verità storica della diffusione dell’islam tramite la spada.
Questo fatto è di per sé emblematico della realtà di sottomissione all’ideologia dell’islamicamente corretto che da subito si è imposta con la reazione remissiva adottata dal cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, che all’epoca costrinse il pontefice a giustificarsi per tre volte rassicurando che non intendeva offendere i musulmani e arrivò al punto da indurlo a pregare nella moschea Blu di Istanbul rivolto verso La Mecca alla presenza del gran mufti turco.
Ebbene oggi l’islamicamente corretto trionfa ovunque in Europa e trova i suoi fervidi paladini all’interno stesso della Chiesa cattolica. Proprio alla vigilia dell’anniversario di Ratisbona, la Conferenza dei vescovi svizzeri si è espressa ufficialmente a favore della costruzione delle moschee con i minareti, invitando i connazionali a votare "no", il prossimo 29 novembre, al referendum che chiede il divieto di costruire i minareti, lanciato dall’Unione democratica di centro (Udc) svizzera. I vescovi svizzeri hanno precisato che "i minareti, come i campanili delle chiese, siano il segno della presenza pubblica di una religione". Per l’Udc svizzera, che ha promosso la consultazione popolare avvallata dal Parlamento, i minareti sono "il simbolo di una rivendicazione politico-religiosa del potere, che rimette in causa i diritti fondamentali". In Svizzera i musulmani sono 310 mila su una popolazione di 7,5 milioni di abitanti, dispongono di migliaia di luoghi di culto tra cui quattro moschee con minareti. Nel documento emanato dalla Conferenza dei vescovi svizzeri, pur prendendo atto che i cristiani sono discriminati nei paesi islamici, tacendo sul fatto che vengono in realtà perseguitati e massacrati, si invitano i cittadini svizzeri a sostenere la costruzione di moschee con minareti nel nome del cristianesimo e della democrazia: “Siamo coscienti che i diritti relativi alla libertà di religione e di culto non vengono rispettati in certi Paesi di religione islamica. I cristiani in particolare
subiscono delle restrizioni nella loro pratica religiosa e delle limitazioni nella costruzione di edifici sacri. Riaffermiamo la nostra vicinanza e solidarietà ai cristiani che subiscono angherie e persecuzioni. Come vescovi e come cittadini svizzeri ci rallegriamo che la nostra Costituzione federale non contenga più articoli d’eccezione e ci auguriamo che non se ne introducano di nuovi. La proibizione generalizzata di costruire minareti indebolirebbe gli sforzi che mirano a stabilire un atteggiamento di accoglienza reciproca nel dialogo e nel mutuo rispetto. La paura, anche a questo proposito, è cattiva consigliera. L’edificazione e l’utilizzazione dei minareti sono sottoposte d’altronde alle norme generali previste per qualsiasi costruzione. Pur riconoscendo le reali difficoltà nella convivenza di religioni diverse tra loro, per coerenza con i valori cristiani e i principi democratici del nostro Paese, invitiamo a respingere l’iniziativa”.
L’islamicamente corretto lo ritroviamo nell’opuscolo “Cristiani-Musulmani: che fare?”, pubblicato il primo marzo 2009 dal Gruppo di lavoro “Islam” della Conferenza dei vescovi svizzeri, in cui da un lato come cristiani legittimiamo e attribuiamo pari dignità all’islam, al Corano e a Maometto mentre, dall’altro, prendiamo atto che l’islam condanna il cristianesimo come dottrina politeista. Nell’opuscolo leggiamo: “Assieme all’ebraismo e al cristianesimo l’Islam fa parte delle religioni monoteistiche. In questo contesto anche i musulmani vedono nella figura d’Abramo il prototipo dell’uomo veramente credente che fa fronte a tutte le prove. Il testo sacro e la più importante fonte spirituale dell’Islam è il Corano (letteralmente: recita), che i musulmani considerano rivelazione immediata e diretta di Dio, Parola increata di Dio divenuta Libro. Tale visione del Libro si distingue dalla nostra comprensione della Bibbia. Nella sua autoconsapevolezza l’Islam si considera come la forma originaria, definitiva e pura della fede
nel Dio unico; Maometto è come l’ultimo profeta (“sigillo della profezia”) nella lunga lista dei Profeti.
Dal punto di vista dell’Islam la missione di Maometto come profeta contiene un doppio significato, sia come
conferma sia come correttivo rispetto alla rivelazione ebraica e cristiana: riasserire la verità della missione
di Gesù, come costui riasserì la verità della missione di Mosè con la Torah tramite il Vangelo; e rimuovere
o rettificare le modifiche e falsificazioni del testo della Rivelazione originariamente puro. L’asserto prende
spunto particolarmente dalla devozione cristiana in Gesù Cristo come Figlio di Dio, che il Corano rifiuta
in quanto negazione dell’unicità di Dio; o ancora dalla dottrina cristiana della Trinità, che dal profilo islamico costituisce un politeismo”. Mi domando se nessuno dei vescovi svizzeri sa che l’Abramo islamico non ha nulla a che fare con l’Abramo biblico, che il Dio del Corano non ha nulla a che fare con il Dio che si è fatto uomo e che s’incarna in Gesù, che pertanto l’islam non può in alcun modo essere considerato una religione monoteista alla pari con l’ebraismo e il cristianesimo.
Non sorprende che il presidente del Gruppo di lavoro “Islam”, monsignor Pierre Bürcher, il 15 settembre 2006 si fece portavoce dei “musulmani feriti” per il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, sostenendo che “i musulmani in Svizzera chiedono un chiarimento”, precisando che “il rispetto e la tolleranza non sono a senso unico. Ciascuna religione deve rispettare l’altra. Solo la regola d’oro ‘Fai all’altro ciò che vorresti che venga fatto a te ’ è un percorso risolutivo”.
Ed anche venerdì scorso, l’ultimo del mese di digiuno islamico del Ramadan, il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ha emesso un messaggio augurale dal titolo “Cristiani e musulmani: insieme per la vincere la povertà”. In esso si ripropone la tesi della interdipendenza tra la povertà e il terrorismo, clamorosamente smentita dalla lunga serie di attentati terroristici che hanno insanguinato il mondo a partire dall’11 settembre 2001: “Respingere i fenomeni di estremismo e di violenza esige necessariamente la lotta contro la povertà attraverso la promozione di uno sviluppo integrale”. L’islamicamente corretto si rileva nel fatto che la Chiesa non ha il coraggio di dire che il terrorismo è islamico e che il terrorismo islamico non è affatto figlio della povertà, bensì la corretta trasposizione dei numerosi versetti coranici che istigano all’odio, alla violenza e alla morte, nonché la corretta emulazione delle gesta di Maometto che ha personalmente partecipato a stragi come quella del 627 in cui ha sgozzato oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraisha alle porte di Medina.
L’islamicamente corretto l’ho toccato con mano nel foglio domenicale distribuito in occasione della messa il 6 settembre in tutte le chiese d’Italia, con un riquadro dal titolo “Per un dialogo interreligioso, Chiesa cattolica e Islam”, con una foto del papa che stringe la mano ad una esponente della delegazione islamica dei cosiddetti “138 saggi dell’islam”, affiancata da Tariq Ramadan. Ebbene proprio questo personaggio, il più celebre ideologo dei Fratelli Musulmani in Europa, di nazionalità svizzera, è il principale promotore della strategia che mira sia a legittimare su un piede di parità l’islam, Allah, il Corano, Maometto e la sharia, sia a far riconoscere che l’islam è parte integrante delle radici storiche della civiltà europea al pari dell’ebraismo e del cristianesimo.
Questa strategia è oggi patrocinata dalla Conferenza dell’Organizzazione Islamica, la cornice unitaria dei circa 50 paesi a maggioranza islamica. Bat Ye’or, nel suo libro “Verso il Califfato universale, Come l’Europa è diventata complice dell’espansionismo musulmano” (Lindau, 2009), ricorda che nell’ottobre del 2008 a Copenaghen si svolse la seconda Conferenza internazionale per l’educazione e il dialogo interculturale. Nel suo intervento il segretario generale dell’Oci, il turco Ihsanoglu, ha detto: “Sono particolarmente interessato ai progetti che porteranno a una descrizione corretta del nostro passato comune in modo da chiarire che l’islam non è estraneo bensì parte integrante del passato, del presente e del futuro dell’Europa in tutti i settori dell’impegno umano e che dimostreranno come la civiltà e la cultura islamica hanno contribuito alla creazione dell’Europa moderna”.
Ebbene cara Chiesa cattolica riflettiamo. In quest’Europa laicista, relativista e scristianizzata, i musulmani si fanno avanti con determinazione per accreditare una loro paternità della nostra civiltà. Nel momento in cui noi ci vergogniamo di affermare la verità storica delle radici giudaico-cristiane, loro si candidano per colmare il vuoto identitario con una presunta radice islamica della civiltà europea. E se permetteremo che alle radici giudaico-cristiane si sostituiscano quelle islamiche, di noi non resterà sostanzialmente nulla: senza un’anima, senza valori e senza identità scompariremo. Allora dico alla Chiesa: basta con l’islamicamente corretto! Basta complicità nel suicidio collettivo della civiltà europea!
Deputato Udc al Parlamento Europeo (allam@ppec.eu)
IL CORAGGIO DI EDUCARE - OBIETTIVI PER TORNARE DALL’ESILIO - ANGELO B AGNASCO – Avvenire, 17 settembre 2009
C resce ogni giorno di più il consenso diffuso, sia in ambito ecclesiale che in quello civile, circa la rilevanza dell’attuale emergenza educativa, che appena pochi giorni fa, nel corso della sua visita pastorale a Viterbo, Benedetto XVI definiva ineludibile e prioritaria, «grande sfida per ogni comunità cristiana e per l’intera società». Se però si alzano numerose le voci che denunciano la crisi che attanaglia la riflessione e l’opera educativa, non è frequente che si giunga anche a individuarne le cause e a prospettare delle linee di intervento per una inversione di rotta.
Il rapporto-proposta del Comitato per il progetto culturale 'La sfida educativa', da oggi nelle librerie di tutt’Italia, ha il pregio di non limitarsi alla segnalazione della debolezza educativa che caratterizza la società odierna, comprese molte comunità cristiane, ma si spinge ad additarne le cause principali e suggerisce gli obiettivi da perseguire per tornare dall’esilio educativo in cui sembra essersi confinata la civiltà occidentale.
Davanti a un certo smarrimento delle motivazioni fondamentali dell’educazione, il Comitato per il progetto culturale evidenzia la necessità di ritrovare il 'baricentro' dell’esperienza formativa, ossia una vera sapienza antropologica e una visione non riduttiva del fatto educativo. «Con il termine educazione – rammenta Benedetto XVI nella Caritas in veritate – non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona». A questo proposito, prosegue il Papa, «va sottolineato un aspetto problematico: per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. L’affermarsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi all’educazione, soprattutto all’educazione morale, pregiudicandone l’estensione a livello universale ». Tra le povertà del nostro tempo, va annoverata anche la dimenticanza dell’irriducibilità della persona umana, quotidianamente attraversata dalla questione del senso del vivere e del morire, e del suo costitutivo essere relazione con il mondo, con gli altri, con l’infinito.
