Nella rassegna stampa di oggi:
1) Tante religioni: qual è la verità? - Relazione di Massimo Introvigne all'incontro organizzato dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Isernia-Venafro il 6 febbraio 2010 e concluso dal vescovo S.E. Mons. Salvatore Visco
2) "SE LA VITA SI RIANIMA" - Un libro di cronache di bioetica e speranza dall'ospedale di Eluana - di Antonio Gaspari
3) A un anno dalla morte di Eluana 2 – Le ultime scoperte sugli stati vegetativi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 febbraio 2010
4) ELUANA/ 1. Fisichella: le false libertà attaccano ancora la vita e la cosa pubblica - INT. Rino Fisichella – ilsussidiario.net - martedì 9 febbraio 2010
5) Avvenire, 9 Febbraio 2010 - Valgono gli esempi, non le parole E' semplice stare dalla parte giusta – di Marco Tarquinio
6) «Lei, creatura E l’evidenza della sua vitalità» - Suor Albina: così abbiamo accompagnato Eluana «Come si può non amare chi è inerme come un neonato?» - Parla la superiora delle Misericordine che a Lecco per quindici anni hanno accudito la Englaro La testimonianza di un amore senza condizioni. E dei tanti segni eloquenti che la donna manifestava - MARINA CORRADI – Avvenire, 9 febbraio 2010
7) A PROPOSITO DELLE PROPOSTE DI LEGGE SUL DIVORZIO BREVE - Se del matrimonio si dà una parodia durerà poco e i figli soffriranno molto - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 febbraio 2010
Tante religioni: qual è la verità? - Relazione di Massimo Introvigne all'incontro organizzato dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Isernia-Venafro il 6 febbraio 2010 e concluso dal vescovo S.E. Mons. Salvatore Visco
La dittatura del relativismo
La domanda cui mi si chiede di rispondere è duplice: perché affermiamo che la religione cattolica è vera? E perché molti, in questa Europa che fu cristiana, oggi non ci credono più? La prima domanda è, propriamente, apologetica. La seconda richiede una lettura filosofica e teologica, oltre che sociologica, della storia.
Perché la prima domanda abbia un senso, è necessario anzitutto convincersi che esiste la verità e che la ragione umana è in grado di conoscerla. Benedetto XVI lo ha ripetuto più volte: preparata da una «dittatura del razionalismo» c’è oggi una «dittatura del relativismo» (Benedetto XVI 2009b). Questa dittatura c’impone di credere e di affermare che non esiste la verità. E che chi afferma che esiste una verità è fanatico, intollerante e fondamentalista.
Nel suo viaggio del settembre 2007 in Austria Benedetto XVI ha spiegato che la «questione essenziale» oggi non riguarda anzitutto la fede. Riguarda la ragione. Non si tratta di una precedenza ontologica – la fede, che salva, verrebbe prima della ragione – ma cronologica. Se non crediamo che alcune proposizioni possano essere vere, se anzi sosteniamo che non esistono in assoluto affermazioni vere, allora anche tesi come «Dio ci salva» o «Gesù è Dio» non possono essere vere, perché nessuna tesi lo è. Ecco dunque perché si deve partire dalla ragione, e perché ci si trova oggi in una situazione paradossale in cui è la Chiesa a doversi fare carico di difendere la ragione. La grande domanda è, come il Papa ha ricordato a Vienna, se la ragione «stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no» (Benedetto XVI 2007a). Sulla base della risposta positiva a questa domanda, che nasce dall’eredità greca, dall’ebraismo e dal cristianesimo, si costruiscono propriamente l’Europa e l’Occidente.
Solo se si crede che la ragione sia un principio e fondamento universale si può credere nella verità. Credere, cioè, che alcune tesi e valori siano veri per tutti gli uomini in quanto tali. Mentre oggi si afferma che le tesi e le norme occidentali possono al massimo rivendicare una validità in e per l’Occidente: pretendere che siano «universali» sarebbe solo espressione di «etnocentrismo», d’imperialismo o di razzismo. Anzi, le tesi e i valori non occidentali sarebbero talora più genuini, spontanei e «in armonia con la natura», secondo la prospettiva di buona parte della tendenza New Age, come sottilmente insinua di questi tempi il film Avatar, il film più visto di tutti i tempi, prodigio della tecnologia – certo – ma anche veicolo di propaganda di una religione pagana della natura senza Dio e senza dogmi.
Purtroppo oggi – per citare ancora Benedetto XVI nel suo viaggio in Austria del 2007, tutto incentrato sul tema della ragione – c’è un’ampia parte della cultura europea che pensa che «la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso» (ibidem). Nel santuario austriaco di Mariazell il Papa ha mostrato come per l’Europa l’abbandono del primato della ragione porta a una «rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità» (Benedetto XVI 2007b).
Dimostrare l’esistenza della verità e la capacità della ragione di conoscerla sono il compito della vera filosofia. È però anche possibile dimostrare storicamente che se non si crede nella verità non si riesce a costruire niente di solido e di buono. A rigore, non si può costruire neppure quella scienza che qualche volta pretende di contestare la filosofia.
Nel celebre discorso che ha tenuto il 12 settembre 2006 a Ratisbona (Benedetto XVI 2006) il Papa parte da un dialogo sulle rispettive religioni che vede contrapposti nel 1391 ad Ankara l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo (1350-1425) e un saggio musulmano (Manuele II Paleologo 2007). Cominciamo così a parlare, secondo il titolo che mi avete assegnato, anche del fondatore dell’islam, Muhammad (c. 570-632), ma il nostro tema per il momento è ancora la ragione.
Infatti nel 1391 certamente Manuele non può discutere invocando il Vangelo o la teologia in una disputa che si svolge di fronte a un pubblico musulmano: propone allora al suo interlocutore di discutere non sulla base della fede, ma della ragione. L’islamico accetta, ma il dialogo non va da nessuna parte perché Manuele e il musulmano hanno due idee diverse della ragione. Per l’imperatore greco la ragione è il fondamento filosofico di tutte le cose. Per il musulmano questo fondamento non esiste – il suo Dio, Allah, «non dipende da nessuno dei suoi atti» ( ibid., 54) e può cambiare ogni minuto le leggi che regolano il mondo, così che ogni conoscenza razionale è incerta e provvisoria.
Per l’islamico argomentare in base alla ragione significa semplicemente citare fatti empirici. La sua nozione di ragione è meramente strumentale. Come ha mostrato un grande sociologo, Rodney Stark, in diverse sue opere da questa nozione di ragione dell’islam può scaturire una raffinata tecnologia, ma non propriamente una scienza. Se Dio non dispone il mondo secondo ragione, se il reale e le sue leggi possono cambiare continuamente, allora di questo mondo non si può avere una conoscenza scientifica (Stark 2006, 2008).
