Nella rassegna stampa di oggi:
1) PADRE POPIELUSZKO, "L'AUTENTICO PROFETA DELL'EUROPA” - di Luca Tanduo - ROMA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il 15 febbraio il Centro Culturale Cattolico “San Benedetto” (www.cccsanbenedetto.it) in collaborazione con Alleanza Cattolica e con il Centro Culturale “La Cittadella” ha organizzato la proiezione del film su padre Jerzy Popieluszko (1947-1984) al cinema Cristallo di Cesano Boscone (MI).
2) SARÀ BEATIFICATO UN SACERDOTE MORTO MENTRE CELEBRAVA LA MESSA - Padre José Tous y Soler agli onori degli altari il 25 aprile - di Carmen Elena Villa
3) Mandela e la riconciliazione nazionale in Sud Africa nel film "Invictus" di Clint Eastwood - In meta contro l'apartheid - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010
4) Papini, Garin e le inquietudini del Novecento - La rivincita dei poeti - Dal 25 al 27 febbraio si svolge a Roma, presso l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, il convegno "Il Novecento di Eugenio Garin". Anticipiamo un estratto di una delle relazioni. - di Simonetta Bassi Università di Pisa - L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010
5) Quell'ebreo Gesù che cambiò la vita al gran rabbino di Roma - La cambiò a tal punto che si fece battezzare nella Chiesa cattolica. Il suo libro "Il Nazareno" è stato riedito e recensito su "L'Osservatore Romano" da una studiosa ebrea. E intanto va alle stampe il secondo volume del "Gesù di Nazaret" del papa - di Sandro Magister
6) Camillo e don Camillo - Il manifesto antiruiniano dei cattolici conservatori. Ruini visto da destra - di Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi
7) L'Eucaristia è vero sacrificio - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 febbraio 2010
8) Avvenire.it, 23 Febbraio 2010 - La preghiera laica dei poeti - Due scrittori nonché insegnanti guardano alle domande ultime con gli occhi delle nuove generazioni. E rivelano un desiderio di autenticità sotto la coltre del consumismo.
9) Piemonte: Cota sottoscrive un "Patto per la vita e per la famiglia"- Massimo Introvigne è lieto di presentare questo documento, che ha un valore che va molto al di là del Piemonte. È la prima volta che chi si candida a governatore di una Regione italiana sottoscrive impegni così precisi e dettagliati in materia di principi non negoziabili e lo fa non con una dichiarazione di buona volontà ma con un patto bilaterale controfirmato da quattro garanti, che a loro volta s'impegnano a vigilare sul rispetto degli impegni assunti
10) Memoria corta, divorzio breve - Roberto Fontolan - giovedì 25 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
11) IL CASO/ Hercule Poirot svela il mistero anticristiano in Gran Bretagna- Gianfranco Amato - giovedì 25 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
12) Avvenire.it, 24 Febbraio 2010 - LA FEDE NEGATA - Iraq, l'appello del Papa: «Rispettare i diritti dei cristiani»
13) Avvenire.it, 25 Febbraio 2010 - Stati vegetativi: continue scoperte e un confronto sui fatti - Un po’ più di chiarezza e domande impossibili da ignorare
14) Avvenire.it, 25 Febbraio 2010 - Visione cristiana. E nessuna esclusione - Quell’asilo di Goito: ipocrisia e verità
15) Biopolitica - Approvato l’emendamento che amplia la platea dei pazienti ai quali si applicheranno le dichiarazioni anticipate di trattamento Di Virgilio: colmata una lacuna - Fine vita, si allarga il target dei malati coinvolti nella legge - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 25 febbraio 2009
SARÀ BEATIFICATO UN SACERDOTE MORTO MENTRE CELEBRAVA LA MESSA - Padre José Tous y Soler agli onori degli altari il 25 aprile - di Carmen Elena Villa
BARCELLONA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Per padre Alfonso Ramirez Peralbo OFMCap., postulatore della causa di canonizzazione di padre José Tous, la vita di questo sacerdote catalano è stata “una Messa continua”, e forse per questo è stato chiamato alla Casa del Padre proprio dopo la consacrazione eucaristica nella cappella del Collegio delle cappuccine di Barcellona nel 1871.
Il sacerdote, fondatore delle Suore Cappuccine della Madre del Divin Pastore, sarà beatificato il 25 aprile, giorno del Buon Pastore, nella chiesa di Santa María del Mar di Barcellona.
Chiamato da Dio
Nato ad Igualada (Barcellona) nel 1811, aveva 16 anni quando entrò nell'Ordine cappuccino. Con un'intensa vita spirituale silenziosa, di studio e piena di abnegazioni, fr. José passò per vari conventi del suo Paese preparandosi all'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1834.
Un anno dopo dovette affrontare una delle prove più dure della sua vita: l'esilio a causa della persecuzione vissuta in Spagna nel XIX secolo, quando molti religiosi furono esclaustrati.
Per vari mesi viaggiò per la costa mediterranea, andando in nord Italia fino a che nel 1837 arrivò in Francia e si stabilì nel monastero delle Benedettine di Tolosa. Lì si dedicava alla contemplazione e all'adorazione eucaristica, così come all'assistenza spirituale delle giovani religiose.
Tornò in Catalogna nel 1843, iniziando a lavorare nella Chiesa locale come sacedote secolare, visto che non poteva mettere in pratica la vita conventuale né vestire l'abito cappuccino. Per questo viveva con i genitori e lavorava in varie parrocchie lì vicino.
Padre José scoprì così di avere una particolare sensibilità verso l'educazione dei bambini. “Come Gesù davanti alla folla, provò compassione perché le pecore erano senza pastore”, ha detto il suo postulatore. Questa stessa sensibilità la trovò anche in tre ragazze che conosceva: Isabel Jubal, Marta Suñol e Remedio Palos.
Per questo, padre José Tous accettò di orientarle. Studiò la regola di Santa Chiara d'Assisi e adattò le Costituzioni cappuccine della beata Maria Angela Astorch per le Cappuccine Terziarie dell'Insegnamento. Nacque così la Congregazione delle Suore Cappuccine della Madre del Divin Pastore.
La prima comunità si stabilì a Ripoll nel marzo 1850, e il 27 maggio dello stesso anno venne aperta la prima scuola.
Padre Tous esortava le sorelle a “spargere nel tenero cuore dei bambini i santi pensieri e i devoti affetti che Dio comunicava loro nella preghiera”.
“Visse la sua donazione a Dio e la sua consacrazione alle suore con l'animo posto nel Buon Pastore, e disse che bisognava trattare le bambine con affetto materno”, ha detto a ZENIT padre Ramírez.
Attualmente le Cappuccine della Madre del Divin Pastore hanno comunità in Catalogna, Murcia, nei Paesi Baschi e a Madrid. In America Latina sono presenti in Nicaragua, Costa Rica, Guatemala, Colombia e Cuba.
Padre Ramírez segnala che la vita del futuro beato è esemplare, soprattutto in questo Anno Sacerdotale, “per la sua fede accesa che vive nel quotidiano senza voler spiccare”.
Una Messa che lo portò all'Eternità
Al momento della sua morte, padre Tous non aveva alcuna malattia terminale. Ad ogni modo, ricorda il suo postulatore, si crede che per le tensioni che doveva affrontare soffrisse di un forte esaurimento fisico, al punto da morire durante la Messa, proprio dopo la consacrazione, mentre pronunciava queste parole del Canone Romano: “Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto...”. In quel momento si chinò e cadde.
Il parroco di San Francesco di Paola andò a raccogliere il suo corpo esanime e a terminare la Messa.
“La vita dei santi suscita stupore perché vediamo come la grazia di Dio sia capace di realizzare queste opere ammirevoli di fronte ai nostri stessi occhi. Il cammino è aperto per quanti vogliono seguirlo con sincerità di cuore come ha fatto padre Tous”, ha concluso il postulatore.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
PADRE POPIELUSZKO, "L'AUTENTICO PROFETA DELL'EUROPA” - di Luca Tanduo - ROMA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il 15 febbraio il Centro Culturale Cattolico “San Benedetto” (www.cccsanbenedetto.it) in collaborazione con Alleanza Cattolica e con il Centro Culturale “La Cittadella” ha organizzato la proiezione del film su padre Jerzy Popieluszko (1947-1984) al cinema Cristallo di Cesano Boscone (MI).
Alla proiezione era presenti poco meno di 200 persone. Il film ripercorre la storia di un uomo, della sua fede ma anche della fede e della speranza di libertà di un intero popolo; e mostra la violenza del regime comunista a cui si oppose la preghiera, la forza dell'amicizia e della solidarietà del popolo polacco, senza nessuna violenza.
Popieluszko sostiene e indica la strada per vincere il male col bene, combatte il male e non chi è vittima del male, prega per allontanare l'odio da sè e dai suoi amici.
Fondamentale nell'azione del sacerdote la carità, il sostegno spirituale. Incredibile e troppo spesso dimenticato il legame fortissimo tra la fede e la rivendicazione della libertà e dei diritti dei lavoratori, segno più eloquente di ciò la partecipazione alle messe e le preghiere in fabbrica.
Sullo sfondo il ruolo e la figura di Giovanni Paolo II e la storia del sindacato di Solidarnosc.
La proiezione di spezzoni di filmati originali delle visite in Polonia di Giovanni Paolo II e delle manifestazioni sindacali rendono ancora più bello il senso della verità dei fatti raccontati.
Nel film vengono raccontate tutte le fasi della vita di Popielusko: l’infanzia, il servizio militare e l’ordinazione sacerdote nel 1972.
Popieluszko nel giugno 1980 viene assegnato come sacerdote residente alla parrocchia di san Stanislao Kostka, sul cui territorio si trova la grande acciaieria “Huta Warszawa”.
Quando un gruppo di operai impegnati in duri scioperi nelle acciaierie di Varsavia chiese alla Chiesa locale un sacerdote per poter seguire la Messa anche dentro l’“assedio” dell’occupazione, Popieluszko viene inviato il 28 agosto dal primate di Polonia, il cardinal Stefan Wyszynski, dagli operai della Huta in sciopero e diventa così il cappellano di Solidarnosc.
Il film evidenzia il suo rapporto con gli operai, la vita delle loro famiglie e la cura spirituale e materiale di ognuno da parte di padre Popieluszko.
Il passo successivo fu la saldatura con le proteste che si sviluppavano a Danzica, il cui leader era un elettricista di nome Lech Walesa. Da lì nacque Solidarnosc, con le sue vittorie, le sconfitte, gli arresti, la repressione molto ben evidenziata nel film dalle scene delle varie forme di controllo e delle cariche della polizia.
Oltre al lavoro parrocchiale, don Jerzy svolgeva il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo ammalati, poveri, perseguitati.
Dopo l’introduzione della legge marziale nel 1981, è uno degli organizzatori del Comitato di Aiuto ai Perseguitati e alle loro famiglie, che coordina i comitati locali e nel gennaio 1982 assiste al processo contro gli operai della Huta. Insieme al parroco della chiesa di san Stanislao Kostka organizza ogni mese una Messa per la patria, che raccoglie migliaia di persone: operai, intellettuali, artisti e anche persone lontane dalla fede.
Nelle sue omelie chiede il ripristino delle libertà civili e di Solidarnosc. Poiché “ci è stata tolta la libertà di parola, ascoltiamo la voce del nostro cuore e della nostra coscienza”, diceva, invitando i polacchi "a vivere nella verità dei figli di Dio, non nella menzogna imposta dal regime".
A conclusione delle Messe per la patria chiedeva ai fedeli di pregare "per coloro che sono venuti qui per dovere professionale", mettendo in imbarazzo gli spioni dell'Sb, il servizio di sicurezza.