Educare, dunque, è accompagnare ciascun individuo, lungo tutta la sua esistenza, nel cammino che lo porta a diventare persona e ad assumere quella 'forma' per cui l’uomo è autenticamente uomo. Tornando alle parole di Benedetto XVI a Viterbo, l’educazione «è proprio un processo di Effatà, di aprire gli orecchi, il nodo della lingua e anche gli occhi». Ciò non potrà avvenire, però, senza l’opera paziente e qualificata di educatori credibili e autorevoli, capaci di 'generare' in un contesto di fiducia, di libertà e di verità. Non ha torto chi sottolinea come l’attuale crisi educativa riguardi primariamente la generazione adulta, cui spetta mostrare con la vita ciò che realmente vale e trasmettere un’eredità viva, da scoprire e rinnovare con responsabilità. Ugualmente essenziale, infatti, è da considerare il legame con la tradizione in cui siamo innestati, che lungi dal ridursi a mera conservazione del passato e dall’imprigionare le risorse più nuove e originali, rende possibile indirizzare proficuamente l’aspirazione di ogni uomo a una pienezza di vita e di felicità. Come attesta con chiarezza la rivelazione cristiana, essere uomo equivale ad essere figlio. È una proposta umanizzante quella che affiora dalle pagine de 'La sfida educativa', i cui capitoli spaziano dalla vita familiare al senso delle istituzioni scolastiche, senza tralasciare il compito educativo della Chiesa e i numerosi fattori in gioco: l’inarrestabile flusso comunicativo, i bisogni e i desideri espressi nel lavoro e nel consumo, i nuovi luoghi in cui si costruisce la persona. Con la stesura del rapporto- proposta sull’educazione, il progetto culturale della Chiesa italiana si conferma attento alle dinamiche vive della società italiana ed essenziale sia per una maturazione culturale della fede, sia per quell’allargamento degli orizzonti della razionalità che Benedetto XVI non cessa di invocare. «Solo dall’educazione viene la bussola per potersi orientare dentro il pluralismo parossistico della società», ha osservato nel suo intervento al Convegno ecclesiale di Verona il professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica. Occorre perciò – ci ricorda oggi il rapporto-proposta del progetto culturale – il coraggio di tornare a educare l’intelligenza e il desiderio verso il bene, il vero, il bello.
IL « SÌ » UNANIME DELLA C AMERA ALLA NUOVA LEGGE - Cure palliative una lezione sui diritti - ASSUNTINA M ORRESI – avvenire, 17 settembre 2009
P otrebbe essere il segnale della svolta, dopo mesi in cui veleni, gossip e colpi bassi l’hanno fatta da padrone in politica.
Ieri la Camera con voto unanime ha infatti approvato la legge sulle cure palliative e la terapia del dolore. L’iter legislativo non è stato dei più tranquilli, ma l’esito finale di questa prima parte del percorso – adesso il testo passa al Senato – fa ben sperare: di fronte alla sofferenza e alla malattia incurabile la politica ha ritrovato una compattezza e un’unità di intenti quasi inaspettata, considerato il clima di questi ultimi tempi. E il fatto che per questa legge siano stati messi a disposizione cospicui finanziamenti, nonostante il periodo di crisi economica, l’emergenza terremoto e i timori di pandemia, testimonia dell’interesse reale che la politica ha mostrato per il provvedimento.
Si tratta di una legge che investe il concreto della vita delle persone, rispondendo ai loro bisogni nel momento di maggiore fragilità: quello del dolore, soprattutto se alla fine della vita, quando la parola 'guarigione' non ha più spazio. Una legge che sostiene la persona, della quale ci si deve sempre prendere cura, tutelandone la vita in tutte le sue condizioni, nel solco di una tradizione che nel nostro Paese ha una sua precisa identità e fisionomia. La cura dei malati e l’impegno a lenirne la sofferenza, infatti, fanno parte integrante del millenario patrimonio della sensibilità cristiana: lo dimostrano innumerevoli vite di santi, congregazioni, organismi, così come le innumerevoli opere di carità e assistenza, grandi e piccole, sparse ovunque.
È bene ricordare che questa legge non ha niente a che fare con quella sul fine vita, e cioè con il testo Calabrò approvato dal Senato e attualmente in discussione alla Commissione Affari sociali della Camera. Ed è certamente un bene che i due provvedimenti siano stati distinti e abbiano proceduto in modo separato nel loro percorso parlamentare. La legge sulle cure palliative si pone il problema di sostenere i malati inguaribili al termine della loro esistenza o persone affette da dolori cronici, e nasce quindi dall’esigenza di lenire le sofferenze di pazienti senza speranza di rimettersi in salute; la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento nasce invece per porre riparo a sentenze 'creative' della magistratura italiana, con le quali si è consentito che Eluana Englaro – una persona in stato vegetativo, la forma estrema di disabilità, ma certo non una malata terminale – morisse disidratata: una morte, questa sì, sicuramente dolorosa, tanto che la si è dovuta accompagnare somministrando sedativi. La legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento ha dunque come primo obiettivo quello di evitare che tragedie come quella di Eluana possano ripetersi, impedendo che la libertà di cura, garantita dalla nostra costituzione, si trasformi in un tragico 'diritto a morire'.
Tutte le malattie, anche quelle inguaribili, sono sempre 'curabili': il diritto alla cura, concetto su cui si basa la legge sulle cure palliative, non dovrà quindi essere dimenticato quando l’aula della Camera affronterà il 'biotestamento'.
EllaOne, il nuovo nome dell’aborto «mascherato» - Avvenire, 17 settembre 2009
Si chiama Norlevo, ma è più nota come 'pillola del giorno dopo', anche se viene usata fino a tre giorni dopo un rapporto sessuale 'non protetto' per cercare di evitare, quando ormai sembra troppo tardi, una gravidanza indesiderata. Ora l’industria farmaceutica e i fautori della cosiddetta 'contraccezione d’emergenza' puntano a diffondere nuovi prodotti capaci di impedire la gravidanza, anche se assunti a più lunga distanza dal rapporto 'a rischio', fino a cinque giorni. Tra questi, il primo a essere disponibile in Europa sarà EllaOne. Se ne è parlato al 8° Congresso della Società europea di ginecologia, svoltosi a Roma nello scorso week-end, in una sessione sponsorizzata dalla Hra Pharma, azienda internazionale fondata in Francia nel 1996 e molto attiva nella produzione di questo tipo di farmaci. Attiva al punto da avviare la pratica per il via libera definitivo da parte dell’ente di farmacovigilanza europeo (l’Emea), atteso – salvo colpi di scena – per giovedì prossimo, con la Francia quale Paese apripista (come per la Ru486). Roberto Colombo, docente della Facoltà di medicina dell’Università Cattolica e membro dell’Istituto scientifico internazionale di ricerca sulla fertilità e infertilità umana (Isi) dello stesso ateneo, spiega cosa si sta muovendo in questo settore così delicato.
Al congresso di Roma il farmaco EllaOne è stato presentato come un prodotto di «nuova generazione nella contraccezione d’emergenza». In cosa consiste questa novità?
«Il tentativo di sviluppare molecole in grado di bloccare i processi fisiologici che portano a instaurare una gravidanza dopo un rapporto nei giorni fertili della donna ha una lunga storia, che parte dagli inizi degli anni ’60. La 'prima generazione' di questi farmaci utilizzava estrogeni e progestinici ad alti dosaggi, il cosiddetto metodo di Yuzpe. In tempi più recenti si è passati al solo progestinico (Levonorgestrel).
Successivamente si è scoperto che anche un antiprogestinico come il mifepristone (Ru486), impiegato solitamente per l’aborto precoce, se preso in singola dose di 200 milligrammi nel periodo postovulatorio è capace di impedire una gravidanza. Ma le limitazioni poste dalla legislazione farmaceutica di molti Paesi all’uso di Ru486 e alcune sue controindicazioni cliniche hanno portato a cercare nuovi prodotti per la 'contraccezione d’emergenza'. Sono gli antiprogestinici cosiddetti di 'nuova generazione', che agiscono come antagonisti del recettore del progesterone, un ormone indispensabile per la maturazione dell’endometrio uterino e l’impianto dell’embrione. Con i recettori del progesterone bloccati da questi farmaci è di fatto impedito l’inizio di una gravidanza. Tra queste molecole vi sono il Proellex (Cdb-4124), il Lonaprisan (Bay86-5044), l’Asoprisnil (J867) e l’Ulipristal (Cdb-2914).
Quest’ultimo ha recentemente ricevuto la raccomandazione per l’immissione in commercio, con il nome di EllaOne, da parte del Comitato europeo per il farmaco».
Che differenza esiste tra Ru486 ed EllaOne?
«Il primo, commercializzato con il nome di Mifegyne, viene utilizzato a gravidanza clinica già accertata per indurre l’aborto in modo non chirurgico, avvalendosi anche di una prostaglandina sintetica, il Misoprostol, per l’espulsione del feto abortito, con sanguinamento e forti contrazioni uterine. EllaOne invece non è efficace per questo scopo ma, se assunto alla dose di 30 milligrammi entro 120 ore dal coito (prima cioè che la donna sia accorga di essere incinta e la gestazione sia clinicamente confermata), può impedire lo sviluppo dell’embrione e, quindi, la gravidanza».
Attraverso quale meccanismo agiscono questi nuovi farmaci nell’impedire lo sviluppo dell’embrione?
«Come nel caso del Norlevo, il farmaco attualmente più utilizzato per questo scopo, anche per EllaOne è in corso tra gli studiosi un vivace dibattito su quale sia il meccanismo prevalente che porta a impedire la gravidanza. Le ipotesi più accreditate sono due (e mi scuso se devo ricorrere a una terminologia tecnica ma la precisione in questi casi è d’obbligo): l’inibizione tardiva dell’ovulazione (impedimento della rottura del follicolo, ormai maturo, nonostante gli elevati livelli plasmatici di gonadotropine caratteristici di metà ciclo) e l’alterazione della morfologia e della funzionalità dell’endometrio attraverso un meccanismo antiproliferativo dello stroma cellulare. È ragionevole ritenere che agiscano entrambi i meccanismi e che la prevalenza dell’uno sull’altro dipenda dalla fase del ciclo ovarico in cui è avvenuto il rapporto e, dunque, viene assunto EllaOne nei giorni successivi. Se l’effetto è antiovulatorio, l’azione farmacologica è assimilabile a quella contraccettiva perché ciò che si impedisce è la fertilizzazione. Al contrario, nei casi in cui la molecola è efficace agendo a livello endometriale l’azione è di tipo abortivo, in quanto causa la morte dell’embrione per l’impossibilità del suo impianto in utero. Statisticamente, considerando la durata delle fasi del ciclo e i giorni in cui può avvenire l’ovulazione e l’eventuale fertilizzazione, ritengo che l’effetto di gran lunga prevalente sia quello di tipo abortivo pre-clinico».