Munito della sua nozione meramente strumentale di ragione, il musulmano usa nel quinto dialogo (cfr. ibid., 34-35) l’argomento che pensa chiuda la discussione: la prova della superiorità dell’islam sul cristianesimo è che le armate del Profeta stanno vincendo ovunque, e lo stesso impero di Bisanzio è ridotto a uno staterello. Naturalmente tre secoli dopo, quando a partire dalla sconfitta di Vienna nel 1683 i musulmani cominceranno a perdere le battaglie e le guerre, l’argomento potrà essere rovesciato. Ma non è questo il punto. Per Manuele II – e per Benedetto XVI – la vita, i diritti umani e la possibilità di convivere fra religioni diverse sono garantite solo da una fiducia nella ragione come strumento capace di conoscere la verità. Se manca questa fiducia, quale sia la verità è deciso da quali eserciti vincano, e oggi da chi sia più capace di fare esplodere bombe. La verità – e Dio stesso, che è verità – diventano semplici funzioni della violenza.
C’è dunque un argomento storico e pratico contro i relativisti. Questi ogni tanto sostengono che solo il relativismo garantisce la pace. È tutto il contrario: tra persone che credono diversamente solo una nozione comune di verità permette di fissare regole del gioco condivise. Se non c’è la verità non ci sono regole, e chi ha ragione lo decidono le armi e le bombe.
I quattro pilastri dell’Europa
Una volta stabilito che esiste la verità, possiamo chiederci quali sono le verità fondamentali sulla base delle quali viviamo. Dal momento che il mio campo sono le scienze umane, mi è più facile chiedermi quali verità hanno dato forma alla nostra società occidentale. Mi rispondo che sono sostanzialmente quattro: il senso religioso, come modo tipicamente occidentale di porre la domanda sulle origini e sul destino dell’uomo e del mondo; Dio, considerato come l’unica risposta adeguata a questo domanda; Gesù Cristo, mediatore fra Dio e gli uomini; e la Chiesa, come luogo in cui Gesù Cristo si fa continuamente presente e incontrabile nella storia. Per i cattolici, evidentemente, questo schema ha un valore di verità teologica. Ma anche il sociologo o lo storico non cattolico sono obbligati a riconoscere che si tratta di elementi che hanno connotato la visione del mondo occidentale per molti secoli, e che hanno fatto dell’Europa quello che è.
Di nuovo, la filosofia – e la filosofia vera, amava dire un grande filosofo scomparso da pochi giorni, Ralph McInerny (1929-2010), è una sola – può aiutarci a provare che un Dio personale e creatore esiste. Il mondo non si è fatto da sé, così come io non mi sono fatto da solo, anzi è questa la mia esperienza fondamentale autenticamente umana. Negli Stati Uniti, e non solo, un buon numero di scienziati parla del «disegno intelligente»: il mondo è così complicato da non poter essere casuale. Nessuna scienza umana potrebbe creare anche qualche cosa che diamo per scontato come un albero o un fiore, e basterebbe una minima variazione delle condizioni del nostro universo per rendere la vita impossibile, il che rende davvero poco probabile che tutto sia sempre e soltanto casuale. Nella prima puntata di una delle poche serie televisive americane d’ispirazione cattolica, Joan of Arcadia, la protagonista incontra un personaggio che si presenta come Dio. In effetti è davvero Dio, ma comprensibilmente la ragazzina ha qualche difficoltà a crederci. Chiede un miracolo, e Dio le fa vedere un albero chiedendole: «Che ne dici di questo?». «Tutto qui?», ribatte Joan. Ma Dio risponde: «Prova a farlo tu!».
Ho citato Rodney Stark, forse il più autorevole sociologo delle religioni vivente. In un libro in cui annuncia la sua conversione dall’agnosticismo alla fede cristiana, Stark sostiene, da sociologo, che c’è un «disegno intelligente» anche nella società, che non potrebbe funzionare se l’uomo – con tutti i suoi difetti – non fosse creato da Dio e se una provvidenza non regnasse sulla storia. La stessa sociologia delle religioni, la materia di Stark, mostrerebbe una successione di religioni nella storia così ordinata da non potere essere casuale e da mostrare – senza ancora far entrare in gioco la fede – l’eminente plausibilità di un Dio che si rivela e la superiorità della rivelazione in Gesù Cristo e della Chiesa che la custodisce (Stark 2008). Secondo Stark un percorso anche soltanto sociologico mostra la superiorità del monoteismo sul politeismo, di un Dio personale che si rivela su un Dio ozioso o concepito come semplice essenza astratta, di una religione che predica solidi e completi principi morali rispetto a una che si disinteressa di ampi settori della morale come molte versioni del buddhismo e dell’induismo e quasi tutto l’antico paganesimo. Di qui la conversione del grande sociologo al cristianesimo, avvenuta paradossalmente proprio per via sociologica.
Intendiamoci: la sociologia non può sostituire la fede. Neppure Stark lo pensa. Tuttavia c’è un test cui possiamo sottoporre le religioni. È la loro conformità al diritto naturale, alla morale naturale. La ragione, a prescindere da qualunque libro sacro, può arrivare a conoscere principi morali quali il ripudio della violenza come strumento per far prevalere le proprie convinzioni filosofiche o religiose, i diritti fondamentali della persona, il valore della vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia monogamica e indissolubile fondata sull’unione di un uomo e di una donna come prima cellula della società. Oggi qualcuno pensa che questi valori «vadano bene per i cattolici», ma non valgano per i non cattolici e i non credenti. Ma non è così. Sono valori di ragione, non di fede. Quando il Papa afferma che la vita umana è tale fin dal concepimento, che l’uccisione dei malati e dei vecchi con l’eutanasia è una forma di assassinio, che la famiglia può svolgere il suo ruolo di cellula fondamentale della società solo se è monogamica ed eterosessuale, non sta enunciando verità di fede, ma verità di ragione. Che l’alimentazione e l’idratazione non siano cure mediche e che sospenderle significhi uccidere non sta scritto in nessun brano di Luca o di Matteo e neppure nel Corano, ma nel libro delle verità di natura che la ragione, se non è offuscata dall’ideologia, è in grado di leggere.
Quelli che Benedetto XVI definisce spesso i «valori non negoziabili» sono tesi di ragione, che il credente ha certo un motivo e forse uno slancio in più per difendere ma che s’impongono a tutti. Del resto, se la Chiesa invita a «non rubare», si dirà forse che si tratta di una norma dei Dieci Comandamenti che vale solo per i cristiani ma che non si può pretendere d’imporre agli altri? Forse i non credenti sono autorizzati a rubare?