Svolge un’ampia opera di sostegno materiale e spirituale e si mantiene in stretto contatto con gli intellettuali dell’opposizione e con le strutture clandestine di Solidarnosc.
Le autorità temono la sua influenza e si fanno sempre più frequenti le proteste alla Curia di Varsavia in cui lo si accusa di attività anti-statale. Durante le Messe per la Patria la chiesa viene spesso circondata da un cordone di automezzi della polizia e fanno la loro comparsa dei gruppi di provocatori.
Il 14 dicembre 1982 ignoti gettano nella sua stanza un mattone con una carica esplosiva. Da quel momento gli operai della Huta Warszawa decidono di garantirgli una scorta giorno e notte.
Nel settembre 1983 padre Popielusko organizza per la prima volta un pellegrinaggio di operai a Czestochowa, divenuto una tradizione che resiste ancora.
Il 12 dicembre 1983 è convocato per un interrogatorio durante il quale viene fermato come indagato per “aver abusato della libertà di coscienza e di confessione, sia durante gli uffici religiosi, che nelle sue omelie”.
Il Primate Glemp gli propone di andare a studiare a Roma, ma lui rifiuta. Il 1 maggio 1984 celebra la Messa per gli operai, durante la quale parla della dignità del lavoro e al termine della funzione la polizia chiude le strade attorno alla chiesa e attacca la folla degli operai con gli idranti.
Nello stesso periodo i mass media conducono una feroce campagna denigratoria contro di lui, definito dal portavoce del governo: “un fanatico politico”.
Padre Popielusko venne sottoposto a continua sorveglianza e arrestato 2 volte nel 1983 e nella prima metà del 1984, venendo interrogato 13 volte. Padre Jerzy non fu né il primo né l'ultimo, ma era considerato tra i più pericolosi.
"Senza per questo aver mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote - sottolinea mons. Kazimierz Nycz, Arcivescovo di Varsavia - o aver ridotto la Chiesa e il suo messaggio a strumento di lotta politica. Il suo era davvero il vangelo dell'amore, incentrato sulla salvaguardia della dignità umana. Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni".
Il film rende bene anche il pensiero e la fede di padre Popieliuszko facendo sentire pezzi delle sue omelie come quella del 19 ottobre, durante la recita serale del Rosario in una chiesa di Bydgoszcz: “Chiediamo di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza”.
Mentre rientra a Varsavia viene rapito da tre ufficiali. Il suo autista, Waldemar Chrostowski, riesce a fuggire e racconta l’accaduto: immediatamente a Varsavia cominciano le veglie di preghiera in un clima di grande apprensione.
La notte del 19 ottobre, gli maciullarono la bocca dopo avergli fracassato il cranio a colpi di manganello: un delitto compiuto con ferocia bestiale. E dopo averlo massacrato di botte, lo gettarono nelle acque gelide della Vistola.
Il 30 ottobre il suo corpo viene ritrovato nel lago di Wloclawek. Padre Popieluszko muore così all’eta’ di 37 anni. Il film si conclude con spezzoni di filmati dell’annuncio della sua morte, del funerale e della visita alla sua tomba di Papa Giovanni Paolo II.
Eroe della libertà e testimone della fede, padre Popieluszko ci appare come "l'autentico profeta dell'Europa, quella che afferma la vita attraverso la morte", ha detto Giovanni Paolo II. Un vero peccato che questo film non sia presente nelle grandi sale.
Mandela e la riconciliazione nazionale in Sud Africa nel film "Invictus" di Clint Eastwood - In meta contro l'apartheid - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010
Accade a volte che un evento sportivo assuma significati che vanno oltre l'aspetto agonistico. Così se per la maggior parte della gente la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995 disputata all'Ellis Park Stadium di Johannesburg fu solo un'avvincente partita, peraltro con un risultato sorprendente, per il Sud Africa rappresentò un momento cruciale della storia nazionale. Grazie alla lungimiranza di un uomo, Nelson Mandela, primo presidente di colore nel Paese, quell'evento divenne esperienza comune di un popolo fino ad allora diviso tra bianchi - pochi ma detentori del potere e della ricchezza - e neri, poveri ed emarginati. Quell'impensabile convergenza del tifo su una squadra, gli Springboks, sostenuta solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro divenuti simbolo della segregazione, aiutò in parte a sanare le ferite del passato e a infondere speranza in un futuro pieno di incognite dopo la vergogna dell'apartheid.
Scegliendo di raccontare questa storia in Invictus, Clint Eastwood, alle soglie degli ottant'anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l'uomo e la società. E sulla scia di Gran Torino (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione. "Il perdono - fa dire al suo Mandela - libera l'anima, cancella la paura. Per questo è un'arma tanto potente". Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa.
Nelle sale italiane dal 26 febbraio, Invictus non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo. Tuttavia, l'accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come Fuga per la vittoria o Momenti di gloria. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela.
Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell'African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all'ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un'esistenza durissima.
Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista. "È una domanda lecita" risponde spiazzante ai fedelissimi risentiti per l'astio che si cela dietro il titolo di un giornale l'indomani del voto: "Ha vinto le elezioni ma sarà in grado di governare?". Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante. Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l'ombra dell'apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all'orgoglio nazionale; per questo punta sull'unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente.
Contro tutti, a costo di apparire persino un traditore della causa per la quale ha pagato in prima persona un altissimo prezzo, Mandela riesce a dissuadere i dirigenti dell'Anc dall'abolire la squadra degli Springboks e dal cancellarne gli odiati colori: "Il passato è passato. Guardiamo al futuro adesso". E gioca la sua carta più efficace: portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori. Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, Invictus, di William Ernest Henley. Pienaar, sportivo improvvisamente al centro di una questione politica, comprende che la posta in gioco è ben più alta persino di una coppa del mondo; si appassiona al progetto e controbatte alla diffidenza e alle resistenze dei compagni, uno solo dei quali nero, che convince persino a cantare il nuovo inno nazionale, Nkosi Sikelei i Afrika, cioè "Dio benedica l'Africa" nella lingua dei sudafricani neri: "Che ci piaccia o no - dice ai suoi - siamo più di una squadra di rugby. I tempi cambiano. Anche noi dobbiamo cambiare".
La missione che Mandela affida a quei ragazzi è vincere la coppa del mondo che verrà disputata proprio in Sud Africa, ma il vero obiettivo è la pacificazione nazionale sintetizzata nel motto "una squadra, un Paese". L'occasione è unica, irripetibile. Ma anche sportivamente è un'impresa al limite del possibile. Tuttavia nulla è impossibile se si persegue l'obiettivo con tenacia e convinzione. "Sentite? Ascoltate il vostro Paese. È questo. Questo è il nostro destino", urla il capitano ai compagni nel momento più difficile della partita della vita, invitandoli a udire il portentoso incitamento degli oltre sessantamila tifosi sugli spalti e di altri 42 milioni di sudafricani bianchi e neri, per la prima volta uniti, incollati davanti alla tv e alla radio.
Pur non essendo allo stesso livello di Gran Torino, di Mystic River o di Letters from Iwo Jima, Invictus è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta. Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico.
(©L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010)
Papini, Garin e le inquietudini del Novecento - La rivincita dei poeti - Dal 25 al 27 febbraio si svolge a Roma, presso l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, il convegno "Il Novecento di Eugenio Garin". Anticipiamo un estratto di una delle relazioni. - di Simonetta Bassi Università di Pisa - L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010
Il 16 maggio del 1937 Papini tiene un discorso intitolato "Pensieri sul Rinascimento" al primo "Convegno di studi sul Rinascimento". Pubblicato nel 1938, aprirà il primo numero de "La Rinascita" riscuotendo il plauso di Garin, come risulta da una lettera del 7 maggio di quell'anno: "Eccellenza gradisca innanzitutto i miei ringraziamenti per il fasc. di "Rinascita" e mi permetta di dirLe il mio consenso per taluni spunti di valutazione del rinascimento contenuti nei suoi "Pensieri"". In quel saggio Papini sostiene fra l'altro tre tesi: il Rinascimento ha rappresentato la nuova alleanza di uomo e Dio ("a me sembra che il segreto della rinascita e della sua grandezza sia nella riconciliazione dell'uomo con se medesimo e nel suo volgersi a Dio per nuove strade"); essa è il tempo della magnificazione dell'uomo e della sua forza creatrice e artistica che si pone a imitazione dell'attività divina; rappresenta il tempo della restaurazione dell'uomo senza l'estromissione di Dio: la rinascita pacifica di ciò che nel medioevo risulta scisso e che poi, nell'età moderna, verrà nuovamente separato.
Si tratta di argomenti importanti, cui Garin si rifarà in modo esplicito nella sua prima raccolta organica dedicata al Rinascimento: la chiusa infatti dell'introduzione al volume Il rinascimento italiano, pubblicato nel 1941, è tutta svolta all'insegna di questi temi. Il Rinascimento, scrive Garin, è stato soprattutto un regno spirituale e pertanto si deve abbandonare, parlando di quell'età, sia l'esaltazione dei superuomini liberi da ogni freno, che quella del paganismo. Il Rinascimento - spiega Garin citando esplicitamente Papini - è "ritrovamento della natura sempre nuova e viva, dell'uomo intero che sa d'esser divino e non mera bestia". La rinascita non è dunque caratterizzata dal titanismo, dal superomismo, né dall'asprezza delle lotte: ha sognato, al contrario, la pace umana, "la concorde discordia degli spiriti creanti, il regnum hominis". Dove viene messo in luce, con nettezza, il carattere utopico sia di tante riflessioni umanistiche, sia di tante riflessioni storiografiche su quell'età.
Su un altro punto la sintonia fra Papini e Garin è altissima: nella interpretazione della rinascita come età squisitamente cristiana e nel conseguente stretto rapporto, da Papini solo accennato, da Garin sistematicamente studiato, fra riflessione umanistica e discussioni patristiche. Garin dirige le sue indagini in questa direzione già nel 1938, scrivendo un saggio dedicato a La dignitas hominis e la letteratura patristica, giudicato in una lettera a Papini del 18 giugno "polemico" proprio per la sua natura cristiano-ermetica, in netta antitesi con la valutazione della dignità dell'uomo quale eredità del pensiero classico. Secondo Garin, piuttosto, su questo punto il pensiero della rinascita compie un'operazione di grande novità, raccogliendo in una prospettiva unificante aspetti platonici del pensiero classico, la valorizzazione patristica del secondo Adamo che si riscatta dalla miseria con la fede e le opere, spunti ermetici già trattati diffusamente dai Padri: "è nel neoplatonismo, nell'ermetismo, nei Padri della Chiesa - scrive Garin - che gli umanisti cercano più viva e profonda ispirazione". E continua: "Essi vogliono superare il lacerante dissidio della tarda scolastica fra filosofia e religione, fra Aristotele e la Bibbia. Fiduciosi nell'unità dello spirito, vogliono trovare l'unità del vero, la certezza del sapere e il valore della fede riandando a quelle fonti ove la religione non si cristallizzava nella lettera muta, ove la ragione, consapevole delle sue radici divine, non solo non opponeva a quella la scienza, ma a questa medesima trovava senso e valore proprio nell'unità della spiritualità e nella sua divina validità universale".
In questa interpretazione della rinascita, che Garin viene elaborando a cavallo degli anni Quaranta, si trovano già presenti e operanti alcuni dei motivi che costituiranno i caratteri più significativi della sua riflessione, e non soltanto di quella storiografica. Innanzitutto la secca condanna di ogni prospettiva "scientista": se alla fine dell'Ottocento essa si esprimerà attraverso le derive del positivismo, significativamente messe in luce nei saggi fra gli anni Sessanta e Settanta; nell'età rinascimentale tale deriva si esprime da una parte, attraverso il concetto di microcosmo di matrice stoica (criticato perché porta alla svalutazione della dimensione umana, riducendo l'uomo a essere ente fra enti); dall'altra, attraverso i sillogismi razionali dell'aristotelismo medievale (criticato perché spezza l'unità della natura e dello spirito). Sotto la stessa falce cade anche l'astrologia, perché interpreta in modo meccanico le cause delle azioni umane, facendole dipendere in modo rigoroso dagli influssi celesti.