Si tratta, dunque, di un farmaco di fatto abortivo, sebbene venga venduto come 'anticoncezionale'?
«Gli antiprogestinici destinati alla cosiddetta 'contraccezione d’emergenza' nascono per la richiesta del mercato farmaceutico di disporre di prodotti, facili all’uso e con poche controindicazioni, da prescrivere alle donne – in particolare le più giovani – che sono disposte a tutto pur di evitare una gravidanza non voluta. E, così, il confine farmacologico, etico e giuridico tra contraccezione ed aborto tende sempre più ad assottigliarsi».
Quanto al profilo etico, che passaggio segna questo nuovo farmaco, che immaginiamo presto verrà sponsorizzato anche in Italia dal solito fronte politico-mediatico?
«È un problema di mentalità, cioè di ragione pratica. Lo aveva già anticipato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae : 'Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell’aborto emerge sempre di più, e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano'. Parole profetiche, che ci impongono di conoscere e vigilare».
Francesco Ognibene
1) L'embrione sarà un bambino, non un maialino - di Massimo Pandolfi
2) All'udienza generale Benedetto XVI parla di Simeone il Nuovo Teologo - La fede non si impara sui libri ma nasce dallo spirito - La vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma da un'esperienza dello spirito. Lo ha sottolineato il Papa all'udienza generale di mercoledì 16 settembre, nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha dedicato la catechesi a Simeone il Nuovo Teologo, monaco dell'Asia minore che ha esercitato "un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente". L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
3) Il mistero dell'Incarnazione nel VII canto del Paradiso - Dante risponde alla domanda di Anselmo - di Alessandro Ghisalberti - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
4) Trent'anni di «Apocalypse Now» - Il film che Orson Welles non riuscì a girare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
5) Anche in «Cuore di tenebra» di Conrad solo Kurtz ha il coraggio di guardare il fondo del baratro - Marlow (Willard) tiene famiglia - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
6) GIORNALI/ Magister: c’è un laicismo che vuol far tacere la Chiesa - INT. Sandro Magister giovedì 17 settembre 2009 – ilsussidiario.net
7) Quei vescovi intimiditi in ginocchio da Allah - La conferenza episcopale svizzera sponsorizza i minareti e nelle chiese italiane si diffonde la propaganda musulmana - Magdi Cristiano Allam (Libero, 13 settembre 2009)
8) IL CORAGGIO DI EDUCARE - OBIETTIVI PER TORNARE DALL’ESILIO - ANGELO B AGNASCO – Avvenire, 17 settembre 2009
9) IL « SÌ » UNANIME DELLA C AMERA ALLA NUOVA LEGGE - Cure palliative una lezione sui diritti - ASSUNTINA M ORRESI – avvenire, 17 settembre 2009
10) EllaOne, il nuovo nome dell’aborto «mascherato» - Avvenire, 17 settembre 2009
L'embrione sarà un bambino, non un maialino - di Massimo Pandolfi
L'altro giorno monsignor Rino Fisichella, uno dei supervescovi italiani, ha detto: 'Dall'embrione nasce un uomo o una donna, non nasce un'aquila o un maialino. L'embrione non è un po' di muffa, non è un insieme di cellule amorfe: è una cellula umana che diventerà un feto e poi un bambino'.
Siamo arrivati a questo punto: è necessario (sì, è necessario) ricordare di che cosa si sta parlando quando si tratta l'argomento aborto. Perchè nelle mille discussioni che si aprono a riguardo di pillola abortiva e dintorni, ci si ricorda di tutti tranne del soggetto più debole: quel bambino che non si vuole far nascere, quel bambino che non nascerà mai.
E bene ha fatto Fisichella a ripartire dall'Abc che l'uomo moderno vuole saltare, perchè così magari ha meno magoni. Si parla della libertà della donna, dell'assistenza del marito, dell'importanza del medico, ma quel bambino, o se volete quel feto, e comunque quel 'tu che eri anche tu' che fine ha fatto? Niente, è come se non esistesse.
L'altro giorno, in Emilia Romagna, il dipietrista Nanni ha attaccato Varani (pdl) con questa lettera, intitolata 'Attaccano la pillola abortiva per attaccare la libertà della donna'. Ha scritto Nanni: 'Dice il Cons.re Reg.le del Pdl, il ciellino Gianni Varani: “La Ru486 è la via con la quale si sta cercando di scaricare sulla donna le responsabilità e la gestione dell’aborto” come dire: la legge sull’aborto (la 194) e le linee guida della regione Emilia-Romagna attinenti l’interruzione volontaria di gravidanza tramite la pillola abortiva (la Ru486, appunto) sono “contro” e non “a favore della donna”. Con questo, fermo restando che l’uso di qualsiasi medicinale può avere effetti collaterali indesiderati, cosa vuole il forzista?....vuole forse ritornare alle “mammane” ed all’aborto “fai da te”? Sicuramente no, perché Varani è uomo di “coscienza”, è il concetto di libertà di scelta non condiviso dalle gerarchie ecclesiastiche che Egli attacca! Non si rende conto che nella coppia, ora e giustamente, la donna rivendica un ruolo decisionale che negli anni passati era riservato solo all’uomo e ci appare discriminatorio il fatto che, mentre per l’uomo, allora, non si invocasse un eccesso gravoso di responsabilità, ora, lo si faccia per la donna. Perchè non si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e non si cessa di giocare con le parole per ingannare chi con le parole non sa giocare? Chi deve prendersi la gravosa e dolorosa responsabilità di un’interruzione di gravidanza se non la donna che porta in grembo quella creatura e che, comunque, sarà sempre la responsabile della sua decisione? Chi deve gestire la gravosa e dolorosa gestione dell’aborto, se non la donna, che decide un intervento estraneo di tal genere, non solo sulla sua creatura, ma anche sul suo corpo! Perché si è tanto pietosi nei riguardi della donna che decide di abortire, tanto pietosi da volerle togliere questa libertà? Chi ha detto che la responsabilità sarà solo sua? Quando il rapporto di coppia sarà fruttuoso, la donna spartirà questo peso con il suo uomo e solo quando i pareri saranno discordi avrà il sopravvento. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che la donna è sempre stata il pilastro dell’organizzazione sociale e familiare e non temere che sbagli, perché comunque pagherà sempre in prima persona!'
Credo che Nanni rappresenti l'esempio vivente del nichilismo di quest'epoca. Parla di tutto, tranne che di quel feto. Da cui non nascerà un'aquila o un maialino, ma un uomo o una donna. E anche il signor Nanni era un feto. Ed è diventato il signor Nanni, non un'aquila. E neanche un maialino.
(14/09/09 - Massimo Pandolfi's Blog)
All'udienza generale Benedetto XVI parla di Simeone il Nuovo Teologo - La fede non si impara sui libri ma nasce dallo spirito - La vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma da un'esperienza dello spirito. Lo ha sottolineato il Papa all'udienza generale di mercoledì 16 settembre, nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha dedicato la catechesi a Simeone il Nuovo Teologo, monaco dell'Asia minore che ha esercitato "un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente". L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Cari fratelli e sorelle,
quest'oggi ci fermiamo a riflettere sulla figura di un monaco orientale, Simeone il Nuovo Teologo, i cui scritti hanno esercitato un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell'Oriente, in particolare per ciò che riguarda l'esperienza dell'unione mistica con Dio. Simeone il Nuovo Teologo nacque nel 949 a Galatai, in Paflagonia (Asia Minore), da una nobile famiglia di provincia. Ancora giovane, si trasferì a Costantinopoli per intraprendere gli studi ed entrare al servizio dell'imperatore. Ma si sentì poco attratto dalla carriera civile che gli si prospettava e, sotto l'influsso delle illuminazioni interiori che andava sperimentando, si mise alla ricerca di una persona che lo orientasse nel momento pieno di dubbi e di perplessità che stava vivendo, e che lo aiutasse a progredire nel cammino dell'unione con Dio. Trovò questa guida spirituale in Simeone il Pio (Eulabes), un semplice monaco del monastero di Studios, a Costantinopoli, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco. In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: "Se cerchi la guarigione spirituale - vi lesse - sii attento alla tua coscienza. Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile". Da quel momento - riferisce egli stesso - mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli.
Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove, però, le sue esperienze mistiche e la sua straordinaria devozione verso il Padre spirituale gli causarono difficoltà. Si trasferì nel piccolo convento di San Mamas, sempre a Costantinopoli, del quale, dopo tre anni, divenne il capo, l'igumeno. Lì condusse un'intensa ricerca di unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità. È interessante notare che gli fu dato l'appellativo di "Nuovo Teologo", nonostante la tradizione riservasse il titolo di "Teologo" a due personalità: all'evangelista Giovanni e a Gregorio di Nazianzo. Soffrì incomprensioni e l'esilio, ma fu riabilitato dal Patriarca di Costantinopoli, Sergio II.
Simeone il Nuovo Teologo passò l'ultima fase della sua esistenza nel monastero di Santa Marina, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli. Morì il 12 marzo 1022.
Il più noto dei suoi discepoli, Niceta Stetatos, che ha raccolto e ricopiato gli scritti di Simeone, ne curò un'edizione postuma, redigendo in seguito la biografia. L'opera di Simeone comprende nove volumi, che si dividono in Capitoli teologici, gnostici e pratici, tre volumi di Catechesi indirizzate a monaci, due volumi di Trattati teologici ed etici e un volume di Inni. Non vanno poi dimenticate le numerose Lettere. Tutte queste opere hanno trovato un posto di rilievo nella tradizione monastica orientale sino ai nostri giorni.
Simeone concentra la sua riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nei battezzati e sulla consapevolezza che essi devono avere di tale realtà spirituale. La vita cristiana - egli sottolinea - è comunione intima e personale con Dio, la grazia divina illumina il cuore del credente e lo conduce alla visione mistica del Signore. In questa linea, Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall'esperienza spirituale, dalla vita spirituale. La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell'amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all'unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi. Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell'esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.