Non tutto quello che si trova nelle Sacre Scritture è materia esclusivamente di fede. Nei Dieci Comandamenti Dio ha rivelato verità cui si può arrivare anche con la ragione – benché, naturalmente, trovandole nelle tavole del Decalogo si faccia più in fretta, senza troppo lambiccarsi il cervello. Se invece non fosse così, se non ci fossero regole valide per tutti, si potrebbe anche dire che il cattolico può non spacciare droga ma non può impedire a chi non è cattolico di farlo. Ci sono senz’altro infatti visioni del mondo e culture dove la droga è lecita, e anche fatwā di esponenti islamici ultra-fondamentalisti (l’Afghanistan insegna) secondo cui al musulmano non è lecito consumare droga ma è lecito coltivarla e anche venderla agli infedeli e ai nemici dell’islam, così contribuendo a fiaccarli nel fisico e nel morale. Se ne dovrà concludere che a chi ha una cultura diversa non possiamo imporre leggi contro lo spaccio di droga, altrimenti siamo razzisti ed etnocentrici?
O non dovremo concludere piuttosto che ci sono norme che valgono per tutti, colonne che reggono la società tutta intera? I valori e le verità accessibili alla ragione sono le regole del gioco chiamato società, dopo avere convenuto sulle quali ognuno – cristiano, musulmano o ateo – potrà giocare la sua partita e cercare di vincerla. Ma senza regole non ci sarà nessuna partita.
Se è così, abbiamo un criterio per valutare qualunque religione: la sua conformità alle regole di ragione. E qui il verdetto forse non è politicamente corretto ma è chiaro. Che si tratti del ripudio della violenza, della difesa dei diritti umani fondamentali – compresa la libertà di cambiare religione, che per esempio l’islam non riconosce ai musulmani –, del ripudio senza condizioni dell’aborto e dell’eutanasia, della difesa del matrimonio come istituzione esclusivamente eterosessuale, monogamica e indissolubile, solo la Chiesa Cattolica passa tutti i test. Gli stessi fratelli separati delle altre confessioni cristiane sono in gran parte favorevoli al divorzio, mentre la Chiesa Cattolica fu disponibile a perdere tutta l’Inghilterra piuttosto che accettare il divorzio anche in un solo caso, quello del re Enrico VIII (1491-1547). Parliamo qui naturalmente della Chiesa come istituzione che annuncia una dottrina: anche se i cattolici nella storia non sono sempre stati fedeli ai suoi insegnamenti.
Che cosa è andato storto?
I quattro pilastri del senso religioso, della fede in Dio, in Gesù Cristo e nella Chiesa hanno fatto l’Europa e l’Occidente, e sono il regalo gioioso e benevolo che l’Occidente ha fatto al resto del mondo. Ma oggi sembra che i pilastri tremino. Com’è potuto succedere? Che cosa è andato storto? Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI ci ricorda la più antica delle verità: il male – anche il male sociale, che determina le crisi politiche ed economiche – ha sempre la sua origine nel peccato. «La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società» (Benedetto XVI 2009a, n. 34).
Quando entra nella vita sociale e nella storia il peccato originale si manifesta come peccato attuale. Una scuola di pensiero cattolica – che, certo accanto ad altre scuole, ha influenzato diversi documenti del Magistero sociale – è quella detta contro-rivoluzionaria. Ha questo nome perché nasce con la critica della Rivoluzione francese, anche se non si limita a sterili nostalgie del passato e analizza in profondità la crisi della coscienza europea, che è ben più antica del 1789. In una classica formulazione – quella del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) – questa scuola descrive la scristianizzazione dell’Europa come un processo, che chiama Rivoluzione, intendendo con questa parola non un evento storico specifico ma la rottura dei legami religiosi, politici, economici e morali che tenevano insieme l’Europa cristiana. Lo schema distingue quattro Rivoluzioni che attaccano l’ordine naturale e cristiano cercando di spezzare prima i legami religiosi con la Riforma protestante (I Rivoluzione), poi i legami politici con la Rivoluzione francese (II Rivoluzione), quindi i legami economici con la Rivoluzione comunista (III Rivoluzione), infine i legami micro-sociali della famiglia, quelli fra madre e figlio con l’aborto e perfino quelli dell’uomo con sé stesso e interni al corpo umano con la droga e l’ideologia di genere (IV Rivoluzione: cfr. Corrêa de Oliveira 2009). Il gesto del medico abortista che taglia il cordone ombelicale non per la vita ma per la morte simboleggia in un modo che più tragicamente eloquente non potrebbe essere l’opera della Rivoluzione, che non sopporta i legami e li distrugge.
Ritroviamo l’eco delle tesi degli autori contro-rivoluzionari in un celebre discorso di Pio XII (1939-1958) del 1952. Si tratta del discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12 ottobre 1952, dove il Papa si serve di una formula che descrive la sequenza dell’allontanamento dell’Occidente dalla verità cattolica precisamente attraverso tre tappe: «Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato» (Pio XII 1952).
«Cristo sì, Chiesa no» è inteso da Papa Pio XII con riferimento alla rottura protestante, che nega la continuità della missione di Gesù Cristo nell’unica Chiesa cattolica. Ma all’interno del mondo protestante ci sono gruppi radicali che vanno anche oltre. Vi è infatti chi sostiene che la Chiesa è talmente corrotta che non è più possibile riformarla ma soltanto rifondarla. In genere questa rottura ecclesiologica è accompagnata da innovazioni teologiche radicali rispetto alla tradizione cristiana. Gruppi come i mormoni o i Testimoni di Geova portano alle estreme conseguenze la rottura ecclesiologica, che diventa anche teologica, proponendo nuove dottrine e nuove scritture. Così perdiamo la Chiesa, che è uno dei pilastri essenziali ed è la sola istituzione in grado di definire e quindi difendere costantemente nella storia le verità e i valori morali naturali e cristiani.
«Dio sì, Cristo no» è propriamente lo slogan del deismo illuminista, che diventa rapidamente l’ideologia anche della massoneria moderna fondata a Londra nel 1717. Dio c’è, si dice, ma ne sappiamo pochissimo e certamente non si è incarnato in Gesù Cristo. Questo deismo porta qualche volta a riscoprire culti dell’antichità pagana, «reinventati» in un modo più o meno fantastico (egizi, greci, romani); altre volte porta all’incontro con le religioni orientali e a clamorose conversioni d’intellettuali europei al buddhismo o all’induismo. La presenza di occidentali entusiasti dell’Oriente non sfugge a esponenti importanti delle religioni orientali, che – anche come reazione organizzata alle missioni cristiane nei loro Paesi – iniziano a promuovere vere e proprie «contro-missioni» che arrivano fino all’invasione di guru e maestri orientali che vediamo in America e in Europa ai nostri giorni.