In secondo luogo, strettamente correlato con il precedente assunto, sta il valore della rinascita individuato tutto nella costruzione del più compiuto regnum hominis, in cui si salda in una sola adunatio la prospettiva umana e quella divina. L'uomo è sì miserabile, vive sì in una dimensione drammatica, ma non è a essa destinato, né abbandonato. Può farsi come Dio, avvicinarsi spiritualmente al primo Adamo fatto a immagine e somiglianza di Dio, lasciando sullo sfondo il secondo Adamo impastato con terra e acqua. Questo tentativo di costruire un mondo di uomini e per gli uomini rimane, a giudizio di Garin, un compito che la filosofia umanistica ha consegnato alla riflessione e attività umana fino al Novecento, se potrà scrivere al termine della Storia della filosofia, pubblicata nel 1945 per Vallecchi, che il lavoro dello storico è quello di individuare quella profonda armonia, quella filosofica pace che "oltre i tempi, le vicende e i dissidi, pacifica gli uomini di buona volontà che vogliono conoscere se stessi e vivere secondo la raggiunta saggezza".
Questa interpretazione della rinascita, fondata sulla centralità dell'uomo in colloquio ricco e fecondo con Dio e con la natura, si propone, anche nel lessico, pressoché immutata fino al 1942, e si trova in piena sintonia con quanto negli stessi anni viene sostenendo Papini sia nei suoi lavori sul Rinascimento che attraverso la direzione della rivista "La Rinascita". Garin e Papini attuano un programma convergente: recuperare all'attenzione degli studiosi un'idea di rinascita incentrata sull'uomo inteso nella sua complessità (ragione, ma anche intuizione; storia e natura; ansia di spiritualità e richiamo carnale). Non a caso entrambi polemizzano ripetutamente con la "ragione sillogizzante". Scrive Papini nei "Pensieri": "La grande scoperta del rinascimento italiano fu, dunque, questa: restituire all'uomo i suoi diritti e la sua piena eredità, a tutto l'uomo, e non solo all'io sillogizzante e contemplante". Qui sta la grandezza della rinascita, nell'aver restaurato l'uomo nella sua complessità: nel medioevo, infatti, "avevan dominato i razionalisti, gl'intellettualisti, i verbalisti (...) contava soltanto l'io: l'io raziocinante o l'io estatico". Garin da parte sua scriverà nel 1938: "La ragione sillogizzante aveva opposto sempre più fede e intelletto, Dio e mondo, riducendo le radici di questo a un enigma insolubile, la cognizione di quello a un'ineffabile intuizione mistica". E nel 1942: "Nelle finezze del sillogizzare si era venuta obliando l'angosciosa problematica da cui era sorto il filosofare. (...) Quel senso dell'opera umana, quell'intimità col Dio d'amore, quel ripudio di morti schemi nell'appello a una più profonda esperienza di vita, quella ribellione alle astrattezze del vuoto sillogizzare, tutto questo faceva più intima la comprensione della dottrina del Cristo, l'Uomo-Dio". La ragione, insomma, deve complicarsi per poter sporgersi sull'abisso della vita. E quando lo strumento logico fallisce, ecco che "proviamo con l'immaginazione - scrive Papini - e coll'osservazione: alla dialettica sostituiamo la creazione plastica", e la ricerca di Dio viene perseguita attraverso "la riconquista e la trasfigurazione della natura" opera di Dio come l'intelletto agente.
In altre parole: lo strumento più idoneo per questo sporgersi oltre il limite dell'architettura logica è per Papini rappresentato dalla poesia. "La rinascita - esclama Papini - è la rivincita dei poeti sui filosofi". Garin a sua volta, forse con qualche distinguo e maggiore sobrietà, si riconosce in questa interpretazione: non a caso, nel 1941 in una noterella dedicata a Manetti e Pico, ritornando sull'unità che caratterizza il mondo rinascimentale - "incarnazione vivente dello spirito, musicale inno a Dio" - osserva che "l'esaltazione della bellezza, sigillo dell'attività creatrice dello spirito, traluce da ogni opera del rinascimento".
(©L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010)
Quell'ebreo Gesù che cambiò la vita al gran rabbino di Roma - La cambiò a tal punto che si fece battezzare nella Chiesa cattolica. Il suo libro "Il Nazareno" è stato riedito e recensito su "L'Osservatore Romano" da una studiosa ebrea. E intanto va alle stampe il secondo volume del "Gesù di Nazaret" del papa - di Sandro Magister
ROMA, 24 febbraio 2010 – Il primo a cui ha confidato di aver finito di scrivere il suo libro su Gesù è stato un rabbino ebreo, il giorno dopo la visita nella sinagoga di Roma, lo scorso 18 gennaio.
Il rabbino è l'americano Jacob Neusner, e l'autore del libro è Benedetto XVI.
Il primo volume del "Gesù di Nazaret" di papa Joseph Ratzinger è uscito tre anni fa. E ora è pronto per le traduzioni e per la stampa il secondo e conclusivo volume dell'opera, dedicato alla passione e risurrezione di Gesù e ai Vangeli dell'infanzia.
Intanto, però, con significativa coincidenza, è uscita in questi giorni in Italia la ristampa di un altro importante libro su Gesù, intitolato "Il Nazareno", scritto più di settant'anni fa da un grande rabbino italiano.
Non solo. Di questa nuova edizione di quel libro è uscita il 20 febbraio su "L'Osservatore Romano" una recensione molto positiva, scritta da una studiosa ebrea di fama, Anna Foa, docente di storia all'Università di Roma "La Sapienza".
E anche questa recensione segna una novità importante. L'autore del libro, Israel Zoller, fu gran rabbino della comunità ebraica di Roma. E nel 1945 si convertì alla fede cattolica.
La sua clamorosa conversione turbò fortemente la comunità ebraica romana e italiana. Che su di lui calò un silenzio durato decenni.
La recensione di Anna Foa sul "giornale del papa" ha definitivamente rotto questo silenzio. E per di più ha riconosciuto che in quel libro, pur scritto molti anni prima della conversione del suo autore, già "sembrava apparire fra le righe un riconoscimento della messianicità di Cristo".
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Israel Zoller nacque nel 1881 a Brodj, villaggio della Galizia austro-ungarica che oggi è dentro i confini della Polonia. A 6 anni emigrò con la famiglia a Stanislavia, l'attuale Ivano-Frankovsk, in Ucraina. Studiò a Leopoli e poi a Firenze. Stabilitosi in Italia, il suo cognome fu mutato in Zolli. Fu rabbino capo a Trieste e insegnò letteratura ebraica all'università di Padova. Trasferitosi a Roma, fu eletto rabbino capo e direttore del collegio rabbinico. All'inizio del 1945 si dimise e nel febbraio chiese d'essere battezzato nella Chiesa cattolica col nome di Eugenio, lo stesso del papa di allora, Pio XII. Morì nel 1956.
La sua autobiografia, scritta nel 1947 e ristampata in Italia sei anni fa, aiuta molto a capire il percorso e il significato della sua conversione alla fede cristiana.
Fin da bambino, per lui, Gesù era presente con tutto il suo mistero. Dentro un mondo che ricorda i quadri di Chagall, il pittore ebreo nato e vissuto in quelle stesse terre orientali tra l'Europa e la Russia (vedi foto): col villaggio, la sinagoga, il granturco sulla neve, la scuola ebraica col maestro severo, il galletto sui tetti... E tante figure volanti, nel cielo stellato: i personaggi della Bibbia.
Ma, appunto, c'è anche Gesù, da subito. C'è il crocefisso nella casa del compagno di scuola:
"Perché fu crocefisso, Lui? Perché noi ragazzi diventiamo così diversi al cospetto di Lui? No, no, Lui non può essere stato cattivo. Forse era e forse non era – chi lo sa – il Servo di Dio i cui canti abbiamo letto a scuola. Io non so nulla, ma d'una cosa sono certo: Lui era buono, e allora... E allora, perché lo hanno crocefisso?".
Ci sono da subito i Vangeli e il Nuovo Testamento:
"Solo soletto, leggevo il Vangelo e provavo un piacere infinito. Che sorpresa ebbi in mezzo al prato verde: 'Ma io vi dico: amate i vostri nemici'. E dall'alto della croce: 'Padre, perdona loro'. Il Nuovo Testamento è davvero un testamento... nuovo! Tutto ciò mi appariva d'una importanza straordinaria. Insegnamenti sul tipo: 'Beati i puri di cuore' e la preghiera sulla croce segnano una linea di demarcazione tra il mondo di idee antiche e un cosmo morale nuovo. Eh sì! Qui sorge un mondo nuovo. Si delineano le forme sublimi del Regno dei Cieli, dei perseguitati che non hanno perseguitato, ma che hanno amato".
Il battesimo arriverà molti anni dopo. E appare nell'autobiografia come naturale fioritura messianica di un ceppo ebraico che resta vivo, già dall'inizio carico di destino.
Israel Zoller poi divenuto Eugenio Zolli ha prefigurato nella sua vita il sorgere di un rapporto fraterno tra cristianesimo ed ebraismo che oggi è assurto a programma del vertice supremo della Chiesa.
Un rapporto fraterno che si gioca tutto sulla differenza capitale tra le due fedi: il riconoscimento di Gesù come "mio Signore e mio Dio".
È la stessa differenza messa in luce da Benedetto XVI nel capitolo sul Discorso della Montagna del primo volume del suo "Gesù di Nazaret". Nel quale è l'amico rabbino Jacob Neusner l'emblema del pio ebreo che rifiuta di accettare la divinità di Gesù, allora come oggi.
Ecco, qui di seguito, la recensione dell'ebrea Foa a "Il Nazareno" del rabbino Zolli, su "L'Osservatore Romano" del 20 febbraio 2010.
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Il rabbino che studiava Gesù
di Anna Foa
Il libro "Il Nazareno" di Eugenio Zolli apparve nel 1938, pubblicato dall'Istituto delle Edizioni Accademiche di Udine. Israel Zolli, che poi diventerà Eugenio, era all'epoca rabbino capo a Trieste e non era ancora subentrato – lo avrebbe fatto un anno dopo – nella cattedra rabbinica romana al rabbino David Prato, cacciato nel 1938 perché sionista. Pochi mesi dopo la pubblicazione di questo libro, le leggi razziste di Mussolini fecero di Zolli, nato a Brody, in Galizia, ma cresciuto in Italia, un apolide, e lo catapultarono negli anni duri della persecuzione. Sette anni dopo, nel febbraio 1945, sollevando un grande scandalo nel mondo ebraico italiano e molto clamore anche in quello non ebraico, Israel Zolli si convertì al cattolicesimo, prendendo con il battesimo il nome di papa Pacelli e divenendo così Eugenio Zolli.
Un volume su Gesù Cristo scritto da un rabbino di primo piano, dunque, destinato poco dopo, nonostante questo libro e il vago sentore ereticale che lo circondava già da molti anni, a diventare il rabbino maggiore della comunità ebraica romana.
È il libro una prefigurazione del percorso posteriore dell'autore, un'anticipazione del suo successivo battesimo? Oppure riflette un percorso di studi esegetici ampiamente condiviso in ambito ebraico, con un'attenzione verso la figura di Gesù Cristo propria, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, a molta parte del pensiero esegetico ebraico europeo?