Un punto su cui riflettere, cari fratelli e sorelle! Questo santo monaco orientale ci richiama tutti ad un'attenzione alla vita spirituale, alla presenza nascosta di Dio in noi, alla sincerità della coscienza e alla purificazione, alla conversione del cuore, così che realmente lo Spirito Santo divenga presente in noi e ci guidi. Se infatti giustamente ci si preoccupa di curare la nostra crescita fisica, umana ed intellettuale, è ancor più importante non trascurare la crescita interiore, che consiste nella conoscenza di Dio, nella vera conoscenza, non solo appresa dai libri, ma interiore, e nella comunione con Dio, per sperimentare il suo aiuto in ogni momento e in ogni circostanza. In fondo, è ciò che Simeone descrive quando narra la propria esperienza mistica. Già da giovane, prima di entrare in monastero, mentre una notte in casa prolungava le sue preghiere, invocando l'aiuto di Dio per lottare contro le tentazioni, aveva visto la stanza piena di luce. Quando poi entrò in monastero, gli furono offerti libri spirituali per istruirsi, ma la loro lettura non gli procurava la pace che cercava. Si sentiva - egli racconta - come un povero uccellino senza le ali. Accettò con umiltà questa situazione, senza ribellarsi, e allora cominciarono a moltiplicarsi di nuovo le visioni di luce. Volendo assicurarsi della loro autenticità, Simeone chiese direttamente a Cristo: "Signore, sei davvero tu stesso qui?". Sentì risuonare nel cuore la risposta affermativa e ne fu sommamente consolato. "Fu quella, Signore - scriverà in seguito - la prima volta che giudicasti me, figlio prodigo, degno di ascoltare la tua voce". Tuttavia, neanche questa rivelazione lo lasciò totalmente quieto. Si interrogava piuttosto se pure quell'esperienza non fosse da ritenersi un'illusione. Un giorno, finalmente, accadde un fatto fondamentale per la sua esperienza mistica. Egli cominciò a sentirsi come "un povero che ama i fratelli" (ptochós philádelphos). Vedeva intorno a sé tanti nemici che volevano tendergli insidie e fargli del male, ma nonostante ciò avvertì in se stesso un intenso trasporto d'amore per loro. Come spiegarlo? Evidentemente non poteva venire da lui stesso un tale amore, ma doveva sgorgare da un'altra fonte. Simeone capì che proveniva da Cristo presente in lui e tutto gli divenne chiaro: ebbe la prova sicura che la fonte dell'amore in lui era la presenza di Cristo e che avere in sé un amore che va oltre le mie personali intenzioni indica che la fonte dell'amore sta in me. Così, da una parte possiamo dire che senza una certa apertura all'amore Cristo non entra in noi, ma, dall'altra, Cristo diventa fonte di amore e ci trasforma. Cari amici, questa esperienza resta quanto mai importante per noi, oggi, per trovare i criteri che ci indicano se siamo realmente vicini a Dio, se Dio c'è e vive in noi. L'amore di Dio cresce in noi se rimaniamo uniti a Lui con la preghiera e con l'ascolto della sua parola, con l'apertura del cuore. Solamente l'amore divino ci fa aprire il cuore agli altri e ci rende sensibili alle loro necessità, facendoci considerare tutti come fratelli e sorelle e invitandoci a rispondere con l'amore all'odio e con il perdono all'offesa.
Riflettendo su questa figura di Simeone il Nuovo Teologo, possiamo rilevare ancora un ulteriore elemento della sua spiritualità. Nel cammino di vita ascetica da lui proposto e percorso, la forte attenzione e concentrazione del monaco sull'esperienza interiore conferisce al Padre spirituale del monastero un'importanza essenziale. Lo stesso giovane Simeone, come s'è detto, aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica. E vorrei dire che rimane valido per tutti - sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani - l'invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all'unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo. Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo. Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni. E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida.
Concludendo, possiamo sintetizzare così l'insegnamento e l'esperienza mistica di Simeone il Nuovo Teologo: nella sua incessante ricerca di Dio, pur nelle difficoltà che incontrò e nelle critiche di cui fu oggetto, egli, in fin dei conti, si lasciò guidare dall'amore. Seppe vivere lui stesso e insegnare ai suoi monaci che l'essenziale per ogni discepolo di Gesù è crescere nell'amore e così cresciamo nella conoscenza di Cristo stesso, per poter affermare con san Paolo: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2, 20).
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Il mistero dell'Incarnazione nel VII canto del Paradiso - Dante risponde alla domanda di Anselmo - di Alessandro Ghisalberti - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Il trattato Perché un Dio uomo? (Cur Deus homo), ultimato da Anselmo d'Aosta nel 1098, segna l'inizio della grande stagione della cristologia scolastica, intesa come riflessione insieme filosofica e teologica sull'incarnazione del Verbo di Dio, sulla "convenienza" della sua azione redentrice dell'uomo attraverso la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. L'influenza dell'impostazione anselmiana sui trattati dei maestri dei secoli xiii e xiv è stata decisiva per sviluppare l'intelligenza dei dati di fede circa la modalità della redenzione; per quanto riguarda Dante, è nel canto VII del Paradiso che troviamo un percorso teologico profondamente modellato sulla dottrina anselmiana del Cur Deus homo.
Lo sviluppo del tema dell'incarnazione del Verbo nel canto VII è stimolato dalle parole di Giustiniano (canto vi, versi 92-93), che hanno suscitato un interrogativo nella mente di Dante: se la crocifissione di Cristo è stata la giusta vendetta con la quale venne placata l'ira di Dio verso gli uomini dopo il peccato originale, come Giustiniano ha potuto dire che, con la distruzione di Gerusalemme a opera di Tito, gli ebrei furono giustamente puniti in quanto responsabili della morte del Messia?
Beatrice avverte la difficoltà che questo interrogativo provoca nella mente di Dante e si dichiara pronta a sciogliere il nodo, pregandolo di ascoltare con molta attenzione, perché le sue parole gli faranno dono di una grande verità. Prende così il via il discorso di Beatrice sulla creazione e sulla redenzione, il più lungo fra quelli da lei pronunciati in tutto il poema e che occupa quasi tutto il canto VII, da molti critici considerato il più arduo, forse non a torto, dei canti dottrinali della Commedia.
Ai versi 26-52 viene data la soluzione del dubbio suscitato dall'affermazione paradossale della giusta vendetta compiuta nei confronti di un'altra giusta vendetta; ma la mente di Dante, passando da un pensiero all'altro, è rimasta chiusa dentro un dubbio che si è aggiunto: rimane incomprensibile perché Dio, per redimerci, abbia scelto proprio "questo modo", quello, cioè, della passione e morte di Cristo. Beatrice si fa carico di gettare luce su questo problema molto difficile e poco frequentato:
"Tu dici: Ben discerno ciò ch'i' odo; / ma perché Dio volesse, m'è occulto, / a nostra redenzion pur questo modo" (vv. 55-57).
L'accesso alla trattazione riproduce la domanda di Anselmo, che all'inizio del Cur Deus homo (i, 5) si chiede il perché di un diretto intervento di Dio per la salvezza dell'uomo: la ragione umana avrebbe meno difficoltà a capire la liberazione dell'uomo se si dicesse che essa fu compiuta per mezzo di un angelo o di un uomo, ma non personalmente da Dio. Anselmo risponde che se la redenzione fosse compiuta da un mediatore quale un uomo o un angelo, l'uomo rimarrebbe sottomesso a questo mediatore, diventerebbe per sempre servo di uno che non è Dio.
Dante, al verso 57, parla della misteriosità del modo di "nostra redenzion". Assunto per indicare l'azione salvifica di Gesù Cristo dal Nuovo Testamento (cfr., tra l'altro, 1 Corinzi, 1, 30; Romani, 3, 24; Efesini, 1, 7), il termine redemptio si mantiene nella tradizione patristica ed è presente in Anselmo insieme con altri termini latini dal significato convergente: restauratio, satisfactio, salvare hominem, restituere, tutti termini accolti dalla cristologia scolastica, come anche da Dante. Da che cosa Dio redime l'uomo compiendo la sua azione salvifica? La risposta dei cristiani: Dio libera dal peccato, dall'ira di Dio, dal dominio del diavolo. Passando all'interrogativo circa il come: è forse giusto far soffrire e far morire l'uomo più giusto per salvare un peccatore? Questo è il quesito centrale, intorno al quale Anselmo costruisce la teoria della soddisfazione (satisfactio), connessa con l'enunciato iniziale: "ad ogni peccato segue necessariamente la soddisfazione o il castigo" (i, 15). Satisfacere, soddisfare, è termine proveniente dal diritto romano, e significa "fare abbastanza", oggi diremmo fare il possibile per estinguere il debito. Per Anselmo invece la soddisfazione deve essere commisurata al danno e alle conseguenze del danno: soddisfare per il peccato non significa allora "fare abbastanza", come nel diritto romano, ma "fare di più", ossia riparare in maniera da riuscire pienamente gradito a chi ha subito il danno.
Dante sviluppa quasi letteralmente il nodo problematico della restaurazione dopo la caduta esposto da Anselmo, e osserva che la ragione umana non scorge che due possibili vie d'uscita: o l'uomo riesce a dare a Dio soddisfazione del peccato, restituendogli l'onore tolto, onore che consiste in tutto ciò che Dio si era proposto di fare creando la natura umana; oppure Dio rimette il debito per sua benevolenza (cortesia), con un atto gratuito di perdono:
"Né ricovrar potiensi, se tu badi / ben sottilmente, per alcuna via, / senza passar per un di questi guadi: / o che Dio solo per sua cortesia / dimesso avesse, o che l'uom per sé isso / avesse sodisfatto a sua follia" (vv. 88-93).
Invero, non è data all'uomo alcuna possibilità di recuperare solo con i propri mezzi lo stato di felicità perduto col peccato; quanto all'altra possibilità, ossia la via della remissione unilaterale da parte di Dio, Anselmo aveva prodotto una motivazione ben articolata e personale circa l'improponibilità di un atto di condono divino per pura misericordia:
"Ma se rimette ciò che l'uomo deve liberamente restituire, perché l'uomo non può restituire, che altro significa se non che Dio rimette quanto non può avere? Ma è una derisione attribuire a Dio una tale misericordia" (Cur Deus homo, i, 24).
A questo punto è chiaro che solo Dio poteva escogitare un percorso che sanasse la condizione di condanna dell'uomo per il peccato, vincendo le impossibilità e le preclusioni esaminate. Dante usa nuovamente il termine "via" e parla delle "vie sue" (cioè di Dio), e questa volta non si tratta di ipotesi della ragione; ispirandosi al salmo 24 (8-10), che connota tutte le vie del Signore come "verità e grazia", dice che Dio aveva a disposizione due vie, la misericordia e la giustizia, e credo che lo dica proprio sotto la suggestione del testo di Anselmo, il quale scrive che per la redenzione dell'uomo bisognava escogitare un percorso in cui la misericordia di Dio non confliggesse con la sua giustizia, e viceversa.
"Dunque a Dio convenia con le vie sue / riparar l'omo a sua intera vita / dico con l'una o ver con amendue (...) Ché più largo fu Dio a dar sé stesso / per far l'uom sufficiente a rilevarsi, / che s'elli avesse sol da sé dimesso, / e tutti li altri modi erano scarsi / a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio / non si fosse umiliato ad incarnarsi" (vv. 103-105; 115-120).