Oggi è «politicamente corretto» parlare solo degli aspetti positivi delle religioni orientali. Certo, esse manifestano una certa religiosità naturale e sono meno lontane dalla verità rispetto all’ateismo. È anche comprensibile che si sia riluttanti a parlare male, in particolare, del buddhismo a fronte delle persecuzioni che subisce da parte del comunismo cinese in Tibet o del regime social-comunista in Birmania. Tuttavia la verità non si deve tacere. Un sacerdote cattolico convertito dall’induismo, che aveva a lungo praticato giungendo a diventare segretario di un guru molto famoso come il Maharishi Mahesh Yogi (1918-2008), il maestro dei Beatles, don Joseph-Marie Verlinde, stabilisce una distinzione fondamentale fra mistiche naturali e mistica trascendente, che è poi la distinzione stessa fra l’esperienza religiosa induista e buddhista, analoga (ma non identica) a quella di certi movimenti occidentali di matrice esoterica e della nuova religiosità, e l’esperienza religiosa cristiana. Quest’ultima «orienta verso un Dio personale, in vista di un incontro che si espande in una comunione d’amore rispettando l’alterità» (fra Dio e l’uomo: Verlinde 1988, 77). L’«altra» esperienza invece porta a rientrare sempre più profondamente in se stessi, fino a rimanerne prigionieri in un «narcisismo senza Narciso» (ibid., 81: la formula è del missionario e indologo francese don Jules Monchanin, 1895-1957).
Verlinde richiama l’espressione «enstasi», che lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) distingue rigorosamente dall’estasi: nell’«enstasi» si entra sempre di più in se stessi – e ci si chiude a ogni possibile trascendenza –, mentre nell’estasi ci si apre al di fuori di sé verso un Dio trascendente. Verlinde cita, al riguardo, un brano dell’indologo francese Jean Varenne (1926-1997) secondo cui il neologismo coniato da Mircea Eliade va usato per tradurre l’espressione indiana samadhi, a proposito della quale «la traduzione “estasi”, che è talora stata proposta, è del tutto erronea. Lo yogi in stato di samadhi non “esce” affatto da se stesso, non è “rapito’ come lo sono i mistici; esattamente al contrario rientra completamente in se stesso, si immobilizza totalmente per l’estinzione progressiva di tutto quanto causa il movimento: istinti, attività corporale e mentale, la stessa intelligenza» (ibid., 71).
Beninteso, le tecniche sono le più varie – e l’induismo non è identico al suo scisma di successo, il buddhismo –; ma l’esperienza rimane sempre «enstatica» e non veramente estatica. Nel 1989 la Congregazione per la Dottrina della Fede, preoccupata per la diffusione di tecniche derivate dal buddhismo e dall’induismo anche in ambienti cattolici, pubblicò la lettera Orationis formas dove s’invita fra l’altro a non confondere l’«assoluto senza immagini e senza concetti» del buddhismo con il Dio cristiano (Congregazione per la dottrina della fede 1989, n. 12).
Questa religiosità che vorrebbe sostituire il cristianesimo non riesce peraltro a incidere sulla società e abbandona la politica alle ideologie. Ne nascono gli orrori della modernità, a partire dal Terrore della Rivoluzione francese in cui il filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804) – che pure di fronte agli avvenimenti di Francia si era inizialmente illuso – vedeva, in un brano ricordato da Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, il regno dell’«Anticristo», «fondato presumibilmente sulla paura e sull’egoismo», e «la fine (perversa) di tutte le cose» (Benedetto XVI 2007c, n. 19).
«Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato». La Rivoluzione si disvela come ripudio di Dio anzitutto nelle ideologie del XX secolo. Il comunismo, come ha ricordato Benedetto XVI nel suo viaggio del settembre 2009 nella Repubblica Ceca, instaura una «dittatura basata sulla menzogna» (Benedetto XVI 2009c), fa cadere l’Europa Orientale in un «lungo inverno» (Benedetto XVI 2009d), e mostra a quali assurdità giunge l’uomo quando esclude Dio dall’orizzonte delle sue scelte e delle sue azioni» (Benedetto XVI 2009e). Questa ideologia senza Dio – ha detto il Papa il 4 dicembre 2009 parlando al concerto offerto in suo onore dal presidente della Repubblica Federale Tedesca in occasione dei vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino – ha determinato, negando la differenza essenziale fra il bene e il male, «una lunga e sofferta notte di violenza ed oppressione per un sistema totalitario che, alla fin fine, conduceva in un nichilismo, in uno svuotamento delle anime. Nella dittatura comunista, non vi era azione alcuna che sarebbe stata ritenuta male in sé e sempre immorale. Ciò che serviva agli obiettivi del partito era buono – per quanto disumano poteva pur essere» (Benedetto XVI 2009f).
Anche dopo la caduta del comunismo, peraltro, non manca chi propone ideologie senza Dio, una cultura senza Dio e perfino religioni o spiritualità senza Dio come il New Age, dove qualche volta ritorna un fondo buddhista ma coniugato con l’ecologismo, il ritorno del paganesimo, la magia.
Il New Age non nega solo Dio. Rifiuta spesso anche la religione, preferendo parlare di «spiritualità» e negando che il modo in cui l’Occidente ha posto storicamente la domanda sul sacro sia ancora valido. Infatti l’Occidente ha concepito la sua relazione con il sacro come un discorso, mentre ci sarebbe spazio solo per un percorso. Quello del New Age è un relativismo integrale e apparentemente insuperabile: tutto quanto può essere formulato è dichiarato di per sé non autentico. E tuttavia la diffusione di questi presunti cammini di pace e di amore si accompagna quasi sempre a forme gravemente irrispettose del diritto naturale, che propagandano l’aborto, l’eutanasia, il rifiuto della nozione naturale di famiglia. Oggi non c’è fiera del New Age dove non compaiano gli stand degli attivisti dell’eutanasia e del matrimonio omosessuale.