È quest'ultima la prospettiva in cui lo colloca, nella sua ampia e preziosa postfazione, il curatore del libro Alberto Latorre, analizzando gli studi ebraici e cristiani sul Cristo in quei decenni cruciali del primo Novecento e contestualizzando in quest'ambito il lavoro di Zolli.
Il rabbino triestino scrive su Gesù e sui rapporti tra il primo cristianesimo e la cultura rabbinica del tempo con accenti e tesi non dissimili da quelle dei suoi maestri al Collegio rabbinico di Firenze, Chayes e Margulies, e suscitando molte minori polemiche di quante non ne avesse suscitate il libro di Joseph Klausner su "Gesù il Nazareno", che al suo apparire in ebraico a Gerusalemme nel 1921 fu attaccato tanto dagli ebrei ortodossi che dai cristiani, come ricorda, in un interessante brano di un suo romanzo ripreso da Latorre nella sua postfazione, il nipote di Klausner, lo scrittore Amos Oz.
Questo ambito di studi era molto frequentato dagli studiosi ebrei di tutt'Europa, e in particolare da quelli di area tedesca, eredi della Scienza del Giudaismo e legati alle correnti riformate, che sottolineavano fortemente l'ebraicità di Gesù e mettevano in rilievo le corrispondenze tra l'ebraismo rabbinico e il primo cristianesimo. Ma era prediletto anche dagli studiosi cristiani, particolarmente protestanti, nella Germania del XIX secolo, nell'ambito della scuola di Tubinga e delle successive scuole di teologia liberale, e fatto proprio, all'inizio del nuovo secolo, dagli studiosi cattolici modernisti.
Un contesto, questo, legato al metodo storico-critico di esegesi biblica, di grande interesse dalle due parti.
Se questo era il clima culturale in cui nasceva il poderoso studio di Zolli, bisogna anche dire che si trattava di un clima a cui scarsissimi furono gli apporti del mondo ebraico italiano. Fanno eccezione il Collegio rabbinico di Livorno, dove nella seconda metà dell'Ottocento insegnò Elia Benamozegh, il Collegio rabbinico di Firenze, con il suo nucleo di maestri di provenienza dalla Galizia, e Trieste, città culturalmente e fino al 1918 anche politicamente asburgica, aperta a tutte le correnti culturali mitteleuropee, non ultima, con Weiss, quella psicanalitica. Con Firenze e con Trieste strettissimi furono i rapporti di Zolli, che a Firenze aveva compiuto i suoi studi e a Trieste fu rabbino per vent'anni.
Ma la cultura ebraica italiana era lontana da queste correnti culturali più ampie e legate all'esperienza di studi tedeschi, e all'impronta lasciata su di essi dal movimento riformato ebraico.
La cultura ebraica italiana non condivideva l'attenzione per la figura storica, per le categorie ebraiche della sua predicazione e in genere per le radici ebraiche del cristianesimo. Il suo taglio era più tradizionale e parrocchiale, e accomunava in quel momento storico l'ebraismo italiano agli studi di esegesi cattolica, anch'essi assai distanti, tranne che per alcune figure maggiormente legate al modernismo, dall'impostazione esegetica storico-critica diffusa nel resto d'Europa.
Nel suo volume, che raccoglieva contributi in parte già pubblicati nelle riviste di Raffaele Pettazzoni, "Studi e materiali di storia delle religioni", e del modernista Ernesto Buonaiuti, "Ricerche religiose", Zolli procedeva utilizzando, oltre il metodo storico-critico, l'analisi comparativa delle religioni.
Nelle conclusioni, egli si discostava significativamente tanto dall'esegesi ebraica consolidata quanto dai dogmi della Chiesa cattolica. Sottolineava fortemente la somiglianza della predicazione di Gesù con l'ebraismo, postulava una stesura originaria dei Vangeli in ebraico e aramaico, negava che il termine nazareno derivasse da Nazaret – un argomento, questo, usato da quanti sostenevano la non storicità di Gesù – e faceva derivare l'eucaristia da un'evoluzione del "seder" pasquale ebraico.
Inoltre nel testo sembrava apparire fra le righe un riconoscimento della messianicità di Cristo. Ci sarebbe certamente stato di che suscitare le reazioni opposte di ebrei e cattolici. Tuttavia, queste reazioni non vi furono. Secondo il curatore del libro, Latorre, il mondo cattolico non aveva intenzione di attirare l'attenzione su un volume "di così difficile decifrazione e inquadramento", in un momento in cui la crisi modernista si era da poco ricomposta e in cui il clima antisemita rendeva pericoloso ogni dibattito su temi così scottanti.
La Chiesa preferì così passare sotto silenzio o quasi il volume (se si eccettuano le recensioni sostanzialmente positive da parte dei gesuiti de "La Civiltà Cattolica"), rinunciando perfino a utilizzare in chiave apologetica un testo in cui un illustre rabbino sembrava adombrare la messianicità di Cristo.
Quanto alla mancanza di obiezioni da parte ebraica, il contesto storico in cui apparve il libro, quello delle leggi razziali del 1938, non spingeva a sollevare questioni tanto delicate, soprattutto nei mesi cruciali fra 1938 e 1939 in cui nella Chiesa non mancava chi, come padre Agostino Gemelli, sembrava auspicare un incontro tra le dottrine razziste e la Chiesa cattolica.
Il volume fu invece molto apprezzato dal mondo accademico italiano e straniero. Entusiastica fu, nel novembre del 1938, la recensione di Ernesto Buonaiuti su "Ricerche Religiose".
Al di là delle questioni strettamente esegetiche, il volume pone allo sguardo del lettore di oggi numerose questioni strettamente storiche e ci rimanda numerosi interrogativi sulla vicenda di Israel/Eugenio Zolli e sulla natura stessa della sua conversione.
La sua conversione fu certamente frutto di una scelta meditata, l'esito di un percorso lungo e difficile, ma fu anche una conversione che si limitò a spostare accenti ed enfasi, ma non sembrò cambiare sostanzialmente la qualità del suo discorso di base: un'analisi rigorosamente critica dei testi biblici, che lo sollevava al di sopra di ogni ortodossia, che lo portava ad accentuare i legami storici fra ebraismo rabbinico e cristianesimo e a cogliere nella figura dell'ebreo Gesù la chiave di questo complesso momento di passaggio e trasformazione.
"Il Nazareno" appartiene alla fase ebraica dei lavori di studioso di Zolli, ma i cambiamenti introdotti dalla conversione nei suoi lavori critici successivi sono stati assai scarsi, e motivati forse solo da ragioni di obbedienza e prudenza.
Fra Wissenschaft giudaica e modernismo cristiano si dipanava così il percorso religioso e scientifico, due momenti indissolubilmente intrecciati, dell'opera di Zolli.
Una figura di confine che gli ebrei, giustamente feriti dalla sua defezione, non capirono, e che la Chiesa nel dopoguerra, in un momento ancora distante anni luce dalle aperture ebraico-cristiane, preferì lasciare in disparte.
"Il Nazareno" è il frutto più alto di questo essere sul limite, fra le diverse ortodossie.
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Il libro:
Eugenio Zolli, "Il Nazareno. Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell'aramaico e del pensiero rabbinico", a cura di Alberto Latorre, San Paolo, Milano, 2009, pagine 618, euro 42,00.
Camillo e don Camillo - Il manifesto antiruiniano dei cattolici conservatori. Ruini visto da destra - di Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi
Ci siamo fatti una certa idea della pluridecennale presidenza ruiniana della Conferenza episcopale italiana. A volerla riassumere alla guareschiana, potrebbe suonare così: "Ruini, don Camillo ma non troppo". Per dire che il cardinale di Sassuolo, provincia di Modena e diocesi di Reggio Emilia, come il celebre omonimo letterario ha incontrato i suoi Pepponi, ma che le schermaglie non sono sempre finite in gloria come invece accade a Mondo piccolo. Il don Camillo che è stato al vertice della Cei dal 1986 al 2007, prima come segretario generale e poi come presidente, ha il merito indiscutibile della messa in mora del progressismo cattolico. L`operazione deve ancora concludere il proprio corso, ma è inesorabilmente avviata e comporta un inequivocabile segno più nel bilancio di fine mandato del cardinale. Per fugare ogni dubbio, basti pensare alle uscite biliose di una Rosy Bindi e di un Pierluigi Castagnetti in ritiro a Bose o quelle di un Alberto Melloni atterrito da ciò che definisce "ruinismo-leninismo". Se si pensa a che cosa era la chiesa italiana degli anni Settanta, si deve riconoscere che oggi potremmo stare molto peggio se il ruinismo non avesse tentato una certa normalizzazione.
Ruini comprese presto che la chiesa italiana era minata dal cattocomunismo dossettiano, la dottrina secondo cui il radioso destino dell`umanità consisterebbe nell`incontro di un cattolicesimo un po` meno cattolico con un comunismo un po` meno comunista. Teoria che, quando si trasforma in prassi, produce sempre l`incontro tra un cattolicesimo molto meno cattolico e un comunismo perfettamente comunista. Senza rischiare troppo di essere generosi, si può pure ipotizzare che il cardinale vide nel dossettismo il figlio primogenito dell`idea di Jacques Maritain secondo cui, morta la cristianità, bisognerebbe pensare a una nuova forma di presenza cristiana nel mondo. La soluzione del filosofo di Umanesimo integrale stava nella bifida invenzione dei due assoluti: "l`assoluto di quaggiù, ove l`uomo è Dio senza Dio, e l`assoluto di lassù dove Dio è in Dio". Come scrisse padre Antonio Messineo, secondo Maritain, "sul piano della storia non opererebbe il Cristianesimo in quanto religione rivelata e trascendente, non il Vangelo nella sua purità originaria di parola divina trasmessa all`uomo, non l`ordine della Grazia e delle realtà superiori in esso contenute, ma un cristianesimo e un Vangelo vuotati del loro contenuto originale e naturalizzati, temporalizzati". Da qui, la necessità di dar vita a una "cristianità profana" da contrapporre alla "cristianità sacrale" ormai superata. Un`opera pratica "da realizzare in spirito di amicizia fraterna fra i componenti delle varie famiglie spirituali presenti nella società". Per fare ciò, quali migliori compagni di strada dei comunisti, ritenuti dei cugini un po` eretici ma riconducibili all`ovile? Gli effetti sul mondo cattolico di questa netta separazione tra natura e sopranatura si sono mostrati devastanti, sia ab intra sia ad extra. Abbandono della pratica religiosa, calo di vocazioni, anarchia e rivolta antigerarchica ab intra, cui ha fatto da pendant, ad extra, la progressiva ininfluenza cattolica nella società. Dal canto suo, il presidentissimo della Cei si rese conto che l`abbraccio con il cattolicesimo democratico avrebbe avuto esiti mortali. E che il male era già molto progredito nel corpo ecclesiale, coinvolgendo la forma mentis di molti vescovi e di molte curie, abituati ormai a ragionare e ad agire "etsi Papa non daretur". La risposta ruiniana a tale situazione si concretizzò in una granitica lealtà al Pontefice e nel commissariamento della Cei avviato sotto Giovanni Paolo II. Don Camillo, quello di Sassuolo, ebbe carta bianca e, di punto in bianco, un episcopato abituato a rispondere solo a se stesso o, al più, alla linea dettata dal cardinale Martini nel ruolo di Grande Antagonista, capì che la ricreazione era finita. Ma qualcosa non ha funzionato a dovere. Oggi, due decenni dopo, Carlo Maria Martini continua a essere il Grande Antagonista a capo di una chiesa che poco o nulla vuole avere a che fare con Roma. Basta fare un giro per le parrocchie della penisola per trovare parroci, curati, catechisti e catecumeni orgogliosi di essere portatori di un pensiero "altro" rispetto a quello del Papa. "Caro don Tal dei Tali", si è sentito dire dai catechisti un sacerdote di fresca nomina in parrocchia, "guardi che qui insegniamo che tutti i metodi per la contraccezione sono buoni e lei non si sogni nemmeno di dire il contrario. Il Papa dica quel che vuole e noi facciamo quel che vogliamo". Sono innumerevoli le parrocchie italiane nelle quali si susseguono episodi analoghi sul piano della dottrina, della morale, della liturgia. Ed è qui che il modello ruiniano mostra la corda: il divorzio tra Roma e la periferia, il "federalismo dottrinale", la forbice sempre più ampia tra magistero e predica domenicale, tra Evangelium vitae e singole facoltà teologiche sono cronaca di oggi come, e forse più, di vent`anni fa. Tutti fenomeni che il commissariamento della Cei non ha saputo contrastare. Se, a lungo andare, una malattia non passa, significa che il medico si è occupato dei sintomi invece che delle cause. Allarmato dalle sbandate del suo episcopato, il presidente della Cei ha scelto una cura squisitamente pragmatica, anzi empirica, riassumibile in due postulati: primo, la conferenza detta la linea, e ogni vescovo si adegua e tace, secondo, la linea è più importante della dottrina. Risultato: la febbre ora si vede forse di meno, ma c`è esattamente come prima. Basta pensare alla rivolta pressoché generale dei vescovi in occasione del Motu proprio con cui Benedetto XVI ha ridato piena cittadinanza alla liturgia antica: la Cei avrebbe potuto e dovuto ricordare ai vescovi il loro giuramento di fedeltà al Papa, ma non disse nulla, assistendo impassibile allo scisma strisciante della diocesi di Milano, che dichiarò non applicabile il documento pontificio aggrappandosi al cavillo del rito ambrosiano. Il vero problema sta nel fatto che la crisi del cattolicesimo italiano non è solo politica, ma innanzitutto dottrinale. Messa fra parentesi la dottrina per manifesta irrilevanza e ridotto al silenzio l`episcopato sul versante propriamente ecclesiale, si è ottenuto di spingere ulteriormente i vescovi, singolarmente o in gruppo, verso l`unica ribalta che potesse dar loro lustro, la politica.