È qui che il summum opus della redenzione attraverso l'incarnazione voluto da Dio si mostra come una manifestazione del suo essere anselmianamente maius quam cogitari possit: Dio assume il compito di intervenire, ma senza contravvenire o alla misericordia o alla giustizia. Anzi Anselmo arriva a dire che Dio ha mostrato maggiore iniziativa nel redimere l'uomo che nel crearlo; la maniera "più mirabile" lascia intendere che nel Verbo incarnato, vertice della creazione, Dio ha dispiegato qualcosa di sommamente degno di sé, qualcosa che è "più mirabile" perché l'unità di Dio e uomo è qualcosa che eccede qualsiasi pensabilità o aspettativa. È un percorso inaudito, che Dante tratteggia come "alto e magnifico processo" (v. 113), che non ha avuto e non avrà eguali per tutta la durata della creazione, distesa tra il primo die dell'in principio creavit Deus caelum et terram, e "l'ultima notte" che si dischiuderà nel giorno senza tramonto della Parusìa.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Trent'anni di «Apocalypse Now» - Il film che Orson Welles non riuscì a girare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
"Andavo nel posto peggiore del mondo, su per un fiume che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico, con il terminale inserito direttamente dentro Kurtz", dice il capitano Willard sull'imbarcazione che lo porterà a incontrare il misterioso colonnello dell'esercito americano, scivolato nella follia col suo regno pagano al centro della giungla. All'inizio degli anni Settanta anche Francis Ford Coppola, giovane punta di diamante della fucina cormaniana - lo stuolo di autori svezzati dal geniale produttore di serie b Roger Corman, capace di vantare nomi come quello di Martin Scorsese e Jonathan Demme - comincia a sentire un Kurtz dentro la testa, un demone capriccioso che vuole spingerlo nel baratro dell'impresa impossibile.
A quell'epoca Coppola non è solo un regista affermato, ma l'autore simbolo della Hollywood renaissance, ossia di un cinema americano rinato dalle proprie ceneri dopo la crisi degli anni Sessanta, ispirato alle idee della contestazione e influenzato dal cinema europeo, ma con un occhio di riguardo anche per l'epoca d'oro di Hollywood. Grazie alla saga de Il padrino, il regista di origini italiane ha raggiunto un successo planetario vincendo svariati premi Oscar, e ha inoltre avuto modo di perfezionare quello stile neoclassico per il quale aveva mostrato attitudine sin dai suoi esordi: montaggio invisibile, inquadrature equilibrate, controllo dispotico della fotografia, i suoi stilemi fanno ormai parte di un congegno impeccabile che rielabora il cinema hollywoodiano del passato con lo sguardo ambizioso del cinema d'autore. Agli inizi degli anni Settanta Coppola non ha più niente da chiedere alla fortuna. È qui che Kurtz comincia a reclamarlo nel suo cuore di tenebra.
Realizzare Apocalypse Now vuol dire infatti non solo mettere in scena la più grande tragedia americana, elaborarne le aberranti motivazioni nello stillicidio di una seduta psicanalitica collettiva, ma anche portare sullo schermo la trasposizione di cui a Hollywood si favoleggia da decenni, ovvero almeno da quando un certo Orson Welles decise di rinunciare all'impresa di tradurre in immagini il famoso racconto di Conrad su un oscuro mercante d'avorio, per ripiegare su un personaggio per molti versi simile ma sulla carta meno ambizioso come il Charles Foster Kane di Quarto potere. Dopo quell'opera prima dallo scarso successo commerciale, Welles tribolerà tutta la vita per mettere insieme i suoi film. Ma mai riuscirà a inoltrarsi nel cuore conradiano.
Anche altri famosi registi paventeranno l'impresa. Fra questi, Richard Brooks, l'autore di A sangue freddo e I professionisti. E non è un caso che sul progetto primigenio che porterà nel 1979 ad Apocalypse Now compaiano insieme i nomi di Welles e Brooks. I loro stili antitetici, infatti - anarchico, visionario, anticipatore delle nouvelle vagues europee, il primo; strenuamente classico e dall'ampio respiro, il secondo - delineano due coordinate che i registi-cinefili della nuova generazione hanno studiato e imparato a seguire. All'incrocio di queste due coordinate, c'è il cinema di Coppola e di tutta la fucina cormaniana.
E la dicotomia fra classicità e innovazione si riflette anche sulla personalità di quello che assieme a Coppola sarà il co-sceneggiatore del film, John Milius, personaggio fondamentale della renaissance. Politicamente conservatore se non addirittura reazionario, Milius è in realtà una figura complessa figlia di un periodo di transizione: regista di Un mercoledì da leoni e autore dello script di un western revisionista come Corvo rosso non avrai il mio scalpo, affianca, senza combatterla, l'ondata contestataria, portandola però a più miti consigli grazie al suo stile dai toni classicheggianti, dal respiro epico e romanzesco, riuscendo sottilmente a interiorizzare tutte le tensioni sociali e politiche dell'America dell'epoca nel farne una questione di lotta fra uomo e storia, intesa per lo più come succedersi implacabile di cicli naturali, e riportando così al centro del dibattito filosofico nazionale i miti fondanti dell'individuo e della wilderness da domare. E, assieme a essi, un riscoperto senso della tragedia, che registi degli ultimi anni come Robert Altman e Arthur Penn si erano premurati sistematicamente di demolire col loro spirito caustico e dissacrante.
Le influenze classiche dello sceneggiatore si ritrovano innanzi tutto nei chiari riferimenti all'Odissea presenti nel soggetto del film (laddove la sceneggiatura vera e propria di partenza sarà in seguito completamente stravolta da Coppola). D'altronde, già il Kurtz inventato da Conrad è un personaggio che affonda radici ancestrali in millenni di narrativa e drammaturgia: passando per i tiranni shakespeariani, arrivando fino a Edipo, è l'archetipo dell'uomo che si ritrova abbacinato dal proprio abisso, dalle conseguenze aberranti e incontrollabili del proprio agire.
Quella che Coppola ha in mente di realizzare è quindi un'impresa improba che si porta dietro interi universi tematici ed espressivi, e che anche solo dal punto di vista strettamente cinematografico si propone di chiudere idealmente un ciclo hollywoodiano lungo mezzo secolo, approdando fino ai margini - già visibili grazie all'esordio di Star Wars e ai primi film di Steven Spielberg - del cinema sforna-blockbuster, la nuova Hollywood in senso stretto votata alla strategia del film-evento. Una strategia alla quale il progetto di Coppola peraltro non intende sottrarsi del tutto, a partire da un budget lievitato presto a dismisura e da un look che la fotografia calda e a tratti estetizzante di Vittorio Storaro rende immediatamente appagante.
Ciò che a tutt'oggi rimane quasi inspiegabile, e che fa di Apocalypse Now un capolavoro irripetibile del cinema americano e non solo, è come tutte queste influenze eterogenee, tutti questi propositi variegati e titanici, siano potuti confluire - dopo anni di lavorazione in condizioni proibitive, esaurimenti nervosi del regista, un attacco di cuore del protagonista Martin Sheen, capricci da star intoccabile del Kurtz Marlon Brando - in un risultato straordinariamente equilibrato che non fa avvertire nulla di quella fatica. Ha dell'incredibile il modo in cui le tante anime del film si richiamano fra loro in un gioco infinito di attrazioni: la suggestione dell'apologo di Edipo si fonde con la piaga tipicamente americana dell'assenza dei padri, pronti in questo caso a sacrificare i figli in una guerra di glaciale strategia; il classicismo dello stile si concilia con l'andamento narrativo fluviale, indice di un senso forte di autorialità che deriva direttamente dalla recente lezione del cinema francese ed europeo; la dimensione spettacolare e persino commerciale assurge a filosofia nazionale e occidentale di dominio sulle altre culture; il piano del racconto di Conrad, con tutte le sue implicazioni metafisiche, si interseca alla perfezione con quello ben più concreto e crudo del film di guerra vero e proprio; gli echi più prosaici della controcultura si sublimano in un canto contro tutti i conflitti, tutte le ingiustizie, tutti gli orrori.
E sarà proprio questa la chiusa del film come del racconto di Conrad: l'orrore, ovvero l'abisso scavato dagli uomini e dentro il quale Kurtz ha osato guardare per primo, perdendo la ragione. Un'immagine con cui l'opera colta Apocalypse Now rievoca i tanti sguardi fatali del mito, da quello di Narciso a quelli rivolti a Medusa, legandoli in una morsa a quello improvvisamente fragile dell'America di fine Novecento.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Anche in «Cuore di tenebra» di Conrad solo Kurtz ha il coraggio di guardare il fondo del baratro - Marlow (Willard) tiene famiglia - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009
Chi è meno colpevole, Marlow-Willard o Kurtz? Non c'è dubbio che questa domanda deve aver attraversato più volte la mente di Francis Ford Coppola, durante la realizzazione di Apocalypse Now, come deve aver animato la creazione di Heart of Darkness da cui il celeberrimo film è (liberamente direbbero alcuni) tratto. Far balenare davanti al lettore una seppur fugace risposta al quesito è anzi il motivo che sottende alla scrittura del romanzo di Joseph Conrad.
La domanda non può però riguardare l'innocenza dei protagonisti, ma solo l'entità della loro colpevolezza, perché qui - nel libro di Conrad come nel film di Coppola - di innocenza non ne è rimasta. È stata dissipata come solo può esserlo quando l'uomo moderno dilapida se stesso in avventure poco gloriose quali lo sfruttamento coloniale o la guerra. Niente luce, quindi, ma solo tenebra, solo l'incombenza di un'apocalisse sempre annunciata ma costantemente rimandata. A un passo dalla fine, senza mai varcare la soglia, in una sorta di limbo che accoglie tutti i protagonisti del romanzo. In questo senso Marlow e Kurtz (come i protagonisti di Apocalypse Now) sono accomunati dal fatto di essere figli dello stesso mondo. Di una cultura costretta ad arrampicarsi sugli specchi della propria coscienza per giustificare il saccheggio colonialista, che alla fine del XIX secolo garantiva sussistenza all'economia britannica, o qualsiasi altra forma di aggressione.
Una realtà che Conrad, uno dei massimi scrittori di lingua inglese anche se di nascita polacca, conosceva di prima persona. Il suo romanzo trae infatti spunto da un viaggio compiuto nel 1890 risalendo il corso del fiume Congo, esattamente come Marlow, il coprotagonista del libro pubblicato nove anni dopo. Ma viaggiando nell'Africa più intensa, Conrad, come poi accade al suo personaggio, deve aver potuto gettare uno sguardo su una realtà ben peggiore di quella del colonialismo.
Perché in definitiva Cuore di tenebra non è solo un romanzo contro il colonialismo, esattamente come Apocalypse Now non è solo un film antimilitarista. Si tratta invece di opere sulla natura più profonda dell'uomo, sul suo lato più cupo, su quel cuore di tenebra che potenzialmente batte in ogni essere umano - come tragicamente la storia ha insegnato - e che con fatica si cerca di celare. Nulla di contingente quindi, nulla di comodamente relegabile all'Inghilterra del xix secolo o all'America degli anni Sessanta e Settanta. Conrad nel suo romanzo fa chiaramente capire che l'oscurità riguarda tutti. Kurtz ad esempio è tedesco, ma di madre francese, di padre inglese ed è al servizio dei belgi; il suo aiutante è russo, mentre svedese è il capitano che pilota il traghetto lungo il Congo. E qui, nel pieno della wilderness, Marlow comincia il suo processo di identificazione con Kurtz, agente di una Compagnia europea dalla quale è stato rigettato.