Il percorso rivoluzionario di progressiva negazione della Chiesa, del ruolo di Gesù Cristo, di Dio e del senso religioso non contempla nessun lieto fine. Ma – in questa fine della corsa che è il nostro XXI secolo – può forse darci una scossa salutare e convincerci che sì, esiste la verità, e sì, esistono anche verità religiose, dunque errori e perfino orrori religiosi, una religione vera e tante religioni a diverso titolo false. Dire questo non comporta violare la libertà religiosa di nessuno. Questa si riferisce ai rapporti tra le religioni e lo Stato laico moderno, che non deve interferire nel processo di formazione della convinzione religiosa. Ma – come afferma l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate – «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali» (Benedetto XVI 2009a, n. 55). Oggi la tesi relativista forse più diffusa è che tutte le religioni sono uguali. Io ho la mia religione, si dice, tu hai la tua, solo i fanatici pensano che una religione sia vera e l’altra falsa. Il Papa ci dice – a scandalo dei pavidi e dei buonisti – che non è così.
Per utilizzare una metafora calcistica – che naturalmente è mia, non di Benedetto XVI – lo Stato laico moderno, che si dichiara incompetente in materia religiosa, può svolgere solo un ruolo di arbitro. Gli arbitri non scendono in campo, né – neppure nei casi più estremi di arbitri «venduti» – cercano di segnare nella porta di una delle due squadre in campo. Ma i giocatori sì. Una volta garantita l’imparzialità dell’arbitro, la Chiesa rivendica il suo diritto e dovere di giocare la partita per vincerla. Non c’è contraddizione, ma distinzione di ruoli fra arbitro e giocatori. Lo Stato non può interferire nel processo di adesione a una dottrina religiosa. La Chiesa ha la missione di organizzare questo processo, aiutando a esercitare un «discernimento» (ibidem) perché per chi non è relativista non è affatto vero che «tutte le religioni siano uguali». Tanto deve mostrare oggi un’apologetica attenta alla storia.
Riferimenti
Benedetto XVI. 2006. Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2007a. Incontro con le autorità e con il corpo diplomatico di Vienna, Hofburg, Vienna, del 7-9-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2007b. Omelia della Santa Messa per l’850° anniversario della fondazione del Santuario di Mariazell, Mariazell (Austria), dell’8-9-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2007c. Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana, del 30-11-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009a. Enciclica Caritas in veritate, del 29-6-2009. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009b. Discorso all’Udienza Generale, 5-8-2009, San Giovanni Maria. Vianney, il Santo Curato d’Ars. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009c. Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo verso la Repubblica Ceca (26 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009d. Celebrazione dei Vespri con Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Seminaristi e Movimenti Laicali (Cattedrale dei Santi Vito, Venceslao e Adalberto di Praga, 26 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009e. Santa Messa nell’Aeroporto Tuřany di Brno (27 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009f. Discorso al termine del Concerto in onore del Santo Padre Benedetto XVI, offerto dal Presidente della Repubblica Federale di Germania, S.E. il Sig. Horst Köhler, in occasione della ricorrenza del 60mo della fondazione della Repubblica Federale di Germania e nel 20mo anniversario della caduta del muro di Berlino, del 4-12-2009. Testo diffuso dalla Sala Stampa della Santa Sede.
Congregazione per la dottrina della fede. 1989. Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica Orationis formas, su alcuni aspetti della meditazione cristiana. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano.
Corrêa de Oliveira, Plinio. 2009. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano.
Manuele II Paleologo. 2007. Dialoghi con un musulmano. VII discussione. Testo critico greco e note a cura di Théodore Khoury, con traduzione italiana di Federica Artioli a fronte. Edizioni Studio Domenicano - Edizioni San Clemente, Bologna - Roma.
Giovanni Paolo II. 1999. Discorso all’udienza generale del 18-8-1999. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Pio XII. 1952. Discorso «Nel contemplare» agli uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12-10-1952. In Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, pp. 353-362.
Stark, Rodney. 2006. La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza. Trad. it. Lindau, Torino.
Stark, Rodney. 2008. La scoperta di Dio. L'origine delle grandi religioni e l'evoluzione della fede. Trad. it. Lindau, Torino.
Verlinde, Joseph-Marie. 1998. L’Expérience interdite. De l’ashram au monastère. Saint-Paul, Versailles.
"SE LA VITA SI RIANIMA" - Un libro di cronache di bioetica e speranza dall'ospedale di Eluana - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 8 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Tra i tanti incontri e le numerose iniziative in ricordo di Eluana Englaro, spicca la presentazione del libro ''Se la vita si rianima. Cronache di bioetica e speranza dall'ospedale di Eluana'', edito dalla Ares e scritto da Giuseppe Baiocchi, giornalista e scrittore, e Patrizia Fumagalli, dirigente medico di primo livello nel reparto di Neurorianimazione dell'ospedale di Lecco.
Il libro affronta il tema attualissimo del valore della vita soprattutto quando sono presenti malattia e grave disabilità, raccontando cosa accade nella corsia di un reparto di rianimazione.
Nella prefazione al volume, Giancarlo Cesana chiede: "Se la vita si rianima; se un malato dichiarato in stato vegetativo persistente inaspettatamente si risveglia; se una persona gravemente menomata scopre di poter vivere un'esistenza normale e stranamente felice: se accade ciò, noi siamo pronti ad accettarlo?".
Gli autori spiegano nella premessa che "rianimazione, per la lingua italiana, è uno splendido termine che significa restituzione e ripresa di vitalità, di animazione, di fiducia, di coraggio...", ma nel logorio del linguaggio comune questo termine ha finito per associarsi quasi esclusivamente a un senso prevalente di sconfitta, di anticamera della fine, di tempio appartato dove si compiono i riti misterici di una scienza sempre meno traducibile al comune sentire.
Dietro al vetro opaco o alla porta di un reparto di rianimazione, precisano gli autori, "si muove una affiatata comunità di lavoro che conquista di frequente guarigioni impensate, che allevia la sofferenza della vita in declinare, che accompagna con decoro il passaggio della morte, che, nel caso, compie la rispettosa procedura del prelievo degli organi per la donazione".
Il libro racconta di "quell'ospedale di Lecco dove, in una fredda notte di gennaio, arrivò, ferita, una giovane di nome Eluana Englaro..." e riflette sull'impegno di giorno e di notte, tutti i giorni e tutte le notti, dei medici e del personale sanitario che è ben consapevole "che ogni persona è unica e irripetibile e per ognuna c'è un tragitto peculiare da seguire nel vincolo di Ippocrate e nel possibile supplemento di umanità".
Cesana ricorda nella prefazione che gli ospedali sono nati all'inizio del Medioevo e non "perché si sapessero curare le malattie", visto che "fino all'inizio del secolo scorso le possibilità di trattamento erano risibili".
Gli ospedali sono nati per "ospitare", per accogliere e assistere gli uomini e le donne in difficoltà, colpiti dalla sventura, in cui spesso malattia e miseria facevano tutt'uno.