Una deriva a cui non ha posto argine l`altra idea che ha segnato l`era di Ruini alla guida della Cei, il "Progetto culturale" varato nel 1997. Un disegno faraonico che avrebbe dovuto riconquistare il popolo cattolico alla gerarchia e il mondo alla chiesa, ma che, invece, si palesa come una kermesse continua di iniziative dai contenuti equivoci. Basti pensare che le vere star del "Progetto culturale" si chiamano Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli. Oppure che, nonostante le oltre duecento radio del circuito InBlu sovvenzionate dal "Progetto", per trovare una programmazione radiofonica cattolica 24 ore su 24, bisogna sintonizzarsi su Radio Maria. Per non parlare di Sat 2000, una tv dal dimenticabile, e dimenticato, palinsesto fatto con le repliche delle fiction sui santi prodotte dalla Lux e già passate su Raiuno e che per giunta irradia via satellite verso un popolo cattolico che ignora quasi totalmente l`esistenza delle parabole. Se oggi, dopo 13 anni di elaborazione, si va sul sito del "Progetto culturale" si trovano affermazioni come le seguenti: "A che serve tutto questo? A costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza sulle questioni vitali e fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea". "Creare una nuova enciclopedia cattolica? No: si tratta di riconoscere le sfide cruciali che la cultura pone oggi alla fede. Proprio raccogliendo queste sfide la fede esprime la sua energia creativa e alimenta il rinnovamento dell`uomo e della società. Se si punta infatti a definire tutto, ad avere l`inventario dei contenuti per poi svilupparli uno a uno il rischio è quello della paralisi. Se, al contrario, cerchiamo di abitare le questioni che concretamente sono di fronte a noi, allora ci mettiamo in condizione di proporre stili di vita cristiani praticabili e plausibili. Insomma, i contenuti del progetto culturale non sono e non saranno un`enciclopedia, piuttosto il frutto di un cammino quotidiano di traduzione del Vangelo nella vita". Viene da chiedersi dove si possa arrivare con un simile linguaggio burocratico-piacione che sa dire solo un "No" deciso e lo grida contro l`idea di "una nuova Enciclopedia cattolica". Quella vecchia, detto per inciso, la si può trovare a prezzi stracciati in liquidazione nei seminari della Penisola.
Non è questa la strada per riportare il cristianesimo al centro dello spazio pubblico e misurarsi con il mondo. Se non si ripiglia in mano la questione dottrinale, se non si torna ai fondamenti della fede, non si potrà mai pensare a un progetto di presenza culturale nella società. Il cattolico medio, oggi, non solo non è in grado di esporre decentemente le ragioni della propria fede, ma non sa esporre, neanche indecentemente, la propria fede. Anzi, facilmente mostrerà con orgoglio dubbi sostanziali sugli articoli del "Credo", che pure recita ogni volta che va a Messa. Così, gettato nella mischia privo di dottrina, il mondo cattolico ha finito per muoversi sull`unico piano in cui, almeno in apparenza, la dottrina non gli sembrava fondamentale: la politica. E qui si è creato il cortocircuito in cui l`opera ruiniana ha fatto da conduttore. Piuttosto che lasciare spazio ai singoli, si è pensato fosse meglio che delle questioni politiche si occupasse direttamente l`apparato. E la Cei è divenuta vero e proprio attore politico finendo per mediare sui valori. Non poteva andare diversamente visto che qualsiasi controparte, in una mediazione, mette in gioco ciò che possiede. L'esempio lampante sta nella legge 194 che, da legge iniqua ai tempi del referendum, è divenuta "la legge migliore d`Europa" basta che venga applicata interamente, una legge "che noi non vogliamo cambiare", come disse testualmente Camillo Ruini in una storica intervista al Tg1 all`indomani del referendum sulla legge 40. Legge, quest`ultima, sostenuta con furore dogmatico, al prezzo di impedire a vescovi e laici ortodossi di proclamare la illiceità morale e giuridica di ogni fecondazione artificiale. Con il risultato di far intendere che la Fivet omologa "è quella cattolica". Si finisce per perdere di vista lo specifico cattolico. Persino la cosiddetta vittoria al referendum sulla procreazione assistita va inquadrata in questa visuale. Si è fatto passare per una vittoria dell`Italia cattolica un risultato che sommò alla legittima astensione intenzionale di molti cattolici anche il cospicuo menefreghismo di una quota forse decisiva di indifferenti. Perché il ruinismo è anche questo: un trionfalismo senza fondamento vagheggiante un`Italia immaginaria che sarebbe ritornata "pro life" e "per la famiglia", e che invece, nella realtà, si dibatte nel medesimo processo di secolarizzazione che affligge tutto il mondo. Qui, quella che molti hanno definito la "genialità politica" di Ruini mostra tutti i suoi limiti, in primis quello di servirsi della politica per amministrare alla meno peggio la realtà invece che tentare di ri-cattolicizzarla. Limite che, a ben guardare, ripropone lo schema dossettiano della separazione tra piano della natura e piano della Grazia.
Ecco perché, per tornare simmetricamente all`inizio di queste riflessioni, il don Camillo della Cei si discosta da quello di Guareschi. Quando Peppone e i suoi vogliono impedirgli di andare in processione a benedire il Po, lui si avvia verso il fiume seguito solo da un cagnetto e, una volta trovatasi davanti la banda comunista al completo, cava il Crocifisso dalla cinghia e lo brandisce come una clava. Poi, recita questa preghiera: "Gesù, se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l`arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l`argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità". Ora, direttore, ci dirai che siamo ben originali a proporre una pastorale di tal guisa all`epoca del dialogo. Ma noi ti possiamo dire che qualche prete alla don Camillo di Mondo piccolo c`è ancora e ognuno può raccontare per le loro storie di evangelizzazione un finale che somiglia molto a quello che andiamo a trascrivere: "Amen - disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. - Amenrisposero in coro, dietro le spalle di don Camillo, gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso. Don Camillo prese la via del ritorno e, quando fu arrivato sul sagrato e si volse perché il Cristo desse l`ultima benedizione al fiume lontano, si trovò davanti: il cagnetto, Peppone, gli omini di Peppone e tutti gli abitanti del paese. Il farmacista compreso che era ateo ma che, perbacco, un prete come don Camillo che riuscisse a rendergli simpatico il Padreterno non lo aveva mai trovato". I non pochi don Camillo di oggi dicono che questo metodo funziona ancora. Si chiama Regalità sociale di Cristo e, come si è visto, riesce a trovare a ciascuno il suo posto, persino al farmacista ateo.
Il Foglio 18 Febbraio 2010
L'Eucaristia è vero sacrificio - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 febbraio 2010
La vera Gerusalemme, il Salem, la Tenda di Dio è il sacrificio del Corpo Eucaristico quando accade il Corpo Mistico, la Chiesa cioè la Pace di Dio con l’uomo
«Nel canone romano dopo la Consacrazione, abbiamo la preghiera supra quae, che menziona alcune prefigurazioni di Cristo, del suo sacerdozio e del suo sacrificio: Abele, il primo martire, con il suo agnello; Abramo, che sacrifica nell’intenzione il figlio Isacco, sostituito dall’agnello dato da Dio; e Melchisedech, Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, che porta pane e vino. Questo vuol dire che Cristo è la novità assoluta di Dio e, nello stesso tempo, è presente in tutta la storia, attraverso la storia, e la storia va incontro a Cristo. E non solo la storia del popolo eletto, che è la vera preparazione voluta da Dio, nella quale si rivela il mistero di Cristo, vi sono vie verso Cristo, il quale porta tutto in sé.
Questo mi sembra importante nella celebrazione dell’Eucaristia: qui è raccolta tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo. Infine va detto che adesso è aperto il cielo, il Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo. Infine va detto che adesso è aperto il cielo, il culto non è più enigmatico, in segni relativi, ma è vero, perché il cielo è aperto e non si offre qualcosa, ma l’uomo diventa uno con Dio e questo è il vero culto. Così dice la Lettera agli Ebrei: “Il nostro sacerdote sta alla destra del trono, del santuario, della vera tenda, che il Signore stesso ha costruito” (8, 1-2).
Ritorniamo al punto che Melchisedech è Re di Salem. Tutta la tradizione davidica si è richiamata a questo dicendo: “Qui è il luogo, Gerusalemme è il luogo del vero culto,la concentrazione del culto a Gerusalemme viene già dai tempi abramitici, Gerusalemme è il vero luogo della venerazione giusta di Dio.
Facciamo un nuovo passo: la vera Gerusalemme, il Salem (la Tenda) di Dio, è il Corpo di Cristo, l’Eucaristia è la pace di Dio con l’uomo. Sappiamo che san Giovanni, nel Prologo, chiama l’umanità di Gesù “la tenda di Dio”, eskenosen en hemin (Gv 1,14). Qui Dio stesso ha creato la sua tenda nel mondo e questa tenda, questa nuova, vera Gerusalemme è, nello stesso tempo sulla terra e in cielo, perché questo Sacramento, questo sacrificio si realizza sempre tra noi e arriva sempre fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio. Qui è la vera Gerusalemme, al medesimo tempo, celeste e terrestre, la tenda, che è il Corpo di Dio, che come Corpo risorto rimane sempre Corpo e abbraccia l’umanità e, nello stesso tempo, essendo Corpo risorto, vivente, ci unisce con Dio. Tutto questo si realizza sempre di nuovo nell’ Eucaristia. E noi da sacerdoti siamo chiamati ad essere ministri di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Preghiamo il Signore che ci faccia capire sempre meglio questo Mistero, di vivere sempre meglio questo Mistero e così offrire il nostro aiuto affinché il mondo si apra a Dio, affinché il mondo sia redento» [Benedetto XVI, Lectio divina con i Parroci della Diocesi di Roma, 18 febbraio 2010].