Marlow, nel romanzo di Conrad ha un duplice ruolo: uno letterario, l'altro strutturale. Da un punto di vista stilistico, fungendo da narratore interno, consente all'opera una buona dose di oggettività. Lo scrittore, affidando la narrazione a un personaggio, ne rimane in qualche modo estraneo, quasi a voler garantire vita propria alla sua creazione. Ma il Marlow di Heart of Darkness è più di un accorgimento letterario. Come un Virgilio vittoriano, guida i lettori nella discesa agli inferi. Da questo viaggio dovrebbe essere per sempre cambiato e in effetti lo è. Ma fino a un certo punto. Perché, arrivato sull'orlo dell'ultimo precipizio, ha paura e si ritrae.
Kurtz no, Kurtz - sia quello del libro che quello del film - ha invece il coraggio e lo spessore tragico necessari a guardare il fondo del baratro da egli stesso scavato. Sia l'agente della Compagnia belga che il colonnello delle forze speciali statunitensi sono sfuggiti al controllo dei loro superiori e si sono lasciati andare a ogni sorta di violenza. Hanno usato gli stessi mezzi di sempre per imporre le ragioni del più forte, ma hanno sbagliato, perché con la loro brutalità hanno privato il potere - economico o militare che sia - della retorica patina di ipocrisia che lo rende digeribile. Sono diventanti inaccettabili e vanno senz'altro eliminati perché rivelano alla luce del sole di cosa sia capace l'uomo lontano dalle educate ricostruzioni della storiografia ufficiale e dei telegiornali. Ma Kurtz quella soglia l'ha già varcata, è stato attratto fatalmente dall'oscurità e ne è rimasto prigioniero. Fino all'ultimo istante, quando, in punto di morte sul battello che lo trascina verso il mare, impietosamente conia una definizione per il mondo che lo ha generato e poi scartato come un rifiuto e del quale, scoprendone la finzione, si è eretto a giudice: l'orrore.
Marlow, come detto, rimane pericolosamente affascinato da Kurtz. Ma, al momento della verità, si dilegua. In fondo la sua vita non finisce a bordo di un battello che naviga su un fiume africano. Il suo destino è nella civilissima Inghilterra, nella modernissima New York, nella freddissima Mosca o in qualsiasi altra capitale di un impero politico ed economico. Che fare? Tornare per gridare in patria l'orrore di Kurtz, condannandosi all'emarginazione, o lasciare che quel rantolo si spenga in Africa assieme alla sua forza visionaria ed eversiva? Marlow tiene famiglia, verrebbe da dire, e così preferisce la strada meno gloriosa, ma più sicura. E alla fine della storia conforta la fidanzata di Kurtz: le ultime parole da questi pronunciate sono state il nome di lei e non già "l'orrore, l'orrore". Che epitaffio banale per l'uomo che ha messo a ferro e fuoco parte dell'Africa nera (e della Cambogia). Nulla resta della tragica denuncia di un personaggio scomodamente fedele a stesso. Più accettabile di Marlow-Willard. E meno colpevole.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
GIORNALI/ Magister: c’è un laicismo che vuol far tacere la Chiesa - INT. Sandro Magister giovedì 17 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Il ddl sul testamento biologico è approdato in commissione alla Camera. Secondo il politologo Giovanni Sartori, che vi ha dedicato l’editoriale di ieri sul Corriere, il provvedimento rappresenta al massimo l’interferenza del Vaticano nella politica italiana. E sancisce la volontà della Chiesa di dirci come dobbiamo o non dobbiamo morire, prevaricando, grazie alla legge dello Stato, la nostra libertà individuale. L’ulteriore paradosso - dopo quello per la Chiesa di comandare meno di oggi quando al potere c’era la Dc - è che «oggi il più “aperto” ai voleri del Vaticano sia Berlusconi», che non è certo, dice Sartori, un cattolico esemplare. Ma Sartori non si ferma qui, e inizia una sarcastica reprimenda verso la Chiesa, protagonista, in ultimo, di un «fideismo che acceca la ragione». Un articolo che chiama a raccolta le ragioni laiche, veramente laiche del paese per contrastare le forze illiberali dell’oscurantismo cattolico? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso.
Magister, nel suo editoriale di ieri sul Corriere Giovanni Sartori accusa la Chiesa di «un rinato sanfedismo» e di «un fideismo che acceca la ragione».
L’articolo esprime abbastanza bene una sorta di alleanza tra una frazione del pensiero laico, di cui Sartori è esponente autorevole, e una frazione del mondo politico che non condivide l’indirizzo prevalente emerso al Senato. Largamente prevalente, c’è da dire, e anche abbastanza esteso per quanto riguarda il consenso nella popolazione italiana.
Vede nel pezzo di Sartori l’espressione di un attacco al progetto di Ruini, come tentativo di mostrare la validità della proposta cristiana per la società del paese?
Direi proprio di sì. Anche se il nome di Ruini nell’editoriale di Sartori non viene fatto, la logica è questa. Curiosamente l’articolo approda ad una sorta di estromissione dal campo di gioco della controparte, alla quale si nega ogni razionalità dal punto di vista della convivenza pacifica tra persone di diverso orientamento in un paese democratico. Ma quella di Sartori è una palese violazione delle “regole”. Non si può buttar fuori dal gioco l’avversario semplicemente dicendogli che non è in grado di rispettarle. Perché non è proprio questo che risulta, mi pare.
Sartori parla addirittura di un testamento biologico “alla vaticana”. Da rispedire al mittente.
È una leggenda metropolitana, perché il Vaticano non ha alcuna volontà di mascherare il proprio pensiero, che ha sempre annunciato apertamente con la voce del papa e dei vescovi. Ma questa non è un’ingerenza. La posizione della Chiesa è nota, anzi notissima e argomentata. Essa dichiara semplicemente quello che per lei è il bene dell’uomo. Il suo messaggio si scontra con la visione opposta e ora l’elemento discriminante è la posizione da prendere sul fine vita.
Perché le accuse di ingerenza di parte laica hanno ripreso vigore?
Inizialmente una parte della Chiesa propendeva piuttosto per una non legiferazione sull’argomento. Era una posizione prevalente all’interno della gerarchia, e la stessa Cei era orientata a non chiedere una legislazione su questo tema - e su temi del genere - perché convinta che su questo potesse bastare un dialogo fruttuoso tra il paziente, il medico e la famiglia. Poi l’orientamento è cambiato.
Stiamo parlando del caso Englaro. Cos’è successo?
Il fatto che ha indotto la Chiesa a mutare opinione è stato l’intervento dell’autorità giudiziaria. Dove non c’era legge si è introdotta l’autorità giudiziaria che ha fatto legge. La convinzione della Cei è che il caso Englaro rappresenti il primo di una serie di prese di posizione della magistratura che in qualche modo vanno a colmare un campo che il legislatore ha lasciato sguarnito. Tutto si gioca, naturalmente, nel come questo vuoto viene colmato: se in modo rispettoso della dignità della vita oppure no. Ecco perché la Chiesa è intervenuta chiedendo che venisse fissato qualche limite entro il quale la dialettica tra paziente, medico e famiglia potesse esplicarsi. Un limite chiarissimo è quello di non considerare terapia la semplice azione di dissetare e di nutrire.
Il testamento è arrivato in commissione alla Camera. Dobbiamo attenderci un compromesso, magari verso una posizione alla Fini, basata su regole più ampie e meno prescrittive?
Questa possibilità c’è. Esiste un’area all’interno della maggioranza - la quale trova consenso nell’opposizione - che propende per una sorta di rinvio di ogni decisione. Nelle correnti di pensiero che affiancano il centrodestra ci sono indicazioni di questo genere, basti pensare al Foglio di Giuliano Ferrara.
Nelle ultime ore di vita di Eluana Englaro Berlusconi aveva preso una posizione molto netta, tentando di impedire con un decreto che venissero sospese idratazione e alimentazione. Può essere un elemento discriminante?
Sì. È difficile che il governo faccia idealmente marcia indietro, dopo aver addirittura ingaggiato un braccio di ferro col capo dello Stato che non volle controfirmare quel decreto. Nello stesso tempo il ministro Sacconi, il più impegnato su questo terreno insieme al sottosegretario Roccella, ha detto che al limite si potrebbe pensare a una ripresentazione di quel decreto o comunque ad una versione fatta anche di un solo articolo, che fissi semplicemente quel principio e rimandi il resto a tempi più maturi.
Quei vescovi intimiditi in ginocchio da Allah - La conferenza episcopale svizzera sponsorizza i minareti e nelle chiese italiane si diffonde la propaganda musulmana - Magdi Cristiano Allam (Libero, 13 settembre 2009)
Mentre i politici, esponenti della società civile e i mass-media nel mondo hanno voluto commemorare solennemente l’ottavo anniversario della tragedia dell’11 settembre 2001 che ha segnato il culmine del successo del terrorismo islamico dei tagliagola con i sanguinosi attentati alle Torri gemelle e al Pentagono, è trascorso del tutto in sordina il terzo anniversario della lectio magistralis di papa Benedetto XVI all’università di Ratisbona il 12 settembre 2006 che ha segnato il culmine del successo del terrorismo islamico dei taglialingua con una guerra a suon di condanne a morte e minacce al Santo Padre colpevole di aver menzionato la verità storica della diffusione dell’islam tramite la spada.
Questo fatto è di per sé emblematico della realtà di sottomissione all’ideologia dell’islamicamente corretto che da subito si è imposta con la reazione remissiva adottata dal cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, che all’epoca costrinse il pontefice a giustificarsi per tre volte rassicurando che non intendeva offendere i musulmani e arrivò al punto da indurlo a pregare nella moschea Blu di Istanbul rivolto verso La Mecca alla presenza del gran mufti turco.