"Con la Risurrezione di Cristo - ha sottolineato Cesana -, la morte, di cui la malattia era massimo presagio, non era più l'ultima parola sulla vita, ma la certezza - o la speranza, che è lo stesso - della vittoria della vita era diventata dominante. Malattia e morte non avevano perduto il loro carico di dolore e di spavento, ma si potevano affrontare. Di più: erano partecipazione alla sofferenza salvatrice di Cristo".
"Il merito di questo libro - ha concluso Cesana - è di mostrare come la potenza medica, pur migliorando non poco l'esistenza, non sposti di una virgola il problema originale. Proprio laddove l'intervento è più sofisticato, per le caratteristiche di urgenza e gli strumenti utilizzati, è anche richiesta l'ostinazione della assistenza, spesso contro ogni immediata evidenza".
Il libro "Se la vita si rianima" verrà presentato a Lecco martedì 9 febbraio alle ore 21.00 nell'Auditorium Casa dell'Economia, in via Tonale 30.
A presentare il testo ci saranno il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il prof. Giancarlo Cesana, Presidente della Fondazione Irrccs Ca' Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, il prof. Biagio Allaria, direttore del board scientifico di Medical Evidence Italia, e Marco Tarquinio, direttore di ''Avvenire'', che modererà l'incontro.
L'iniziativa è stata sostenuta anche dal Centro Culturale Alessandro Manzoni e dall'Associazione Liberi di educare - Liberi di costruire, così come dalla FederVita Lombardia, con il concorso particolare del Movimento per la Vita di Lecco.
A un anno dalla morte di Eluana 2 – Le ultime scoperte sugli stati vegetativi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 febbraio 2010
Riguardo poi allo scottante problema della perdita di coscienza, e quindi al caso di stato vegetativo permanente, innanzitutto bisogna chiarire che in questi casi non c’è la morte cerebrale, le cellule cerebrali sono vive e mandano segnali elettrici. Il paziente può respirare in modo autonomo, «mantiene una vitalità circolatoria, respiratoria e metabolica e un controllo sulle cosiddette funzioni vegetative (esempio temperatura corporea, pressione arteriosa, diuresi, ecc...)». I riflessi dei nervi cranici e i riflessi respiratori sono mantenuti; le funzioni cerebrali «mantengono una certa vitalità, sebbene ridotta».
Colpisce che proprio ad un anno dalla morte di Eluana gran parte della stampa dia grande risalto ad un recente lavoro scientifico che, confrontando le reazioni cerebrali alle stesse domande, da parte di un paziente in stato vegetativo e di un soggetto sano, ha riscontrato attraverso la risonanza magnetica funzionale che erano uguali. Hanno chiesto ad un paziente in stato vegetativo di pensare di giocare a tennis o di stare in casa e hanno così visto che si «accendevano», rispettivamente, la corteccia motoria (quella appunto legata ai movimenti) e quella spaziale (che colloca una persona nello spazio) proprio come in un paziente sano; è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una fotografia di persone care, e si fa una risonanza magnetica funzionale, si vede l’accensione di una attività cerebrale. Questi studi sono stati pubblicati anche su “The New England Journal of Medicine”. Che impatto avrebbero avuto queste notizie nei giorni in cui invece molti giornali parlavano solo di “staccare la spina” ad Eluana? Perché tacere verità già note?
In un altro studio firmato per la rivista scientifica «BioMedCentral Neurology», uno specialista ha scritto di ritenere tutt’altro che isolate le circostanze in cui si è trovato un suo giovane paziente belga: urlava ma nessuno lo sentiva, fino a quando con nuove tecniche hanno scoperto che l’attività cerebrale non era interrotta e sono riusciti a mettersi in contatto con lui. «Al 41 % di chi è in stato di minima incoscienza viene diagnosticato erroneamente uno stato vegetativo - sostiene il medico - mentre sappiamo che tutti coloro che risultano consapevoli possono essere curati e compiere progressi significativi».
L’imprecisione delle diagnosi in questi casi come in molti altri, in cui si diagnostica una morte prossima, e poi vengono smentite dai fatti, devono richiamare che il vero pericolo è l’abbandono terapeutico del malato, come mostrano l’esperienza inglese dopo l’approvazione del Suicide Act e la deriva olandese o dell’Oregon dove le morti per suicidio assistito sono quadruplicate dopo approvazioni di leggi che ne hanno legalizzato la pratica.
E’ urgente un impegno educativo e di formazione che coinvolga tutti, le parrocchie e le associazioni. La misericordia non va confusa con la mancanza di coraggio. Sono ancora oggi attuali le parole di Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae (EV n. 95) : “Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita. […] L'urgenza di questa svolta culturale è legata alla situazione storica che stiamo attraversando, ma si radica nella stessa missione evangelizzatrice, propria della Chiesa. Il Vangelo, infatti, mira a «trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità»; è come il lievito che fermenta tutta la pasta (cfr. Mt 13, 33)".
ELUANA/ 1. Fisichella: le false libertà attaccano ancora la vita e la cosa pubblica - INT. Rino Fisichella – ilsussidiario.net - martedì 9 febbraio 2010
Il 9 febbraio dell’anno scorso Eluana Englaro si spegneva nel suo letto all’interno della casa di riposo “La Quiete” di Udine. Diciassette anni prima un incidente aveva cambiato la sua vita e quella dei suoi familiari, costringendola in un letto d’ospedale, alimentata da un sondino. La battaglia legale vinta dal padre per interrompere l’alimentazione aveva angosciato e diviso il Paese, in un dibattito spesso aspro di cui è ancora vivo il ricordo. Nel primo anniversario della morte Mons. Rino Fisichella torna per ilsussidiario.net su quella vicenda e sulle conseguenze che ne sono derivate.
Cosa ha significato la tragedia umana di Eluana Englaro per il nostro Paese?
La vicenda di Eluana Englaro è una pagina molto triste della nostra storia. Una ragazza gravemente malata, ma viva, è stata privata dell’alimentazione, disidratata, esposta, contrariamente a quanto si dice, a grandi sofferenze e condotta alla morte. Una storia resa ancor più triste dalla strumentalizzazione politica a cui è stata sottoposta questa vicenda umana. A livello giuridico dovremmo aver imparato che in un Paese democratico il vuoto legislativo non si riempie attraverso le sentenze, ma attraverso l’azione peculiare del Parlamento, che deve intervenire senza pressioni, per giungere a soluzioni condivise.
Quali conseguenze ha portato con sé quello che è accaduto?