Se perdiamo la consapevolezza della verità che la Messa è sacrificio e non solo cena fraterna, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. Ma in che cosa consiste il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando si fa dono totalmente, quando diventa amore. “E’ per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità”, dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria per cui l’essere di Cristo è perfetta ed intima unione con Dio, una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la vita lasciandosi uccidere, senza soccombere definitivamente alla morte (in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva), Agostino interpreta i sacrifici vetero-testamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed è per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: “Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo” (La Città di Dio, X,5).
Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio, che è l’amore più forte della morte e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: “Tutta l’umanità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso” (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: “Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo” (Ibid. X,6). “La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta” (ibid. X,6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia, di ciò che celebra il presbitero con la comunità.
Avvenire.it, 23 Febbraio 2010 - La preghiera laica dei poeti - Due scrittori nonché insegnanti guardano alle domande ultime con gli occhi delle nuove generazioni. E rivelano un desiderio di autenticità sotto la coltre del consumismo.
Affinati: «Una fede maggiorenne, non la farmacia dei paurosi»
Eraldo Affinati è insegnante e scrittore, come testimoniano i suoi Secoli di gioventù e Un teologo contro Hitler (Mondadori) sulla figura di Bonhoeffer. E nel mondo giovanile vede insospettati segnali di inquietudine religiosa.
Il Papa nota che vi sono atei che vorrebbero avvicinare Dio. Questa figura antropologica è diffusa tra i giovani?
«Penso che oggi, più di ieri, la sensibilità religiosa sia presente in molti giovani sotto mentite spoglie: anche quelli che non professano un credo, spesso sono capaci di gratuità a fondo perduto. Viceversa, coloro che sembrano essere più in linea con modelli tradizionali, talvolta stentano a trovare una strada che li soddisfi. Numerosi ragazzi si sentono lacerati da pulsioni contrastanti: vorrebbero affermare posizioni radicali, ma non riescono a sottrarsi ai codici di comportamento che vanno per la maggiore. Del resto, come potrebbero diventare maestri dei loro genitori? I miti del successo, della sanità e della bellezza annichiliscono ogni ricerca interiore».
Il «cortile dei gentili» è immagine della sete di fede. Questo desiderio pare dal consumismo dilagante. L’insoddisfazione può assumere colorazioni religiose?
«Il trionfo del mercato lascia dietro di sé una scia di aridità, ma anche una benefica insoddisfazione. Io il cortile dei gentili credo di viverlo ogni giorno alla Città dei ragazzi, la comunità fondata a Roma da monsignor Carroll Abbing, dove vengono accolti adolescenti di tutto il mondo, che si gestiscono in autogoverno. Un giorno tre miei scolari mi dissero di essere andati a rendere omaggio alle spoglie di Giovanni Paolo II. Uno era afghano, musulmano, uno moldavo, ortodosso, un altro italiano, indifferente. Chiesi perché lo avessero fatto. Rispose il musulmano: per rispetto. Pensai che quei tre sedicenni avevano realizzato da soli quello che i grandi capi di Stato non riescono a fare: si erano messi d’accordo, ognuno era rimasto se stesso, ma avevano compiuto un gesto nel quale tutti si riconoscevano».
Cosa dovrebbe causare nel mondo cattolico questo scambio tra credenti e non credenti?
«In un mondo in cui ancora troppi pensano unicamente al colore della casacca che indossano e alla realtà multiculturale contrappongono solo la filosofia del condominio, questo dialogo potrebbe diventare l’avanguardia di un nuova relazione umana. Se ognuno riuscisse a guardare l’altro com’è avremmo realizzato l’unica vera rivoluzione fra tutte quelle fallite nel sangue del Novecento. Purtroppo siamo molto distanti da questo auspicio a causa dei pregiudizi. Io credo che la Chiesa, accanto alla necessaria struttura istituzionale, avrebbe bisogno di "agenti segreti", nel senso in cui intendeva Dietrich Bonhoeffer: persone che nella vita quotidiano mostrano Cristo nei fatti, senza proclami. Questi individui secondo me sono i migliori. Ho riletto di recente Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger, scritto nel 1968. E vi ho trovato riferimenti a Bonhoeffer. In quel libro si comprendeva l’intuizione di un cristianesimo adulto, di un Dio che non sia un tappabuchi e di una Chiesa che non diventi farmacia di senso, bensì la necessità di una religione che sia maggiorenne. Sento in maniera lancinante questa esigenza, che non vedo pienamente realizzata».
È ancora valida la «pretesa» della religione di parlare di Dio in chiave culturale?
«A volte parla di Dio più chi lo nega di chi lo afferma. Noi italiani abbiamo esempi clamorosi: Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. Entrambi atei materialisti, forzarono romanticamente quello stesso limite razionale che sentivano invalicabile, il primo nel sentimento del sepolcro, il secondo nella concezione evangelica dell’amicizia. Oggi possono insegnarci a superare gli steccati».
Mastrocola: «Sopra la materia, scoprire l'altro piano del vivere»
«I grandi poeti del passato, anche se atei, si sono sempre posti questi interrogativi: in Leopardi, il più ateo, c’era sempre la domanda sul fine ultimo e il senso della vita. Ora questi interrogativi stanno cadendo». Da appassionata educatrice e scrittrice apprezzata (si ricorda La gallina volante del suo esordio, edito da Guanda), Paola Mastrocola chiede di tornare alla poesia per accedere al «secondo piano» dell’esistenza.
Il Papa ha parlato di quanti vedono Dio come «sconosciuto» ma che vorrebbero avvicinarlo come «Sconosciuto». Da insegnante, i giovani che lei incontra fanno parte della prima o della seconda categoria?
«Faccio un passo indietro. Prima di Dio parlerei di valori meno connotati religiosamente ma di natura metafisica. Ma oggi, ahimè, tra i giovani manca la spiritualità, cioè il desiderio di andare oltre il materiale. È assente "il secondo piano" della vita. Al primo vi sono il lavoro, i consumi… al secondo l’ordine simbolico e l’idealismo. Ebbene, questo manca. Come ci può essere Dio in un mondo tutto appiattito sul materiale? Io insegno letteratura italiana. Secondo me, che forse non sono neppure cattolica, è una cosa molto religiosa perché parla del "secondo piano" dell’esistenza: insegna che oltre alla lettera nel testo c’è dell’altro».
Tempo fa ci fu chi – Ferruccio Parazzoli – denunciò che i grandi temi nei romanzi di oggi sono spariti. Nella letteratura odierna Dio è presente?
«Condivido l’affermazione di Parazzoli: e la letteratura è colpevole perché ha smarrito la sua strada. La stessa caduta di importanza dell’elemento lirico è grave: non esiste più la lirica, non si vende la poesia e – se oggi non si vende – ancora meno si pubblica. Ha mai visto un libro di poesia in vetrina? Eppure la poesia è la versione laica della preghiera. Questo dovremmo ricominciare a fare a scuola, leggere poesia: sarebbe un modo laico per portare i giovani a Dio. C’è bisogno di educare a una religiosità che non sia immediatamente connotata, che risulti educazione alla metafisica».
Da quali autori potrebbe prendere nuovo slancio il dialogo tra laici e cattolici?
«Mi piacerebbe che si tornasse a leggere la Bibbia, sparita dalla scuola. Io alla fine della quinta elementare conoscevo tutte le storie del più grande paradigma culturalmente dell’Occidente. Leggiamo la Bibbia in classe, oltre a Omero! Poi farei leggere la prima parte delle Confessioni di Agostino. È un’opera importantissima per un ragazzo che sta crescendo, scritta da un giovane che ha incontrato Dio».
Si può insegnare Dio?
«Lo si dovrebbe suggerire senza lanciare nessun messaggio consapevole, altrimenti diventa debole. Dobbiamo suggerirlo indirettamente nel nostro lavoro. Già un adulto che legge, che predilige la contemplazione all’azione immediata, è un’idea forte: ricordo l’episodio che Agostino racconta nelle Confessioni, quando andava dal vescovo Ambrogio per consultarsi e chiedere consiglio, e questi non lo riceveva perché stava leggendo. Sentire che Ambrogio stava leggendo era il miglior incontro con Dio che Agostino potesse fare».
Come accoglie l’idea del «cortile» come luogo di dialogo tra credenti e non credenti?
«Mi piace molto questa immagine, anche se la vedo ancora un po’ astratta; ma oggi non vedo una mancanza di dialogo. A me è successo sul piano educativo quando, anni fa, sono stata invitata da alcuni cattolici, nel caso specifico di Comunione e liberazione, a parlare dell’educazione: fu un grandissimo incontro, la pensavamo allo stesso modo. Ma un confronto simile può avvenire con un’altra idea forte di scuola, quella di don Milani. È un bene, comunque, che il Papa abbia detto tutto questo».
Lorenzo Fazzini
Piemonte: Cota sottoscrive un "Patto per la vita e per la famiglia"- Massimo Introvigne è lieto di presentare questo documento, che ha un valore che va molto al di là del Piemonte. È la prima volta che chi si candida a governatore di una Regione italiana sottoscrive impegni così precisi e dettagliati in materia di principi non negoziabili e lo fa non con una dichiarazione di buona volontà ma con un patto bilaterale controfirmato da quattro garanti, che a loro volta s'impegnano a vigilare sul rispetto degli impegni assunti
Patto per la vita e per la famiglia
Testo del patto sottoscritto da Roberto Cota, candidato alla presidenza della Regione Piemonte, il 24 febbraio 2010 a Torino, con quattro garanti – Massimo Introvigne (vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica), Marisa Orecchia (presidente di Federvita Piemonte), Mauro Ronco (docente di diritto penale, già componente del CSM) e Maria Paola Tripoli (fondatrice del Servizio Emergenza Anziani) – i quali daranno vita a un tavolo di lavoro sulle politiche della nuova amministrazione regionale in tema di vita e famiglia
Esprimo apprezzamento per il comunicato pubblicato da Federvita Piemonte, che riunisce settanta Movimenti per la Vita e Centri di Aiuto alla Vita, in occasione delle elezioni regionali e ho preso atto di appelli sugli stessi temi provenienti dal Forum delle Associazioni Familiari, da Due Minuti per la Vita e da altri.
Con tutti sottoscrivo un patto per la vita e per la famiglia: non generico – perché è facile parlare di vita e di famiglia come concetti astratti, senza precisare in concreto che si tratta della vita dal concepimento alla morte naturale e della famiglia monogamica ed eterosessuale, fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna – ma specifico e articolato in impegni precisi.
1. Considerando che un aborto non è mai una vittoria per nessuno ma è sempre una sconfitta, m’impegno per quanto riguarda le competenze regionali di applicazione della legge 194 a proporre e sostenere percorsi di aiuto concreto e fattivo alle donne che, anziché banalizzare l’aborto come soluzione, cerchino sempre possibili alternative, aprendo le istituzioni regionali anche alla collaborazione con il volontariato pro-vita. In applicazione della stessa legge, se in Piemonte dovrà essere somministrata la pillola RU486, questo potrà avvenire solo con un protocollo che preveda il ricovero della donna dalla somministrazione della pillola fino al completamento del percorso abortivo, escludendo ogni ipotesi di aborto fai da te a casa propria.
2. La vita è veramente e pienamente vita fino alla morte naturale, come ho cercato di testimoniare con il mio impegno in Parlamento in occasione della tragica vicenda di Eluana Englaro e nella discussione di progetti di legge sul fine vita. Per essere ancora più chiaro, il modello virtuoso per me è quello umile, silenzioso ed eroico del quotidiano impegno delle Suore Misericordine che hanno assistito Eluana per farla vivere, non quello di chi – per citare il documento di Federvita – “ha offerto un ospedale piemontese per farla morire”. Respingendo nel modo più deciso ogni ipotesi di eutanasia, la Regione da me guidata sarà vicina con un sostegno non solo teorico alle famiglie di malati nella condizione oggi chiamata stato vegetativo persistente, e sosterrà per quanto di sua competenza le cure palliative.