Ebbene oggi l’islamicamente corretto trionfa ovunque in Europa e trova i suoi fervidi paladini all’interno stesso della Chiesa cattolica. Proprio alla vigilia dell’anniversario di Ratisbona, la Conferenza dei vescovi svizzeri si è espressa ufficialmente a favore della costruzione delle moschee con i minareti, invitando i connazionali a votare "no", il prossimo 29 novembre, al referendum che chiede il divieto di costruire i minareti, lanciato dall’Unione democratica di centro (Udc) svizzera. I vescovi svizzeri hanno precisato che "i minareti, come i campanili delle chiese, siano il segno della presenza pubblica di una religione". Per l’Udc svizzera, che ha promosso la consultazione popolare avvallata dal Parlamento, i minareti sono "il simbolo di una rivendicazione politico-religiosa del potere, che rimette in causa i diritti fondamentali". In Svizzera i musulmani sono 310 mila su una popolazione di 7,5 milioni di abitanti, dispongono di migliaia di luoghi di culto tra cui quattro moschee con minareti. Nel documento emanato dalla Conferenza dei vescovi svizzeri, pur prendendo atto che i cristiani sono discriminati nei paesi islamici, tacendo sul fatto che vengono in realtà perseguitati e massacrati, si invitano i cittadini svizzeri a sostenere la costruzione di moschee con minareti nel nome del cristianesimo e della democrazia: “Siamo coscienti che i diritti relativi alla libertà di religione e di culto non vengono rispettati in certi Paesi di religione islamica. I cristiani in particolare
subiscono delle restrizioni nella loro pratica religiosa e delle limitazioni nella costruzione di edifici sacri. Riaffermiamo la nostra vicinanza e solidarietà ai cristiani che subiscono angherie e persecuzioni. Come vescovi e come cittadini svizzeri ci rallegriamo che la nostra Costituzione federale non contenga più articoli d’eccezione e ci auguriamo che non se ne introducano di nuovi. La proibizione generalizzata di costruire minareti indebolirebbe gli sforzi che mirano a stabilire un atteggiamento di accoglienza reciproca nel dialogo e nel mutuo rispetto. La paura, anche a questo proposito, è cattiva consigliera. L’edificazione e l’utilizzazione dei minareti sono sottoposte d’altronde alle norme generali previste per qualsiasi costruzione. Pur riconoscendo le reali difficoltà nella convivenza di religioni diverse tra loro, per coerenza con i valori cristiani e i principi democratici del nostro Paese, invitiamo a respingere l’iniziativa”.
L’islamicamente corretto lo ritroviamo nell’opuscolo “Cristiani-Musulmani: che fare?”, pubblicato il primo marzo 2009 dal Gruppo di lavoro “Islam” della Conferenza dei vescovi svizzeri, in cui da un lato come cristiani legittimiamo e attribuiamo pari dignità all’islam, al Corano e a Maometto mentre, dall’altro, prendiamo atto che l’islam condanna il cristianesimo come dottrina politeista. Nell’opuscolo leggiamo: “Assieme all’ebraismo e al cristianesimo l’Islam fa parte delle religioni monoteistiche. In questo contesto anche i musulmani vedono nella figura d’Abramo il prototipo dell’uomo veramente credente che fa fronte a tutte le prove. Il testo sacro e la più importante fonte spirituale dell’Islam è il Corano (letteralmente: recita), che i musulmani considerano rivelazione immediata e diretta di Dio, Parola increata di Dio divenuta Libro. Tale visione del Libro si distingue dalla nostra comprensione della Bibbia. Nella sua autoconsapevolezza l’Islam si considera come la forma originaria, definitiva e pura della fede
nel Dio unico; Maometto è come l’ultimo profeta (“sigillo della profezia”) nella lunga lista dei Profeti.
Dal punto di vista dell’Islam la missione di Maometto come profeta contiene un doppio significato, sia come
conferma sia come correttivo rispetto alla rivelazione ebraica e cristiana: riasserire la verità della missione
di Gesù, come costui riasserì la verità della missione di Mosè con la Torah tramite il Vangelo; e rimuovere
o rettificare le modifiche e falsificazioni del testo della Rivelazione originariamente puro. L’asserto prende
spunto particolarmente dalla devozione cristiana in Gesù Cristo come Figlio di Dio, che il Corano rifiuta
in quanto negazione dell’unicità di Dio; o ancora dalla dottrina cristiana della Trinità, che dal profilo islamico costituisce un politeismo”. Mi domando se nessuno dei vescovi svizzeri sa che l’Abramo islamico non ha nulla a che fare con l’Abramo biblico, che il Dio del Corano non ha nulla a che fare con il Dio che si è fatto uomo e che s’incarna in Gesù, che pertanto l’islam non può in alcun modo essere considerato una religione monoteista alla pari con l’ebraismo e il cristianesimo.
Non sorprende che il presidente del Gruppo di lavoro “Islam”, monsignor Pierre Bürcher, il 15 settembre 2006 si fece portavoce dei “musulmani feriti” per il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, sostenendo che “i musulmani in Svizzera chiedono un chiarimento”, precisando che “il rispetto e la tolleranza non sono a senso unico. Ciascuna religione deve rispettare l’altra. Solo la regola d’oro ‘Fai all’altro ciò che vorresti che venga fatto a te ’ è un percorso risolutivo”.
Ed anche venerdì scorso, l’ultimo del mese di digiuno islamico del Ramadan, il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ha emesso un messaggio augurale dal titolo “Cristiani e musulmani: insieme per la vincere la povertà”. In esso si ripropone la tesi della interdipendenza tra la povertà e il terrorismo, clamorosamente smentita dalla lunga serie di attentati terroristici che hanno insanguinato il mondo a partire dall’11 settembre 2001: “Respingere i fenomeni di estremismo e di violenza esige necessariamente la lotta contro la povertà attraverso la promozione di uno sviluppo integrale”. L’islamicamente corretto si rileva nel fatto che la Chiesa non ha il coraggio di dire che il terrorismo è islamico e che il terrorismo islamico non è affatto figlio della povertà, bensì la corretta trasposizione dei numerosi versetti coranici che istigano all’odio, alla violenza e alla morte, nonché la corretta emulazione delle gesta di Maometto che ha personalmente partecipato a stragi come quella del 627 in cui ha sgozzato oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraisha alle porte di Medina.
L’islamicamente corretto l’ho toccato con mano nel foglio domenicale distribuito in occasione della messa il 6 settembre in tutte le chiese d’Italia, con un riquadro dal titolo “Per un dialogo interreligioso, Chiesa cattolica e Islam”, con una foto del papa che stringe la mano ad una esponente della delegazione islamica dei cosiddetti “138 saggi dell’islam”, affiancata da Tariq Ramadan. Ebbene proprio questo personaggio, il più celebre ideologo dei Fratelli Musulmani in Europa, di nazionalità svizzera, è il principale promotore della strategia che mira sia a legittimare su un piede di parità l’islam, Allah, il Corano, Maometto e la sharia, sia a far riconoscere che l’islam è parte integrante delle radici storiche della civiltà europea al pari dell’ebraismo e del cristianesimo.
Questa strategia è oggi patrocinata dalla Conferenza dell’Organizzazione Islamica, la cornice unitaria dei circa 50 paesi a maggioranza islamica. Bat Ye’or, nel suo libro “Verso il Califfato universale, Come l’Europa è diventata complice dell’espansionismo musulmano” (Lindau, 2009), ricorda che nell’ottobre del 2008 a Copenaghen si svolse la seconda Conferenza internazionale per l’educazione e il dialogo interculturale. Nel suo intervento il segretario generale dell’Oci, il turco Ihsanoglu, ha detto: “Sono particolarmente interessato ai progetti che porteranno a una descrizione corretta del nostro passato comune in modo da chiarire che l’islam non è estraneo bensì parte integrante del passato, del presente e del futuro dell’Europa in tutti i settori dell’impegno umano e che dimostreranno come la civiltà e la cultura islamica hanno contribuito alla creazione dell’Europa moderna”.
Ebbene cara Chiesa cattolica riflettiamo. In quest’Europa laicista, relativista e scristianizzata, i musulmani si fanno avanti con determinazione per accreditare una loro paternità della nostra civiltà. Nel momento in cui noi ci vergogniamo di affermare la verità storica delle radici giudaico-cristiane, loro si candidano per colmare il vuoto identitario con una presunta radice islamica della civiltà europea. E se permetteremo che alle radici giudaico-cristiane si sostituiscano quelle islamiche, di noi non resterà sostanzialmente nulla: senza un’anima, senza valori e senza identità scompariremo. Allora dico alla Chiesa: basta con l’islamicamente corretto! Basta complicità nel suicidio collettivo della civiltà europea!
Deputato Udc al Parlamento Europeo (allam@ppec.eu)
IL CORAGGIO DI EDUCARE - OBIETTIVI PER TORNARE DALL’ESILIO - ANGELO B AGNASCO – Avvenire, 17 settembre 2009
C resce ogni giorno di più il consenso diffuso, sia in ambito ecclesiale che in quello civile, circa la rilevanza dell’attuale emergenza educativa, che appena pochi giorni fa, nel corso della sua visita pastorale a Viterbo, Benedetto XVI definiva ineludibile e prioritaria, «grande sfida per ogni comunità cristiana e per l’intera società». Se però si alzano numerose le voci che denunciano la crisi che attanaglia la riflessione e l’opera educativa, non è frequente che si giunga anche a individuarne le cause e a prospettare delle linee di intervento per una inversione di rotta.
Il rapporto-proposta del Comitato per il progetto culturale 'La sfida educativa', da oggi nelle librerie di tutt’Italia, ha il pregio di non limitarsi alla segnalazione della debolezza educativa che caratterizza la società odierna, comprese molte comunità cristiane, ma si spinge ad additarne le cause principali e suggerisce gli obiettivi da perseguire per tornare dall’esilio educativo in cui sembra essersi confinata la civiltà occidentale.
Davanti a un certo smarrimento delle motivazioni fondamentali dell’educazione, il Comitato per il progetto culturale evidenzia la necessità di ritrovare il 'baricentro' dell’esperienza formativa, ossia una vera sapienza antropologica e una visione non riduttiva del fatto educativo. «Con il termine educazione – rammenta Benedetto XVI nella Caritas in veritate – non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona». A questo proposito, prosegue il Papa, «va sottolineato un aspetto problematico: per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. L’affermarsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi all’educazione, soprattutto all’educazione morale, pregiudicandone l’estensione a livello universale ». Tra le povertà del nostro tempo, va annoverata anche la dimenticanza dell’irriducibilità della persona umana, quotidianamente attraversata dalla questione del senso del vivere e del morire, e del suo costitutivo essere relazione con il mondo, con gli altri, con l’infinito.