Questo fatto ha lacerato il nostro tessuto sociale, soprattutto perché la popolazione non è stata informata in maniera corretta. Ed è evidente che se l’informazione non è coerente con le conoscenze a disposizione il giudizio delle persone cambia. In questi giorni i mezzi di comunicazione danno finalmente spazio a una notizia scientifica importante. In Belgio, alcuni medici hanno dimostrato la possibilità di verificare l’attività cerebrale, anche se minima, delle persone che si trovano in uno stato cosiddetto vegetativo, termine che, tra l’altro, non mi sembra corretto.
Perché?
È un’espressione non conforme all’oggettività dei dati clinici, è falsificante e fuorviante. Le persone in questo stato, a diversi livelli, hanno una propria consapevolezza e un’attività celebrale, di conseguenza meritano rispetto per la loro dignità di persone. Tornando alla notizia di prima dispiace che alcune voci, anche se provengono dalla scienza, in alcuni momenti vengano messe sotto silenzio.
Ma cosa risponde la Chiesa alla richiesta di autodeterminazione di chi non crede e vuole decidere della propria vita e della propria morte?
Non è tanto la Chiesa a rispondere, è il diritto stesso a farlo. Il principio di autodeterminazione è una pia illusione, non esiste, non trova alcun riscontro nel sistema legislativo perché si scontra con altri due principi fondamentali: l’inviolabilità e l'indisponibilità della vita. Il sistema giuridico, è bene ribadirlo, non nasce per dare la morte, ma per difendere la vita. Questa pretesa è in contraddizione, tra l’altro, con una sempre più crescente cultura della vita che si sta diffondendo tra i cittadini e gli stati per impedire ad esempio la pena di morte.
Come si spiega questa contraddizione?
A fondamento di questa pretesa c’è una visione antropologica incapace di accettare la sofferenza, o meglio, di dare senso alla sofferenza. Una cultura incapace di questo è una cultura immatura, non in grado di avere una visione globale, integrale della vita.
Nella sua prolusione al Consiglio permanente della Cei il cardinal Bagnasco ha detto che «nei delicati equilibri dell’ecologia umana rientra anche la bioetica», ponendo l’attenzione su Ru486 e fine vita. Qual è la sua “lettura” di queste sfide?
Nei prossimi decenni il legislatore, la società e la Chiesa si troveranno sempre più a confrontarsi e a scontrarsi con problemi di ordine bioetico. Tutto ciò è inevitabile per il progresso della scienza (medica e genetica) che potrà offrire orizzonti positivi, nuove risposte al dolore e alla malattia. Allo stesso tempo però aprirà scenari nuovi, che in parte iniziamo a conoscere e che toccano la vita umana nascente, embrionale, sulla quale si iniziano a ipotizzare inquietanti processi di selezione della razza.
Davanti a queste prospettive quali sono le responsabilità della politica?
La responsabilità della politica davanti alla bioetica corrisponde a una nuova lettura antropologica. Siamo chiamati a incontrarci con queste sfide sulle quali costruire una nuova antropologia, che dia maggiore spazio alla razionalità e trovi fondamento (come accadeva già prima che ci fosse il Cristianesimo) nella legge naturale. Per non cadere in una sorta di stato etico il legislatore deve riconoscere, e non stabilire, un fondamento nella natura. Sono i fondamenti etici che in qualunque cultura, pur nelle differenze delle religioni, sono presenti come legge morale naturale.
I cattolici in politica hanno una responsabilità in più in questo senso?
I cattolici hanno un grande compito: creare il più possibile consenso intorno a delle tematiche che proprio, perché vengono ritrovate e scoperte nel loro fondamento etico di una legge naturale, sono patrimonio di tutti al di là delle differenze culturali, religiose e politiche che si vengono a creare successivamente.
Alla luce del suo discorso, come si dovranno orientare i cattolici chiamati al voto nelle elezioni che si svolgeranno tra poco più di un mese?
Non voglio intervenire direttamente su questo tema, ma sono convinto che i cattolici, e non solo loro, siano in grado di mostrare maturità davanti ai programmi e ai candidati. La difesa della vita in tutte le sue manifestazioni, dal suo inizio fino alla sua fine naturale, deve comunque trovare i cattolici in primo piano, coscienti della grande responsabilità che portano con sé nella difesa di questi principi.
Da ultimo, anche l’Italia, sia pure in misura minore rispetto ad altri paesi, sta soffrendo la crisi economica e il grave rischio per la disoccupazione. Quali sono le prime energie che il paese deve mobilitare per uscire dalla crisi?
Credo che il Papa ci abbia dato un insegnamento lineare e profondo, apprezzato anche dai non cattolici, nella usa ultima enciclica di carattere sociale, Caritas in Veritate. Ancora una volta il Papa ha individuato quello che è l’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa: al centro deve esserci la persona. Quando la persona è messa al centro, che sia un dipendente o un imprenditore, sono convinto che sia possibile trovare la strada per una soluzione che sia realmente giusta.
(Carlo Melato)
Avvenire, 9 Febbraio 2010 - Valgono gli esempi, non le parole E' semplice stare dalla parte giusta – di Marco Tarquinio
Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terribile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile. Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen so di una verità basilare: ogni essere umano è « de gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari. Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem pre più impressionanti risposte scientifiche alle do mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi magistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita. Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec chio dell’animo vero della gente.
Marco Tarquinio
«Lei, creatura E l’evidenza della sua vitalità» - Suor Albina: così abbiamo accompagnato Eluana «Come si può non amare chi è inerme come un neonato?» - Parla la superiora delle Misericordine che a Lecco per quindici anni hanno accudito la Englaro La testimonianza di un amore senza condizioni. E dei tanti segni eloquenti che la donna manifestava - MARINA CORRADI – Avvenire, 9 febbraio 2010
Nevica in questo inizio di febbraio, e il lago è can cellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano del la clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla not te del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella not te pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai. In clini ca, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso.
« Sì, è un anno » , dice, come chi ri corda qualcosa che ha costante mente nei pensieri. Poi, cam biando impercettibilmente il to no della voce: «Sa, l’altro giorno u na dipendente è venuta ad an nunciarmi che aspetta un bam bino. Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li af fronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allo ra, istintivamente ho pensato a E luana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una crea tura » . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni. Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a que sto colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrina tura, l’affiorare di una sofferenza profonda.
Madre, « se per qualcuno è mor ta, lasciatela a noi che la sentia mo viva » : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti E luana era solo un corpo vegetan te. In quale modo voi la sentiva te viva?