3. Rifiuto con chiarezza ogni ipotesi di omologazione della famiglia fondata sul matrimonio, a norma dell’art.29 della Costituzione, a ogni altra forma di convivenza anche omosessuale. Sono contrario a cerimonie, registri e altre iniziative che introducano surrettiziamente un’equiparazione tra unioni omosessuali e matrimonio monogamico ed eterosessuale.
4. M’impegno a una politica regionale a favore della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, che riconosco come cellula fondamentale della società, attraverso il sostegno alle giovani coppie che intendono contrarre matrimonio e una politica dei servizi che tenga conto del carico familiare e del numero dei figli.
5. Consapevole in particolare del ruolo unico svolto in Piemonte in oltre trecento anni di attività dalla scuola cattolica, che ha reso alla nostra regione servizi inestimabili, praticherò una politica che renda effettiva la libertà di educazione mediante erogazione di bonus o rimborsi che consentano alle famiglie la scelta della scuola libera, la quale andrà sostenuta anche quanto all’accoglienza di portatori di handicap e di figli di immigrati cui proporre percorsi autentici d’integrazione, prendendo in esame anche una politica di detrazioni fiscali nel quadro del federalismo fiscale.
6. La politica a favore della vita e della famiglia andrà a beneficio anche delle famiglie e in particolare delle donne e delle bambine immigrate. Prenderò misure regionali, e sosterrò quelle del governo nazionale, che vigilino contro gli abusi sulle donne e sui minori, non tollerino le mutilazioni genitali femminili, l’avviamento alla mendicità e alla prostituzione da parte di organizzazioni malavitose, la poligamia e i matrimoni forzati, e prevengano l’imposizione del burqa e di altre forme di velo integrale a donne e ragazze che non desiderano portarlo. Di concerto con il governo nazionale, farò il possibile per convincere anche chi insegue l’utopia di una società aperta all’immigrazione senza regole e senza limiti che si tutela davvero la vita e la famiglia degli immigrati onesti, venuti da noi per lavorare, e si pratica la virtù cristiana dell’accoglienza, solo tenendo conto che il numero d’immigrati che il Piemonte può accogliere non è infinito, e che le regole e la lotta contro l’immigrazione clandestina vanno a vantaggio anche degli immigrati regolari, oltre che della sicurezza di tutti.
Torino, 24 febbraio 2010
Roberto Cota
Massimo Introvigne
Marisa Orecchia
Mauro Ronco
Maria Paola Tripoli
Memoria corta, divorzio breve - Roberto Fontolan - giovedì 25 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
Lentamente ma inesorabilmente, nota La Stampa, in commissione Giustizia alla Camera avanzano le proposte per il cosiddetto divorzio breve, per il quale si prevede “di arrivare a un testo unico su cui raggiungere un accordo entro aprile”. Si tratta di iniziative bipartisan, dal momento che tra i promotori di quella che definiscono essi stessi “semplificazione” ci sono deputati Pdl. Dunque, altro che processo breve, altro che semplificazione legislativa (chi le ha più viste?): brevità e semplicità sì ma per il marito e la moglie che intendano diventare ex davanti alla legge e alla società.
È necessario? È indispensabile? È prioritario? È giusto? Abbiamo un Parlamento che fatica moltissimo a legiferare su temi cruciali epperò non si fa mancare nulla quanto a faccende che giacciono in fondo ai cassetti. Negli anni sono stati annunciati piani e progetti di ogni genere, dalla casa al lavoro alla formazione alle imprese alla giustizia al fisco, e si è visto ben poco. La vita politica nazionale vive sotto l’impulso di un roboante, perenne “effetto annuncio”.
Si ricorderà come dopo il “family day” di piazza San Giovanni due anni fa fosse scattata una fantasmagorica gara tra chi avrebbe maggiormente protetto e tutelato le famiglie, in quanto da tutti riconosciuto soggetto fondamentale e indispensabile di ogni aspetto della vita sociale, dall’educazione al welfare. Interminabili discussioni su quozienti familiari e sostegno alle mamme lavoratrici, coraggiose esaltazioni del sistema francese, impegni solenni circa incentivazioni a giovani coppie. Ne è restato poco o nulla.
Oggi nel Parlamento dalla memoria corta sperano di abbreviare i tempi del divorzio, per essere naturalmente “in linea con l’Europa” - mai che dal nostro caro vecchio continente riusciamo a prendere qualcosa di buono. Lo registriamo con mestizia e rassegnazione, sapendo che non è questo il primo né l’ultimo dei fendenti impartiti sul “nucleo fondante della società”. Una istituzione che occorre ulteriormente “modernizzare” (e sappiamo bene cosa questo significhi), anche perché, dicono i relatori dei vari disegni, le cause di separazione “intasano i tribunali”, dal momento che quasi un matrimonio su tre finisce davanti al giudice (sarà poi vero?). Così siamo al paradosso: l’unica strada per salvare la giustizia è la rapida dissoluzione della famiglia.
IL CASO/ Hercule Poirot svela il mistero anticristiano in Gran Bretagna- Gianfranco Amato - giovedì 25 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
David Suchet, il celebre attore che in televisione ha impersonato l’investigatore Poirot, è un altro dei tanti personaggi pubblici che hanno avuto il coraggio di denunciare il rischio di emarginazione che oggi corrono i cristiani in Gran Bretagna.
In un’intervista al settimanale Woman’s Weekly David Suchet ha dichiarato senza mezzi termini: «Corriamo seriamente il pericolo di non percepire più l’importanza della fede cristiana nel nostro Paese». Ed ha aggiunto un’amara considerazione: «La gente è più preoccupata di non offendere le altre fedi», precisando però subito - onde incorrere nelle ire dei sacerdoti del politically correct - che, comunque «si dovrebbero guardare con rispetto tutte le religioni, senza discriminarne o marginalizzarne nessuna».
A proposito della propria fede, David Suchet ha offerto, in un’altra intervista, una testimonianza personale, ricordando di aver incontrato, vent’anni fa, l’esperienza cristiana attraverso la lettura, in una bibbia acquistata per curiosità, di un’epistola di San Paolo in cui veniva spiegato cosa significasse davvero essere cristiani. Fu quella lettura ad «aprire una breccia» nel cuore di Suchet e a dare un’esauriente e ragionevole risposta a quello che da tempo stava cercando: «una dimensione trascendente, quasi mistica, ma capace di incarnare, al tempo stesso, qualcosa di umanamente accessibile, con cui poter entrare in relazione». Un trascendente sperimentabile nella banale concretezza del quotidiano.
Troppo facile la battuta per cui anche quella volta le famose “celluline grigie” del grande Hercule Poirot hanno scoperto la Verità.
L’attore collabora da tempo con un’organizzazione non-profit che si è vista rifiutare finanziamenti governativi perché ha la malaugurata sventura di essere una Christian charity. In precedenza, peraltro, la stessa associazione aveva puntualmente ricevuto sussidi pubblici per anni. Il fatto è che da qualche tempo qualcosa è cambiato nel Regno Unito.
Quella dell’uomo ormai identificato con il noto personaggio di Agatha Christie, non è la sola denuncia del rischio di emarginazione dei cristiani. Il conduttore della rete britannica Radio 2, Jeremy Vine, ha segnalato la crescente ostilità nei loro confronti, soprattutto da parte dei media, dichiarando alla rivista Reform Magazine che «è ormai diventato quasi socialmente inaccettabile affermare pubblicamente di credere in Dio». Così come la cattolica Cherie Blair, moglie dell’ex Premier britannico, ha affermato che «i cristiani sono spesso marginalizzati e che la fede rappresenta un argomento su cui sempre meno persone amano discutere apertamente».
Pure la musulmana baronessa Warsi ha denunciato «una sempre più crescente intolleranza ed un atteggiamento illiberale nei confronti di chi professa la propria fede in Dio». In un discorso tenuto all’ultima Conservative Party Conference Lady Warsi ha accusato coloro «che manipolano il concetto di “eguaglianza”, pretendendo, di fatto, uno svuotamento della fede».
L’Arcivescovo di York si è spinto oltre parlando di una vera e propria «intolleranza» nei confronti dei gruppi cristiani, quando si tratta di finanziare loro iniziative di carattere sociale. L’anno scorso l’alto prelato si è lasciato andare all’affermazione secondo cui le comunità cristiane sembrano essere considerate «inadeguate e non meritevoli» di ricevere fondi pubblici.
A volte i numeri e le statistiche, però, dicono più di molte parole. L’ultimo sondaggio condotto da ComRes, uno dei più accreditati ed autorevoli istituti demoscopici britannici, ha mostrato, infatti, che più di quattro cristiani su cinque (84 per cento) ritengono che la libertà religiosa sia fortemente a rischio nel Regno Unito. Quel timore, quindi, non può essere liquidato come l’esasperata preoccupazione di qualche suscettibile bigotto.
Ciò che sta accadendo ai cristiani nel Regno Unito, in realtà, getta una luce inquietante sulla sfida lanciata dallo stesso Gesù Cristo, quando si chiese se il Figlio dell’Uomo, alla sua prossima venuta, inveniet fidem in terra. Forse quell’enigmatica domanda, in fondo, non era davvero retorica.
Avvenire.it, 24 Febbraio 2010 - LA FEDE NEGATA - Iraq, l'appello del Papa: «Rispettare i diritti dei cristiani»
Benedetto XVI, fortemente addolorato per le perduranti uccisioni di cristiani nella zona di Mosul, chiede al governo di Baghdad "rispetto" e "tutela" per i diritti della comunità cristiana in Iraq. Impegnato in questi giorni negli esercizi spirituali in Vaticano con i collaboratori di Curia, il Papa ha appreso "con profondo dolore" che a Mosul e dintorni, nel nord dell'Iraq, continuano i casi di cristiani uccisi: gli ultimi ieri, con l'assassinio di tre membri di una famiglia siro-cattolica. Il Pontefice "è vicino a quanti soffrono le conseguenze della violenza con la preghiera e l'affetto", riferiscono oggi all'unisono i media d'Oltretevere, come la Radio Vaticana e l'Osservatore Romano. E gli stessi media, sul tema delle "violenze contro le minoranze e i particolare contro i cristiani", danno conto della lettera che il 2 gennaio scorso il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, aveva inviato al primo ministro iracheno, Nouri Al-Maliki.
La lettera di Bertone. Il porporato ricordava nella lettera la visita compiuta dal premier in Vaticano nel 2008 e il suo incontro col Papa. In quell'occasione era stata espressa "la speranza comune che, attraverso il dialogo e la cooperazione fra i gruppi etnici e religiosi del suo Paese, incluse le sue minoranze, la Repubblica dell'Iraq sarebbe stata in grado di effettuare una ricostruzione morale e civile, nel pieno rispetto dell'identità propria di quei gruppi, in uno spirito di riconciliazione e alla ricerca del bene comune". Benedetto XVI aveva esortato "al rispetto in Iraq per il diritto alla libertà di culto" chiedendo "la tutela dei cristiani e delle loro chiese".
Il premier aveva assicurato al card. Bertone che il governo iracheno avrebbe considerato "molto seriamente la situazione della minoranza cristiana che vive da così tanti secoli accanto alla maggioranza musulmana, contribuendo in modo ingente albenessere economico, culturale e sociale della nazione". Il Papa, successivamente, aveva invitato il suo primo collaboratore a scrivere al premier iracheno per trasmettere la sua "sincera solidarietà" per quanti vengono uccisi o feriti in attacchi a edifici governativi e luoghi di culto in Iraq, sia islamici sia cristiani. Il Pontefice - concludeva la lettera - "prega con fervore per la fine della violenza e chiede al Governo di fare tutto il possibile per aumentare la sicurezza intorno ai luoghi di culto in tutto il Paese".