Educare, dunque, è accompagnare ciascun individuo, lungo tutta la sua esistenza, nel cammino che lo porta a diventare persona e ad assumere quella 'forma' per cui l’uomo è autenticamente uomo. Tornando alle parole di Benedetto XVI a Viterbo, l’educazione «è proprio un processo di Effatà, di aprire gli orecchi, il nodo della lingua e anche gli occhi». Ciò non potrà avvenire, però, senza l’opera paziente e qualificata di educatori credibili e autorevoli, capaci di 'generare' in un contesto di fiducia, di libertà e di verità. Non ha torto chi sottolinea come l’attuale crisi educativa riguardi primariamente la generazione adulta, cui spetta mostrare con la vita ciò che realmente vale e trasmettere un’eredità viva, da scoprire e rinnovare con responsabilità. Ugualmente essenziale, infatti, è da considerare il legame con la tradizione in cui siamo innestati, che lungi dal ridursi a mera conservazione del passato e dall’imprigionare le risorse più nuove e originali, rende possibile indirizzare proficuamente l’aspirazione di ogni uomo a una pienezza di vita e di felicità. Come attesta con chiarezza la rivelazione cristiana, essere uomo equivale ad essere figlio. È una proposta umanizzante quella che affiora dalle pagine de 'La sfida educativa', i cui capitoli spaziano dalla vita familiare al senso delle istituzioni scolastiche, senza tralasciare il compito educativo della Chiesa e i numerosi fattori in gioco: l’inarrestabile flusso comunicativo, i bisogni e i desideri espressi nel lavoro e nel consumo, i nuovi luoghi in cui si costruisce la persona. Con la stesura del rapporto- proposta sull’educazione, il progetto culturale della Chiesa italiana si conferma attento alle dinamiche vive della società italiana ed essenziale sia per una maturazione culturale della fede, sia per quell’allargamento degli orizzonti della razionalità che Benedetto XVI non cessa di invocare. «Solo dall’educazione viene la bussola per potersi orientare dentro il pluralismo parossistico della società», ha osservato nel suo intervento al Convegno ecclesiale di Verona il professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica. Occorre perciò – ci ricorda oggi il rapporto-proposta del progetto culturale – il coraggio di tornare a educare l’intelligenza e il desiderio verso il bene, il vero, il bello.
IL « SÌ » UNANIME DELLA C AMERA ALLA NUOVA LEGGE - Cure palliative una lezione sui diritti - ASSUNTINA M ORRESI – avvenire, 17 settembre 2009
P otrebbe essere il segnale della svolta, dopo mesi in cui veleni, gossip e colpi bassi l’hanno fatta da padrone in politica.
Ieri la Camera con voto unanime ha infatti approvato la legge sulle cure palliative e la terapia del dolore. L’iter legislativo non è stato dei più tranquilli, ma l’esito finale di questa prima parte del percorso – adesso il testo passa al Senato – fa ben sperare: di fronte alla sofferenza e alla malattia incurabile la politica ha ritrovato una compattezza e un’unità di intenti quasi inaspettata, considerato il clima di questi ultimi tempi. E il fatto che per questa legge siano stati messi a disposizione cospicui finanziamenti, nonostante il periodo di crisi economica, l’emergenza terremoto e i timori di pandemia, testimonia dell’interesse reale che la politica ha mostrato per il provvedimento.
Si tratta di una legge che investe il concreto della vita delle persone, rispondendo ai loro bisogni nel momento di maggiore fragilità: quello del dolore, soprattutto se alla fine della vita, quando la parola 'guarigione' non ha più spazio. Una legge che sostiene la persona, della quale ci si deve sempre prendere cura, tutelandone la vita in tutte le sue condizioni, nel solco di una tradizione che nel nostro Paese ha una sua precisa identità e fisionomia. La cura dei malati e l’impegno a lenirne la sofferenza, infatti, fanno parte integrante del millenario patrimonio della sensibilità cristiana: lo dimostrano innumerevoli vite di santi, congregazioni, organismi, così come le innumerevoli opere di carità e assistenza, grandi e piccole, sparse ovunque.
È bene ricordare che questa legge non ha niente a che fare con quella sul fine vita, e cioè con il testo Calabrò approvato dal Senato e attualmente in discussione alla Commissione Affari sociali della Camera. Ed è certamente un bene che i due provvedimenti siano stati distinti e abbiano proceduto in modo separato nel loro percorso parlamentare. La legge sulle cure palliative si pone il problema di sostenere i malati inguaribili al termine della loro esistenza o persone affette da dolori cronici, e nasce quindi dall’esigenza di lenire le sofferenze di pazienti senza speranza di rimettersi in salute; la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento nasce invece per porre riparo a sentenze 'creative' della magistratura italiana, con le quali si è consentito che Eluana Englaro – una persona in stato vegetativo, la forma estrema di disabilità, ma certo non una malata terminale – morisse disidratata: una morte, questa sì, sicuramente dolorosa, tanto che la si è dovuta accompagnare somministrando sedativi. La legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento ha dunque come primo obiettivo quello di evitare che tragedie come quella di Eluana possano ripetersi, impedendo che la libertà di cura, garantita dalla nostra costituzione, si trasformi in un tragico 'diritto a morire'.
Tutte le malattie, anche quelle inguaribili, sono sempre 'curabili': il diritto alla cura, concetto su cui si basa la legge sulle cure palliative, non dovrà quindi essere dimenticato quando l’aula della Camera affronterà il 'biotestamento'.
EllaOne, il nuovo nome dell’aborto «mascherato» - Avvenire, 17 settembre 2009
Si chiama Norlevo, ma è più nota come 'pillola del giorno dopo', anche se viene usata fino a tre giorni dopo un rapporto sessuale 'non protetto' per cercare di evitare, quando ormai sembra troppo tardi, una gravidanza indesiderata. Ora l’industria farmaceutica e i fautori della cosiddetta 'contraccezione d’emergenza' puntano a diffondere nuovi prodotti capaci di impedire la gravidanza, anche se assunti a più lunga distanza dal rapporto 'a rischio', fino a cinque giorni. Tra questi, il primo a essere disponibile in Europa sarà EllaOne. Se ne è parlato al 8° Congresso della Società europea di ginecologia, svoltosi a Roma nello scorso week-end, in una sessione sponsorizzata dalla Hra Pharma, azienda internazionale fondata in Francia nel 1996 e molto attiva nella produzione di questo tipo di farmaci. Attiva al punto da avviare la pratica per il via libera definitivo da parte dell’ente di farmacovigilanza europeo (l’Emea), atteso – salvo colpi di scena – per giovedì prossimo, con la Francia quale Paese apripista (come per la Ru486). Roberto Colombo, docente della Facoltà di medicina dell’Università Cattolica e membro dell’Istituto scientifico internazionale di ricerca sulla fertilità e infertilità umana (Isi) dello stesso ateneo, spiega cosa si sta muovendo in questo settore così delicato.
Al congresso di Roma il farmaco EllaOne è stato presentato come un prodotto di «nuova generazione nella contraccezione d’emergenza». In cosa consiste questa novità?
«Il tentativo di sviluppare molecole in grado di bloccare i processi fisiologici che portano a instaurare una gravidanza dopo un rapporto nei giorni fertili della donna ha una lunga storia, che parte dagli inizi degli anni ’60. La 'prima generazione' di questi farmaci utilizzava estrogeni e progestinici ad alti dosaggi, il cosiddetto metodo di Yuzpe. In tempi più recenti si è passati al solo progestinico (Levonorgestrel).
Successivamente si è scoperto che anche un antiprogestinico come il mifepristone (Ru486), impiegato solitamente per l’aborto precoce, se preso in singola dose di 200 milligrammi nel periodo postovulatorio è capace di impedire una gravidanza. Ma le limitazioni poste dalla legislazione farmaceutica di molti Paesi all’uso di Ru486 e alcune sue controindicazioni cliniche hanno portato a cercare nuovi prodotti per la 'contraccezione d’emergenza'. Sono gli antiprogestinici cosiddetti di 'nuova generazione', che agiscono come antagonisti del recettore del progesterone, un ormone indispensabile per la maturazione dell’endometrio uterino e l’impianto dell’embrione. Con i recettori del progesterone bloccati da questi farmaci è di fatto impedito l’inizio di una gravidanza. Tra queste molecole vi sono il Proellex (Cdb-4124), il Lonaprisan (Bay86-5044), l’Asoprisnil (J867) e l’Ulipristal (Cdb-2914).
Quest’ultimo ha recentemente ricevuto la raccomandazione per l’immissione in commercio, con il nome di EllaOne, da parte del Comitato europeo per il farmaco».
Che differenza esiste tra Ru486 ed EllaOne?
«Il primo, commercializzato con il nome di Mifegyne, viene utilizzato a gravidanza clinica già accertata per indurre l’aborto in modo non chirurgico, avvalendosi anche di una prostaglandina sintetica, il Misoprostol, per l’espulsione del feto abortito, con sanguinamento e forti contrazioni uterine. EllaOne invece non è efficace per questo scopo ma, se assunto alla dose di 30 milligrammi entro 120 ore dal coito (prima cioè che la donna sia accorga di essere incinta e la gestazione sia clinicamente confermata), può impedire lo sviluppo dell’embrione e, quindi, la gravidanza».
Attraverso quale meccanismo agiscono questi nuovi farmaci nell’impedire lo sviluppo dell’embrione?
«Come nel caso del Norlevo, il farmaco attualmente più utilizzato per questo scopo, anche per EllaOne è in corso tra gli studiosi un vivace dibattito su quale sia il meccanismo prevalente che porta a impedire la gravidanza. Le ipotesi più accreditate sono due (e mi scuso se devo ricorrere a una terminologia tecnica ma la precisione in questi casi è d’obbligo): l’inibizione tardiva dell’ovulazione (impedimento della rottura del follicolo, ormai maturo, nonostante gli elevati livelli plasmatici di gonadotropine caratteristici di metà ciclo) e l’alterazione della morfologia e della funzionalità dell’endometrio attraverso un meccanismo antiproliferativo dello stroma cellulare. È ragionevole ritenere che agiscano entrambi i meccanismi e che la prevalenza dell’uno sull’altro dipenda dalla fase del ciclo ovarico in cui è avvenuto il rapporto e, dunque, viene assunto EllaOne nei giorni successivi. Se l’effetto è antiovulatorio, l’azione farmacologica è assimilabile a quella contraccettiva perché ciò che si impedisce è la fertilizzazione. Al contrario, nei casi in cui la molecola è efficace agendo a livello endometriale l’azione è di tipo abortivo, in quanto causa la morte dell’embrione per l’impossibilità del suo impianto in utero. Statisticamente, considerando la durata delle fasi del ciclo e i giorni in cui può avvenire l’ovulazione e l’eventuale fertilizzazione, ritengo che l’effetto di gran lunga prevalente sia quello di tipo abortivo pre-clinico».
Si tratta, dunque, di un farmaco di fatto abortivo, sebbene venga venduto come 'anticoncezionale'?
«Gli antiprogestinici destinati alla cosiddetta 'contraccezione d’emergenza' nascono per la richiesta del mercato farmaceutico di disporre di prodotti, facili all’uso e con poche controindicazioni, da prescrivere alle donne – in particolare le più giovani – che sono disposte a tutto pur di evitare una gravidanza non voluta. E, così, il confine farmacologico, etico e giuridico tra contraccezione ed aborto tende sempre più ad assottigliarsi».
Quanto al profilo etico, che passaggio segna questo nuovo farmaco, che immaginiamo presto verrà sponsorizzato anche in Italia dal solito fronte politico-mediatico?
«È un problema di mentalità, cioè di ragione pratica. Lo aveva già anticipato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae : 'Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell’aborto emerge sempre di più, e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano'. Parole profetiche, che ci impongono di conoscere e vigilare».
Francesco Ognibene