« Che fosse viva – risponde la suo ra – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capi sce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è u na persona? E quel solo suo esse re vivo, non dà gioia? »
Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vi ta, Eluana era lì da tanti anni im mobile, assente…
« Non era così totalmente inerte e assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accan to, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un migliora mento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglio ramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal
New England Journal of Medicine
su quei pazienti in stato vegetati vo in cui alcune aree cerebrali rea giscono agli stimoli, mi sono chie sta se anche lei non poteva esse re in simili condizioni » .
Com’era concretamente la gior nata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?
« Molti si immaginano una came ra di rianimazione, un corpo at taccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al matti no veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un par rucchiere. Era una donna fisica mente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle ro sea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chie sa con noi » . È la vita che fa oggi in una di que ste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua ca mera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tem pi il padre aveva ristretto la cer chia delle persone ammesse a ve dere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre ac canto. Suor Rosangela, soprattut to. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. « Quel giorno che è stato annun ciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guar darci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo. Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomerig gio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne anda va. L’ho pregato: ci ripensi, per fa vore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è an dato. Mi è sembrato in quel mo mento un uomo pietrificato dal la sua stessa scelta » . E in quella notte di pioggia, ri corda la suora, « Eluana sembra va all’improvviso agitata. Sono ar rivati gli infermieri. Noi le parla vamo, le ripetevamo di stare tran quilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano be ne » ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via » .
L’assedio dei giornalisti, il lam peggiare dei flash, l’Italia ammu tolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotogra fie e i quadri alle pareti, i due pe luches sul letto ( il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Miseri cordine di Lecco a aspettare, in sieme a tutta la loro congregazio ne: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare.
Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pen sando all’ultimo saluto: « Ho pen sato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel gior no, si è trovato solo » .
Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospe dale quieto e affaccendato: car relli che passano, telefoni che suonano, voci. ( Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quan ti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, ali mentati come Eluana? Non in sta to vegetativo magari, ma sempli cemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambi ni? Li curano, li accudiscono nel l’antica certezza quasi tacita mente tramandata dal cristiane simo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza di mentico, che rivendicando li bertà, diritti e ' dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta ' per morte naturale').
Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immo bile e incosciente in un letto, fa temi morire?
« Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astratta mente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno » .
Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere ener gia e speranza – certi pazienti co me Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è co sì inerme e bisognoso di noi, an che se non capisce e non rispon de? Come si può non amare un bambino? » .
E c’è in questa domanda la chia ve della dedizione delle Miseri cordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più gran de di quella carnale. Dove un pa dre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comun que di quel respiro. Come due di versi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tran quilla clinica di Lecco. Poi, quel la notte, l’ambulanza è partita e E luana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Al bina e le sue sorelle e le infermie re li cureranno. Serene, certe. Co me dicendo, nella forza pacata delle loro facce: « Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi ».
«Era una donna fisicamente sana, non magra, mai ammalata, con una pelle rosea. Dopo la fisioterapia veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino»
A PROPOSITO DELLE PROPOSTE DI LEGGE SUL DIVORZIO BREVE - Se del matrimonio si dà una parodia durerà poco e i figli soffriranno molto - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 febbraio 2010
Senza entrare nel dettaglio delle proposte di legge sul ' divorzio breve', in continuità con le considerazioni svolte da Francesco Belletti su Avvenire
il 15 gennaio, ci preme ulteriormente motivare le ragioni della nostra decisa contrarietà verso di esso. Va sottolineato che siamo molto sensibili alle sofferenze che si verificano in certi matrimoni, le quali esigono molto affetto ( lo scrivente conosce dei casi molto dolorosi). È anche per questo motivo che non biasimiamo la separazione quando la convivenza produce un danno serio ad uno o ad entrambi i coniugi. Ma la separazione consente dei ripensamenti ( che diventano quasi impossibili dopo un divorzio), rari ma non inesistenti e che potrebbero probabilmente aumentare se lo Stato aiutasse le coppie in crisi a restaurare il rapporto: per il loro bene e per quello dei loro figli, come ha ricordato ieri Benedetto XVI. In effetti, dobbiamo prenderci a cuore i più deboli, appunto i figli. Ora, numerosissime ricerche sociologiche documentano le profonde sofferenze prodotte dalla separazione, e maggiormente dal divorzio, sui figli.
Essi, inoltre, in aggiunta, fanno uso di droghe e patiscono diverse patologie psicologiche molto più spesso rispetto ai figli con genitori uniti. Un solo dato tra i tanti: negli Usa, durante gli anni Ottanta, il 63% dei suicidi dei giovani si è verificato in contesti con il padre assente.
Nonostante i talvolta amorevoli ed encomiabili sforzi per il benessere dei figli da parte dei genitori, sono grandi le sofferenze non solo dei bambini, ma anche degli adolescenti, sia quando i genitori restano soli, sia quando trovano nuovi compagni. Lo diciamo sempre alla luce dei dati, che certificano che per i figli è preferibile – ancorché molto doloroso – vivere con i genitori divisi invece che uniti solo nei casi di conflittualità decisamente alta, che però sono rari ( tale conflittualità precede circa il 30 % delle separazioni). Ma la separazione, lo ribadiamo, è più compatibile con successive riappacificazioni. Ora, se lo Stato approva il divorzio breve, danneggia appunto i figli, sia perché riduce i tempi del ripensamento, perché indebolisce in generale il matrimonio, provocandone più spesso il fallimento. Infatti, le leggi non soltanto disciplinano le situazioni sociali, ma inoltre le modificano, hanno un forte impatto sulla mentalità e sul costume, che dipende dal messaggio che esse esprimono. Un esempio è proprio il divorzio breve introdotto da Zapatero nel 2005 in Spagna, dove è avvenuto un aumento clamoroso dei divorzi: rispetto al 2005 erano già saliti del 74,3 % nel 2006, e sono ulteriormente cresciuti del 140 % nel 2008. Questo aumento si può spiegare connettendolo sia alla riduzione del tempo del ripensamento, sia – e forse soprattutto – all’idea di matrimonio che lo Stato diffonde. Col divorzio breve, infatti, lo Stato produce, consapevolmente o meno, una banalizzazione del matrimonio – denunciata, relativamente alla situazione francese, anche dal quotidiano gauchiste Libération
–, perché diffonde l’idea secondo cui il matrimonio è non già un impegno che bisogna tentare di far durare e per la cui riuscita e durata i coniugi si devono impegnare molto ed a fondo, bensì un rapporto temporaneo, transitorio, provvisorio, legato esclusivamente ai sentimenti reciproci, tanto è vero che è possibile interromperlo dopo breve tempo: dunque un rapporto per il quale non sono necessari né un’accurata preparazione previa, né un impegno speciale durante, perché tanto si può rapidamente ricominciare da capo.