I funerali a Mosul. Stamane, intanto, si sono svolti in Iraq i funerali dei tre cristiani uccisi ieri a Mosul da alcuni uomini armati. Le esequie sono state celebrate dall'arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Georges Casmoussa. Lo stesso Casmoussa era stato nei giorni scorsi tra i promotori dell'appello dei vescovi cristiani per un intervento internazionale a Mosul. I continui sequestri e omicidi di cristiani, tra l'altro, sono visti come il fallimento delle misure promesse per garantire la sicurezza in vista delle elezioni del prossimo 7 marzo. "In tutte le elezioni ci sono problemi - dice oggi mons. Casmoussa alla Radio Vaticana -, ma non al punto di uccidere la gente e in particolare i cristiani: i cristiani sono uccisi non dal punto di vista politico, ma in quanto cristiani. Noi abbiamo parlato con il governatore e ha promesso di indagare. Ieri mi ha chiamato e ha promesso che le sue forze militari sarebbero state impiegate per cercare i responsabili dell'assassinio. Ma non abbiamo ricevuto nessun riscontro".
Avvenire.it, 25 Febbraio 2010 - Stati vegetativi: continue scoperte e un confronto sui fatti - Un po’ più di chiarezza e domande impossibili da ignorare
Il confronto sui fatti concreti è sempre costruttivo, come sta dimostrando il serrato dialogo in corso tra Avvenire e il neurologo Carlo Alberto Defanti sull’Unità riguardo le più recenti scoperte sullo stato vegetativo e sull’eventualità che anche Eluana Englaro potesse entrare in contatto con l’ambiente circostante, se qualcuno avesse utilizzato le nuove tecniche di indagine descritte dalla letteratura scientifica.
Nel suo ultimo intervento Defanti concorda con noi anzitutto sul fatto che chi si trova in stato vegetativo non è un vegetale inerte ma una persona viva, e aggiunge che «su questo non c’è mai stato il minimo dubbio». Ne siamo lieti, e prendiamo atto della sua tardiva ma importante smentita pubblica di Amato De Monte che proprio un anno fa, dopo aver accompagnato la giovane in ambulanza nel suo ultimo viaggio da Lecco a Udine dichiarò che Eluana era morta da diciassette anni.
Siamo sostanzialmente d’accordo anche su un secondo punto: e cioè che nella letteratura del settore non esistono studi in grado di correlare la gravità del grado di atrofìa del cervello e lo stato di coscienza di una persona, sul quale l’autopsia non può dare informazioni certe. Secondo Defanti, infatti, le lesioni riscontrate in Eluana «rendono assai poco verosimile la loro compatibilità con un’attività di coscienza»: in altri termini, non lo possono escludere con certezza.
La sentenza della Cassazione sulla base della quale Eluana è stata fatta morire disidratata indicava però un criterio diverso: perché si potesse sospendere la nutrizione assistita non ci doveva essere «alcun fondamento medico che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, seppure flebile, recupero della coscienza». I giudici davano cioè per scontato che Eluana non avesse alcuna coscienza di sé, e chiedevano di escludere con sicurezza che tale coscienza potesse essere recuperata, anche in minima parte.
Per quel che oggi ne sappiamo, invece, non potremo mai escludere la possibilità che Eluana avesse un qualche livello di consapevolezza. Come da così tanti dubbi, poi, sia scaturita la convinzione che la si potesse lasciar morire rimane ancora un mistero che non lascia per niente tranquilli.
E allora, quali nodi restano ancora da chiarire? Qui arriviamo al punto: Defanti riconosce che il problema non è stabilire se queste persone conservino o no tracce di coscienza ma piuttosto chiedersi se valga la pena mantenerne il «sostegno vitale» (sottintendendo di passaggio, insieme a noi, che la nutrizione assistita non è una terapia medica ma un nutrimento necessario a tenere in vita un essere umano).
Non importerebbe cioè lo stato o meno di coscienza di queste persone, ma la loro qualità di vita. In gioco qui sono i criteri con cui valutare in quali condizioni vale la pena di continuare a vivere, e stabilire poi chi è legittimato a giudicare in materia. Ma chi può stabilire in quali condizioni la vita si può definire «invivibile»? È giusto e possibile decidere per gli altri quando sono inconsapevoli? Veramente riteniamo possibile che una persona possa decidere, quando ancora è in salute, le condizioni in cui lasciarsi morire, in un futuro indefinito? A un anno di distanza dalla morte di Eluana, nel pieno del dibattito parlamentare attorno alla legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, sono queste le domande che – piaccia o no – tornano in gioco.
Avvenire.it, 25 Febbraio 2010 - Visione cristiana. E nessuna esclusione - Quell’asilo di Goito: ipocrisia e verità
Goito, paesone importante per la storia d’Italia. Per il farsi dell’Italia. Per l’Unità. Ebbene, ancora Goito, ma senza bataglie e spargimenti di sangue, diviene almeno un poco luogo simbolo. In un Consiglio comunale si alza un polverone perché nel piano didattico di una scuola materna comunale compaiono due parole: visione cristiana. Da oltre cinquant’anni la scuola era gestita da suore Orsoline con generale soddisfazione della popolazione, e ora è passata in regime di convenzione ad altro ente, essendo le suore in diminuzione. E, per amore di chiarezza, tale ente indica che i bambini che, in una sezione delle dieci a disposizione delle famiglie di quel territorio, i bambini potranno avvalersi di una proposta educativa ispirata alla visione cristiana. Per amore di chiarezza, l’ente lo dichiara, lascia ai genitori la scelta e non esclude nessuno (che creda, non creda o creda diversamente). Anche perché non potrebbe essere altrimenti: le scuole cristiane, in ogni dove nel mondo, sono programmaticamente aperte a tutti. E infatti non sono i genitori a stupirsi o a lamentarsi.
Ma qualche consigliere comunale, che solleva un polverone. Perché, dicono, una scuola del Comune, una scuola pubblica non può e non deve ispirarsi a principi cristiani. Bene. E allora come la mettiamo con tutte le scuole che, senza nemmeno dichiararlo, si ispirano a principi anti-cristiani cancellando le feste di Natale, trasformandole in banali feste della luce o dell’arcolbaleno? Non dichiarano, quelle scuole, ma lo fanno. E anzi dichiarano di essere laiche e di rispettare tutti. Tranne poi tirar via il presepe di fronte agli occhi dei bambini e delle famiglie che vorrebbero rispettate anche le loro idee. Il fatto di Goito, pur nel suo paradosso, è come un granello che mette in crisi un immenso ingranaggio di ipocrisia. La ipocrisia di spacciare per laicità l’assenza di identità. Il grande meccanismo di ipocrisia che spaccia per neutralità la scomparsa di ogni riferimento alla cultura e alla religione.
La violenta faziosità che va in scena nelle aule della politica (e della rappresentazione dei media) molto più che nella vita reale di famiglie e popolo in carne e ossa, forse per una volta può servire a smascherare il grande inganno. Moltissime scuole di Italia possono irridere e far sparire segni e ispirazione cristiana dalla nostra cultura (con grave errore culturale prima che religioso, appunto) senza dichiarare alcunché e se invece una di queste scuole, per amore di chiarezza e fedeltà a una storia pluridecennale, indica che in una sezione si considererà la «visione cristiana», succede il piccolo grande putiferio. Il banale e velenosissimo putiferio. Lo scandalo cercato e provocato dalla politica, non dalle famiglie. Questo è lo stato dell’Italia che si svela a Goito, questa è la nuova sfida di vera identità del Paese, unitaria o no.
Perché dopo questa nuova Goito occorre svelare le carte e dire a che gioco si sta giocando. Occorre tutti essere chiari su quale immagine di Italia e di unità si vuol costruire per il futuro. Se quella ipocrita neutralista che in nome di una idea astratta di libertà e cultura tende a eliminare il cristianesimo dal volto e dall’anima della nostra storia, o quella che scopre finalmente una nuova laicità nella chiarezza delle proposte, nella libertà delle scelte e nella fiducia verso le famiglie come valutatrici della qualità dell’educazione proposta ai propri figli. Il piccolo grande fatto di Goito non è uno squillo di battaglia. Ma un avvertimento, perché le battaglie possono sorgere allorché invece che sulla chiarezza e sulla libertà si punta sulla ipocrisia e sulla faziosità politicante.
Davide Rondoni
Biopolitica - Approvato l’emendamento che amplia la platea dei pazienti ai quali si applicheranno le dichiarazioni anticipate di trattamento Di Virgilio: colmata una lacuna - Fine vita, si allarga il target dei malati coinvolti nella legge - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 25 febbraio 2009
A approvato ieri l’allargamento della platea dei pazienti a cui si applicheranno le dichiarazioni anticipate di trattamento (dat) previste dalla proposta di legge sul fine vita, in discussione in commissione Affari sociali della Camera. Vengono inclusi anche soggetti che hanno perduto, non in modo transitorio, la capacità di intendere e di volere. Lo prevede un emendamento del relatore Domenico Di Virgilio del Pdl. «Abbiamo così colmato – spiega –, con l’approvazione di questo emendamento, una lacuna avvertita da molti nel testo che ha ottenuto il via libera del Senato». La modifica approvata ieri con il 'sì' del centrodestra e di Luisa Santolini dell’Udc, sostituendo l’intero comma 6 dell’articolo 3, stabilisce in dettaglio che la dat «assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano». Secondo la modifica decisa dalla commissione, inoltre, «la valutazione dello stato clinico del soggetto è formulata da un collegio medico formato da un anestesista rianimatore, un neurologo, il medico curante ed il medico specialista dalla patologia di cui è affetto il paziente». Il relatore spiega perché la riformulazione dell’emendamento, da lui indicata ieri, specifica che la incapacità di intendere e di volere deve essere «permanente», precisazione criticata da Pd e Idv. «Sarebbe molto grave – afferma – se di fronte ad una perdita solo transitoria di queste facoltà, come ad esempio nel caso del coma diabetico, non si attendesse la decisione del paziente attraverso il consenso informato».
L’emendamento è stato «studiato» insieme a quello approvato martedì, che consente di sospendere alimentazione ed idratazione in casi eccezionali «in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». Di Virgilio ribadisce che tali casi eccezionali non possono verificarsi negli stati vegetativi, ma semmai nelle tipologie introdotte ieri nel provvedimento, non incluse nel disegno di legge approvato al Senato.
La commissione ha bocciato, poi, la seconda parte (la prima era preclusa dall’emendamento del relatore approvato martedì) di una proposta di modifica della capogruppo del Pd, Livia Turco, per precisare che la valutazione circa la sospensione dell’alimentazione compete al medico curante, coinvolgendo i familiari. «Sarebbe risultato pleonastico – commenta Di Virgilio –.
Chi altri, se non il medico, può giudicare se alimentazione e idratazione nelle fasi terminali divengono nocive, controproducenti e dannose?». Ieri la commissione ha concluso l’esame dell’articolo tre, dovranno essere discussi gli altri sei. Il prossimo al vaglio è il 4 sulla forma e durata delle dat, nell’ambito del quale si dovrà votare un proposta di modifica della Lega, come riformulata dal relatore, per cui «non costituiscono dat gli orientamenti dedotti e le dichiarazioni di intenti rilasciati o espressi al di fuori dei casi e delle modalità» della legge, «anche se antecedenti alla sua entrata in vigore».
Secondo la modifica «la valutazione dello stato clinico» sarà espressa da anestesista, neurologo, medico curante e specialista